Sia pur in ritardo, desidero esprimere i miei sentimenti di riconoscenza e gratitudine al Direttore Mazzaroli, al Sindaco Benco ed al Consiglio tutto, agli efficientissimi amici Palermo, per avermi dato la possibilità di vivere la bellissima esperienza del 55° raduno degli esuli a Pola.
In compenso questo ritardo mi ha regalato un periodo fecondo in cui far decantare le forti emozioni vissute nell’incontro e fare, grazie anche agli innumerevoli stimoli ricevuti, qualche riflessione sul lungo cammino dell’istrianità nella mia vita, fatto di rimpianto e di sofferenza, ma anche di rimozione, forse vittima e complice della lunga consegna del silenzio che abbiamo vissuto in Italia nei decenni trascorsi.
Mi ritrovo perciò in quanto diceva Silvio Mazzaroli il 17 giugno nell’incontro alla Comunità degli Italiani di Pola, che «c’è stato, in passato, un gap di memoria collettiva poiché i genitori hanno evitato di parlare ai figli dell’esodo per non farli crescere col trauma. Ma negli ultimi anni se ne parla e se ne scrive tanto, e spesso sembrano più interessati alla questione i nipoti che non i figli».
È vero. In fondo, pensandoci bene, è quello che sono io, un nipote di un profugo: cioè mio nonno Silvio Avorini, venuto via da Pola nel fatidico febbraio 1947. Dalla terrazza della sede della Comunità degli Italiani di Pola vedevo ai Giardini, con emozione, la casa rossa e la porta (dove adesso c’è una pizzeria) proprio dove allora c’era la Rivendita Tabacchi e giornali di mio nonno. All’epoca il portone a fianco portava il numero 24 di Largo Oberdan.
Io non sono un esule, pur essendo nato a Pola 76 anni fa. Il fatto che mia mamma polesana, Erna Avorini, avesse sposato un sottufficiale della Guardia di Finanza di Mare, sardo, di stanza a Fiume e fatalmente venuto a Scoglio Olivi per riparazioni del dragamine su cui era imbarcato, aveva determinato in quegli anni una nostra vita familiare in giro per i porti (Fiume, Barletta, Messina, Savona e ancora Pola). Intanto era arrivata la guerra. Così l’ultima mia permanenza a Pola italiana (nel frattempo mi era arrivata anche una sorellina, polesana, del 1940) era coincisa con il secondo trimestre della seconda elementare: sulla mia pagella c’è, in data 17 aprile 1943, il «nulla osta per il trasferimento dell’alunno ad altra scuola» firmato dal Direttore Didattico Giuseppe Tromba (che molti ricordano). E da allora la nostra famigliola si era trasferita definitivamente a Savona.
Quando ho letto su «L’Arena di Pola» che il 55° raduno si sarebbe tenuto a Pola ho avuto un sussulto, ho come sentito suonare la tromba dell’adunata ed ho immediatamente deciso di essere "presente" con mia moglie. Non avevo mai partecipato ai raduni in Italia. In fondo l’esodo e le conseguenze patite dai profughi io le avevo vissute un po’ di striscio. Mio nonno Silvio con l’esodo era venuto a Savona, da noi e cioè dalla figlia Erna (io avevo 12 anni), ma non era riuscito ad integrarsi nella dura cultura ligure ed era ritornato verso le sue parti, la sua gente, il suo dialetto, preferendo passare gli ultimi anni piuttosto nel campo profughi delle casermette a Gorizia, dove è morto nel 1960 all’età di 76 anni. A Savona all’epoca erano arrivati anche altri profughi da Pola avendo come punto di riferimento proprio mia mamma, la Erna. Tra questi anche la sua amica del cuore e mia Santola, Licia Bassan, la «giovanissima vedova» cui fa cenno Regina Cimmino a pag. 22 del suo libro Quella terra è la mia terra. Begli intrecci!
Ed ora qualche riflessione. La mia esperienza di rapporti con la nostra gente, a Savona come successivamente in molte altre località in cui ho avuto contatti, è stata appagante ed arricchente. Constatavo la presenza di questa cultura istriana, istro-veneta, aperta e dialogante, fondamentalmente ottimista malgrado le tragedie vissute, capace di sviluppare relazioni e rapporti positivi e di costruire comunità. Con la diaspora, impiantandosi nelle diverse realtà regionali italiane, era stata inoltre portatrice di un’italianità che nessuno sentiva e viveva in modo così marcato, per riferirmi alle mie esperienze territoriali in giro per l’Italia e persino a quella romana. Una presenza a macchia di leopardo ed un’interazione con le popolazioni locali che credo abbia fatto un gran bene agli Italiani coinvolti e quindi all’Italia. Forse accade che eventi storici importanti possano far emergere in un popolo una vocazione nuova, non programmata e non prevista, ma alla quale diventa un dovere ed una responsabilità rispondere positivamente. Ed il nostro popolo, passato dal crogiuolo della sofferenza per la privazione ingiusta e violenta che ha dovuto subire, è stato all’altezza di questo compito.
Per molto tempo mi è bastato questo, che mi dava orgoglio e fierezza. Ed io non avevo partecipato ai raduni in terra italica perché poco attratto: li percepivo come un ripiegamento su se stessi cedendo ai rimpianti e alle nostalgie, anche se sicuramente in realtà non era così. Certamente questo tenersi collegati è stato invece un supporto fondamentale per mantenere viva l’identità di un popolo smembrato e disperso qua e là per l’Italia, così come lo è stata la preziosissima funzione svolta dal nostro giornale «L’Arena di Pola».
È grazie a «L’Arena di Pola» che negli ultimi lustri mi sono sempre più avvicinato alla nostra storia ed alla nostra realtà. Ma grazie anche al rapporto più intenso, nei suoi ultimi anni di vita, con la mia mamma rimasta vedova, morta ultranovantenne a Savona sette anni fa. Ora mi assale una preoccupazione: a mano a mano che ce ne andiamo (mio nonno 51 anni fa, mia mamma 7 anni fa, prima o poi io stesso), corriamo il rischio che, a partire dall’ambito familiare, si perda questo patrimonio ideale e culturale che invece deve vivere e svilupparsi. Può darsi che il fenomeno si verifichi in tante nostre famiglie.
Per parte mia sto facendo quello che posso per tramandare a mia volta a figli e nipoti, a Trento come a Roma (dove vivo ormai da quasi mezzo secolo), questo patrimonio ritrovato e che non deve andare perduto. Altrettanto cerco di fare nelle varie comunità con cui interagisco. Ma mi rendo conto che dovrei forse rendermi disponibile a collaborare anche nelle nostre specifiche realtà associative qualora mi venisse richiesto.
Tornando al tema a me caro della vocazione storica di un popolo e delle conseguenti responsabilità, mi sembra che l’altra grande questione su cui la storia ci interpella, ora, sia quella del rapporto del nostro popolo con la nostra terra di origine, ancorché non sia più nostra dal punto di vista statuale ed amministrativo. Anzi proprio per questo ancora di più. Il processo europeo può darci una mano, ma mi sembra che dobbiamo – comunque e malgrado tutto – incrementare il rapporto con le Comunità degli Italiani di Pola e dell’Istria per una ricomposizione della nostra cultura spezzata. Abbiamo il dovere di non lasciarli soli e di progettare e costruire con loro il futuro. Noi ormai siamo forti e lo saremo sempre di più se sapremo continuare a lasciarci alle spalle giustificatissimi risentimenti, rancori, nostalgie, prevenzioni di carattere ideologico. Quindi lo possiamo fare. E quindi lo dobbiamo fare.
Penso che le varie località in giro per l’Italia (che si tratti di Roma Cecchignola o di Fertilia o di La Spezia, ecc. ecc.) possano essere sede di incontri particolari, regionali o interregionali, ma che non abbia senso ormai tenere il raduno annuale nazionale nelle località in cui sono approdati e si sono organizzati gli esuli. Con questa logica allora perché non farli anche a Melbourne o a Toronto? Lo dico scherzando, perché mi è venuto in mente che grazie all’incontro di Pola mi sono ritrovato anche con i miei cugini Avorini Maria Silvia e Paolo, nati a Melbourne, dove dopo l’esodo era emigrato mio zio Guido, ormai morto anche lui. Loro ora vivono a Pesaro. Ma anche questa vicenda familiare nostra richiama la tematica della diaspora e della faticosa ricerca di riallacciare trame di un tessuto socio-culturale che le crude vicende storiche hanno sfilacciato. E il catalizzatore resta sempre Pola.
Concludendo, a me pare che il 55° raduno segni uno spartiacque nella nostra storia: per dove e con chi si è svolto, per il significato che ha avuto, per il successo ottenuto, per i risultati concreti e documentabili realizzati. Sono convinto che siamo entrati in una fase nuova. Arrivarci ha certamente richiesto i suoi tempi di maturazione, attraverso le inevitabili contraddizioni e titubanze, ma tutto è stato superato con coraggio. La fase nuova è secondo me che ormai i raduni, quelli annuali nazionali importanti, vadano fatti sempre a Pola. O possiamo anche dire: a Pola e località della sua provincia.
Con buona pace di chi si attarda ancora a non voler fare lo sforzo di cogliere e comprendere l’evoluzione in corso, ivi inclusi gli amici dell’Unione degli Istriani con cui bisognerà pur arrivare con buon senso e buona volontà ad un accordo di collaborazione.
Antonio Incani
Roma