Successo strepitoso a Trieste per Magazzino 18
Teatro pieno, pubblico attentissimo, ripetuti applausi scroscianti e lunga ovazione finale. Magazzino 18, che ha aperto dal 22 al 27 ottobre la nuova stagione del Politeama “Rossetti” di Trieste, si è rivelata un successo strepitoso grazie alla maestria, all’umanità e all’umiltà di Simone Cristicchi, ben capace di interpretare vari personaggi, oltre che di cantare, coinvolgendo emotivamente il pubblico. Molto efficace è stata la sua interazione con la FVG Mitteleuropa Orchestra diretta da Valter Sivilotti, con i 40 bambini del coro dello StarTs Lab e con le proiezioni video sul telone alle spalle del protagonista. Lo spettacolo, scritto dallo stesso attore-cantante romano insieme al giornalista Jan Bernas, è diretto dal regista Antonio Calenda e prodotto dal Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia con PromoMusic. Dura un’ora e 45 minuti.
Teatro pieno, pubblico attentissimo, ripetuti applausi scroscianti e lunga ovazione finale. Magazzino 18, che ha aperto dal 22 al 27 ottobre la nuova stagione del Politeama “Rossetti” di Trieste, si è rivelata un successo strepitoso grazie alla maestria, all’umanità e all’umiltà di Simone Cristicchi, ben capace di interpretare vari personaggi, oltre che di cantare, coinvolgendo emotivamente il pubblico. Molto efficace è stata la sua interazione con la FVG Mitteleuropa Orchestra diretta da Valter Sivilotti, con i 40 bambini del coro dello StarTs Lab e con le proiezioni video sul telone alle spalle del protagonista. Lo spettacolo, scritto dallo stesso attore-cantante romano insieme al giornalista Jan Bernas, è diretto dal regista Antonio Calenda e prodotto dal Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia con PromoMusic. Dura un’ora e 45 minuti.
Cristicchi esordisce nei panni di Persichetti, un esilarante archivista romano alla Alberto Sordi mandato dal Ministero dell’Interno a redigere l’inventario delle masserizie accatastate nel Magazzino 18 del Porto Vecchio di Trieste. Lui, ignorante ma candido nei suoi modi popolareschi, non sa che appartenevano agli esuli (in primis polesi), di cui ignora la vicenda al punto da pronunciare «esòdo» con l’accento sulla “o” e da scambiare «Giuliano Dalmata» per una persona. Mentre si aggira tra cumuli di oggetti ammuffiti racconta per telefono al suo superiore l’impressionante scena, lamentando anche la presenza di topi, calcinacci e vetri rotti. Pensa che tutti quegli armadi, sedie, letti, cassapanche, appendini, poltrone, attrezzi, ritratti, foto, specchiere e quaderni siano frutto di un trasloco risalente a 50-60 anni fa. Deve inventariarli in soli tre giorni e poi farli sgomberare segretamente.
Ma quegli oggetti spettrali parlano come fantasmi e lo spaventano facendo saltare la fioca luce. Si odono bambini cantare e in scena irrompe un nuovo personaggio: lo Spirito delle Masserizie, che si rivolge al pubblico invitandolo a pensare alla propria terra. «Provate adesso – incalza – a immaginarla in silenzio. Il vostro quartiere, la vostra città, le sue strade, le sue piazze, i suoi negozi... senza più profumi, senza più colori, senza più la sua gente. Vuoto. Deserto. Silenzio. Un silenzio irreale che avvolge e ovatta tutto. Il vostro mondo che stranamente diventa altro, lentamente si spoglia di voi e voi di lui. All’improvviso vi sentite estranei, come alieni in quella che pensavate fosse la vostra terra, perché nel frattempo altri se ne stanno appropriando, altri sono arrivati e si prendono il vostro posto. Sembra impossibile, oggi, soltanto pensare a una Napoli vuota senza napoletani, a una Firenze deserta senza fiorentini o a una Roma silenziosa senza più romani. Settant’anni fa questo è accaduto. E’ accaduto a Pola, a Fiume, a Zara, a Rovigno, a Buie, a Dignano, a Parenzo, a Pirano, all’isola di Cherso, a Lussino. Un’intera regione svuotata della sua essenza. Gente costretta a partire non per la fame o per la voglia di migliorare le proprie condizioni, ma perché non si può vivere senza essere italiani».
Lo Spirito chiarisce: «Questa enorme catasta di oggetti è in realtà un grande silenzio, il simbolo di un’enorme amnesia. E anche se non ci sono targhe alla memoria, questo potrebbe essere un museo “suo malgrado”, un museo che racconta di noi, perché la storia che si nasconde qui dentro appartiene a tutti, è anche la vostra storia, la storia di una delle più gravi tragedie mai accadute nel nostro Paese nel ’900». Eccola in sintesi: «E’ il 10 febbraio del 1947, quando il Trattato di Pace firmato dai potenti della Terra consegna alla Jugoslavia un’intera regione italiana: l’Istria, Fiume e Zara. E’ quello il prezzo che l’Italia deve pagare per essere uscita sconfitta dalla Seconda guerra mondiale. Anzi, non l’Italia. A pagare sono gli italiani che da generazioni, da secoli vivono in quelle terre. Prezzo altissimo che spinge all’esodo un’intera popolazione. Sono uomini, donne, anziani, bambini. Sono circa 350mila italiani che se ne vanno, che preferiscono perdere tutto quello che hanno pur di fuggire da una realtà nuova, diversa, percepita come ostile e pericolosa. La realtà della Jugoslavia comunista. “L’esodo degli istriani, fiumani e dalmati”: così la storia chiama questa sua pagina dimenticata che ancora oggi pochissimi conoscono, tanto che c’è ancora in Italia oggi chi non sa nemmeno dove sia l’Istria, regione fantasma, una specie di Atlantide sprofondata nel mare».
Continua il fantasma: «Nell’esodo, come in una lenta emorragia durata dieci anni, le persone che partono si portano dietro tutto quello che possono, tonnellate di mobilio, nella speranza di potersi ricostruire un’esistenza lì, dall’altra parte del mare, in patria. Oppure chi lo sa... di poter tornare un giorno lì dove sono nate. E così il contenuto di intere case e quartieri, imballato, schedato e poi spedito, viene momentaneamente lasciato qui nei magazzini del Porto di Trieste ad aspettare. Di quell’immenso trasloco non restano oggi che duemila metri cubi di masserizie. Tutte cose che nessuno ha mai più reclamato, coi nomi scritti a mano su ogni singolo oggetto. Con un po’ di immaginazione, entrando qui dentro, puoi ricostruire la biblioteca di una scuola, sfogliare i quaderni dei compiti, i registri scolastici, riassemblare stanze da letto, cucine, laboratori di artigiani, negozi con tanto di insegne. C’è tutto: il contenuto di un’intera città. Ci sono le sedie dei vecchi che avevano nel cuore la speranza di potersi sedere ancora davanti a un focolare. Oppure gli armadi delle famiglie che, trovando un alloggio di fortuna meno spazioso, furono costretti a lasciare i loro mobili qui con sopra la scritta: “Rinunciato”. Ci sono i giocattoli, le ciabattine, le bambole. E tutte quelle facce in bianco e nero che sembrano guardarti... Facce che raccontano di lutti e drammi, storie di vite perdute, di un tessuto sociale strappato e mai più ricomposto, storie di una civiltà perduta come quella di Atlantide, dispersa con le sue radici e le sue tradizioni. Il Magazzino 18 è il cimitero degli oggetti dove riposa, non in pace, la loro vita quotidiana».
Segue la struggente canzone Il cimitero degli oggetti.
Fra questi armadi mangiati dal tempo
e questi letti di sogni infranti,
tra le montagne di sedie di legno
che sembrano ragni aggrovigliati,
tra cassapanche di foto ingiallite
e di esistenze scampate alla bora,
sono nascoste migliaia di vite
che nel silenzio ci parlano ancora
e ci raccontano chi ha perso tutto
tranne la propria identità,
chi ha preferito un presente distrutto
a un’ipotetica libertà.
Sono passati più di 60 anni
e anche se danno fastidio a qualcuno,
qui troverete soltanto fantasmi
che ormai non fanno paura a nessuno.
Qui troverete il quaderno di chi
ha imparato le prime parole,
qui solo lettere scritte da chi
si giurava per sempre l’amore.
Niente di più: è una storia di povere cose,
abbandonate, nascoste, dimenticate.
Ci sono libri, fiammiferi e piatti
e gli strumenti di un muratore.
Ci sono aratri, bandiere e ritratti,
c’è anche la rete di un pescatore.
E su ogni oggetto c’è scritto un cognome,
come una carta d’identità.
Anche se non sai né quando né come,
sono arrivati fino a qua.
E questi immobili marinai,
sopravvissuti a mille tempeste,
sono ammassati tra polvere e tarli
nel porto vecchio di Trieste.
Dormono qui da più di 60 anni
e anche se danno fastidio a qualcuno
qui troverete soltanto fantasmi
che ormai non fanno paura a nessuno.
Qui solo lettere scritte da chi
si giurava per sempre l’amore.
Niente di più: è una storia di povere cose,
abbandonate, nascoste, dimenticate.
Tra cassapanche di foto ingiallite
e di esistenze scampate alla bora
sono nascoste migliaia di voci
che nel silenzio ci parlano ancora.
Persichetti magnifica via telefono alla moglie le offerte vacanziere di un’agenzia viaggi tentando, con effetti comici, di pronunciare in croato i nomi di alcune località istriano-quarnerine. Ma lo Spirito scommette che pochi spettatori sappiano che «quel mare, quella costa, quelle città, settant’anni fa erano Italia», riferisce il loro nome italiano e spiega che visitandoli si capisce che lì «anche le pietre parlano italiano».
Lo Spirito poi descrive l’Istria come terra mistilingue dove «le culture si incontrano, le popolazioni si mescolano e magari provano a capirsi, oppure si fanno la guerra». Facendo una breve ricostruzione storica dal 1914, ricorda i volontari irredenti e la gioia per il ricongiungimento all’Italia, ma deplora le contrapposte violenze nazionalistiche successive alla guerra e la politica del fascismo, «che sfalda il delicato equilibrio della regione» con la sua politica anti-slava. L’invasione della Jugoslavia porta inoltre a «fucilazioni, incendi di interi villaggi, trasferimenti massicci di popolazioni e crimini», per i quali «nessuno ha mai pagato». Sulla scena compare una bambina che declama una poesia in sloveno, con retrostanti diciture in italiano, ricordando il padre morto di stenti nel campo di concentramento fascista di Arbe. Non si odono mugugni in sala perché quello di Cristicchi è uno spettacolo umanitario, pieno di compassione per qualsiasi vittima incolpevole.
Lo Spirito si concentra poi sul periodo successivo all’8 settembre: «i partigiani slavi agli ordini del maresciallo Tito scendono dalle montagne dell’interno, dove si erano accampati, arrivano di città in città, di paese in paese, di casa in casa, e arrestano i “nemici del popolo”: rappresentanti del partito fascista, gerarchi locali, squadristi. Spesso sono gli stessi compagni italiani a indicare ai compagni slavi dove e chi andare a prelevare. E fin qui potrebbero essere vendette verso i fascisti, vecchi rancori nei confronti dei responsabili di quei vent’anni di soprusi e della guerra di occupazione. Ma poi cominciano a sparire carabinieri, podestà, impiegati statali, farmacisti, maestri, sacerdoti... Processi sommari ed esecuzioni non risparmiano nemmeno gli antifascisti, i cattolici e i comunisti. La gente dentro alle case è bloccata dalla paura: rastrellamenti, spiate, vendette, spari alle finestre. Fratelli, padri, amici che svaniscono: “La note lo ga portà via”, si diceva. “Dove? Non si sa”. Spariti senza lasciare traccia. Solo più tardi si verrà a sapere che fine avevano fatto. Ma perché? Perché colpire anche postini, farmacisti, maestri, donne che con la politica non avevano nulla a che fare?».
«Forse perché – risponde lo Spirito – gli italiani rappresentano un ostacolo al sogno di Tito di annettersi anche le zone a maggioranza italiana come l’Istria, come Fiume, come la Dalmazia, come Trieste. Una sola grande Jugoslavia. Ed ecco perché la lotta di liberazione dal nazifascismo, sacrosanta, necessaria, giusta, qui sembra piuttosto un pretesto, un mezzo per raggiungere il confine all’Isonzo. Ed ecco perché quella che nel resto d’Italia viene chiamata “liberazione” in queste zone prende le sembianze di una vera e propria occupazione. Ed ecco perché Tito alla fine della guerra impone marce estenuanti ai suoi uomini per correre veloci ad occupare Trieste prima che arrivino gli Alleati. E ci riesce. Il 1° maggio 1945 le truppe armate titine entrano nella città giuliana al grido di “Trst je naš” (“Trieste è nostra”), il 3 maggio occupano Fiume e il 5 maggio Pola. In quei 43 giorni di occupazione titina la milizia titina fa la spola fra le città e le campagne circostanti, avanti e indietro, perché bisogna fare presto, perché adesso il sogno della grande Jugoslavia è a un passo. Bisogna solo dare un calcio allo stivale».
Cristicchi canta allora l’incalzante motivo Dentro la buca insieme ai coristi che battono un bastone sul pavimento a simboleggiare i colpi di pistola sparati alla nuca per far cadere nelle foibe i prigionieri, poi cancellati dalla memoria. A seguire interpreta prima un sopravvissuto all’infoibamento che rivive la sua sconvolgente esperienza, poi un infoibato che commemora anche lo strazio dell’amica Norma Cossetto.
«Questi morti – commenta Persichetti – muoiono ancora oggi su un altro campo di battaglia: quello dei numeri. Infatti non si saprà mai quanta gente è sparita così nelle foibe, morta nei campi di prigionia, addirittura annegata con una pietra al collo: “Sono 500”. “No, aggiungi uno zero: 5.000!”. “10.000!”. “20.000!”. “Di più!”». E si chiede: «Sono regolamenti di conti? Vendette personali? Ma che: siamo nel Far West?! Dicono: “E’ tutta colpa del fascismo. Le foibe sono solo tombe di fascisti. Addirittura c’è chi parla di pulizia etnica degli italiani! La guerra è guerra, ma questa gente è stata ammazzata in tempo di pace. E allora come fai a giustificare?». E cita le illuminanti parole di Milovan Đilas. Poi con una chitarra trovata per caso interpreta in romanesco la canzone Al Porto Vecchio, che ironizza su ignoranza e indifferenza.
Cristicchi rievoca quindi la strage di Vergarolla secondo la testimonianza di un sopravvissuto. E spiega: «Sulla spiaggia accatastate da un lato c’erano ventotto mine di profondità disinnescate, innocue: nessuna pericolo. Erano solo un vecchio ricordo della guerra, tanto che i polesani ci avevano fatto l’abitudine. Addirittura quella mattina i bambini ci giocavano intorno correndo senza paura. Ma quei mostri addormentati all’improvviso si risvegliano. Sono 9 tonnellate di tritolo che uccidono un centinaio di persone e ne feriscono almeno duecento. Intere famiglie scompaiono così, tra un bagno e l’altro. Nessuno conosce Vergarolla. Nessuno sa che è una delle più gravi stragi mai accadute in Italia. Il giorno dopo i giornali titolarono: “Sventura a Pola”. Come fosse caduto un fulmine. Poi sotto, scritto in piccolo: “Forse è stato un attentato”. A 60 anni di distanza nessuna risposta. Solo brandelli di verità. Oggi nella città vecchia c’è un cippo che ricorda la tragedia e una targa: “In memoria di Geppino Micheletti cittadino benemerito di Pola”». Cristicchi ne ricostruisce la tragedia mettendone in luce l’eroismo e rilevando che anche lui infine esodò, come «quasi la totalità degli abitanti di Pola». Alla fine scende dal palcoscenico e percorre l’intera platea insieme a una bambina falcidiata dall’esplosione che in precedenza aveva raccolto da terra e tenuto sulle braccia.
Sul pannello retrostante viene proiettato un passo del sempre commovente cinegiornale Pola addio sull’agonia della città. Quindi lo Spirito riprende il racconto. «Il senso di sconforto – spiega – si diffonde tra la gente per un destino deciso da altri che sta per compiersi». I polesani cercano i chiodi necessari a chiudere i cassoni con le proprie cose e caricarle sul “Toscana”. Ma in Italia che si dice? «Non si ravvisa la necessità di una fuga in massa dall’amica Jugoslavia». Oppure: «Il terrore titino è solo una campagna di menzogne anti-slave». Lo Spirito aggiunge: «La comunità internazionale non si pronuncia. Gli angloamericani stanno a guardare, mentre via via il piroscafo imbarca tutti: artigiani, contadini, insegnanti, pescatori di ostriche e di alghe, e poi gli operai dei cantieri navali di Pola, proprio quei proletari che avrebbero dovuto accogliere il comunismo a braccia aperte. Perfino i partigiani che hanno combattuto tra le fila dei titini, i dipendenti della Fabbrica Tabacchi. Non un grido, non un gesto scomposto. La nostra gente se ne va via così, quasi in punta dei piedi, con la morte nel cuore». Cristicchi completa il racconto cantando in istro-veneto la toccante Coreva andar pel mondo.
Una voce fuori campo legge un articolo de “L’Unità” che definiva «indesiderabili» anche «coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici». Persichetti, di fronte al suo superiore, prende le parti degli esuli: «Ma quali briganti neri?! Ma quali gerarchi!? In Jugoslavia niente beni personali, niente proprietà privata, la Chiesa è repressa. Addirittura la gente ha il terrore di parlare italiano! E questo me lo chiamano “alito di libertà?”. A me pare tanto strano, anche perché per quale motivo dovrebbe scappare dal comunismo l’artigiano, il contadino, l’operaio, chi non ha niente da perdere? Non se ne sono andati perché erano colpevoli di qualcosa o per allucinazione collettiva. Contò di più la paura di sparire o di ritrovarsi stranieri a casa loro. Gli esuli non sono stati espulsi. Però, viste queste premesse, è come se lo fossero stati. Dovevi scegliere se diventare jugoslavo o restare italiano». Persichetti distingue poi fra migranti, che partono con la speranza di ritornare un giorno dopo aver fatto fortuna, ed esuli, per i quali il viaggio è di sola andata. «Ma i comunisti – esclama – non stavano dalla parte degli ultimi? E più ultimi di quelli?». Ricorda infine i quasi 80mila che emigrarono oltre oceano, i 60mila che si fermarono a Trieste e quanti passarono per i tanti scalcinati campi profughi. Infine snocciola alcuni esuli diventati famosi.
Cristicchi continua cantando l’emozionante 1947 di Sergio Endrigo. Poi interpreta un esule che alla stazione di Bologna subì il boicottaggio dei sindacalisti della CGIL, che rimase anni al centro di raccolta di Laterina e che ricorda le donne impiccatesi per disperazione, gli anziani alcolizzati, quanti finirono in manicomio e la piccola Marinella Filippaz morta di freddo a Padriciano. Prosegue cantando la commovente Magazzino 18 e, calatosi nei panni di un “rimasto”, illustra la paradossale condizione di chi veniva chiamato «comunista» dagli uni e «fascista» dagli altri, concludendo: «Siamo ancora italiani!». Racconta anche il controesodo dei monfalconesi, internati sull’Isola Calva a scopo “rieducativo”, e canta con i coristi la suggestiva canzone Noi siamo la classe operaia.
Dopo aver assicurato il suo superiore che la pratica è chiusa e tutto verrà asportato, Persichetti, sinceramente immedesimatosi in «quella gente che ha pagato per tutti», decide un atto riparatorio simbolico: la restituzione all’esule polese Federica Biasiol dei poveri oggetti appartenuti al padre.
Cristicchi, cantando insieme ai coristi una soave ninna-nanna dedicata ad alcune vittime di questa tragedia, enuncia l’11° comandamento: non dimenticare. E conclude collegando l’esodo istriano-fiumano-dalmata ai tanti esodi di oggi.
Dalle polemiche alla catarsi
La trionfale accoglienza di Magazzino 18 da parte del pubblico triestino ha dissolto le polemiche attizzate da Paris Lippi, vicepresidente del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e dirigente di Fratelli d’Italia, a ridosso della prima. «Un mese fa – aveva rivelato su “Il Piccolo” del 19 ottobre – mi è giunta voce che lo spettacolo avrebbe subito alcuni cambiamenti. Così mi sono interessato alla vicenda venendo purtroppo a conoscenza che agli autori è stato suggerito di aggiungere la lettura di una citazione di Boris Pahor che parla del Balkan e la lettura di una poesia recitata da una bambina in sloveno con i sottotitoli in italiano. Sembra che questa versione verrebbe messa in scena solo a Trieste e non sui palcoscenici degli altri teatri d’Italia che ospiteranno lo spettacolo. Uno scandalo». «Questo – aveva esclamato – è uno schiaffo per Trieste, per gli esuli soprattutto. La sinistra chiede libertà di parola e di pensiero ma guai a toccare i suoi nervi scoperti. Cosa c’entrano il Balkan e quella lettura in sloveno? Non c’è stato il coraggio di lasciare in pace quel testo, non si è voluto evitare di prendere ancora a bastonate la dignità e il dolore di chi schiaffi ne ha già presi per tutta la vita».
Il presidente dello Stabile regionale Miloš Budin però non aveva nemmeno visto lo spettacolo. Si era solo accertato che fosse «in linea con le condizioni di unità raggiunte dalla nostra società e che non mettesse a repentaglio la capacità dimostrata da Trieste di superare certe divergenze e lacerazioni». Aveva inoltre detto «a livello di pour parler» che la poesia della bambina slovena gli sembrava un inserimento corretto, ma lungi da lui intromettersi «nella stesura del testo».
Il presidente dell’Unione degli Istriani Massimiliano Lacota aveva subito ritirato l’autorizzazione a usare in scena le immagini da lui prestate a Cristicchi e annunciato di voler disertare insieme a molti suoi iscritti le rappresentazioni, perché «la comunità slovena è riuscita sabotare il primo spettacolo sull’esodo realizzato da un giovane sensibile ed equilibrato».
Critici verso le presunte interpolazioni per “compensare” foibe ed esodo si erano detti Piero Delbello, direttore dell’IRCI, e Sandra Savino, deputata del PDL. Claudio Giacomelli, consigliere comunale di Fratelli d’Italia, e i consiglieri del PDL Paolo Rovis (comunale) e Roberto Dubs (circoscrizionale) avevano chiesto le dimissioni di Budin. Durissimo il commento del coordinatore provinciale di Fratelli d’Italia Fabio Scoccimarro: «Visione giustificazionista degli eccidi slavo-comunisti e dell’esodo. La lettura nella lingua degli aguzzini degli esuli in uno spettacolo che ne ricorda il dramma è una provocazione che alimenta nuovi rancori e divisioni». Piero Tononi, vicecoordinatore provinciale del PDL, aveva parlato di «ignobile censura compiuta da Budin».
Secondo il presidente della Lega nazionale Paolo Sardos Albertini, «se si ricorda l’incendio del Balkan del ’20 si dovrebbe ricordare anche l’incendio della Lega Nazionale, della Ginnastica Triestina e del “Piccolo” il 23 maggio 1915 a opera di facinorosi sicuramente della minoranza slovena».
Renzo de’ Vidovich, presidente della Delegazione triestina dei Dalmati Italiani nel Mondo, aveva espresso indignazione «per la violenza usata nei confronti dello spettacolo» contestando l’interpretazione dell’incendio del Narodni dom fornita da Boris Pahor.
Il sindaco Roberto Cosolini (PD), di fronte alle «solite esibizioni sguaiate che il centrodestra nostalgico deve ritirar fuori non rassegnandosi al fatto che la città è cambiata», aveva invitato Cristicchi «a portare in scena tutto e solo ciò di cui è convinto, in piena libertà, perché questa è una tempesta sul nulla». «A che titolo – si era chiesto – un vicepresidente del Rossetti ha letto il testo in anticipo? Io certo non l’ho fatto. Inoltre la tragedia dell’esodo e delle foibe è di tutta la città, mentre qui assistiamo di nuovo al tentativo di farne il patrimonio di una sola parte. Sia le righe sul campo di concentramento di Arbe e sia quelle sul Balkan mi risultano essere state presenti fin dall’inizio».
«Di quale versione del testo si parla?» aveva incalzato la presidente dell’IRCI Chiara Vigini. «Chi ha visto la prima – aveva detto – non conosce l’ultima. Basta polemiche! Mettono solo una piccola parte contro un’altra piccola parte».
Il Comitato Trieste Pro Patria aveva condannato «chi preme sull’autore per introdurre nello spettacolo frasi di un personaggio noto per le tesi giustificazioniste e revisioniste in senso riduttivo del dramma delle foibe», ma aveva annunciato di voler essere presente alla “prima”, invitando a «ignorare le provocazioni, a non cadere nel tranello di chi vorrebbe che dello spettacolo si parlasse solo per eventuali contestazioni».
Il presidente di FederEsuli Renzo Codarin e l’esponente del patriottismo democratico Stelio Spadaro avevano espresso contrarietà alla citazione di Pahor, in quanto nazionalista, ma non alla poesia della bambina slovena.
«Mi infastidisce – ha detto Boris Pahor – essere definito nazionalista perché non è vero e ugualmente non è vero che non ho mai scritto o parlato degli esuli. Ho cominciato nel 1961 nella rivista “Trieste”, e negli ultimi anni sul “Piccolo”. Ho rappresentato il tema anche nella novella Postanek na Ponte Vecchio. Come scrittore, umanista e sloveno capisco bene la loro sofferenza. Al tempo del fascismo abbiamo avuto anche noi i nostri esuli. È vero che venivano considerati dei fascisti e non si sentivano più a casa nelle proprie città».
I pacati chiarimenti di Cristicchi
Il 21 ottobre, nella conferenza stampa di presentazione dello spettacolo, Simone Cristicchi aveva fatto chiarezza.
«Gradirei molto di più – aveva affermato – se venissi criticato sull’aspetto artistico (perché le critiche possono solo far bene a un artista) più che su questioni che sinceramente credevo fossero superate. Sulle foibe per esempio, tema ancora oggi spinoso da queste parti, ma possiamo dire in tutta l’Italia. Sulle foibe c’è un capitolo, come tutti si aspettano. Ma una gran parte dello spettacolo è dedicata a quelli che ho chiamato “i morti di esodo”, ovvero le persone che non compaiono in nessuna contabilità dei foibologi, tutti quelli che sono morti successivamente all’esodo: i padri che si lasciarono andare, che non ebbero la forza di ricominciare e si uccisero con l’alcol; le madri che si impiccarono perché sentivano la nostalgia di una terra nella quale non sarebbero mai più tornate; Marinella Filippaz, morta di freddo a un anno nel campo profughi di Padriciano. Basterebbe citare queste tre cose per cancellare questi tre giorni di polemiche sulla strumentalizzazione di uno spettacolo in cui si è dato per scontato che io non sia un artista libero. Questa cosa mi ferisce molto».
«Io chiaramente – aveva continuato – mi sono dovuto fare un’idea, venendo da Roma ed essendo un esterno, e quindi ho avuto l’opportunità e probabilmente anche il buon gusto di ascoltare tutte le voci di questa storia. Alla fine ho deciso di dare voce ai testimoni, come ho sempre fatto nei miei spettacoli, senza dare un giudizio a priori. Io lascio in questo testo che il pubblico si faccia un’idea, ma non soltanto quello triestino. Non dimentichiamoci che questo spettacolo poi andrà in giro in tutta l’Italia, dove veramente Giuliano Dalmata viene scambiato per il nome di un signore, di un politico, di un letterato. Questa è la realtà a cui noi vogliamo supplire. E’ uno spettacolo questo che ha acceso gli animi perché il mondo degli esuli lo attende da sessant’anni. E ne sono consapevole. Però è un omaggio alle vittime in generale di questi uragani della storia. Chiaramente non esiste soltanto l’esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati. Nello spettacolo ci sono dei riferimenti chiari all’attualità, a quello che i nostri ragazzi, i nostri figli vedono nei telegiornali, a quello che sta accadendo a Lampedusa. Lo spettacolo è una metafora anche di un qualcosa che sta accadendo ora. Quelli che arrivano sulle nostre coste sono esuli, non soltanto poveracci, disperati. Hanno visto la loro terra trasformarsi e si sono visti costretti a lasciarla per colpa della fame, della povertà, della guerra, dell’odio razziale. Questo credo sia il senso profondo dello spettacolo, ovvero non dimenticare che quello che si è vissuto nel nostro Paese sta accadendo in altri Paesi, è sempre accaduto nella storia dell’umanità».
«Riguardo alla stesura del testo – aveva precisato l’autore-interprete di Magazzino 18 – io mi riservo fino a stasera e probabilmente anche fino a domani di ritoccare qualcosa qua e là perché la costruzione di uno spettacolo è così. Fino all’ultimo anche la regia potrà avere degli stravolgimenti, così come è successo per le frasi di Boris Pahor, che insieme al regista ho reputato giusto evitare più che altro per una questione stilistica, visto che non ci sono altre citazioni di scrittori nel testo, ma soltanto citazioni di persone semplici, non importanti. Così come ho reputato giusto togliere un riferimento alla figura di Maria Pasquinelli, che per l’estrema destra è diventata un’icona. Questi due personaggi non creavano equilibrio, non creavano qualcosa di scorrevole nella storia, ma forse avrebbero installato nello spettatore un altro pensiero, più politico. Ho deciso così nella stessa misura di non citare la Pasquinelli perché anche lei figura oscura che crea contrasti. Il contrasto non dev’esserci in questo spettacolo».
«Non mi aspettavo – aveva aggiunto – un’affluenza così imponente in prevendita. La prima è già esaurita da diverse settimane e gli altri giorni si stanno riempiendo. Vengono pullman da Milano, da Torino, dall’Istria, dalla Croazia, dalla Slovenia. In questo teatro affluiscono anche persone che purtroppo non avranno l’opportunità di vederlo nella loro città. Questo per scelte di cautela da parte di alcuni direttori artistici. Credo che si ricrederanno quando lo vedranno messo in scena. La cosa che mi rende molto felice è fare quattro repliche [poi ridotte a tre] in dicembre a Fiume, Umago, Rovigno e Pola. Questo è un evento non voglio dire storico, però importante per la comunità degli italiani che sono ancora lì. Ringrazio l’Università Popolare di Trieste che l’ha permesso. La tournée proseguirà un po’ per tutta l’Italia. Mancano all’appello alcune città importanti come Torino, Milano, come Genova, come Napoli. E quindi ci dovremo fare le ossa nel frattempo in attesa che questo spettacolo possa avere una visibilità maggiore. Ma me l’aspettavo, visto che anche nel resto d’Italia alcuni pensano che sia pericoloso per certi versi».
Ma quegli oggetti spettrali parlano come fantasmi e lo spaventano facendo saltare la fioca luce. Si odono bambini cantare e in scena irrompe un nuovo personaggio: lo Spirito delle Masserizie, che si rivolge al pubblico invitandolo a pensare alla propria terra. «Provate adesso – incalza – a immaginarla in silenzio. Il vostro quartiere, la vostra città, le sue strade, le sue piazze, i suoi negozi... senza più profumi, senza più colori, senza più la sua gente. Vuoto. Deserto. Silenzio. Un silenzio irreale che avvolge e ovatta tutto. Il vostro mondo che stranamente diventa altro, lentamente si spoglia di voi e voi di lui. All’improvviso vi sentite estranei, come alieni in quella che pensavate fosse la vostra terra, perché nel frattempo altri se ne stanno appropriando, altri sono arrivati e si prendono il vostro posto. Sembra impossibile, oggi, soltanto pensare a una Napoli vuota senza napoletani, a una Firenze deserta senza fiorentini o a una Roma silenziosa senza più romani. Settant’anni fa questo è accaduto. E’ accaduto a Pola, a Fiume, a Zara, a Rovigno, a Buie, a Dignano, a Parenzo, a Pirano, all’isola di Cherso, a Lussino. Un’intera regione svuotata della sua essenza. Gente costretta a partire non per la fame o per la voglia di migliorare le proprie condizioni, ma perché non si può vivere senza essere italiani».
Lo Spirito chiarisce: «Questa enorme catasta di oggetti è in realtà un grande silenzio, il simbolo di un’enorme amnesia. E anche se non ci sono targhe alla memoria, questo potrebbe essere un museo “suo malgrado”, un museo che racconta di noi, perché la storia che si nasconde qui dentro appartiene a tutti, è anche la vostra storia, la storia di una delle più gravi tragedie mai accadute nel nostro Paese nel ’900». Eccola in sintesi: «E’ il 10 febbraio del 1947, quando il Trattato di Pace firmato dai potenti della Terra consegna alla Jugoslavia un’intera regione italiana: l’Istria, Fiume e Zara. E’ quello il prezzo che l’Italia deve pagare per essere uscita sconfitta dalla Seconda guerra mondiale. Anzi, non l’Italia. A pagare sono gli italiani che da generazioni, da secoli vivono in quelle terre. Prezzo altissimo che spinge all’esodo un’intera popolazione. Sono uomini, donne, anziani, bambini. Sono circa 350mila italiani che se ne vanno, che preferiscono perdere tutto quello che hanno pur di fuggire da una realtà nuova, diversa, percepita come ostile e pericolosa. La realtà della Jugoslavia comunista. “L’esodo degli istriani, fiumani e dalmati”: così la storia chiama questa sua pagina dimenticata che ancora oggi pochissimi conoscono, tanto che c’è ancora in Italia oggi chi non sa nemmeno dove sia l’Istria, regione fantasma, una specie di Atlantide sprofondata nel mare».
Continua il fantasma: «Nell’esodo, come in una lenta emorragia durata dieci anni, le persone che partono si portano dietro tutto quello che possono, tonnellate di mobilio, nella speranza di potersi ricostruire un’esistenza lì, dall’altra parte del mare, in patria. Oppure chi lo sa... di poter tornare un giorno lì dove sono nate. E così il contenuto di intere case e quartieri, imballato, schedato e poi spedito, viene momentaneamente lasciato qui nei magazzini del Porto di Trieste ad aspettare. Di quell’immenso trasloco non restano oggi che duemila metri cubi di masserizie. Tutte cose che nessuno ha mai più reclamato, coi nomi scritti a mano su ogni singolo oggetto. Con un po’ di immaginazione, entrando qui dentro, puoi ricostruire la biblioteca di una scuola, sfogliare i quaderni dei compiti, i registri scolastici, riassemblare stanze da letto, cucine, laboratori di artigiani, negozi con tanto di insegne. C’è tutto: il contenuto di un’intera città. Ci sono le sedie dei vecchi che avevano nel cuore la speranza di potersi sedere ancora davanti a un focolare. Oppure gli armadi delle famiglie che, trovando un alloggio di fortuna meno spazioso, furono costretti a lasciare i loro mobili qui con sopra la scritta: “Rinunciato”. Ci sono i giocattoli, le ciabattine, le bambole. E tutte quelle facce in bianco e nero che sembrano guardarti... Facce che raccontano di lutti e drammi, storie di vite perdute, di un tessuto sociale strappato e mai più ricomposto, storie di una civiltà perduta come quella di Atlantide, dispersa con le sue radici e le sue tradizioni. Il Magazzino 18 è il cimitero degli oggetti dove riposa, non in pace, la loro vita quotidiana».
Segue la struggente canzone Il cimitero degli oggetti.
Fra questi armadi mangiati dal tempo
e questi letti di sogni infranti,
tra le montagne di sedie di legno
che sembrano ragni aggrovigliati,
tra cassapanche di foto ingiallite
e di esistenze scampate alla bora,
sono nascoste migliaia di vite
che nel silenzio ci parlano ancora
e ci raccontano chi ha perso tutto
tranne la propria identità,
chi ha preferito un presente distrutto
a un’ipotetica libertà.
Sono passati più di 60 anni
e anche se danno fastidio a qualcuno,
qui troverete soltanto fantasmi
che ormai non fanno paura a nessuno.
Qui troverete il quaderno di chi
ha imparato le prime parole,
qui solo lettere scritte da chi
si giurava per sempre l’amore.
Niente di più: è una storia di povere cose,
abbandonate, nascoste, dimenticate.
Ci sono libri, fiammiferi e piatti
e gli strumenti di un muratore.
Ci sono aratri, bandiere e ritratti,
c’è anche la rete di un pescatore.
E su ogni oggetto c’è scritto un cognome,
come una carta d’identità.
Anche se non sai né quando né come,
sono arrivati fino a qua.
E questi immobili marinai,
sopravvissuti a mille tempeste,
sono ammassati tra polvere e tarli
nel porto vecchio di Trieste.
Dormono qui da più di 60 anni
e anche se danno fastidio a qualcuno
qui troverete soltanto fantasmi
che ormai non fanno paura a nessuno.
Qui solo lettere scritte da chi
si giurava per sempre l’amore.
Niente di più: è una storia di povere cose,
abbandonate, nascoste, dimenticate.
Tra cassapanche di foto ingiallite
e di esistenze scampate alla bora
sono nascoste migliaia di voci
che nel silenzio ci parlano ancora.
Persichetti magnifica via telefono alla moglie le offerte vacanziere di un’agenzia viaggi tentando, con effetti comici, di pronunciare in croato i nomi di alcune località istriano-quarnerine. Ma lo Spirito scommette che pochi spettatori sappiano che «quel mare, quella costa, quelle città, settant’anni fa erano Italia», riferisce il loro nome italiano e spiega che visitandoli si capisce che lì «anche le pietre parlano italiano».
Lo Spirito poi descrive l’Istria come terra mistilingue dove «le culture si incontrano, le popolazioni si mescolano e magari provano a capirsi, oppure si fanno la guerra». Facendo una breve ricostruzione storica dal 1914, ricorda i volontari irredenti e la gioia per il ricongiungimento all’Italia, ma deplora le contrapposte violenze nazionalistiche successive alla guerra e la politica del fascismo, «che sfalda il delicato equilibrio della regione» con la sua politica anti-slava. L’invasione della Jugoslavia porta inoltre a «fucilazioni, incendi di interi villaggi, trasferimenti massicci di popolazioni e crimini», per i quali «nessuno ha mai pagato». Sulla scena compare una bambina che declama una poesia in sloveno, con retrostanti diciture in italiano, ricordando il padre morto di stenti nel campo di concentramento fascista di Arbe. Non si odono mugugni in sala perché quello di Cristicchi è uno spettacolo umanitario, pieno di compassione per qualsiasi vittima incolpevole.
Lo Spirito si concentra poi sul periodo successivo all’8 settembre: «i partigiani slavi agli ordini del maresciallo Tito scendono dalle montagne dell’interno, dove si erano accampati, arrivano di città in città, di paese in paese, di casa in casa, e arrestano i “nemici del popolo”: rappresentanti del partito fascista, gerarchi locali, squadristi. Spesso sono gli stessi compagni italiani a indicare ai compagni slavi dove e chi andare a prelevare. E fin qui potrebbero essere vendette verso i fascisti, vecchi rancori nei confronti dei responsabili di quei vent’anni di soprusi e della guerra di occupazione. Ma poi cominciano a sparire carabinieri, podestà, impiegati statali, farmacisti, maestri, sacerdoti... Processi sommari ed esecuzioni non risparmiano nemmeno gli antifascisti, i cattolici e i comunisti. La gente dentro alle case è bloccata dalla paura: rastrellamenti, spiate, vendette, spari alle finestre. Fratelli, padri, amici che svaniscono: “La note lo ga portà via”, si diceva. “Dove? Non si sa”. Spariti senza lasciare traccia. Solo più tardi si verrà a sapere che fine avevano fatto. Ma perché? Perché colpire anche postini, farmacisti, maestri, donne che con la politica non avevano nulla a che fare?».
«Forse perché – risponde lo Spirito – gli italiani rappresentano un ostacolo al sogno di Tito di annettersi anche le zone a maggioranza italiana come l’Istria, come Fiume, come la Dalmazia, come Trieste. Una sola grande Jugoslavia. Ed ecco perché la lotta di liberazione dal nazifascismo, sacrosanta, necessaria, giusta, qui sembra piuttosto un pretesto, un mezzo per raggiungere il confine all’Isonzo. Ed ecco perché quella che nel resto d’Italia viene chiamata “liberazione” in queste zone prende le sembianze di una vera e propria occupazione. Ed ecco perché Tito alla fine della guerra impone marce estenuanti ai suoi uomini per correre veloci ad occupare Trieste prima che arrivino gli Alleati. E ci riesce. Il 1° maggio 1945 le truppe armate titine entrano nella città giuliana al grido di “Trst je naš” (“Trieste è nostra”), il 3 maggio occupano Fiume e il 5 maggio Pola. In quei 43 giorni di occupazione titina la milizia titina fa la spola fra le città e le campagne circostanti, avanti e indietro, perché bisogna fare presto, perché adesso il sogno della grande Jugoslavia è a un passo. Bisogna solo dare un calcio allo stivale».
Cristicchi canta allora l’incalzante motivo Dentro la buca insieme ai coristi che battono un bastone sul pavimento a simboleggiare i colpi di pistola sparati alla nuca per far cadere nelle foibe i prigionieri, poi cancellati dalla memoria. A seguire interpreta prima un sopravvissuto all’infoibamento che rivive la sua sconvolgente esperienza, poi un infoibato che commemora anche lo strazio dell’amica Norma Cossetto.
«Questi morti – commenta Persichetti – muoiono ancora oggi su un altro campo di battaglia: quello dei numeri. Infatti non si saprà mai quanta gente è sparita così nelle foibe, morta nei campi di prigionia, addirittura annegata con una pietra al collo: “Sono 500”. “No, aggiungi uno zero: 5.000!”. “10.000!”. “20.000!”. “Di più!”». E si chiede: «Sono regolamenti di conti? Vendette personali? Ma che: siamo nel Far West?! Dicono: “E’ tutta colpa del fascismo. Le foibe sono solo tombe di fascisti. Addirittura c’è chi parla di pulizia etnica degli italiani! La guerra è guerra, ma questa gente è stata ammazzata in tempo di pace. E allora come fai a giustificare?». E cita le illuminanti parole di Milovan Đilas. Poi con una chitarra trovata per caso interpreta in romanesco la canzone Al Porto Vecchio, che ironizza su ignoranza e indifferenza.
Cristicchi rievoca quindi la strage di Vergarolla secondo la testimonianza di un sopravvissuto. E spiega: «Sulla spiaggia accatastate da un lato c’erano ventotto mine di profondità disinnescate, innocue: nessuna pericolo. Erano solo un vecchio ricordo della guerra, tanto che i polesani ci avevano fatto l’abitudine. Addirittura quella mattina i bambini ci giocavano intorno correndo senza paura. Ma quei mostri addormentati all’improvviso si risvegliano. Sono 9 tonnellate di tritolo che uccidono un centinaio di persone e ne feriscono almeno duecento. Intere famiglie scompaiono così, tra un bagno e l’altro. Nessuno conosce Vergarolla. Nessuno sa che è una delle più gravi stragi mai accadute in Italia. Il giorno dopo i giornali titolarono: “Sventura a Pola”. Come fosse caduto un fulmine. Poi sotto, scritto in piccolo: “Forse è stato un attentato”. A 60 anni di distanza nessuna risposta. Solo brandelli di verità. Oggi nella città vecchia c’è un cippo che ricorda la tragedia e una targa: “In memoria di Geppino Micheletti cittadino benemerito di Pola”». Cristicchi ne ricostruisce la tragedia mettendone in luce l’eroismo e rilevando che anche lui infine esodò, come «quasi la totalità degli abitanti di Pola». Alla fine scende dal palcoscenico e percorre l’intera platea insieme a una bambina falcidiata dall’esplosione che in precedenza aveva raccolto da terra e tenuto sulle braccia.
Sul pannello retrostante viene proiettato un passo del sempre commovente cinegiornale Pola addio sull’agonia della città. Quindi lo Spirito riprende il racconto. «Il senso di sconforto – spiega – si diffonde tra la gente per un destino deciso da altri che sta per compiersi». I polesani cercano i chiodi necessari a chiudere i cassoni con le proprie cose e caricarle sul “Toscana”. Ma in Italia che si dice? «Non si ravvisa la necessità di una fuga in massa dall’amica Jugoslavia». Oppure: «Il terrore titino è solo una campagna di menzogne anti-slave». Lo Spirito aggiunge: «La comunità internazionale non si pronuncia. Gli angloamericani stanno a guardare, mentre via via il piroscafo imbarca tutti: artigiani, contadini, insegnanti, pescatori di ostriche e di alghe, e poi gli operai dei cantieri navali di Pola, proprio quei proletari che avrebbero dovuto accogliere il comunismo a braccia aperte. Perfino i partigiani che hanno combattuto tra le fila dei titini, i dipendenti della Fabbrica Tabacchi. Non un grido, non un gesto scomposto. La nostra gente se ne va via così, quasi in punta dei piedi, con la morte nel cuore». Cristicchi completa il racconto cantando in istro-veneto la toccante Coreva andar pel mondo.
Una voce fuori campo legge un articolo de “L’Unità” che definiva «indesiderabili» anche «coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici». Persichetti, di fronte al suo superiore, prende le parti degli esuli: «Ma quali briganti neri?! Ma quali gerarchi!? In Jugoslavia niente beni personali, niente proprietà privata, la Chiesa è repressa. Addirittura la gente ha il terrore di parlare italiano! E questo me lo chiamano “alito di libertà?”. A me pare tanto strano, anche perché per quale motivo dovrebbe scappare dal comunismo l’artigiano, il contadino, l’operaio, chi non ha niente da perdere? Non se ne sono andati perché erano colpevoli di qualcosa o per allucinazione collettiva. Contò di più la paura di sparire o di ritrovarsi stranieri a casa loro. Gli esuli non sono stati espulsi. Però, viste queste premesse, è come se lo fossero stati. Dovevi scegliere se diventare jugoslavo o restare italiano». Persichetti distingue poi fra migranti, che partono con la speranza di ritornare un giorno dopo aver fatto fortuna, ed esuli, per i quali il viaggio è di sola andata. «Ma i comunisti – esclama – non stavano dalla parte degli ultimi? E più ultimi di quelli?». Ricorda infine i quasi 80mila che emigrarono oltre oceano, i 60mila che si fermarono a Trieste e quanti passarono per i tanti scalcinati campi profughi. Infine snocciola alcuni esuli diventati famosi.
Cristicchi continua cantando l’emozionante 1947 di Sergio Endrigo. Poi interpreta un esule che alla stazione di Bologna subì il boicottaggio dei sindacalisti della CGIL, che rimase anni al centro di raccolta di Laterina e che ricorda le donne impiccatesi per disperazione, gli anziani alcolizzati, quanti finirono in manicomio e la piccola Marinella Filippaz morta di freddo a Padriciano. Prosegue cantando la commovente Magazzino 18 e, calatosi nei panni di un “rimasto”, illustra la paradossale condizione di chi veniva chiamato «comunista» dagli uni e «fascista» dagli altri, concludendo: «Siamo ancora italiani!». Racconta anche il controesodo dei monfalconesi, internati sull’Isola Calva a scopo “rieducativo”, e canta con i coristi la suggestiva canzone Noi siamo la classe operaia.
Dopo aver assicurato il suo superiore che la pratica è chiusa e tutto verrà asportato, Persichetti, sinceramente immedesimatosi in «quella gente che ha pagato per tutti», decide un atto riparatorio simbolico: la restituzione all’esule polese Federica Biasiol dei poveri oggetti appartenuti al padre.
Cristicchi, cantando insieme ai coristi una soave ninna-nanna dedicata ad alcune vittime di questa tragedia, enuncia l’11° comandamento: non dimenticare. E conclude collegando l’esodo istriano-fiumano-dalmata ai tanti esodi di oggi.
Dalle polemiche alla catarsi
La trionfale accoglienza di Magazzino 18 da parte del pubblico triestino ha dissolto le polemiche attizzate da Paris Lippi, vicepresidente del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e dirigente di Fratelli d’Italia, a ridosso della prima. «Un mese fa – aveva rivelato su “Il Piccolo” del 19 ottobre – mi è giunta voce che lo spettacolo avrebbe subito alcuni cambiamenti. Così mi sono interessato alla vicenda venendo purtroppo a conoscenza che agli autori è stato suggerito di aggiungere la lettura di una citazione di Boris Pahor che parla del Balkan e la lettura di una poesia recitata da una bambina in sloveno con i sottotitoli in italiano. Sembra che questa versione verrebbe messa in scena solo a Trieste e non sui palcoscenici degli altri teatri d’Italia che ospiteranno lo spettacolo. Uno scandalo». «Questo – aveva esclamato – è uno schiaffo per Trieste, per gli esuli soprattutto. La sinistra chiede libertà di parola e di pensiero ma guai a toccare i suoi nervi scoperti. Cosa c’entrano il Balkan e quella lettura in sloveno? Non c’è stato il coraggio di lasciare in pace quel testo, non si è voluto evitare di prendere ancora a bastonate la dignità e il dolore di chi schiaffi ne ha già presi per tutta la vita».
Il presidente dello Stabile regionale Miloš Budin però non aveva nemmeno visto lo spettacolo. Si era solo accertato che fosse «in linea con le condizioni di unità raggiunte dalla nostra società e che non mettesse a repentaglio la capacità dimostrata da Trieste di superare certe divergenze e lacerazioni». Aveva inoltre detto «a livello di pour parler» che la poesia della bambina slovena gli sembrava un inserimento corretto, ma lungi da lui intromettersi «nella stesura del testo».
Il presidente dell’Unione degli Istriani Massimiliano Lacota aveva subito ritirato l’autorizzazione a usare in scena le immagini da lui prestate a Cristicchi e annunciato di voler disertare insieme a molti suoi iscritti le rappresentazioni, perché «la comunità slovena è riuscita sabotare il primo spettacolo sull’esodo realizzato da un giovane sensibile ed equilibrato».
Critici verso le presunte interpolazioni per “compensare” foibe ed esodo si erano detti Piero Delbello, direttore dell’IRCI, e Sandra Savino, deputata del PDL. Claudio Giacomelli, consigliere comunale di Fratelli d’Italia, e i consiglieri del PDL Paolo Rovis (comunale) e Roberto Dubs (circoscrizionale) avevano chiesto le dimissioni di Budin. Durissimo il commento del coordinatore provinciale di Fratelli d’Italia Fabio Scoccimarro: «Visione giustificazionista degli eccidi slavo-comunisti e dell’esodo. La lettura nella lingua degli aguzzini degli esuli in uno spettacolo che ne ricorda il dramma è una provocazione che alimenta nuovi rancori e divisioni». Piero Tononi, vicecoordinatore provinciale del PDL, aveva parlato di «ignobile censura compiuta da Budin».
Secondo il presidente della Lega nazionale Paolo Sardos Albertini, «se si ricorda l’incendio del Balkan del ’20 si dovrebbe ricordare anche l’incendio della Lega Nazionale, della Ginnastica Triestina e del “Piccolo” il 23 maggio 1915 a opera di facinorosi sicuramente della minoranza slovena».
Renzo de’ Vidovich, presidente della Delegazione triestina dei Dalmati Italiani nel Mondo, aveva espresso indignazione «per la violenza usata nei confronti dello spettacolo» contestando l’interpretazione dell’incendio del Narodni dom fornita da Boris Pahor.
Il sindaco Roberto Cosolini (PD), di fronte alle «solite esibizioni sguaiate che il centrodestra nostalgico deve ritirar fuori non rassegnandosi al fatto che la città è cambiata», aveva invitato Cristicchi «a portare in scena tutto e solo ciò di cui è convinto, in piena libertà, perché questa è una tempesta sul nulla». «A che titolo – si era chiesto – un vicepresidente del Rossetti ha letto il testo in anticipo? Io certo non l’ho fatto. Inoltre la tragedia dell’esodo e delle foibe è di tutta la città, mentre qui assistiamo di nuovo al tentativo di farne il patrimonio di una sola parte. Sia le righe sul campo di concentramento di Arbe e sia quelle sul Balkan mi risultano essere state presenti fin dall’inizio».
«Di quale versione del testo si parla?» aveva incalzato la presidente dell’IRCI Chiara Vigini. «Chi ha visto la prima – aveva detto – non conosce l’ultima. Basta polemiche! Mettono solo una piccola parte contro un’altra piccola parte».
Il Comitato Trieste Pro Patria aveva condannato «chi preme sull’autore per introdurre nello spettacolo frasi di un personaggio noto per le tesi giustificazioniste e revisioniste in senso riduttivo del dramma delle foibe», ma aveva annunciato di voler essere presente alla “prima”, invitando a «ignorare le provocazioni, a non cadere nel tranello di chi vorrebbe che dello spettacolo si parlasse solo per eventuali contestazioni».
Il presidente di FederEsuli Renzo Codarin e l’esponente del patriottismo democratico Stelio Spadaro avevano espresso contrarietà alla citazione di Pahor, in quanto nazionalista, ma non alla poesia della bambina slovena.
«Mi infastidisce – ha detto Boris Pahor – essere definito nazionalista perché non è vero e ugualmente non è vero che non ho mai scritto o parlato degli esuli. Ho cominciato nel 1961 nella rivista “Trieste”, e negli ultimi anni sul “Piccolo”. Ho rappresentato il tema anche nella novella Postanek na Ponte Vecchio. Come scrittore, umanista e sloveno capisco bene la loro sofferenza. Al tempo del fascismo abbiamo avuto anche noi i nostri esuli. È vero che venivano considerati dei fascisti e non si sentivano più a casa nelle proprie città».
I pacati chiarimenti di Cristicchi
Il 21 ottobre, nella conferenza stampa di presentazione dello spettacolo, Simone Cristicchi aveva fatto chiarezza.
«Gradirei molto di più – aveva affermato – se venissi criticato sull’aspetto artistico (perché le critiche possono solo far bene a un artista) più che su questioni che sinceramente credevo fossero superate. Sulle foibe per esempio, tema ancora oggi spinoso da queste parti, ma possiamo dire in tutta l’Italia. Sulle foibe c’è un capitolo, come tutti si aspettano. Ma una gran parte dello spettacolo è dedicata a quelli che ho chiamato “i morti di esodo”, ovvero le persone che non compaiono in nessuna contabilità dei foibologi, tutti quelli che sono morti successivamente all’esodo: i padri che si lasciarono andare, che non ebbero la forza di ricominciare e si uccisero con l’alcol; le madri che si impiccarono perché sentivano la nostalgia di una terra nella quale non sarebbero mai più tornate; Marinella Filippaz, morta di freddo a un anno nel campo profughi di Padriciano. Basterebbe citare queste tre cose per cancellare questi tre giorni di polemiche sulla strumentalizzazione di uno spettacolo in cui si è dato per scontato che io non sia un artista libero. Questa cosa mi ferisce molto».
«Io chiaramente – aveva continuato – mi sono dovuto fare un’idea, venendo da Roma ed essendo un esterno, e quindi ho avuto l’opportunità e probabilmente anche il buon gusto di ascoltare tutte le voci di questa storia. Alla fine ho deciso di dare voce ai testimoni, come ho sempre fatto nei miei spettacoli, senza dare un giudizio a priori. Io lascio in questo testo che il pubblico si faccia un’idea, ma non soltanto quello triestino. Non dimentichiamoci che questo spettacolo poi andrà in giro in tutta l’Italia, dove veramente Giuliano Dalmata viene scambiato per il nome di un signore, di un politico, di un letterato. Questa è la realtà a cui noi vogliamo supplire. E’ uno spettacolo questo che ha acceso gli animi perché il mondo degli esuli lo attende da sessant’anni. E ne sono consapevole. Però è un omaggio alle vittime in generale di questi uragani della storia. Chiaramente non esiste soltanto l’esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati. Nello spettacolo ci sono dei riferimenti chiari all’attualità, a quello che i nostri ragazzi, i nostri figli vedono nei telegiornali, a quello che sta accadendo a Lampedusa. Lo spettacolo è una metafora anche di un qualcosa che sta accadendo ora. Quelli che arrivano sulle nostre coste sono esuli, non soltanto poveracci, disperati. Hanno visto la loro terra trasformarsi e si sono visti costretti a lasciarla per colpa della fame, della povertà, della guerra, dell’odio razziale. Questo credo sia il senso profondo dello spettacolo, ovvero non dimenticare che quello che si è vissuto nel nostro Paese sta accadendo in altri Paesi, è sempre accaduto nella storia dell’umanità».
«Riguardo alla stesura del testo – aveva precisato l’autore-interprete di Magazzino 18 – io mi riservo fino a stasera e probabilmente anche fino a domani di ritoccare qualcosa qua e là perché la costruzione di uno spettacolo è così. Fino all’ultimo anche la regia potrà avere degli stravolgimenti, così come è successo per le frasi di Boris Pahor, che insieme al regista ho reputato giusto evitare più che altro per una questione stilistica, visto che non ci sono altre citazioni di scrittori nel testo, ma soltanto citazioni di persone semplici, non importanti. Così come ho reputato giusto togliere un riferimento alla figura di Maria Pasquinelli, che per l’estrema destra è diventata un’icona. Questi due personaggi non creavano equilibrio, non creavano qualcosa di scorrevole nella storia, ma forse avrebbero installato nello spettatore un altro pensiero, più politico. Ho deciso così nella stessa misura di non citare la Pasquinelli perché anche lei figura oscura che crea contrasti. Il contrasto non dev’esserci in questo spettacolo».
«Non mi aspettavo – aveva aggiunto – un’affluenza così imponente in prevendita. La prima è già esaurita da diverse settimane e gli altri giorni si stanno riempiendo. Vengono pullman da Milano, da Torino, dall’Istria, dalla Croazia, dalla Slovenia. In questo teatro affluiscono anche persone che purtroppo non avranno l’opportunità di vederlo nella loro città. Questo per scelte di cautela da parte di alcuni direttori artistici. Credo che si ricrederanno quando lo vedranno messo in scena. La cosa che mi rende molto felice è fare quattro repliche [poi ridotte a tre] in dicembre a Fiume, Umago, Rovigno e Pola. Questo è un evento non voglio dire storico, però importante per la comunità degli italiani che sono ancora lì. Ringrazio l’Università Popolare di Trieste che l’ha permesso. La tournée proseguirà un po’ per tutta l’Italia. Mancano all’appello alcune città importanti come Torino, Milano, come Genova, come Napoli. E quindi ci dovremo fare le ossa nel frattempo in attesa che questo spettacolo possa avere una visibilità maggiore. Ma me l’aspettavo, visto che anche nel resto d’Italia alcuni pensano che sia pericoloso per certi versi».
Il clima si rasserena
I sinceri chiarimenti di Cristicchi hanno rasserenato il clima inducendo Lacota, alle 15.40 del 22 ottobre, ad autorizzare nuovamente l’uso delle immagini in scena «dopo aver avuto conferma delle rettifiche, in più punti, del copione». Polizia e Carabinieri hanno comunque presidiato l’ingresso del Politeama, ma non si sono verificate contestazioni.
Al termine dello spettacolo tutto il pubblico si è alzato in piedi ad applaudire con insistenza per una decina di minuti. I non pochi esuli o loro discendenti, giunti anche da altre parti d’Italia, hanno così inteso ringraziare di cuore Cristicchi per averli raccontati con onestà, idealmente abbracciati con affetto e accarezzati con delicatezza, reintegrandoli nella coscienza nazionale anche a livello del grande teatro. Ma la catarsi finale ha investito tutti i 1.500 spettatori, di ogni età e di varia provenienza. Tra questi anche diversi connazionali dall’Istria, in particolare da Umago e Buie. In platea gli attivisti del movimento “Trieste Pro Patria”, hanno intonato l’Inno di Mameli esibendo bandiere italiane e istriane. Il successo della prima, andato al di là delle più rosee previsioni, ha fatto svanire di colpo tutte le polemiche, che avevano comunque sortito l’effetto di attirare l’interesse dell’opinione pubblica.
Unanimi giudizi positivi
«Questo lavoro che una volta avrebbe diviso la città – ha commentato il sindaco Cosolini – ora la unisce. Ci siamo tutti commossi». La presidente della Provincia Maria Teresa Bassa Poropat si è augurata che giri tutta l’Italia. Soddisfattissimo Miloš Budin, poiché Magazzino 18 ha attirato e convinto anche persone lontane dalla vicenda degli esuli.
Secondo il presidente nazionale dell’ANVGD Antonio Ballarin, quello di Cristicchi è «uno spettacolo unico nel suo genere, poiché è in grado di trasferire emozioni e conoscenza per una vicenda dolorosa e negata», di trasmettere, «anche alle persone più semplici o distanti dagli eventi che hanno segnato un intero popolo, un desiderio per una verità a lungo taciuta ed un’urgenza di giustizia ad oggi negata». Magazzino 18 «ha segnato e segnerà un momento storico».
Il presidente della Giunta esecutiva dell’Unione Italiana Maurizio Tremul l’ha definito uno spettacolo equilibrato, privo di omissioni, dove l’autore-interprete si è mosso con delicatezza senza offendere nessuno. Secondo Floriana Bassanese Radin, presidente dell’Assemblea dell’UI, Cristicchi ha saputo parlare di tutti: esuli e rimasti, sloveni e croati. Alessandra Argenti Tremul, giornalista e storica, ha giudicato Magazzino 18 emozionante e storicamente corretto.
Il tutto esaurito, gli applausi e le ovazioni si sono ripetuti nei giorni successivi, con la presenza di un numero ancora maggiore di giovani, tanto che è stata aggiunta una replica la sera del 27 ottobre. 8.343 gli spettatori complessivi. Molti, al termine di ogni rappresentazione, hanno fatto la fila per andare a complimentarsi con Cristicchi. Fra questi, Silvio Mazzaroli, assessore del Libero Comune di Pola in Esilio, e Paolo Radivo, direttore de “L’Arena di Pola” e segretario dell’LCPE, che gli hanno rinnovato l’invito a partecipare al Raduno del 15-18 maggio 2014. Il generoso cantante-attore ha espresso l’auspicio di poter rappresentare lo spettacolo all’Arena di Pola. Hanno incontrato Cristicchi anche alcuni studenti della Scuola Media Superiore Italiana “Leonardo da Vinci” di Buie.
Il vice-presidente di FederEsuli Lucio Toth ha esortato i direttori artistici dei maggiori teatri italiani, «ancora convinti – per ignoranza e paura – che l’argomento dell’esodo degli italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia sia un tabù da rispettare, chinando la fronte nella polvere dell’ignavia, una “cosa di destra”». Secondo il senatore, «l’esito dello spettacolo a Trieste e il suo enorme successo di pubblico, le critiche positive della stampa locale l’adesione alla rappresentazione delle autorità cittadine, l’entusiasmo del presidente del “Rossetti”, il triestino sloveno Miloš Budin, uomo di sinistra, amico della verità storica e animato da un profondo desiderio di pacificazione e di ricomposizione della memoria, dovrebbero fugare in ogni mente lucida e rispettosa della libertà dell’arte ogni timore di strumentalizzazione politica. Animo, direttori artistici d’Italia, un po’ di coraggio! Se volete portare nei teatri un rèfolo di aria fresca e vederli di nuovo pieni...».
Il 24 ottobre i presidenti dell’Unione degli Istriani, della Lega Nazionale e della Delegazione triestina dei Dalmati Italiani nel Mondo hanno tenuto una conferenza stampa congiunta. Massimiliano Lacota ha dichiarato che le sue critiche erano servite a rendere il testo più equilibrato. «Lo spettacolo – ha detto Paolo Sardos Albertini – è ottimo e mi ha davvero emozionato. Non avrei mai pensato di assistere a una rappresentazione così chiara e organica delle nostre vicende dove il punto di forza è proprio quello di far sentire il vissuto. È importante che venga veicolata in tutta Italia, ma auspico che possa essere trasmessa anche dalla tv pubblica». Renzo de’ Vidovich ha auspicato che Magazzino 18 sia messo in onda dalla Rai in occasione del 10 febbraio 2014 «perché sostanzialmente equilibrato, valido, efficace e commovente». L’unica piccola omissione è la chiusura delle scuole italiane in Dalmazia. «Lo spettacolo – ha dichiarato Paris Lippi – è bello e coinvolgente, ma manca il rispetto per la nostra storia. Le cause che hanno portato al dramma dell’esodo e delle foibe sono state trattate in modo semplicistico: non si capisce perché, anche a distanza di 60 anni, bisogna sempre inserire qualcosa che deve giustificare quello che è successo».
Il 25 ottobre, nell’aula magna della Scuola media “Dante Alighieri”, Cristicchi ha inframmezzato con tre sue canzoni e un finale a sorpresa una lettura teatrale di testi scritti da Gabriella Chmet su Fulvio Tomizza letti da sei studenti delle classi terze, per iniziativa della prof.ssa Chiara Vigini. Poi ha visitato la sede dell’Università Popolare di Trieste, dove il presidente Silvio Delbello lo ha informato sulla condizione dei connazionali in Slovenia e Croazia e soprattutto sulle scuole italiane. Lo stesso Delbello aveva proposto all’UI di destinare l’aumento del contributo ordinario della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia alla nostra minoranza per consentire la messa in scena di Magazzino 18 in Istria e a Fiume.
Il 30 ottobre Cristicchi è stato intervistato insieme a Piero Tarticchio durante la trasmissione di Rai 1 La vita in diretta.
Il 12 novembre il sindaco Cosolini ha consegnato all’artista con «stima, gratitudine e affetto» la targa ufficiale del Comune «quale segno di riconoscenza per lo spettacolo Magazzino 18, lucida e delicata testimonianza dei dolorosi trascorsi delle nostre genti». «L’applauso finale del pubblico – ha sostenuto Cosolini – è stato liberatorio, come se si fosse tolto un peso da una vicenda triste, dolorosa e drammatica, oggetto di rimozione, divisione e giustificazionismi a seconda dei tempi e delle convenienze. Abbiamo fatto un ulteriore passo avanti nel riconoscimento di questa grande tragedia, che appartiene a tutta l’Italia. Sul dolore Simone ha saputo con rispetto costruire un messaggio positivo per il futuro, ben rappresentato dai bambini nei momenti collettivi». L’artista ha lodato l’atto di coraggio compiuto dal Teatro Stabile, ribadendo che il presidente Budin gli ha lasciato una libertà «enorme» e il regista Calenda lo ha fatto diventare un vero attore. Ma il grazie più grande è andato alla madre che, ricoverata per un ictus, lo aveva esortato ad andare in scena quando lui invece avrebbe voluto lasciar perdere per assisterla.
Le prossime messe in scena
Magazzino 18 verrà rappresentato, in versione “da tour” con coro e orchestra registrati, il 14 novembre al Cinema-Teatro “Ai Portici” di Fossano (CN), il 15 novembre al Teatro “Il Mulino” di Piossasco (TO), il 3 e 4 dicembre al Teatro “Ariosto” di Reggio Emilia, il 5 al Teatro Sociale di Bellinzona (Svizzera), il 6 al Teatro delle Scuderie Granducali di Seravezza (LU), il 7 al Teatro di Castelnuovo Berardenga (SI), il 9 dicembre al Teatro “Tartini” di Pirano (Slovenia), il 10 alla Comunità degli Italiani di Pola, l’11 al Teatro cittadino di Umago (Croazia), il 15 al Teatro Comunale di Santeramo in Colle (BA), dal 17 al 22 dicembre al Teatro “Sala Umberto” di Roma, il 29 gennaio al Teatro “Farinelli” di Este (PD), il 1° febbraio al Teatro Politeama di Boglione di Brà (CN), l’8 marzo al Teatro “Goldoni” di Corinaldo (AN), il 9 marzo al Teatro “Mugellini” di Potenza Picena (MC) e il 13 marzo, nuovamente in versione originale, al Teatro “Verdi” di Gorizia.