La Gazeta Istriana a cura di Stefano Bombardieri

37 - Mensile Spazio Italia Montevideo Marzo 2011 "Giorno del Ricordo" L'Italia: una Patria per tutti - Intervista a Furio Percovich

38 -AUT AUT trimestrale 03 - 2011 Antislavismo, razzismo di frontiera? (Marta Verginella)

39 - La Voce in più Dalmazia 14/05/11 Profughi zaratini in Valbormida: la storia delle famiglie Goich e Zmichich

40 - La Voce del Popolo 03/04/11 Rozzo, una storia antica e un futuro incerto (Mario Schiavato)

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37 - Mensile Spazio Italia Montevideo Marzo 2011 "Giorno del Ricordo" L'Italia: una Patria per tutti - Intervista a Furio Percovich

EVENTI

"Giorno del Ricordo"

L’Italia: una Patria per tutti

Si é svolta, giovedì 10 febbraio, al Consolato di Montevideo, la commemorazione del "Giorno del Ricordo". Questo Giorno, istituito dalla legge italiana (nº 92) il 30 marzo 2004, fa allusione alla sofferenza di un territorio multiculturale che ha vissuto eventi drammatici che hanno cambiato la storia. Lo scopo: "(…) conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degliistriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale".

Nell’incontro al Consolato hanno tenuto dei brevi discorsi, riferendosi a questo "Giorno del Ricordo", la Console d’Italia in Uruguay, Gaia Lucilla Danese, l’Ambasciatore italiano in Uruguay, Massimo Andrea Leggeri, il Nunzio Apostolico, Anselmo Guido Pecorari, le autorità del Circolo Giuliano e il signor Furio Percovich.

Discorsi ricchi di sentimenti ed emozioni. Erano anche presenti il direttore dell’ Istituto Italiano di Cultura di Montevideo, Prof. Francesco Jurlaro, il direttore della Scuola Italiana di Montevideo, Comm. Giovanni Costanzelli, altre autorità vincolate alla cultura italiana, giornalisti e pubblico in generale.

Spazio Italia ha avuto l’opportunità di parlare con Furio Percovich, esule fiumano, per ricordare e dare un messaggio di speranza e futuro ai giovani tanto italiani quanto uruguaiani.

Spazio Italia: Da quanto tempo abita in Uruguay?

Furio Percovich: Da 60 anni.

SI: Perché ha scelto come paese d’esilio l’Uruguay?

FP: Dopo la guerra non c’era lavoro. Un industriale [Luigi Ossoinack] che a Fiume aveva un pastificio ha dovuto emigrare. In ottobre del 1949 con il suo capitale e sette dei suoi collaboratori è venuto a Montevideo per fondare il Pastificio Adria. Prima è venuto con i tecnici, hanno fatto la fabbrica e dopo, tra il 1949 e il 1950, sono venute le famiglie. Nella nostra famiglia prima è partito mio padre e poi, in luglio del 1950, siamo venuti noi: mia madre e 4 figli. Ho cominciato a lavorare subito nel pastificio per cinque anni (dal 1950 al 1955) e poi venni assunto dalla filiale locale di una Banca italo-francese finchè sono andato in pensione nel 1993.

SI: Che cosa ha significato per Lei vivere in Uruguay?

FP: Un’avventura e anche cercare un avvenire. Ricordo che mio padre pensava di poter lavorare una decina d’anni per risparmiare un po’ e così poter ritornare a vivere in Italia. In quell’epoca in Italia c’era il dopoguerra e non esisteva lavoro per tutti. Però mio padre è morto giovane, nel 1957, e ci siamo stabiliti definitivamente qui…

SI: Cosa sono le foibe?

FP: Nel terreno dell’Istria esiste una roccia calcarea che viene corrosa dall’acqua. Nella roccia l’acqua della pioggia da secoli fa delle fenditure che hanno un diametro di tre o quattro metri e sono profonde anche fino 200 metri. Così si sono formate queste cavità naturali che hanno forma di imbuto. Erano, diciamo, un deposito d’immondizie e in quel deposito gettarono le vittime.

SI: Come era la vita in quei giorni?

FP: Moltissimi hanno sofferto la perdita di familiari, dei loro beni, il pellegrinaggio nei Campi Profughi, durato anche vari anni. La maggioranza degli esuli avevano molte difficoltà per trovare lavoro e casa nell’Italia disastrata del dopoguerra. Il governo dava un alloggio provvisorio in attesa di trovare un lavoro. Alcuni, pochi, trovavano il lavoro subito soprattutto quelli che erano impiegati dallo stato. Molti dovevano aspettare l’opportunità e sonodovuti rimanere nei Campi Profughi per vari anni fino a che a poco a poco hanno trovato lavoro e dopo la ricostruzione dell’Italia, il governo ha fatto le case anche per loro.

Quelli che non hanno voluto aspettare, sono stati aiutati da una organizzazione delle Nazioni Unite chiamata IRO (International Refugee Organisation) che coordinava l’emigrazione dei profughi per andare in Australia oppure nell’America. Però questo lo facevano soltanto per chi veniva da oltre la Cortina di Ferro, non per i cittadini italiani. Allora i profughi italiani che non trovavano lavoro hanno dovuto pagare il prezzo di dover rinunciare alla Cittadinanza Italiana per poter poi essere inviati dall’IRO in Australia o America. Alcuni se ne sono andati incluso come cittadini jugoslavi e in quel momento, per noi, quello era un controsenso.

SI: Quante persone sono emigrate?

FP: Nella Venezia Giulia vivevano circa 500.000 persone di razza latina, slava e anche austriaca. Dopo la Seconda Guerra Mondiale quasi tutta la popolazione di lingua e cultura italiana ha dovuto emigrare. Sono state circa 225.000 persone che sono emígrate, più altri 25.000 rientri in Patria di funzionari dello stato e militari di origine peninsolare e altri 35.000 circa di esuli croati, sloveni, già residenti nella Venezia Giulia, ma contrari al Regime Jugoslavo. Quindi, lo spostamento globale di popolazione dai territori ceduti verso l’Italia è stimato in circa 285.000 persone italiane e slave.

SI: E le persone che sono rimaste?

FP: In questa zona [ Venezia Giulia] sono rimasti circa 30.000 italiani: molti perchè erano comunisti ma molti sono rimasti per altri motivi. Alcuni perché il Regime Jugoslavo cercava di non restare senza personale qualificato perciò molte di queste persone, che volevano optare per la cittadinanza italiana ed andare via, non poterono uscire causa l’opzione respinta. Altri, invece, non avevano avuto il coraggio di andare all’avventura. Non tutti sono rimasti perchè erano comunisti.

Nei primi venti o trent’anni dopo la guerra si diceva che tutti quelli che sono rimasti erano comunisti e che invece tutti quelli che se ne sono andati erano fascisti. Poi poco a poco hanno cominciato a scoprire perché le persone sono rimaste o sono andate via. I nostri figli sono cresciuti all’estero e noi cerchiamo di mantenere le relazioni con gli italiani che sono rimasti lì.

Perché, come ha detto lo scrittore esule fiumano Diego Zandel, le generazioni attuali di italiani, croati e sloveni non sono responsabili dei fatti di ieri...

SI: Dopo il Trattato di Pace di Parigi e la cessione di parte della Venezia Guilia alla Jugoslavia di Tito immagino che questa situazione si sia intensificata…

FP: In quest’occupazione hanno ucciso molti italiani. Alcuni sono stati uccisi dal governo di Tito altre per vendette personali (contadini contro padroni). Ma anche molti croati e sloveni, una volta che le terre sono state occupati dai partigiani di Tito, sono emigrati perché erano contrari al comunismo e alla politica di Tito. Non sono morti solo italiani, anche croati e sloveni che erano contro il regime. A proposito dell’Esodo c’é stato anche un controesodo.

Nel 1946-1947 sono andati in Jugoslavia molti Comunisti Italiani che volevano conoscere il "Socialismo di Tito" per poi introdurlo in Italia. La maggior parte erano i "Monfalconesi", operai dei Cantieri Navali di Monfalcone, "benvenuti" perché rimpiazzavano i nostri che se ne andavano dal Cantiere di Fiume. Peró nel giugno 1948 c’é stata l’espulsione di Tito dal Cominform di Stalin.

Perció i Comunisti che rimasero fedeli allo Stalinismo ortodosso (sia Jugoslavi che Italiani-Monfalconesi) furono inviati al Campo di "Rieducazione" dell’ "Isola Calva" ( Goli Otok ) cioé un "gulag" in una piccola isola della Dalmazia dove molti morirono di fame e maltrattamenti.

SI: Perchè è importante avere un "Giorno del Ricordo"?

FP: È importante nel senso di poter informare, non dimenticare e far conoscere ai giovani questa storia perché fino a poco tempo fa non c’erano pagine che parlassero di questo episodio. Per i libri di scuola era finita la guerra e punto.

SI: Perchè?

FP: Per convenienza dei partiti politici. I partiti di destra non volevano che si sapesse quello che aveva fatto il fascismo in quella regione. I comunisti, invece, non volevano che se sapesse tutto quello che aveva fatto il comunismo. Quindi si sono messi d’accordo: stiamo zitti e non ne parliamo più. Poi Fini e Violante alcuni anni fa, a Trieste hanno fatto un incontro e hanno chiarito le cose. Hanno messo tutto all’aria aperta e si è incominciato a parlare. Adesso nei libri di storia questo episodio esiste. È importante sapere quello che è successo per evitare che si ripeta.

SI: Quest’anno il "Giorno del Ricordo" coincide con 150º Anniversario dell’Unità d’Italia, come si fa per ricordare insieme questi fatti storici?

FP: Non si può non notare l’apparente freddezza con cui si prepara la ricorrenza del 150º Anniversario dell’Unità d’Italia. Fra altri motivi ci dovrebbe essere anche l’imbarazzo dovuto alla coscienza che si tratta oggi di celebrare una "Unità Monca" e che si dovrebbe tener presente che in questa Unità manca una regione. L’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 ed il Trattato di Pace del 1947 hanno reso vane le sofferenze, i morti delle battaglie sul Carso, è stato perso tutto. I confini con la Slovenia sono ritornati, chilometro più, chilometro meno, a quelli del 1866, dopo la battaglia di Lissa, ma ce ne rendiamo conto? Sul confine orientale, Gorizia, Monfalcone e quei pochi chilometri quadrati attorno Trieste, sono tutto quello che ci resta. Nel 2011 Nazario Sauro si girerà nella tomba e non solo lui.

Il "Giorno del Ricordo" del dramma degli Esuli d’Istria, di Fiume e di Dalmazia è un momento che evidenzia come la ferita all’Unità sognata dai nostri Padri Risorgimentali è ancora viva e non rimarginata. Speriamo che le bandiere degli Esuli per l’ Anniversario siano listate a lutto per segnare una "Unitá Monca" , un’ "Unità Perduta".

Si può essere Europei e sinceri amici dei popoli nuovi che entrano in Europa, senza per questo far finta di niente. Abbiamo perso una guerra sbagliata, abbiamo recato sofferenze ad altri popoli ,abbiamo accettato un "Trattato di Pace" con le mutilazioni territoriali imposteci. Non si tratta ormai di rivendicazioni, né di nazionalismi assurdi in una Europa Unita, ma ci sia lecito ricordare l’Istria, la Dalmazia e Fiume, come si ricordano in famiglia parenti perduti per sempre, ma di cui si conserva con amore e rispetto la memoria, e non dimenticare i nostri Confratelli ancora "Residenti" in quelle terre che tramandano la cultura e i valori della nostra Patria Italia.

38 -AUT AUT trimestrale 03 - 2011 Antislavismo, razzismo di frontiera?

Antislavismo, razzismo di frontiera?

MARTA VERGINELLA

L'antislavismo italiano ha assunto sembianze tipiche del razzismo o si è trattato piuttosto di un atteggiamento derivante dal fenomeno nazionalistico, caratterizzato da pregiudizi antichi e in parte legati al rapporto tradizionale tra le città italofone dell'alto Adriatico e la campagna slava? Per capirlo bisogna analizzare gli elementi costitutivi della politica antislava, prima propagata dagli ambienti liberal-nazionali giuliani e in seguito sostenuta e realizzata dal fascismo di frontiera, promotore sin dalla sua ascesa al potere di una italianizzazione forzata delle popolazioni slovene e croate residenti nell'ex Litorale austriaco, territorio annesso al Regno d'Italia dopo la fine della Prima guerra mondiale con il nome di Venezia Giulia. In quest'area multietnica e multilingue convissero dal Medioevo in poi sotto lo scettro degli Asburgo le popolazioni di lingua italiana, slovena, croata e tedesca.

I flebili moti rivoluzionari del Quarantotto e le prime rivendicazioni nazionali delle principali etnie residenti sul territorio non modificarono in sostanza il rapporto interetnico. A innescare forti competizioni tra le rappresentanze politiche degli opposti schieramenti nazionali fu invece l'articolo 9 delle leggi fondamentali del 1867 che riconobbe a ogni etnia dell'Impero asburgico il diritto d'uso pubblico della propria lingua negli uffici e nelle scuole. Il permesso di introdurre accanto al tedesco, lingua ufficiale dell'Impero, e all'italiano, lingua parlata principalmente nelle città del Litorale austriaco, anche lo sloveno o il croato, lingue minoritarie nei centri urbani, ma predominanti nei distretti rurali, innescò battaglie politiche interessate a mantenere, o viceversa a mutare, il primato nazionale nella sfera pubblica.

I pochi intellettuali che nell'età dei lumi e ai primi dell'Ottocento erano convinti assertori della convivenza tra italiani e slavi, come per esempio il filologo di origine dalmata Nicolò Tommaseo,1 furono qualche decennio più tardi del tutto isolati, superati dagli eventi e dalle idee che propagavano identità nazionalmente univoche e programmi che promettevano società nazionalmente omogenee. Nella periferia meridionale dell'Impero asburgico il passato storico divenne il campo di misurazione della continuità storica della singola etnia e terreno di dimostrazione dell'altrui usurpazione e infiltrazione.

I miti fondativi servirono a rimodellare il passato nazionale2 e con essi i promotori dei movimenti nazionali affermavano la continuità della propria nazione dall'antichità in poi. L'invenzione della tradizione nazionale avveniva nell'area alto-adriatica nei modi e nei tempi tipici del contesto mitteleuropeo: l'obiettivo degli attori nazionali era compattare le proprie comunità per renderle meno instabili e delineare confini meno porosi.3 Per rinsaldare le proprie file nazionali in un contesto in cui l'appartenenza non era mai scontata, anzi necessitava di una continua conferma, l'altro veniva trasformato in una fonte inesauribile di disagio, diventava l'onnipresente nemico, poiché era proprio l'altro a rendere incerta l'identità nazionale della propria comunità, a complicare il rapporto con il potere centrale e a rendere insicuri lo stesso futuro dell'intera area di confine nonché la sua appartenenza statuale.

Nonostante la similitudine dei discorsi argomentativi proposti dai singoli schieramenti nazionali, presenti nell'area alto-adriatica, la costante polemica con lo schieramento concorrente e la tendenza assai comune di stereotipizzare l'altro, non vanno sottovalutate alcune differenze di fondo tra i vari attori nazionali: innanzitutto i rapporti di forza che si stabilirono nella sfera pubblica tra maggioranza e minoranza, tra chi riusciva a interagire con il centro politico, Vienna, e chi invece rimaneva relegato a un'azione locale o regionale. In questo contesto lascerò da parte l'analisi dell'anti-italianità slovena e croata,4 per soffermarmi più estesamente invece sull'atteggiamento antislavo storicamente radicato in quel modello di dominio veneto dell'area adriatica, fortemente caratterizzato da un rapporto coloniale della classe dominante veneta con le terre istriano-dalmate, contaminato però anche dalla modernità e dall'età illuminista, ovvero da quelle idee che dalla fine del Settecento in poi dettavano nuovi modelli comportamentali, tra cui anche il bisogno di classificare società e uomini. Per i ceti istruiti della società giuliana e dalmata di lingua italiana che ritenevano di far parte dell'Occidente, le popolazioni slave diventarono civiltà inferiori, provenienti come tutti i popoli barbari dall'Oriente e perciò poste al gradino più basso delle civiltà.5


La visione dello slavo come uomo vicino allo stato di natura, non corrotto dalla civiltà, il buon selvaggio, non fu però adottata soltanto da qualche singolo pensatore illuminista o viaggiatore, come Alberto Fortis.6 In forma di pregiudizio si diffuse dall'alto verso il basso soprattutto nella società cittadina istriano-dalmata, penetrando persino negli ambienti di recente immigrazione slava, fino a diventare un elemento caratterizzante dell'immaginario collettivo borghese e urbano in tutta l'area alto-adriatica.7

Dopo il periodo rivoluzionario del 1848 lo stereotipo si adeguò alla nuova realtà: nella pubblicistica patriottica italiana dell'Istria e delle città dalmate lo slavo veniva sempre più spesso rappresentato come il barbaro incolto, rozzo, primitivo nella lingua e nelle sue idee. Qualche decennio più tardi quando per ragioni sociali, economiche e culturali non potè venire trattato esclusivamente come tale, subì un altro cambiamento: accanto allo stereotipo dell'invasore e dell'usurpatore gliene si affibbiò un altro, quello del sovvertitore ideologico, che per certi versi fu complementare a quella figura del mestatore arrivato dall'esterno, capace di suscitare "un odio di razza" (contro gli italiani) fino ad allora inesistente tra l'umile popolo delle campagne.8 Nel corso del Novecento, soprattutto durante il ventennio, sopraggiunse lo stereotipo dello slavo comunista che dopo la fine della Seconda guerra mondiale mutò in quello di slavocomunista infoibatore.


Fino alla dissoluzione della monarchia asburgica la classe dirigente liberal-nazionale italiana, detentrice dell'egemonia politica e culturale nel Litorale austriaco, pretese l'esclusivo predominio della sfera pubblica, rivendicando la superiorità della nazione italiana, portatrice di cultura e progresso. Nell'ultimo ventennio dell'Ottocento la componente italiana andava perdendo la capacità di assimilare le masse di croati e sloveni immigrate in città e soprattutto non riuscì a contrastare con efficacia la crescita del ceto medio slavo, promotore di un associazionismo culturale ed economico capillare, capace di modificare i rapporti di forza anche nelle realtà urbane, governate dal partito liberal-nazionale italiano.

L'ascesa della società slovena a Gorizia e a Trieste e di quella croata nelle città istriane e dalmate contribuì a diffondere apprensione e paura tra coloro che tolleravano la presenza delle classi inferiori slave nel contesto urbano, facendo entrare per esempio la servitù slava nelle loro case, ma erano contrari a ogni avanzamento della popolazione di lingua slovena o croata nella sfera della cittadinanza, ritenuto essenzialmente come un'invasione o deturpazione della "vera natura" delle città e delle stesse terre irredente.


A questa paura cercò di dar risposta Ruggero Timeus (1892-1915),9 noto anche con il nome di Ruggero Fauro, iniziatore di quello che venne chiamato il "nuovo irredentismo",10 propugnatore della liberazione delle terre irredente non più "in nome di un ideale nazionale, e non più in nome di un ideale democratico! "11 ma in una prospettiva di dominio italiano esteso a tutta l'area adriatica. La questione adriatica andava risolta a suo avviso al di fuori dell'Austria, riportando l'Italia nelle terre a suo tempo veneziane e rendendola unica padrona dell'Adriatico.
Di Timeus sovente si ama ricordare la sua appartenenza a quella "generazione d'avanguardia" che in un territorio di confine, appartenente all'Impero asburgico, aveva maturato "una possibile funzione per l'italianità della Giulia"12 ed elaborato quel programma di irredentismo culturale che prevedeva nella concezione di Scipio Slataper, oltre alla difesa della nazione italiana, anche la funzione di mediazione nei confronti dell'Italia "delle realizzazioni culturali della Slavia e della Germania",13 ma che nella versione timeusiana non lasciava spazio per alcun tipo di mediazione interculturale. A suo avviso le civiltà procedevano "non per gli accordi, ma per le lotte delle razze".14


A differenza dei giovani intellettuali triestini, collaboratori di "La Voce", come i fratelli Stuparich, Scipio Slataper e lo storico Angelo Vivante,15 egli cavalcò l'intransigenza nazionale ritenendo improponibile qualsiasi tipo di conciliazione con il mondo tedesco e slavo.16 La lotta nazionale era per lui l'unico fenomeno importante della provincia giuliana, poiché al di fuori di essa non vi poteva essere alcun interesse collettivo.17 Allontanandosi dagli ambienti liberal-nazionali, rimasti difensori degli interessi italiani nella compagine asburgica, e da quelli vociani, inclini alla tradizione democratica e risorgimentale italiana, preferì identificare la lotta nazionale con l'idea di potenza e di espansione. La missione dell'Italia non era più promuovere i valori democratici ma superarli in favore di uno stato forte, in grado di conquistare e dominare.18


Negli articoli pubblicati su "L'Idea nazionale" Timeus dava per scontata la disuguaglianza tra gli individui appartenenti alla razza italiana e a quella slava e dichiarava ineluttabile il combattimento tra di esse: "Con gli slavi la lotta elettorale non esiste. Tra i due eserciti nemici, di razza e di lingua differente, tra due nazioni che si combattano fino allo sterminio non può esserci polemica".19 La lotta nazionale intesa come fatalità trovava il suo compimento nella sparizione completa di una delle due razze in lotta: "Se il governo dominante nelle nostre terre rimane l'austriaco, tutte le lotte e tutte le tregue finiranno a nostro danno; se una volta avremo la fortuna che il governo sia quello della patria italiana, faremo presto a sbarazzarci di tutti questi bifolchi sloveni e croati, che appoggiati dal denaro boemo e dalle baionette austriache ci sembrano tanto pericolosi".20

La sconfitta del pericolo slavo poteva avvenire soltanto attraverso l'annessione delle terre irredente al Regno d'Italia e con il distacco completo degli slavi dei territori del Litorale austriaco dal resto della popolazione slava.21 In attesa di questa sconfitta finale spettava all'educazione nazionale, ovvero alla scuola italiana, un ruolo fondamentale. Il sentimento nazionale italiano doveva maturare insieme alla coscienza di un distacco completo e inconciliabile con l'altra razza. Gli slavi non dovevano essere amati, perché stranieri, italofobi, clericali e politicamente miopi, di fatto "non umani". L'umanità a Trieste era per Timeus sinonimo di italianità.22


In questa prospettiva, a essere visti come i più pericolosi per l'italianità giuliana non erano gli slavi bifolchi, "individui senza una cultura, né una storia, né un programma politico, né postulati sociali",23 ma gli "emigrati" che la società italiana non riusciva ad assimilare, coloro che contribuivano a far crescere "una piccola città slava nella grande città italiana".24 Alla base del paradigma antislavo di Timeus c'era la paura dell'accerchiamento e del superamento, quel tipo di timore che Hervé Le Bras individua nel nazionalismo francese di fine Ottocento e definisce l'essenza stessa dell'ideologia razzista.25 Timeus temeva l'invasione slava, l'affievolirsi della capacità assimilatrice italiana, la perdita del monopolio della scuola italiana, l'infiltrazione slava che alterava la vera natura italiana di Trieste. Per questo motivo polemizzava con i socialisti triestini favorevoli all'apertura delle scuole slovene pubbliche nel centro cittadino e appoggiava le autorità cittadine promotrici di questo divieto; la scuola italiana doveva rimaneva lo strumento principale per italianizzare gli slavi.26


Il pensiero timeusiano trovò accoglienza innanzitutto in quegli ambienti che dimostrarono, secondo Alceo De Rosa, un sentimento di profonda irritazione per doversi misurare "con una realtà imprevista e per questo sentita come minacciosa".27 Il suo programma politico, criticato dai vociani, raccolse adesioni negli ambienti irredentisti ma soprattutto tra i nazionalisti che in Italia guardavano con egual favore la missione italiana in terre adriatiche e quella in Africa. Per Timeus gli emigrati italiani in Tunisia, "parte dell'Italia", perseguitati dai francesi e dagli arabi, erano eguali agli irredenti sottomessi all'Austria, lentamente spodestati, perché "troppo civili e troppo pochi".28

Dal suo punto di vista la conquista italiana di Tripoli anticipava la risposta che l'Italia avrebbe dovuto dare anche nei confronti di altri nemici e preconizzava le future conquiste dell'Italia sul suolo europeo. La sua visione del confine orientale dell'Italia come porta aperta verso est, e di Trieste come avamposto per l'espansione italiana verso i Balcani, era coerente con le aspettative del nazionalismo italiano più radicale e si situava sulla stessa lunghezza d'onda di quei circuiti politici che nel 1914 furono pronti a sostenere l'immediato intervento dell'Italia in guerra.29

Nelle file dell'intellighenzia triestina veniva condivisa da figure come l'economista Mario Alberti e lo storico Attilio Tamaro, ambedue fortemente impegnati sul fronte antislavo, contrari a ogni trattamento di eguaglianza tra le due nazioni - perché una definibile come Kulturnation, l'altra invece come nazione senza storia.


Angelo Ara e Claudio Magris, che in Trieste. Una città di frontiera hanno ricostruito la storia culturale di Trieste, hanno evidenziato il radicalismo nazionale di Timeus sottolineandone l'intransigenza e definendolo, da una parte, "un caso eccezionale nell'opinione pubblica italiana di Trieste nel primo quindicennio del Novecento", dall'altra, invece, comune per "la sensazione di impotenza di fronte a quella che era considerata l'aggressione slava, che metteva in discussione la fisionomia nazionale, politica e sociale che Trieste era venuta acquistando nella sua storia".30

Per Elio Apih, uno dei più apprezzati rappresentanti della storiografia triestina della seconda metà del Novecento, Timeus impersonò esemplarmente con la sua lucida elaborazione la tendenza a ribaltare la storia e quanto essa aveva finora costruito: "Fu forse l'acquisizione di fondo, per Trieste, della cultura del '900. Vi trovò spazio il connubio tra nazionalismo e imperialismo, e ne venne, per la prima volta dopo oltre un secolo, una nuova teoria sulla funzione della città, contrapposta a quella tradizionale e sperimentata dalla storia, che vedeva in essa il porto naturale (e artificiale) dell'Austria".31


Timeus fece parte di quel nucleo di giovani intellettuali provenienti dalla piccola borghesia che abbandonarono la linea politica liberal-nazionale criticando le idealità borghesi che ostacolavano i progetti di conquista e aderivano a un progetto imperialista, nazionalista, intransigentemente antislavo che prevedeva anche la soppressione degli altri.32 Più recentemente è stata Marina Cattaruzza a cogliere nel linguaggio di Timeus, "gravido di violenza", non solo l'esasperazione della lotta nazionale nel Litorale austriaco, "ma anche la nuova temperie etico-politica del nazionalismo italiano, fondata sul superamento dei valori democratici e liberali, sull'idea della potenza e dello Stato autoritario",33 e a soffermarsi sull'influenza esercitata dal suo oltranzismo antislavo nella politica di snazionalizzazione dal fascismo di confine, oltre a sottolineare l'impatto del suo pensiero politico negli ambienti interventisti e l'ascendente esercitato su quegli apparati dello stato che accettarono il programma nazionalista irredentista come obiettivo strategico.34


Tuttavia, da una panoramica che include storici locali e nazionali che nell'arco di un secolo35 si sono occupati di Timeus, si evince che i termini più frequenti con cui viene valutato il suo pensiero politico sono di lucidità politica, eccezionalità, intransigenza, coerenza morale, acuta sensibilità, aggressività.36

Termini che se non denotano un certo grado di leggerezza interpretativa, dimostrano senz'altro una scarsa propensione ad analizzare in profondo le implicazioni di un modo di pensare che non esprimeva soltanto la Weltanschauung di un intellettuale di provincia, ma che diveniva un sentimento comune ed esprimeva aspettative collettive. Termini che infine palesano inefficacia nel sondare in profondità le basi ideologiche di una politica di confine profondamente ostile nei confronti della popolazione slovena e croata inclusa nel Regno d'Italia dopo il 1918. Altrimenti sarebbe difficile spiegare come mai nel passaggio dalla glorificazione del personaggio, alimentata dai nazionalisti nei primi del Novecento, all'esaltazione della sua figura di martire ed eroe patriotico, promossa dai fascisti durante il Ventennio, e infine ai tentativi di un'analisi politicamente più distaccata e storiograficamente convalidata, a beneficiare della maggior attenzione non sono tanto gli scritti politici di Timeus, quanto il suo pamphlet politico Trieste, ritenuto il suo testamento spirituale.

Visto che furono proprio i suoi scritti politici, come afferma Enzo Collotti, a porre le basi ideologiche per la politica imperialista dell'Italia nell'area balcanica e a divenire un supporto fondamentale per quella politica di regime al confine orientale che, dopo l'ascesa di Mussolini, portò prima al disconoscimento dei diritti nazionali della popolazione slovena e croata, poi anche alla repressione di ogni loro difesa.

Sono scritti che inneggiano, come abbiamo visto, alla superiorità della civiltà italica, che tendono a conferire all'Italia il diritto al predominio adriatico, che giustificano la conquista dei Balcani con il primato che all'Italia doveva spettare in quello che era considerato il suo spazio vitale, che concepiscono i rapporti con le popolazioni slave "in termini non di convivenza e di accordi ma di esclusione, di aut aut, o noi o loro, con una intransigenza che rasentava il razzismo nel suo assolutismo senza alternative né compromessi".37

Tra gli estimatori degli scritti politici di Timeus vi erano anche persone provenienti dagli ambienti liberali38 che condividevano il suo antislavismo. Dagli inizi degli anni venti essi diventarono il punto di riferimento per gli ideologi del fascismo di confine, come per esempio Attilio Tamaro, che in La lotta delle razze nell'Europa danubiana (1923) preconizzava un conflitto tra la razza italiana e quella slava, non più locale ma generale. Il canone ti-meusiano rimase ben visibile anche nella pubblicistica fascista di confine degli anni trenta, che negli scritti di Giuseppe Cobol, per esempio, auspicava una soluzione radicale della questione allogena nella Venezia Giulia, dichiarandosi favorevole oltre che a forme di assimilazione forzata, anche a interventi di allontanamento definitivo dal territorio di quella parte di popolazione slava, maestri, clero, avvocati, ritenuti nemici troppo pericolosi per il dominio italiano: "Un problema allogeno slavo, lo ripetiamo, non esiste nella Venezia Giulia. Esiste invece un problema di penetrazione italiana e fascista. C'è la necessità di affermare in pieno l'autorità dello stato che ha un peso determinante in tutto ciò che è espressione del sentimento degli slavi. Tale problema è in prima linea nella differenziazione fra fedeli e infedeli, riveste in alcuni casi, quando gli infedeli siano irriducibili, le caratteristiche di un problema di polizia".39

Il fascismo di confine che si trovò ad affrontare il problema delle popolazioni definite alloglotte, prima di giungere al potere, utilizzò sin dalla sua fase squadristica l'antislavismo come fattore di adesione e di mobilitazione. Le incursioni nei circoli slavi e gli attentati incendiari contro le case di cultura slovena e croata precedettero i programmi e le norme: "Salito al governo, prima di elaborare proprie linee di azione specifiche proseguì sulla strada dettata dal nazionalismo e dai circoli locali, portando a compimento scelte inclusive che erano già state poste in essere nel periodo precedente, con la sostanziale differenza che adesso venivano elevate a programma organico di governo ed attuate in maniera sempre più totalitaria. Fu una scelta quasi obbligata, il fascismo non potè scegliersi i tempi come fece in altre occasioni".40


L'italianizzazione dei nomi e dei cognomi, della toponomastica, la chiusura delle scuole slovene e croate, la proibizione dell'uso dello sloveno e del croato in chiesa, il licenziamento dei maestri sloveni e croati o il loro trasferimento coatto, come anche quello degli impiegati e dei ferrovieri in altre regioni della penisola, il divieto di usare lo sloveno o il croato in pubblico e negli uffici, di pubblicare quotidiani sloveni o croati, la chiusura di circoli culturali e sportivi, casse di credito e istituti bancari sloveni e croati, furono tra i principali provvedimenti con i quali le autorità fasciste cercarono di estirpare ogni forma di alterità politica, linguistica e nazionale nella Venezia Giulia. La popolazione slovena e croata accettando la cittadinanza italiana fu costretta ad assimilarsi.

Ogni espressione pubblica della propria nazionalità minoritaria fu interpretata dalla fine degli anni venti in poi come un atto criminoso.41 Il fascismo di frontiera non ammetteva deviazioni perché, come spiegava Cobol dalle pagine di "Gerarchia", gli allogeni della Venezia Giulia erano cittadini italiani che non dovevano differenziarsi dagli altri in nessun campo né nei doveri né nei diritti.42 Nello stesso numero della rivista il goriziano Giorgio Bombig dichiarava che non vi era più alcuna questione degli allogeni, perché "di una politica verso gli allogeni, non si dovrebbe più parlare; non perché il problema non esista, ma perché si correrebbe il rischio di dare ad una popolazione che per numero è meno di un terzo di quella totale della regione, e per valore morale, politico, sociale conta molto meno ancora, un'importanza che certamente non merita".43

Come dimostrano i numerosi processi del Tribunale speciale dello stato eseguiti a carico di cinquecentoquaranta-quattro imputati sloveni e croati, e le quaranta condanne a morte emesse contro gli appartenenti della minoranza, condannati per attività di carattere irredentista e cospirazione ai danni della sicurezza dello stato, la questione allogena non veniva chiusa. Era lo stesso Pubblico ministero, l'avvocato Fallace, a dichiararlo durante la sua requisitoria tenuta durante il secondo processo del Tribunale speciale per la difesa dello stato a Trieste ai primi di dicembre del 1941:

Omuncoli impastati di odio, di rancore, di livore settario, omuncoli fortemente stretti da vincoli solidi, da invisibili ma potenti ed oserei dire strapotenti vincoli di un'associazione a carattere eminentemente cospirativa, associazione ibrida, manovrata da Potenze straniere. E sono proprio queste associazioni che raccolgono nelle contorte, velenose ma ampie e generose braccia gli elementi più eterogenei che formano oggetto del processo.

Per il Pubblico ministero i sessanta imputati non erano che

un groviglio immondo di rettili umani striscianti nell'ombra e nel fango al di qua e al di là del confine, sempre pronti a mordere e avvelenare, sempre pronti ad alimentare la fiamma di un certo panslavismo, di un certo nazionalismo slavo, sempre pronti a concepire, a preparare, ad attuare i più terribili misfatti; sempre pronti a ridestare vecchi, assopiti rancori, vecchi odi di razza che sono destinati per fatalità di cose ad estinguersi con il tempo.
Vecchi odi di razza che sono un poco il fastidioso retaggio di queste terre italiane, che pure formarono la superba Decima regione d'Italia all'epoca di Augusto e che soffrirono indifese l'infiltrazione slava nel tormentoso Medioevo.

Vecchi odi di razza che furono purtroppo e fin troppo agevolati, rinvigoriti, ingigantiti, proprio dalla nota politica dell'epoca ab-sburgica. Sostenevano i triestini a viso aperto l'italianità delle loro terre conseguentemente su queste terre si scatenò una valanga di odio antiitaliano, slava valanga che avrebbe dovuto sradicare e travolgere la malaspinta italiana. Ma la valanga venne e la pianta potè resistere fino alla non lontana primavera, fino alla primavera italica che concesse a questa pianta benedetta da Dio di sorgere più bella e rigogliosa.44

La politica di integrazione e di assimilazione perseguita nei confronti delle popolazioni slave nella Venezia Giulia, l'attuazione di quella che doveva diventare a tutti gli effetti una bonifica etnica, era coerente con la concezione volontaristica e spiritualistica della nazione italiana che il fascismo aveva ereditato dal nazionalismo e avvalorato facendo propria la convinzione che la superiorità della propria civiltà si misurava con la capacità di inglobare le razze inferiori. Per le "tribù più o meno abbaianti lingue incomprensibili", come definì Mussolini gli slavi in una conferenza tenuta a Trieste il 20 settembre 1920,45 era sufficiente rinunziare alla propria identità.46 Spettava poi all'incorporamento nella razza italica far disperdere tutti i segni di appartenenza a una razza priva di cultura e storia e assorbirli in una civiltà millenaria.


La stessa incorporazione fu prevista dopo lo smembramento della Jugoslavia nell'aprile 1941 anche per le popolazioni slave residenti nei territori jugoslavi occupati dall'Italia. Gli abitanti delle province di Lubiana, Spalato e Cattaro erano diventati "italiani per annessione"47 e secondo le aspettative del governo di Roma e delle autorità occupanti essi avrebbero aderito in tempi brevi alla civiltà dominante.

La pretesa di far coincidere "razza, nazione e stato" riguardava tutti i territori occupati nel 1941 e condizionò pesantemente i rapporti tra la popolazione sottomessa e le autorità italiane civili e militari, in particolar modo nella provincia di Lubiana e in Dalmazia. Attraverso lo studio dei provvedimenti repressivi emanati dai comandi militari italiani la storiografia ha messo bene in luce la spietatezza della repressione attuata nei confronti dei civili dopo l'inizio dell'attività di resistenza dell'Osvobodilna fronta (Fronte di liberazione), e parimenti è stata ricostruita la storia dell'internamento di uomini, donne e bambini nei campi di concentramento aperti in Italia e sull'isola di Arbe (Rab).48 La formula con la quale il comandante della seconda armata Mario Roatta riepilogava il comportamento che dovevano tenere i soldati italiani con i ribelli non era quella del "dente per dente" bensì la sua variante, consistente in "testa per dente".49 Il tenore del comportamento suggerito era in perfetta armonia con la circolare emanata in data 8 settembre 1941 dal comandante del-l'Xl Corpo d'armata, il generale Mario Robotti, che dichiarava: "Si ammazza troppo poco". Anche la politica di repressione attuata dal generale Giuseppe Bastianini in Dalmazia, non diversamente da quella realizzata nella provincia di Lubiana, era accompagnata da una propaganda di odio contro i partigiani croati e tutti coloro che li sostenevano, e perseguiva gli obiettivi che furono annunciati da Mussolini a Pola più di vent'anni prima, nel settembre 1920: "Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini della Patria devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche. Io credo che si possono più facilmente sacrificare 500.000 sloveni e croati barbari a 50.000 italiani".50 Le disposizioni repressive venivano giustificate dalla propaganda dell'apparato occupante come legittima reazione a un avversario senza scrupoli, che agiva al di fuori di qualsiasi convenzione militare e che si poneva al di fuori dei confini dell'umanità. Il bisogno di inculcare ai reparti italiani l'idea che la lotta con i partigiani comportava uno scontro tra civiltà e barbarie era condivisa da ogni grado di gerarchia.


Come dimostrano numerose fonti autobiografiche, il senso di superiorità era spesso condiviso anche da soldati di estrazione semplice.51 Eric Gobetti, studiando le caratteristiche dell'occupazione italiana in Dalmazia, ha appurato che alcuni stereotipi erano profondamente interiorizzati dalle truppe italiane influenzate dalla campagna antislava propagandata dalla stampa di regime: "Il linguaggio politico e la retorica nazionalista si esprimevano in termini di epocali conflitti fra razze e civiltà. La missione storica della 'latinità' in Dalmazia ('argine invalicabile alla marea stava temperando e addolcendo al calore del suo umanesimo la rozza barbarie stringente d'assedio') era permeata di mentalità razzista, principale supporto ideologico come nelle imprese coloniali".52 Marco Cuzzi, che ha approfondito gli aspetti militari e amministrativi della politica di occupazione italiana, sottolinea invece l'influenza esercitata dall'impostazione ideologica del fascismo di confine. I principali esponenti dell'apparato amministrativo della provincia di Lubiana provenivano dal Fascio triestino-giuliano e uno dei principali impegni che si prefissero fu quello di far dimenticare agli alloglotti del Regno d'Italia l'idea stessa di una patria al di là dei confini italiani. La meta conclusiva era eliminare la Slovenia con tutti i mezzi disponibili e incorporarla nel Regno.53


Nonostante un numero elevato di ricerche di studiosi italiani, sloveni e croati54 che documentano la forte regressività del regime di occupazione italiano in Jugoslavia, il comportamento dei comandi e dei soldati e il trattamento riservato ai civili, permane una forte ritrosia sia della pubblicistica sia della storiografia italiana ad abbandonare il mito degli "italiani brava gente",55 quel mito fuorviarne che ha contribuito a una comoda amnesia collettiva sostenuta dalla politica italiana per quanto riguarda i crimini di guerra italiani nell'area jugoslava.56 Rimane peraltro diffusa la convinzione che l'occupante italiano si fosse distinto da quello tedesco per un atteggiamento più benevolo nei confronti della popolazione civile e che vi fossero differenze sostanziali tra il progetto di dominio nazista e quello fascista e infine anche tra l'antislavismo tedesco e quello italiano. Come osserva puntualmente Giorgio Rochat, le truppe italiane furono certamente le meno feroci tra le forze contrapposte, ma anch'esse si contraddistinsero per fucilazioni di ostaggi, civili e prigionieri, devastazioni e incendi di villaggi.57


Vale la pena ancora una volta soffermarsi sulla riluttanza a cogliere nei comportamenti dei comandi e delle truppe italiane atteggiamenti razzistici nei confronti della popolazione occupata. L'assenza di una legislazione esplicitamente razzista nei confronti della popolazione slava sarebbe la conferma dell'inesistenza di un razzismo biologico, di una politica di tipo razziale che, fra l'altro, non fu praticata nemmeno nei confronti degli allogeni durante il Ventennio. Secondo Marina Cattaruzza: "La prassi del trasferimento all'interno degli elementi considerati poco affidabili, la prospettiva dell'assimilazione nazionale e il sostegno dato a matrimoni misti di italiani con donne slovene negano alla radice i presupposti del razzismo biologistico, che tende alla separazione drastica della razza ritenuta inferiore".58

Tuttavia se nel razzismo antislavo non vi fu un orientamento "biologico",59 vi erano dosi massicce di quello "spiritualistico" declinato in chiave nazionalistica.60 L'antislavismo come substrato ideologico della politica di regime nelle terre di confine e in quelle occupate dopo il 1941 divenne veicolante per la volontà di dominazione assoluta che si alimentò con fortissimi pregiudizi nei confronti di un "altro" minaccioso, violento, animalizzato e barbarizzato,61 e nella sostanza non fu diverso da quello propagato dai tedeschi. L'assenza di leggi razziste non va identificata con l'assenza di comportamenti razzisti.62

E bene ricordare, come fa Giorgio Israel, che il razzismo non poggia soltanto su fondamenta biologiche. Il concetto di razza è fluttuante, indica un insieme di atteggiamenti psicologici, spirituali, culturali, si radica, di volta in volta, e in modo arbitrario, nella biologia, nell'etnografia, nell'antropologia, nelle teorie evoluzionistiche, nella filologia storica e comparata.63 Non fu casuale che Corrado Gini, illustre rappresentante della scienza demografica italiana, nominato primo presidente dell'Istat nel 1926 e negli anni trenta sostenitore della politica demografica totalitaria del regime, tenne a Trieste nell'aprile del 1911 una conferenza nell'ambito della quale assunse una posizione espressamente razzista. Si chiese come mai "una razza ricca di intelligenza, fornita di censo, nutrita di nobilissime tradizioni, animata da alti ideali, non riesca a espandersi degnamente e a trionfare su un'altra razza intellettualmente più limitata. Questo problema che così vivamente appassiona voi, Italiani di Trieste, e noi, Italiani del Regno, che con tanta simpatia vi seguiamo nella diurna lotta contro la minacciosa invadenza degli Slavi, non è un caso particolare del problema multiforme e complesso sulle cause dell'evoluzione delle nazioni".64


L'antislavismo prevedeva attitudini e comportamenti psicologici e spirituali definiti, un'essenza legata alla stirpe che rimaneva immutata e che continuò a delimitare la civiltà italiana dal mondo slavo anche dopo la fine del regime fascista. Forti pregiudizi, che riflettevano la perentoria affermazione dell'immutabilità dell'essere italiano e slavo, si mantennero anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e in taluni ambienti furono rafforzati dall'ultima riprova della "bestialità dell'altro": gli eccidi avvenuti a fine conflitto, noti con la denominazione di foibe.65
Sebbene le stime più fondate permettano di ipotizzare che il numero delle persone uccise si collochi tra millecinquecento e duemila, a venir riportate dalla pubblicistica e dai media italiani sono sovente cifre che oscillano tra i venti e i trentamila morti. Non diversamente anche gli interventi di molti politici italiani in occasione delle Giornate del ricordo celebrate in onore degli esuli giuliano-dalmati e degli infoibati contengono espressioni come "le molte migliaia di italiani morti", oppure evocano "il genocidio attuato con scientifica precisione dai nazionalcomunisti di Tito", i "quindicimila italiani morti nelle foibe", il "massacro di ventimila italiani", oppure le migliaia di vittime barbaramente uccise dagli slavo-comunisti "soltanto perché italiane".66


L'inversione dei ruoli realizzatasi durante i Quaranta giorni con l'occupazione jugoslava di Trieste e di Gorizia produsse una ferita simbolica mai del tutto rimarginata. L'altro, il barbaro, l'immigrato, il nemico ideologico e nazionale, al quale per decenni era richiesto di mimetizzarsi, poi di assimilarsi, assumendo le redini del comando sembrò confermare la sua massima distruttività. La "barbarie" vinse la civiltà, ma per poco. L'amministrazione angloamericana di Trieste e Gorizia decretò l'annessione della Venezia Giulia, a eccezione dell'Istria, all'Europa occidentale, ristabilendo i valori morali della "civiltà italiana" e gli interessi dell'Europa occidentale.67
In conclusione, sono le affermazioni di oggi e non di ieri quelle che ci dovrebbero costringere a riflettere sulla persistenza di atteggiamenti razzisti e sulla lunga durata di pregiudizi che godono di

buona salute anche per il solerte contributo degli intellettuali, non per ultimo anche degli storici.

Sul suo rapporto con il mondo slavo: J. Pirjevec, Niccolò Tommaseo. Tra Italia e Silvia, Marsilio, Venezia 1977; N. Tommaseo, Scritti editi e inediti sulla Dalmazia e sui popoli slavi, a cura di R. Ciampini, voi. I, Sansoni, Firenze 1943.
2. EJ. Hobsbawm, T. Ranger (a cura di), ^invenzione della tradizione (1983), Einaudi, Torino 1987.
3. M. Auge, Les sens des autres, Fayard, Paris 1994.

4. Anche il ricompattamento della popolazione croata e slovena, sin dalla seconda metà dell'Ottocento, si svolse all'insegna del richiamo delle radici slave e del tentativo di ergere una barriera etnica invalicabile, in grado di difendere dall'impurità culturale. La domanda di sicurezza e di preservazione congegnò l'altro anche nel contesto slavo; l'italiano divenne in questo caso l'inesauribile fonte di dissanguamento etnico (cfr. M. Verginella, Radici dei conflittinazionalinell'area alto-adriatica, in AA.W., Dall'impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell'area alto-adriatica, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 11-18). Sui parallelismi tra nazionalismo italiano e sloveno-croato, cfr. R. Wòrsdòrfer, II confine orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955 (2004), il Mulino, Bologna 2009.
5. L. Wolff, Venezia e gli slavi, ha scoperta della Dalmazia nell'età dell'illuminismo (2001), Il Veltro Editore, Roma 2006.
6. Alberto Fortis, naturalista e scrittore padovano, pubblicò nel 1774 Viaggio in Dalmazia, che riscosse molto successo in Italia e in altre parti d'Europa.

7. J. Pirjevec, Foibe. Una storia d'Italia, Einaudi, Torino 2009, p. 5.
8. Ivi, pp. 7-8. Pirjevec rinvia all'opuscolo di Vicenzo Duplancich Della civiltà italiana e
slava in Dalmazia (Trieste 1861), in cui lo stereotipo del buon selvaggio si affianca a quello
dello slavo barbaro.

9. Nato a Trieste in una famiglia piccolo-borghese, dopo aver frequentato i] ginnasio a
Trieste si iscrisse alla Facoltà di lettere dell'Università di Graz. Non ancora ventenne si tra-
sferì in Italia, prima a Firenze, poi a Roma. Collaborò con "La Voce" e "L'Idea nazionale",
e morì il 14 settembre 1915 sul Pai Piccolo nelle Alpi carniche occidentali dopo essersi ar-
ruolato volontario nelle file dell'esercito italiano. Cfr. D. Redivo, Ruggero Timeus. La via im-
perialista dell'irredentismo triestino, Edizioni Italo Svevo, Trieste 1995, pp. 23-31.
10. Per Luigi Federzoni, Timeus fu il demolitore del mito repubblicano e massonico ma
anche di quell'irredentismo che, "attraverso quarant'anni di irresponsabili clamori comizie-
schi, si era sterilmente esaurito in una specie di vaneggiamento romantico che postulava la
guerra predicando contemporaneamente il disarmo e l'insurrezione interna, e, mentre espri-
meva un'aspirazione sentimentale ad alcuni acquisti territoriali, preparava inconscio gli ar-
gomenti e gli animi per le future rinunzie" ("Prefazione", in R. Timeus, Scritti politici, Tipo-
grafia del Lloyd triestino, Trieste 1929).
11. R. Timeus, Scritti politici, cit., p. III.
12. Definizione usata da Baccio Ziliotto in Storia letteraria di Trieste e dell'Istria (Trieste 1924), riportata in E. Guagnini, La cultura. Una fisionomia difficile, in E. Apih, Trieste, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 304.
13. M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, il Mulino, Bologna 2007, p. 59; cfr. anche A. Ara, C. Magris, Trieste. Una città di frontiera, Einaudi, Torino 1982, p. 26.

14. R. Timeus, Scritti politici, cit., p. 126.
15. Cfr. R. Lunzer, Irredenti redenti. Intellettuali giuliani, Lint, Trieste 2009, pp. 34-35 e
142-144.
16. A. Ara, C. Magris, Trieste. Una città di frontiera, cit., pp. 60-61.
17. R. Timeus, Scritti politici, cit., p. 41.
18. M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 63.
19. R. Timeus, Scritti politici, cit., p. 154.
20. Ivi, p. 45.

21. Timeus ipotizzò anche un possibile sostegno italiano al futuro stato jugoslavo, in cam-
bio però di una piena dimenticanza da parte della popolazione slava del Litorale: "Noi dob-
biamo far capire agli slavi che se vogliono il nostro aiuto, i loro fratelli delle province italia-
ne dell'Austria devono considerarli come non esistenti, e quindi non curarsi nemmeno di
quello che oggi noi facciamo con loro" (ivi, p. 112).
22. Ivi, p. 125.
23. Ivi, p. 149.
24. Ivi, p. 145.
25. Cfr. H. Le Bras, Le sol et le sang, Editions de L'Aube, Paris 1994.
26. R. Timeus, Scritti politici, cit., p. 217.

27. A. Riosa, Adriatico irredento. Italiani e slavi sotto la lente francese (1793-1918), Gui-
da, Napoli 2009, p. 108.
28. M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 31.
29. Ivi, pp. 76-79.
30. A. Ara, C. Magris, Trieste. Una città di frontiera, cit., p. 29.

31. E. Apih, Trieste, cit., p. 98.
32. G. Negrelli, Trieste nel mito, in R. Finzi, C. Magris, G. Miccoli (a cura di), Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. Il Friuli-Venezia Giulia, Einaudi, Torino 2002, voi. n, pp. 1357-1358.
33. M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 62.
34. Ivi, p. 204.
35. Cfr. D. Redivo, Ruggero Timeus. La via imperialista dell'irredentismo triestino, cit.

36. Si veda anche E. Apih, Trieste, cit., p. 99; J. Pirjevec, Foibe. Una storia d'Italia, cit., p. 13.
37. E. Collotti, Sul razzismo antislavo, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d'Italia 1870-1945, il Mulino, Bologna 1999, p. 35. A ritenere le idee di Timeus non prive di una pregnanza razziale è anche Anna Maria Vinci nel saggio II fascismo al confine orientale, in R. Finzi, C. Magris, G. Miccoli (a cura di), Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. Il Friuli-Venezia Giulia, cit., voi. I, p. 414.

38. Si veda V. Gayda, Gli slavi della Venezia Giulia, Rava e e, Milano 1915; Id., La Ju-
goslavia contro l'Italia, Stabilimento tipografico del Giornale d'Italia, Roma 1933; Id., L'Ita-
lia d'oltre confine. La Dalmazia, in AA.W., Atti e memorie della Società dalmata di storia pa-
tria, voi. xxiv, Società dalmata di storia patria, Venezia 1995.
39. G. Cobol, Il fascismo e gli allogeni, "Gerarchia", VII, 9 settembre 1927, p. 805.

40. S. Bartolini, Fascismo antislavo. Il tentativo di "bonifica etnica" al confine nord orientale, ISRPt, Pistoia 2008, p. 41. Sui provvedimenti contro la popolazione slovena e croata nella Venezia Giulia durante il governatorato militare, cfr. A.M. Vinci, Il fascismo al confine orientale, cit., pp. 387-398.
41. Cfr. T. Sala, Storia e impegno civile con gli Atti della giornata di studio in ricordo di Teodoro Sala, Quaderni 24, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Trieste 2009, pp. 115-129.
42. G. Cobol, Il fascismo e gli allogeni, cit., p. 803.

43. G. Bombig, Le condizioni demografiche della Venezia Giulia e gli allogeni, "Gerarchia", VII, 9 settembre 1927, p. 819.

44. Lanalitica requisitoria delPubblico ministero, "Il Piccolo", 10 dicembre 1941; cfr. Dodici condanne a morte chieste dal Pubblico ministero, "La Stampa", 10 dicembre 1941.
45. Citato da M. Risolo, Il fascismo nella Venezia Giulia. Dalle origini alla marcia su Roma, CELVT, Trieste 1932.
46. Cfr. G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, il Mulino, Bologna 2010, p. 96.
47. Sulla diatriba riguardante la questione dell'occupazione militare o annessione politica, si veda M. Cuzzi, La Slovenia italiana, in F. Caccamo, L. Monzali (a cura di), L'occupazione italiana della Iugoslavia, 1941-194}, Le Lettere, Firenze 2008, p. 221.

48. Per le ricerche più aggiornate, cfr. S. Capogreco, I campi del duce. L'internamento civile nell'Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino 2004; A. Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943, Nutrimenti, Roma 2008.
49. A. Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943, cit., p. 75.
50. A.M. Vinci, Il fascismo e la società locale, in m.w., Friuli e Venezia Giulia. Storia del '900, irsmlt, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 1997, p. 227.

51. A questo proposito si veda E. Gobetti, L'occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943), Carocci, Roma 2007.
52. Ivi, p. 182.
53. M. Cuzzi, La Slovenia italiana, cit., p. 227. Si veda anche il suo L'occupazione italiana della Slovenia. 1941-1943, Stato maggiore dell'esercito, Roma 1998.
54. Cfr. T. Ferenc, La provincia "italiana" di Lubiana. Documenti 1941-1942, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, Udine 1994; E. Gobetti, L'occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943), cit.

55. D. Rodogno, II nuovo ordine mediterraneo. Le occupazioni dell'Italia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2003; A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 229-254.
56. C. Di Sante (a cura di), Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e iprocessi negati (1941-1951), ombre corte, Verona 2005.
57. G. Rochat, La guerra di Mussolini 1940-1943, in A. Del Boca (a cura di), La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, Neri Pozza, Vicenza 2009, p. 162.
58. M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 187.

59. Il razzismo biologico veniva giudicato con sospetto in Italia, in quanto gli si preferiva un concetto di razza piuttosto ambiguo basato sulla nozione di "stirpe". Cfr. G. Israel, L'espulsione dei professori ebrei dalle facoltà scientifiche, in M. Beer, A. Foa, I. Iannuzzi (a cura di), Leggi del 1938 e cultura delrazzismo. Storia, memoria, rimozione, Viella, Roma 2010, pp. 46-47.
60. F. Cassata, "La difesa della razza". Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Einaudi, Torino 2010, pp. XI-XV.
61. S. Bartolini, Fascismo antislavo, cit., pp. 36-59.
62. Cfr. L. Goglia, Il colore nel razzismo fascista, in M. Beer, A. Foa, I. Iannuzzi (a cura di), Leggi del 1938 e cultura del razzismo, cit., p. 37.
63. G. Israel, Il fascismo e la razza, cit., p. 17.

64. Citato in ivi, p. 123. Sulla teoria di Gini, e su come le sue idee sul rinnovamento biologico entrarono in contrasto con l'idea della purezza razziale e gli costarono persino accuse di antifascismo, dato che non era contrario a mescolanze con il sangue slavo, cfr. ivi, pp. 116-128.
65. Cavità assurte a simbolo di tutte le vittime italiane uccise dai partigiani jugoslavi: sia dei morti gettati nelle cavità del terreno roccioso in Istria dopo la firma dell'armistizio e prima dell'arrivo delle forze occupanti tedesche nel settembre del 1943, sia dei morti scagliati nelle voragini carsiche e nei pozzi di miniera dopo le esecuzioni sommarie avvenute durante gli ultimi giorni dei combattimenti, nonché a guerra finita, nel maggio-giugno 1945; esse inoltre vengono connesse anche ai morti per fame, sfinimento o malattia nei campi di prigionia jugoslavi, situati nelle aree più interne della Jugoslavia (cfr. R. Pupo, R. Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, Milano 2003; C. Cernigoi, Operazione "foibe" tra storia e mito, Edizioni Kap-pa, Udine 2005, p. 12).
66. Cfr. J. Pirjevec, Foibe, cit., pp. XIII e 201-230. Si veda anche il mio saggio in L. Acca-ti, R. Cogoy (a cura dì), Il perturbante nella storia: le foibe. Uno studio psicopatologico della ricezione storica, QuEdit, Verona 2010.
67. G. Montemuliano, Venezia Giulia italiana ed europea, Sestante, Roma 1945, p. 53.

39 - La Voce in più Dalmazia 14/05/11 Profughi zaratini in Valbormida: la storia delle famiglie Goich e Zmichich

PROFUGHI ZARATINI IN VALBORMIDA

LA STORIA DELLE FAMIGLIE GOICH E ZMICHICH

CAIRO - Le tranquille località della Valbormida rappresentarono un rifugio sicuro dopo la Seconda guerra mondiale per centinaia di persone originarie dell'Istria e della Dalmazia. Molte di loro, infatti, scrive il Secolo XIX trovarono ospitalità e occupazione a Cairo e nelle località limitrofe, assunte negli allora fiorenti stabilimenti industriali della zona. Tra questi anche Ugo Goich e sua moglie Maria Zmichich, genitori della cantante Wilma Goich. "Con la firma nel 1947 del trattato di pace con la Jugoslavia - spiega la signora Maria - fummo assaliti dallo sgomento. Tutti i nostri beni vennero confiscati, i miei genitori furono costretti a fuggire e mio fratello Ivo riuscì per un vero e proprio miracolo a scampare alla fucilazione". La storia delle famiglie Goich e Zmichich è simile a quelle di altre migliaia di persone nel secondo dopoguerra. Molte di loro trovarono ospitalità e occupazione nelle località della Valbormida dove a quell'epoca l'attività industriale era in piena crescita. "La mia famiglia è originaria di Zara, fiorente centro marittimo sulla costa dalmata - spiega la cantante Wilma Goich - e giunse a Cairo alcuni anni prima della guerra. Mio padre Ugo, infatti, aveva ottenuto un impiego, come perito chimico, allo stabilimento della Montecatini".


Un racconto che lascia trasparire una profonda sensibilità e commozione, anche se l'artista, nata qualche anno dopo proprio a Cairo, non visse direttamente quella tremenda esperienza. "I miei suoceri - sottolinea Maria Zmichich, madre della cantante gestivano un rinomato albergo situato sulla costa in un'incantevole posizione. I miei genitori erano invece proprietari di numerosi appezzamenti di terreno nella zona di Castelvenier, a pochi chilometri dalla costa. In questi terreni coltivavano alberi da frutta e viti, producendo un ottimo vino. Inoltre avevano anche un allevamento di pecore, che permetteva di produrre gustosi latticini e lana pregiata". Una vita serena, quella di Maria Zmichich, trascorsa lungo le caratteristiche calli di Zara, gli studi all'istituto magistrale, l'attività agonistico-sporti-va, gli amici fraterni, tra i quali anche il famoso stilista Ottavio Missoni. Anche se l'insensatezza delle leggi fasciste arrivò a imporre alla famiglia, in questo caso però senza riuscirci, l'italianizzazione di Goich in Gozzi o Goini. "Il dopoguerra - ricorda ancora con profonda amarezza Maria Zmichich - rappresentò una vera rovina. Oltre alla confisca di tutti i nostri beni, i miei genitori furono costretti a fuggire e mio fratello scampò per un soffio alla fucilazione".

40 - La Voce del Popolo 03/04/11 Rozzo, una storia antica e un futuro incerto

di Mario Schiavato

Scendendo dalle alture rocciose della Ciceria ci imbattiamo in un paesino particolare...

Rozzo, una storia antica e un futuro incerto

Arrivando da Lupogliano, dopo parecchie svolte della strada tortuosa, con parecchi paesini e osterie ai lati, appare in alto, spesso tra nuvole o magari nell’azzurro del cielo terso come è toccato a noi, al limite di un vasto pianoro che, verdissimo, scende inclinato dalle alture rocciose della Ciceria, il paese di Rozzo (Roč), con il suo aguzzo campanile in stile veneziano attorno al quale, di solito, sfrecciano rapidi voli di rondini.

Un tessuto antico

Raramente abbiamo potuto visitare un abitato così pulito, così ordinato, con i fiori nei giardinetti e i gerani sulle finestre. Le vecchie case di pietre squadrate, dai muri solidi e spessi che sembrano un tessuto antico intrecciato come un merletto anche se deturpato dalla spietata erosione del tempo ma comunque in continuo rifacimento, a sud e a est sono ancora protette dalla cinta delle antiche mura. I loro ballatoi sembrano sospesi nel vuoto della fertile, ma negli ultimi tempi piuttosto abbandonata vallata sottostante, comunque ricca del solido color verde delle querce, mentre qualche vigna di terrano con i filari ben allineati ingentilisce il paesaggio: in questa stagione le loro foglie già rosse sembrano le mani callose di vecchi contadini aperte a salutare i visitatori che, a quanto pare, non devono essere pochi visti i cartelli che indicano appartamenti con tre stelle in affitto e, addirittura, un ben attrezzato autocampeggio nelle vicinanze dell’entrata dell’antica Porta Grande.

Una domenica tranquilla

Effettivamente qui si respira un’aria tranquilla: era domenica e dalla chiesa risuonavano i canti coperti dall’organo, mentre vecchie donne sedevano sugli scanni all’aperto a riordinare qualche capo di vestiario o agucchiavano calze di lana grezza per i loro mariti, qualcuno dei pochi ancora viventi – come ci hanno raccontato in tanta confidenza e in un dialetto veneto quasi dimenticato –, con la pensione italiana – guai se non ci fosse! – perché pur se nei lontani tempi erano considerati allogeni, cioè membri di una minoranza etnica non troppo affidabile, erano stati richiamati d’autorità e avevano combattuto – anche se non proprio entusiasticamente – nell’esercito italiano finendo, durante la Seconda guerra mondiale, in Africa e in Russia.
Dell’antico borgo sono tuttora molto ben conservati ed evidentemente di recente restaurati, i sei bastioni rotondi e le quattro torri quadrate con i due portali d’ingresso fatti erigere da Venezia nel 1420 al posto dei muraglioni preesistenti risalenti al cosiddetto periodo "patriarchino", vale a dire al tempo in cui l’abitato apparteneva ai patriarchi di Aquileia e quindi ai vari feudatari di Grisignana e di San Lorenzo. La nuova fortezza divenne allora un valido avamposto veneziano verso lo Stato asburgico e la Contea di Pisino e resistette dapprima agli attacchi dei Turchi e poi ai non pochi degli Uscocchi.

Il castrum romano di Rotium

Di questi, per la verità martoriati, periodi, in paese si conserva ancora una bombarda che si trova sotto la Porta Grande cittadina, oggi trasformata in un piccolo museo etnico, accanto sono state poste varie lastre di pietra con scritte in latino, testimonianza dell’antico castrum romano di Rotium. Su altre lapidi sono incisi dei caratteri glagolitici e una marmorea, posta sotto un busto in bronzo, ricorda che qui è nato quello Žakan Juri che nel 1483 curò la stampa del primo libro in caratteri glagolitici, cioè nell’antico alfabeto inventato dai fratelli Cirillo e Metodio, poi trasformato per l’intervento della chiesa cattolica, in caratteri cirillici.
A questo proposito bisogna ricordare che Žakan Juri era uno dei pochi uomini colti che allora conoscessero quei caratteri (in totale sono 40, derivati in parte dal greco corsivo e medioevale) e, da quanto è documentato, egli il 26 giugno dell’anno 1482 approdò al porto di Isola, probabilmente arrivando da Venezia, portando con sé tutti i complicati attrezzi della stampa dell’epoca. Dopo essere arrivato a Rozzo e dopo essersi qui trattenuto per un certo tempo, attraversò il Monte Maggiore, raggiunse la costa dalmata e poi il Velebit per fermarsi ai suoi piedi, praticamente nella località di Kosinj, dove appunto iniziò la sua attività di stampatore.

L’esodo dei giovani

Tra gli edifici più antichi del paese suscita interesse la chiesa romanica di San Marco recentemente restaurata, che nel suo interno conserva pregevoli affreschi settecenteschi, poi quella si San Mauro risalente al VI secolo a sua volta con dipinti di autore veneziano ignoto, oggi nonostante le cure un po’ troppo danneggiati. Quest’ultima è contraddistinta da una strana struttura asimmetrica della facciata che ingloba il campanile a vela.
Che dire ancora di questo paese che – a detta di qualche gentile vecchio che abbiamo incontrato – negli ultimi tempi come tante altre località dell’Istria interna, si è notevolmente vuotato (i giovani se ne vanno tutti via!) anche se, soprattutto attorno alla poco lontana piccola stazione ferroviaria, qualche casa nuova si è costruita e, col turismo, si spera in una nuova rivitalizzazione perché la terra non la vuole più nessuno, le campagne attorno sono tutte da tanto tempo abbandonate.

La storia del diavolo e delle braghesse

Rozzo è legato a una delle più belle leggende istriane, esattamente quella legata alle tipiche braghesse, cioè i costumi oggi folkloristici maschili slavi, braghesse una volta praticamente indossate durante le feste, ma non solo, da tutti gli uomini della regione interna.
Dunque si racconta che una volta in paese viveva un povero sartorello che col suo lavoro quotidiano doveva provvedere alla sua numerosissima famiglia. Ma dato che gli abitanti del paese erano molto pochi e per giunta poveri, il lavoro era molto scarso. Così il poveraccio, caduto in miseria e ormai pieno di debiti, in una notte tempestosa disperato invocò nientemeno che l’aiuto del diavolo. Il quale satanaccio si presentò subito nella bottega e si dichiarò disposto ad aiutarlo a un patto: doveva essere tanto bravo da riuscire a cucire un paio di pantaloni più presto di lui.
Detto fatto. Ridacchiando e dimenando la coda il diavolo disse:
- Inizieremo nello stesso istante. Hai capito?
- Benissimo…
- Se sarò io a finire per primo i pantaloni, la tua anima sarà mia, me la porterò nell’inferno più profondo.
- E se invece sarò io a finirli per primo?
- Se sarai tu a terminare i pantaloni per primo vorrà dire che una borsa colma di zecchini d’oro sarà tua.
Così si misero subito all’opera. Mentre il sartorello, furbo e paziente, infilava nella cruna dell’ago un filo molto corto, il diavolo ne adoperava uno lunghissimo credendo così di risparmiare tempo.
Il primo continuò imperterrito a lavorare con regolarità, diligentemente, punto dopo punto, con grande competenza nonché con esattezza, mentre il secondo faceva dei puntacci perché, dato che il filo era troppo lungo, doveva stendere esageratamente il braccio per cui si stancò molto presto e quando comprese che sarebbe stato sconfitto cosa fece? Indispettito afferrò le forbici, e rabbiosamente, per fare prima, tagliò la parte bassa dei pantaloni che stava cucendo e ancora, per far lavorare di più l’antagonista, fece un taglio laterale a quelli che costui stava cucendo, anzi stava ormai finendo.
Dunque con la bava alla bocca non riuscì a vincere la gara, ma per la verità, prima di sparire nel suo dannato inferno imprecando a gran voce, fu tanto onesto da lasciare sulla finestrella del piccolo laboratorio la famosa borsa promessa, bella colma di lustri zecchini d’oro.
Da allora non solo i pastori, ma tutti i contadini slavi istriani sia per andare sui campi che nei giorni di festa indossarono le famose braghesse, le quali poi sarebbero quei pantaloni lunghi poco sotto il ginocchio e con un piccolo taglio laterale, cioè praticamente il risultato della famosa scommessa persa dal diavolaccio.
Si racconta alla fine che con quegli zecchini d’oro il sarto comprò tanta di quella stoffa grezza di lana marrone con la quale riuscì a cucire un paio di braghesse a tutti gli uomini di Rozzo. E tanto lunga era la pezza che poté anche cucire le gonne per tutte le donne che – questo non so se sia vero – ancora oggi le conservano nei vecchi bauli di famiglia e le indossano solo in occasioni molto particolari.

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