N. 807 – 04 Gennaio 2012
Sommario
01 - Il Piccolo 03/01/12 Entro il 2012 a Torre Valle e Visignano le sedi degli italiani (p.r.)
02 – La Voce del Popolo 31/12/11 Cherso: Gianfranco Surdić, il rinnovo di Palazzo Pretorio è essenziale per l'avvio di nuove attività (Tamara Tomić)
03 - Il Piccolo 03/01/12 Le pecore dietro al rilancio della terra dei cici, il Circolo Istria con gli enti locali e gli ateni cerca di far tornare i villaggi inurbati all’allevamento (Bruno Lubis)
04 – La Voce del Popolo 31/12/11 Speciale - Cherso / Per calli e piazze del capoluogo dell'isola di sasso che l'ulivo fa d'argento (Roberto Palisca)
05 - Il Messaggero 03/01/12 Roma - Dentro il Quartiere Giuliano-Dalmata: Arrampicato su una collina: è la riproduzione di una piccola Venezia Giulia (Marida Lombardo Pijola)
06 - Il Piccolo 28/12/11 L'Intervento di Marino Trani - La "nuova realtà" politica che stravolse Pirano
07 – La Voce del Popolo 31/12/11 E & R - Tre appuntamenti importanti nel 50.esimo del Raduno Fiumano del 2012 (rtg)
08 - Il Piccolo 31/12/11 Le grandi proprietà confiscate agli italiani - Capodistira : Il sindaco socialista Nobile accecato e depredato (Silvio Maranzanza)
09 - Il Messaggero 03/01/12 Roma- Villaggio Giuliano Dalmata: I ricordi di Romano Sablich, 87 anni, il primo abitante del quartiere (m.l.p.)
10 – La Voce del Popolo 24/12/11 Speciale - Castelvenere : «Noi Castellani, petto de ferro», ovvero una delle Comunità più vivaci del Buiese ( Serena Telloli Vežnaver )
11 – La Voce del Popolo 24/12/11 Speciale - Castelvenere parla tre lingue e in paese nessuno ha bisogno di interpreti (Serena Telloli Vežnaver)
12 - LA CICALA zaratina n°15 - Novembre 2011 L'Angolo dei Ricordi - Walter Matulich: Percorsi e divagazioni - Zara estate 2011 (W.Matulich)
13 - Panorama Edit 15/12/11 Una città-stato di cristiani che si affacia alle porte del mondo d'Oriente, la particolareggiata testimonianza su Ragusa-Dubrovnik ad opera di Lucas de Linda (Giacomo Scotti)
14 - Il Piccolo 27/12/11 La strada degli ulivi di Rumiz - Il racconto della traversata a piedi dell’Istria da Trieste a Capo Promontore diventa una guida escursionistica
15 – La Voce del Popolo 29/12/11 Zagabria - «Siano resi i beni confiscati dagli ustascia»
A cura di Stefano Bombardieri
Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti :
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.arenadipola.it/
01 - Il Piccolo 03/01/12 Entro il 2012 a Torre Valle e Visignano le sedi degli italiani
POLA Dopo la pausa di Natale e Capodanno sono ripresi i lavori di costruzione delle sedi di tre Comunità degli italiani in Istria, che verranno inaugurate entro l’anno. I finanziamenti arrivano da Roma per il tramite dei collaudati canali Ui-Upt. Stiamo parlando anzitutto di quella di Torre con 400 soci nell'entroterra parentino, per un investimento pari a un milione di euro. Ora si sta lavorando alla seconda fase nella quale verranno realizzati una sala polivalente, gli spazi per l’asilo italiano che finalmente avrà una sede stabile e alcuni vani da affittare. Quest’ultimo aspetto è molto importante in quanto i proventi dell’affitto andranno a formare la piattaforma economica della Comunità, rendendola meno dipendente dalle dotazioni dell’Unione italiana. L'andamento dei lavori viene seguito giorno per giorno dalla dinamica presidente Roberta Stojnic. A Valle invece si sta procedendo alla ristrutturazione interna di Castel Bembo, del costo pari a 1,4 milioni di euro: è un'elegante struttura architettonica del 15.o secolo in stile gotico rinascimentale i cui esterni e il tetto sono stati restaurati una decina di anni fa. Poi i lavori si erano fermati per ostacoli di varia natura. Ora il cantiere è stato riaperto e il merito va in particolare alla presidente della presidente cav. Rosanna Bernè. A lavori ultimati, oltre alla Comunità degli italiani, nel castello troveranno sede anche altre associazioni culturali operanti a Valle. A Visignano, nel circondario di Parenzo, sta crescendo a vista d’occhio il nuovo palazzo di 400 metri quadrati, della locale Comunità, fondata nel 1992. La struttura disporrà di una sala per le riunioni, spettacoli e manifestazioni varie, della biblioteca, dell’ufficio di segreteria e presidenza, di un bar nonché di vari vani per le attività. Il costo del progetto è di 550mila euro. Va detto che l’immobile è stato donato dal Comune. Il presidente della Comunità Erminio Ferletta si è detto convinto che il ventaglio di attività verrà allargato (ora esistono il coro misto, il coro femminile e i minicantanti) con nuove sezioni in grado di calamitare l’interesse dei giovani. La sua inaugurazione nell’autunno prossimo coinciderà con il 20.o anniversario di fondazione del sodalizio: sarà una grande festa. (p.r.)
02 – La Voce del Popolo 31/12/11 Cherso: Gianfranco Surdić, il rinnovo di Palazzo Pretorio è essenziale per l'avvio di nuove attività
A colloquio con il presidente della Comunità degli Italiani isolana, Gianfranco Surdić
La Comunità degli Italiani di Cherso conta oggi oltre 250 soci; è un sodalizio compatto, il cui obiettivo principale è la salvaguardia della cultura e della lingua italiane sul territorio. A confermarcelo è il presidente della CI, Gianfranco Surdić, con il quale abbiamo parlato delle attività principali del sodalizio e dell’atteso rinnovo della sede, lo storico e monumentale Palazzo Pretorio.
"A Cherso, come forse qualcuno saprà, molti connazionali avevano fino a qualche decennio fa grande timore a dichiararsi italiani. Oggi, grazie al cielo, il nostro avvicinamento verso l’Europa ha fatto scomparire qualsiasi tipo di pregiudizio ed è in questa prospettiva che si inserisce il sempre maggior interesse degli abitanti affinché anche le nuove generazioni imparino l’italiano" - ci dice il presidente della CI.
I GRANDI MERITI DEL COMPIANTO NIVIO TOICH Una conferma del sempre maggiore interesse della popolazione locale verso la lingua e la cultura italiane è l’aumento del numero di soci del sodalizio registrato negli ultimi anni. Aumento che, secondo Gianfranco Surdić, è destinato a salire ancora. "Tra i nostri nuovi soci ci sono soprattutto persone nella fascia d’età compresa tra i 30 e i 40 anni" – rileva il presidente –, "anche se ci diamo molto da fare per coinvolgere nelle nostre attività pure i più piccoli, organizzando corsi di musica in Comunità" – spiega. Accennando ai nuovi progetti rileva tuttavia: "Il nostro obiettivo di base rimane quello di continuare con le attività intraprese da chi mi ha preceduto. Il compianto presidente Nivio Toich è stato per tutti noi e per l’intera Comunità degli Italiani di Cherso una figura storica; è soprattutto grazie alla sua opera e al grande impegno suo e delle istituzioni dell’UI e dell’UPT che ha saputo coinvolgere, che siamo riusciti ad arrivare ai risultati di oggi e all’acquisto della nostra sede".
GRANDE INTERESSE PER I CORSI DI ITALIANO Un particolare vanto e successo per la CI di Cherso sono i corsi di italiano, per i quali l’interesse aumenta progressivamente di anno in anno. "Anche i bambini che a casa non parlano l’italiano sono interessati a imparare la nostra lingua, fatto che conferma una grande integrazione della nostra comunità sul territorio" – sottolinea Gianfranco Surdić. La CI di Cherso ha avviato infatti negli ultimi tempi sempre più strette collaborazioni con gli altri sodalizi, soprattutto dell’Istria, tra cui con quelli di Capodistria e Dignano, che recentemente sono stati ospiti della CI di Cherso. "Il nostro più grande desiderio è intensificare le collaborazioni con tutte le Comunità degli Italiani e allargare ulteriormente le nostre attività e tutto il nostro operato sta andando proprio in questa direzione".
Quella che risulta al momento l’attività di maggior spicco, con un grande numero di interessati, sono appunto i corsi di italiano, che sono gratuiti per tutti i soci della CI ma che sono aperti a tutta la cittadinanza, ovvero ai ragazzi delle scuole elementari nella fascia d’età compresa tra i 7 e i 14 anni. A Parlarcene è la vicepresidente della CI di Cherso, la professoressa Izabela Mužić, in quanto è proprio lei a gestirli.
"Al momento, tra soci e simpatizzanti, sono circa 80 i ragazzi che seguono i nostri corsi. Per una cittadina piccola come Cherso è un numero davvero considerevole" – rileva. "I gruppi di italiano attivi sono sei e sono suddivisi a seconda dell’età dei corsisti e del grado di conoscenza della lingua. Per i principianti i corsi sono inizialmente bilnguui. Poi, più si approfondiscono le lezioni, più parliamo in italiano. Si tratta di alunni dalla prima all’ottava classe della scuola elementare" – precisa la docente. La professoressa, Mužić ha terminato gli studi presso un’Università italiana e si dedica dell’insegnamento della lingua italiana con molta passione.
Visto il grande interesse che i giovani e i loro genitori dimostrano per la lingua italiana, il presidente della CI si augura che un giorno, alla pari della CI di Lussinpiccolo, anche a Cherso si arrivi all’apertura di un asilo in lingua italiana.
L’ATTESISSIMO RINNOVO DELLA SEDE Non è mancato anche il riferimento a Palazzo Pretorio, sede della CI di Cherso. "Purtroppo negli ultimi tempi siamo stati costretti a svolgere le nostre attività in condizioni non proprio ottimali, dato che il palazzo che ospita la nostra Comunità è stato dichiarato inagibile" – ricorda Surdić. "Per motivi di sicurezza ci siamo trasferiti in una sede temporanea che ci è stata concessa dalla municipalità di Cherso" – ci spiega.
Il rinnovo di Palazzo Pretorio, acquistato anni fa dall’Unione Italiana, rimane sicuramente il desiderio più grande per la CI di Cherso. I lavori per rimettere completamente a nuovo l’intero edificio hanno finalmente preso il via a metà dicembre, e tra meno di un anno saranno ultimati.
"Ringraziamo davvero di cuore tutti coloro che hanno contribuito all’avvio di quest’importante iniziativa. Finalmente anche la CI di Cherso avrà degli spazi adeguati per poter svolgere e ampliare le sue attività" – ci dice Gianfranco Surdić.
Il bell’edificio in cui la CI ha sede è situato nella piazza centrale della città e si estende su una superficie di circa 600 metri quadrati disposta su tre piani, con in più il pianterreno. Al termine degli interventi edili i primi due piani saranno a disposizione della Comunità degli Italiani di Cherso; il terzo sarà ultimato a grezzo per un utilizzo ancora da destinarsi, mentre il pianoterra verrà ceduto in affitto. Tra i progetti futuri previsti dal sodalizio di Cherso ci sono poi mostre, presentazioni di libri e incontri sportivi e manifestazioni musicali oltre ai corsi per i più piccoli. Per la realizzazione di tali progetti però, bisognerà aspettare il rinnovo della sede della CI. Rassicurante il fatto che "per fortuna non dovremo aspettare tanto", ha sottolineato Surdić, visto che entro un anno si prevede vengano ultimati i lavori.
Tamara Tomić
03 - Il Piccolo 03/01/12 Le pecore dietro al rilancio della terra dei cici, il Circolo Istria con gli enti locali e gli ateni cerca di far tornare i villaggi inurbati all’allevamento
Il Circolo Istria con gli enti locali e gli ateni cerca di far tornare i villaggi inurbati all’allevamento
di Bruno Lubis
TRIESTE Il Circolo di cultura istro-veneta Istria lancia un altro progetto. In occasione della festa di San Martino a Muggia, è stato presentato alla cittadinanza il Parco della Concordia, specie vegetali e animali tipiche della zona, un ettaro e mezzo circa a uso dei ragazzi sloveni e italiani che vorranno visitarlo. Ebbene, in quell’occasione ha fatto capolino il progetto di recuperare almeno un villaggio dei cici, per renderlo abitabile e per accogliervi famiglie di giovani che abbiano volontà di vivere secondo la tradizione ma con possibilità di guadagnare il giusto. La terra dei cici è praticamente abbandonata, i giovani da qualche anno hanno preferito emigrare nelle città, dove è più facile trovare lavoro. I villaggi sono stati quasi del tutto lasciati allo sbando, le pratiche tradizionali non ci sono più. Si tratta in sostanza di rimettere in sesto le case, riattare gli orti, riattrezzare ovili e pascoli. Per il recupero della pecora istriana. Ovviamente il progetto potrà andare in porto solo se si troveranno finanziamenti pubblici. Dunque, dopo le api e il bue, il Circolo Istria ha preso i primi contatti – pare con buone prospettive di riuscita – con la Provincia di Trieste, con i Comuni di Lanisce, Cosina e San Dorligo Dolina per avviare il progetto di recupero urbanistico che dovrà portare necessariamente al recupero della pecora istriana, visto che carbone da riscaldamento non ne serve più. Oltre gli amministratori locali, dirigenti del Circolo Istria stanno interessando studiosi delle università di Trieste e Lubiana per dettagliare meglio le fasi del recupero urbanistico e delle aree ora abbandonate. Ci sono allevamenti sotto il Monte Auremiano ma non rimane nulla del faraonico progetto – a suoi bei dì sponsorizzato dal defunto ministro Goria – per allevare intensivamente la pecora sarda sui monti della Vena. Progetto subito abortito. La pecora istriana che era sta valorizzata dagli istro-rumeni arrivati dopo lunghissime transumanze dai Carpazi fino ai monti della Vena: a Nord del Monte Maggiore chiamati appunto cici, a Sud (nella Piana di Cepic) ciribiri. Erano taglialegna, pastori e addirittura carbonai: portavano a Trieste ciocchi di legna da ardere (non si pensava allora al riscaldamento a gas) assieme a carbone ottenuto ai margini dei boschi della zona dell’Istria da settentrione fino al Quarnero. E si dedicavano alla coltivazione delle patate, delle rape, e all’allevamento delle pecore. Pecore adatte al latte e alla carne, selezionate dalle difficoltà climatiche e naturali dell’area geografica. Purtroppo la lana che la pecora istriana offre è di scarsa qualità. Ma oggi l’allevamento ovino tipico dell’Istria andrebbe aumentato a beneficio di quanti amano la carne di agnello e i formaggi pecorini. Invece si fanno arrivare agnelli dalla Nuova Zelanda, di carne mediocre che però offrono un vello pregiato per le sartorie industriali dei giacconi e dei cappotti. Arrivano milioni di agnelli dall’altro capo del mondo, dopo viaggi costosi per denaro ed energie, crudeli per gli animali, mentre a due passi da casa si trova già un prodotto di assoluta eccellenza.
04 – La Voce del Popolo 31/12/11 Speciale - Cherso / Per calli e piazze del capoluogo dell'isola di sasso che l'ulivo fa d'argento
Servizio di Roberto Palisca
Il centro storico della città di Cherso ha conservato integro tutto il fascino che lo rese e lo rende a tutt'oggi un vero borgo marinaro
Pur essendo relativamente piccola, Cherso, capoluogo dell’omonima isola quarnerina, gode oggi del riconoscimento ufficiale di Città. Cittadina principale dell’isola di sasso che l’ulivo fa d’argento come la definì D’Annunzio, anche se nel corso dei secoli fu la vicina Ossero ad aver rivestito il ruolo di principale località isolana, in quanto importante centro ecclesiastico, Cherso è sempre stata importante centro abitato. Situata nella parte nord-orientale dell’isola, in un vasto e ben protetto canalone ricco di splendide zone balneari, ricchissima di sontuosi palazzi costruiti in epoca veneziana, oggi è una cittadina che vive prettamente di turismo.
Il centro storico della città ha conservato integro tutto il suo fascino e tanti sono i monumenti di importanza artistica e culturale che attirano l’attenzione di chi si incamnmina attraverso le calli della cittadina. Le tre porte cittadine, dette Bragadina, Marcella e di San Michele, che risalgono al XVI secolo, la torre rotonda e quella angolare, che erano un tempo parte integrante delle fortificazioni, la chiesa di San Isidoro, del lontano XII secolo, la loggia rinascimentale con il palo della vergogna, il palazzo della famiglia Arsan, più tardi Petris, costruito nel XV secolo, che con la sua elegante architettura tra tardo gotico e Rinascimento è uno dei più antichi e che oggi ospita anche il museo civico.
Ma tanti sono i piccoli gioielli che testimoniano ancora oggi il ricco passato di Cherso. Una serie di chiesette in stile gotico, tardogotico e rinascimentale, tante altre chiese, tra le quali la più importante è quella di Santa Maria delle Nevi, con il suo alto campanile e con il suo magnifico portale sormontato dall’immagine della Vergine col Bambino, costruita nel XVI secolo; il convento francescano, del XIII secolo, con la chiesa di San Francesco, eretta circa cent’anni dopo, i suoi due chiostri ed il piccolo giardino con l’aiuola delle ninfee ed il pergolato da cui in autunno pendono succosi e grossi grappoli d’uva; il monastero benedettino, del XV secolo. Tantissimi gli stemmi nobiliari che compaiono sulle facciate e sui portali delle abitazioni. Tra i palazzi rinascimentali più belli, quelli delle famiglie patrizie dei Rodinis, Moise e i Petris.
E poi i resti dell’antica cinta muraria, la porta principale della città con la torre dell’orologio. Per assaporarne tutta la bellezza basta concedersi il tempo di fare una passeggiata attraversi i suggestivi vicoli e le piazzette della città vecchia, ordinati e silenziosi, che hanno mantenuto a tutt’oggi il sapore altrove dimenticato dei veri borghi marinari. Nella parte sud orientale della città, all’interno della cinta muraria dell’inizio dell’800, si identifica la forma rettangolare alla quale si accedeva dalla Porta che dava sulla piazza principale. Le case ai lati della porta, infatti, sono sorte lungo la linea delle antiche mura medievali.
Una cittadina che ha avuto un passato ricco e rigoglioso, fatto di navigatori illustri, di commercianti benestanti e soprattutto di grandi capitani. Forse proprio per questo gli abitanti di Cherso hanno mantenuto in sé una certa dose di grande orgoglio, al punto da considerare un po’ chi proveniva dai paesini minori dell’isola gente... di paese.
A proposito di Cherso, nell’antico Saggio d’osservazioni sopra l’isola di Cherso ed Ossero, di Alberto Fortis, edito a Venezia nel 1771 leggiamo: "Dopo la decadenza dell’Impero Romano passò Cherso ed Osero da un Padrone all’altro; ed ora l’impero Greco, ora alla Corona d’Ungheria fu incorporata, ora da Bani, e da Re Slavi ricevette leggi, senza che avvenimenti rimarchevoli la rendessero illustre. Saba, Capitano de’ Saraceni la devastò verso la metà del IX secolo e dalla Cronaca d’Andrea Dandolo apparisce che i Signori Veneziani v’avevano dominio del 991".
Dagli atti d’archivio si sa che nel 1.280, il doge veneziano Giovanni Dandolo nominò conte a vita di Cherso, Marino Morosini, detto Bazeda. Rimase però sull’isola soltanto per pochi mesi a causa dell’inizio dei conflitti fra la nobiltà dell’epoca e i cittadini. Disordini dovuti allo sfruttamento del popolo da parte dei signori, che condussero ben presto alla revisione de vecchi ordinamenti e indussero le autorità chersine a stabilire delle nuove regole.
A Cherso il periodo di dominio vero e proprio della Repubblica di San Marco si consolidò politicamente nei primi anni del ‘400, quando principi e norme che regolavano la vita dei comuni soggetti alla Serenissima vennero raccolti pure negli Statuti di Cherso. All’epoca il potere era detenuto dal Consiglio della Magnifica Comunità, che amministrava l’isola intera. Tutti i nobili facevano parte del Consiglio, di diritto, non appena avevano compiuto i 18 anni; i rappresentanti del popolo erano invece 12 e venivano nominati dal conte su proposta di quattro popolani ex consiglieri.
La carica più importante della Comunità era quella di conte ed era a lui che spettava la presidenza del Consiglio. Rappresentando Venezia la sua attività era direttamente controllata dalla Serenissima. In certi periodo il conte ricoperse l’incarico su mandato, in altri invece figurava nominato a vita. Governava la città affiancato da un cancelliere, dai magistrati, dagli ufficiali e dai salariati.
Fu così fino al 1413, quando scoppio la guerra con l’Ungheria, per l’esattezza con Sigismondo. I conflitti si trascinarono avanti per alcuni mesi in un’alternanza di scontri e trattative che si conclusero con una tregua di cinque anni firmata sulla base dell’"Uti possidetis": ciascuna delle parti in lotta insomma, ebbe il diritto a governare quella parte di terre che era riuscita a conquistare. Ma la pace durò poco. Nel 1420 la guerra contro Sigismondo riprese con Pietro Loredan alla guida della Flotta veneta e le ostilità si protrassero fino al 1437. Verso la metà del XV secolo in cominciarono le incursioni dei turchi.
La città antica di Cherso sorgeva sul colle di San Bartolomeo, ed era abitata fin dalla preistoria. Nei loro scritti giunti fino a noi, sia Plinio chee Tolomeo parlano di Crepsa e Crexa, due nomi latini dai quali è facile capire come si sia formato in seguito il nome odierno del luogo, sia nella sua forma italiana che in quella croata.
Si sa che già in epoca romana qui esisteva un borgo con un porto, segno che il sito aveva fin da quell’epoca una grande importanza come scalo marittimo. Sul grande piazzale antistante la Torre dell’orologio in passato c’era la chiesa di San Giovanni, una costruzione sacra che venne demolita nel 1828 i cui resti riemersero nell’ambito degli scavi per la realizzazione di un progetto di rinnovo della vecchia pavimentazione del piazzale, promosso dalle autorità cittadine nell’inverno del 2004. Ricercatori e archeologi già sapevano dell’esistenza dei preziosi reperti e gli scavi avviati dalla municipalità furono l’occasione buona per effettuare sondaggi e ricerche che non si erano potuti realizzare prima.
La chiesa, le cui fondamenta vennero riportate alla luce apparteneva alla Confraternita di San Giovanni di Piazza, soppressa negli anni del dominio francese, quando vennero abolite quasi tutte le congregazioni laiche. Si trattava di una costruzione medievale, forse di epoca paleocristiana, eretta al di fuori delle antiche mura della città, probabilmente sulle fondamenta di una costruzione molto più antica. Ultimate le ricerche archeologiche, i lavori di ripavimentazione della piazza erano stati portati a termine e, come era già stato fatto con la pavimentazione della via a sud del Duomo, ovvero con l’antico mercato del pane, i contorni delle fondamenta della chiesa sono stati chiaramente delineati sul piazzale con delle mattonelle di colore diverso dalle altre.
Ma tante sono, dicevamo, le cose belle da vedere a Cherso. Passata la Porta marina della Torre dell’orologio, si arriva dopo pochi passi nella piazzetta dominata dal bel campanile e dall’armoniosa facciata del Duomo di Santa Maria delle Nevi. L’imponenza e lo stile della chiesa e della torre adiacente fanno comprendere immediatamente l’importanza della chiesa che, dopo che il vescovo trasferì qui la sua residenza, sostituì a suo tempo la cattedrale di Ossero.
L’interno del Duomo di Cherso è a tre navate. Merita di essere visitato soprattutto per una Pietà del XV secolo e di unl dipinto che raffigura la Cherso di un tempo. Sull’altare principale si conservano le reliquie di San Isidoro, patrono della città, e quelle di San Gaudenzio, patrono della Diocesi di Ossero.
Uscendo dalla chiesa esvoltando a destra si arriva all’altrettanto bellissima chiesa di Sant’Isidoro, patrono della città. In passato in questa chiesa entravano i consiglieri municipali, per rivolgere al patrono una preghiera comune prima delle sedute del Consiglio. Se chiedete informazioni ai veri chersini, vi diranno tutti che è questo il vero cuore di Cherso. Dietro alla chiesa è conservata un’antica colonna con capitello che risale al VII o all’ VIII secolo.
05 - Il Messaggero 03/01/12 Roma - Dentro il Quartiere Giuliano-Dalmata: Arrampicato su una collina: è la riproduzione di una piccola Venezia Giulia
Il villaggio operaio ora è residenziale
di MARIDA LOMBARDO PIJOLA
Ci sono alcuni sfregi alla memoria che feriscono Roberta, se ripensa all'epica del quartiere Giuliano Dalmata, alla fuga rocambolesca di suo nonno per salvarsi dalle foibe, al dolore dell'esilio, alla fatica dei suoi nel ricostruire a un pezzo della patria a Roma, assieme ad altri 2.500 istriani e dalmati in fuga da Tito. Ma c'è una cosa che la ferisce più di ogni altra. E' quando qualcuno del quartiere chiede: ma questo signor Giuliano Dalmata chi era? «Che vuoi rispondere? E' ignoranza».
Invece Roberta Fidanzia, 38 anni, da anni si scatena come una Indiana Jones della memoria nell'esplorazione di quel piccolo mondo segnato da grandi dolori. Divulga ogni leggenda delia diaspora dalla quale ha preso vita il suo quartiere, assai prima che ad impossessarsene arrivassero altre e più eterogenee umanità: ì «nuovi», li definiscono i «vecchi», anche se qui affluiscono da più di quarant'anni. Dicono «i nuovi» per non dire i coloni, i barbari, i Proci, gli invasori o altro così, anche se quelli rappresentano ormai il 90 per cento dei 23.000 che vivono qui, così da poter dire che i giuliano dalmati dell'omonimo quartiere, salvo una esigua minoranza, sono di Roma e delle sue multiformi identità. Un microcosmo nella città multietnica, sebbene l'integrazione tra italiani diversi sia inciampata su qualcosa di impreciso. Roberta, che lavora alla Sapienza, e di questo suo voler essere custode della memoria ha fatto una ragione di vita o poco meno, dice che è colpa di quegli altri: «Guardi qua, guardi là: un museo a cielo aperto, lapidi, cippi, mosaici, vetrate, targhe, le vie e la scuola dedicate ai personaggi della nostra storia, la chiesa a forma di arca, metafora del Toscana, che trasportava i profughi. Ma pochi si chiedono quale sia il significato di questi simboli. Eppure tutto parla di dolore, di nostalgia, di una comunità che qui ha trovato la forza di ricostruire».
Ricostruire la propria terra attorno agli alloggi che avevano ospitato gli operai chiamati a edificare quello che sarebbe diventato l'Eur: padiglioni, successivamente trasformati in case. Il Giuliano Dalmata nacque così, nel '47. In questo minuscolo quartiere a ridosso della Laurentina, inaugurato da Andreotti, visitato da due papi e da due capi di Stato, tutto è ancora intatto. «Ma nulla è più com'era», sospira Roberta. E quasi tutti ignorano il fatto che questa insolita periferia, così linda, limpida e aggraziata, non sia che la riproduzione in miniatura di un pezzo di Venezia Giulia: un bonsai di metropoli, arrampicato su una piccola collina, aria fresca, ordine, tranquillità, silenzio, piccole palazzine dagli intonaci arancione, giardini alberi fiori, silenzio irreale. «Una proseguimento dell'Eur in un'oasi di pace», s'inorgoglisce Giorgio Marsan, 51 anni, comitato di quartiere Gentes.
E chissà quanto c'è dello spirito ferrigno istriano, nella resistenza grazie alla quale il quartiere ha vinto tante battaglie. «Abbiamo fermato la costruzione di una strada a quattro corsie, e della parte finale della corsia preferenziale per un filobus, strutture che avrebbero fatto strage di verde e di tranquillità». Adesso lottano contro lo spaccio notturno nella piazzetta, («ancora aspettiamo una telecamera che ci hanno promesso da due anni»); contro l'occupazione abusiva di un palazzo Cotral, («120 famiglie in condizioni disumane, e tengono pure bombole a gas sotto il sole sui balconi»); contro il progetto di collocare uffici nel palazzo del vecchio orfanotrofio per bambine coi genitori uccisi dai titilli, («adesso sono vecchie, e per coerenza bisognerebbe fame una residenza per anziani»). Lottano, infine, contro l'Ama, che pulisce solo le strade principali, «e per il resto c'è gente che viene giù con le ramazze».
«Il fatto è che i nuovi sporcano ciò che prima era un salotto», si dispera Lidia Jannuzzi, 66 anni. «E poi si infastidiscono se parliamo in dialetto, se raccontiamo la nostra storia, se li rimproveriamo quando lasciano che i loro bimbi si arrampichino sui nostri monumenti, rovinandoli. I nuovi hanno imbarbarito e disgregato la comunità».Gli esuli ormai si rivedono quasi solo ai funerali, e per il resto stanno acquattati nelle loro case a struggersi di nostalgia, guardinghi e solitari come esemplari di una specie in estinzione respinta dal suo stesso ambiente, senza capire se siano stati loro a emarginare gli altri, oppure viceversa. Ada Viora, Giovanna Vallone e Loredana Dommaruma stanno a chiacchierare in piazza. «Sì, lo sappiamo che ci sono quelli di origine...come si chiama», «qualcuno viene a messa la domenica, mi pare, no?», «credono di essere chissà che cosa», «sono riusciti a farci togliere pure il mercatino». Mercatino di corso Senigaglia, «colpevole della morte di Tullio Sincich, colpito da malore: ha bloccato l'ambulanza», s'indigna Lidia. Era il pivot della leggendaria squadra di pallacanestro Giuliana, campione in serie A. «C'è una targa sulla sua abitazione, eppure nessun sa chi sia», si strugge nuovamente Lidia.
«Ignoranza», ripete Donatella Schurzel, presidente provinciale dell'associazione Venezia Giulia e Dalmazia. «C'è gente che vive nel nostro quartiere da anni ignorandone la stpria, senza desiderare di conoscerla. Ai bimbi delle elementari, per esempio, nessuno aveva mai spiegato chi fosse Tosi, al quale la loro scuola è dedicata. Abbiamo apposto una targa, spiegando che era un grande educatore annegato dai titini, ed i suoi alunni andarono a recuperarne il corpo nell'Adriatico». Roberta, poi, organizza moduli su moduli per raccontare nelle scuole le sventure di tutti quegli Ulisse che ricostruirono la loro Itaca altrove. «Adesso, talvolta, vedo bimbi che portano per mano i loro genitori davanti ai monumenti e spiegano», e un po' lei si commuove.
La piccola Lucia, per esempio ha scritto in un tema: «Adesso che conosco tutta la storia, chiedo scusa al mio quartiere per non aver saputo». Era ignoranza. A volte, se presa in tempo, puoi guarire.
06 - Il Piccolo 28/12/11 L'Intervento di Marino Trani - La "nuova realtà" politica che stravolse Pirano
L’INTERVENTO DI MARINO TRANI
Nato a Pirano d’Istria 85 anni fa, lì ho vissuto i duri anni della guerra e quelli dolorosi del dopoguerra. Di un tanto vorrei qui render testimonianza imparziale – per quanto umanamente possibile – soprattutto per quanti non c’erano o non sanno.
Pirano era un’operosa cittadina di circa 10.000 anime in maggioranza dedite alle "arti del mare". Il Comune, uno dei più vasti dell’Istria, andava dalla punta di Salvore a Castelvenere e giù per la Valle di Sicciole. Quasi tutti erano proprietari della casa – tenuta "linda come una sposa" – fine ultimo di una vita di sacrifici e rinunce, che veniva gestita spesso dalla donna, perché i mariti erano assenti anche per anni. Al ritorno dai "viaggi" trovavano anche figli grandicelli che nemmeno conoscevano.
Provetti salinari, coltivavano pure il loro pezzo di terra e ciò non permise "l’invasione" di stranieri, finché non scoppiò la maledetta guerra che inghiottì la gioventù migliore. Il 15 aprile 1945, dopo quasi un anno di lager, scappai a piedi da Berlino, prima dell’arrivo delle truppe russe. Giunsi a Udine a bordo di un trenino-tram bianco, bellissimo e seppi che Trieste e l’Istria erano state occupate dagli jugoslavi. Con Pin, l’amico carissimo, raggiunsi Pirano dove ormai nulla era più come prima. Venni avvicinato da elementi locali che tentarono di farmi aderire "alla nuova realtà". Rifiutai e cominciarono a guardarmi di brutto, ma non ci feci caso; avevo la coscienza pulita. Cominciai però a sentirmi spiato, seguito per strada. Qualcuno sparì nel nulla, altri vennero brutalmente picchiati anche per strada, appartamenti venivano messi a soqquadro, anche il solo pronunciare la parola Italia era molto pericoloso. Però continuavano a ripetere che ora si viveva in libertà e democrazia. Si ballava nella ex Casa del Fascio e nella ex Casa Balilla. Per un po’ tutto andò bene, ma poi iniziarono a interrompere il ballo per imbastire un vero comizio politico. In un attimo la sala si vuotava; per "punizione" proibirono i balli e noi tornammo a ballare nelle cantine, come al tempo di guerra.
Quasi ogni settimana le strade di Pirano venivano invase da gente portata da fuori – che poi sparivano nel nulla – che con bandiere e cartelli inneggiavano alla Jugoslavia. Nel mucchio si vedevano pure alcuni "piranesi". Pian piano Pirano si svenava della sua gente che veniva subito sostituita da stranieri. È successo pure che famiglie assenti da casa per un paio di giorni, al ritorno la trovavano occupata da estranei che non se ne andarono più. Intanto continuavano le violenze e gli arresti, anch’io venni convocato per due volte in polizia. Non mi fecero né mi dissero nulla, ma il mattino dopo salii sul vaporetto e sbarcai al Molo Pescheria novello esule.
I miei genitori rimasero ancora alcuni anni. Durante le elezioni non andò a votare quasi nessuno; al pomeriggio due energumeni spalancarono la porta della loro cucina con una pedata ingiungendo di andare a votare. Poi come quasi tutti, anche loro scelsero l’esilio. Li attesi a Scofje; passato il confine, mia madre scoppiò in un pianto disperato, inconsolabile. Poi ne ho viste tante altre di quelle madri piangere; sapevano che l’attendevano l’umiliazione del Campo Profughi. Quasi tutti coloro che all’inizio accettarono quel regime poi si rifugiarono a Trieste e in Italia, pure "gli idealisti" che avevano aderito credendo di poter così realizzare i sogni di libertà e democrazia trasmessi loro dagli avi.
Tra loro c’erano pure persone stimate. Gli altri avrebbero poi formato la "minoranza italiana". Da noi non è mai esistita una "cultura plurale", i primi contatti con gente straniera ebbero inizio dopo la Prima Guerra Mondiale con i matrimoni misti. Ora, quando vado in Istria, e lo faccio spesso, non ritorno mai nella carissima Pirano, sto male. Preferisco la vicina Cittanova, patria di Marco Coslovich; vi trovo alcuni giovani pescatori con i quali sto bene.
07 – La Voce del Popolo 31/12/11 E & R - Tre appuntamenti importanti nel 50.esimo del Raduno Fiumano del 2012
a cura di Roberto Palisca
Il Libero Comune di Fiume in esilio ha decisodi avviare un programma articolato con varie iniziative
Temi importanti all’ordine del giorno dell’ultima Giunta del Libero Comune, svoltasi a Padova. Tra questi l’accento sull’atteso 50.esimo Raduno fiumano che si svolgerà nel 2012. Sentite e vagliate le proposte dei consiglieri, è stato deciso di avviare un programma articolato che "copra" l’anno con varie iniziative, in modo da soddisfare le diverse esigenze ma soprattutto dare la possibilità ad un’ampia rappresentanza di fiumani di partecipare alle singole iniziative. È stato stilato per tanto un programma di massima che verrà perfezionato nel corso dei prossimi mesi.
Ciò che possiamo anticipare, sono i tre appuntamenti principali: aprile a Montegrotto con la partecipazione della Comunità degli Italiani di Fiume e realtà ad essa vicine per dar vita ad un incontro culturale con concerto e spettacolo.
In occasione di San Vito a Fiume, si svolgerà a Palazzo Modello il Consiglio allargato del Libero Comune, alla presenza di consiglieri ed ospiti per dibattere sui temi "vitali" dell’associazione e ribadire le tappe della collaborazione con la Comunità degli Italiani. Uno spazio sarà riservato ai giovani ed ai ragazzi nell’ambito del contatto sempre proficuo con la locale scuola italiana di ogni ordine e grado.
A fine settembre il Raduno a Roma in collaborazione con il Centro studi e Museo Archivio di Fiume con un convegno sulla nostra storia, l’attenzione della politica e l’incontro con il Quartiere giuliano-dalmato. L’ultimo raduno fiumano svoltosi a Roma risale a 22 anni fa.
Nel corso dell’anno poi, il dialetto fiumano sarà reso protagonista dalle presentazioni itineranti del Dizionario fresco di stampa in varie città italiane per dare visibilità ad un lavoro certosino portato avanti da un gruppo di fiumani di Milano raccolti attorno a quel "vulcano" che è Padre Katunarich.
A presentare il risultato di quest’opera iniziata dal Milch ed ora riproposta ampliata e ridefinita da prof. Pafundi, saranno Fulvio Mohoratz e Mario Bianchi che l’hanno già presentato al pubblico di Montegrotto durante il Raduno, poi a Fiume con grande successo e che saranno a dicembre a Trieste (sabato 17 alle ore 16.00 nella Sala Quarantotti Gambini del Civico Museo della Civiltà Istriana Fiumana e Dalmata) nell’ambito della Bancarella- Anteprima e La sera del dì di Festa, manifestazione che presentiamo in altra pagina del nostro giornale.
Le iniziative per il 50.esimo dal primo Raduno saranno organizzate da un Comitato (Laura Calci, Marino Segnan, Edorado Uratoriu, Rosanna Turcinovich Giuricin), nominato dalla Giunta che si avvarrà del supporto della Segreteria del Libero Comune guidata da Mario Stalzer e della collaborazione di Marino Micich, direttore del Museo Archivio di Fiume, per il Raduno di Roma. (rtg)
08 - Il Piccolo 31/12/11 Le grandi proprietà confiscate agli italiani - Capodistira : Il sindaco socialista Nobile accecato e depredato
Il sindaco socialista Nobile accecato e poi depredato
Amico di Turati e Kuliscioff e primo cittadino di Capodistria prima del fascismo venne rapito e picchiato dai suoi coloni di Bertocchi in un "esproprio proletario"
di Silvio Maranzana
TRIESTE La vicenda di Carlo Nobile, amico di Filippo Turati e Anna Kuliscioff, fondatore del Partito socialista istriano e sindaco socialista di Capodistria tra il 1921 e il 1922 allorché fu costretto a dimettersi dal fascismo, è sintomatica di come gli jugoslavi e gli italiani che avevano aderito all’ideologia e alle direttive di Tito abbiano epurato e si siano accaniti anche a guerra finita ancor più contro gli elementi democratici e addirittura di sinistra che non contro esponenti o collaborazionisti dei regimi nazifascisti. La colpa di Carlo era quella di essere proprietario di due grandi tenute agricole alle porte di Trieste: quella del Lazzaretto che storicamente apparteneva alla famiglia e quella contigua di Prade, acquistata successivamente. Quest’ultima si estendeva in territorio collinoso e comprendeva un grande vigneto che dava un ottimo vino, quella del Lazzaretto era coltivata a pomodori e patate che venivano esportate in grandi quantità in Germania, e inoltre ospitava ricchi frutteti. Tramite un accordo con l’Ampelea di Isola venivano prodotti e commercializzati sottaceti. Nelle due tenute, che si estendevano su 170 ettari, lavoravano una settantina di coloni, a loro volta piccoli proprietari, che abitavano le case campestri al loro interno. I coloni di Pobeghi, che pure parlavano un dialetto slavo, erano fedeli ai padroni e poi avrebbero intrapreso la via dell’esodo. Di tutt’altra pasta quelli di Bertocchi sebbene per in maggioranza italiani che con l’obiettivo di una sorta di "esproprio proletario", spalleggiati da elementi esterni, una notte del 1947 a guerra ben che finita e mentre il territorio era compreso nella Zona B, fanno irruzione nella villa padronale. Cominciano a spaccare tutto quanto capita loro a tiro, portano via Carlo insultandolo con l’assurdo epiteto di «fascista magnagalline», lo conducono al comando dell’Ozna a Villa Decani e lo colpiscono ripetutamente con bastoni chiodati tenendolo prigioniero. Per perorare la sua liberazione interviene il console svizzero a Trieste (Carlo e tutti i suoi familiari avevano conservato anche la cittadinanza elvetica). I sequestratori vengono presi dal panico, liberano l’uomo e anzi si offrono di riportarlo a casa in automobile. Nobile rifiuta e vi ritorna a piedi da solo, pesto e insanguinato. A seguito delle botte diverrà cieco oltre che sordo da un orecchio. Racconta la figlia Vittorina Nobile, oggi ultranovantenne, che abita a Milano: «Pochi giorni dopo quell’episodio mia mamma, mentre assieme a mio padre stava andando in corriera a Trieste, sentì una donna titina che era a bordo dire a una sua amica: Lo vedi quell’uomo, questo è l’ultimo viaggio della sua vita». Carlo Nobile fu così convinto a restare a Trieste e a casa non sarebbe tornato mai più. La moglie Maria Vendrame con la mamma di novant’anni, una zia amputata a una gamba, le figlie e l’anziana cuoca fugge da Lazzaretto su un camion con poche masserizie. (16 - segue. Precedenti puntate pubblicate l’11, 18 e 25 settembre, il 2, 9, 16, 23 e 30 ottobre, il 6, 13, 20 e 27 novembre, il 4, 11 e 18 dicembre).
Italianità
La città capitale dell’irredentismo
L’amministrazione austriaca, dopo la caduta di Venezia, scelse come capoluogo dell’Istria dapprima Pisino e poi Parenzo trascurando in questo modo Capodistria forse perché fu sempre la capitale dell’irredentismo italiano. Gian Rinaldo Carli, Carlo Combi, Antonio Madonizza, Tino Gavardo, Pio Riego Gambini e soprattutto Nazario Sauro giustiziato sul patibolo a Pola il 10 agosto 1916 furono tra i suoi più insigni patrioti. Il generale capodistriano Vittorio Italico Zupelli fu ministro italiano della guerra durante il primo conflitto mondiale. Tra il 1947 e gli anni Cinquanta prese la via dell’esodo pressoché tutta la popolazione italiana che era stragrande maggioranza.
Aveva 2 tenute a Lazzaretto per 170 ettari
TRIESTE Carlo Nobile, rimasto senza averi, a Trieste otterrà alla fine degli anni Quaranta per sè e la sua famiglia un appartamento a Cologna in una di quelle abitazioni conosciute come "case per gli americani" perché destinate ai componenti del Governo militare alleato, ma rifiutata da un ufficiale americano perché troppo esposta alle raffiche di bora. Così l’amico di Turati e Kuliscioff, ex sindaco di Capodistria, il proprietario di due maxitenute agricole, il discendente di Pietro Nobile trascorrerà i suoi ultimi anni in un appartamento di quattro vani, cieco, semisordo e dimenticato per morire ottantasettenne nel 1964. «Mio papà si era laureato in agraria a Milano e lì mentre frequentava l’università aveva conosciuto Filippo Turati e Anna Kuliscioff che erano stati tra tra i fondatori del Partito socialista italiano, aderendo alle loro idee e frequentando le loro riunioni - racconta la figlia Vittorina - Era il periodo dei moti milanesi del 1898 e della feroce repressione del generale Fiorenzo Bava Beccaris. Poi era stato mio padre a portare il socialismo in Istria. Per capire quanto fosse democratico basti un fatto che noi figli abbiamo vissuto sulla nostra pelle. Ci iscrisse al liceo Combi a Capodistria, ma a un certo punto lo considerò un ambiente troppo fascista anche perché dovevamo fare ripetutamente il saluto a braccio teso. Ci levò da quella scuola e ci trasferì all’Uccellis di Udine». «Le richieste di indennizzo alla Jugoslavia e alla Slovenia sono rimaste inascoltate - conclude la figlia - dal governo italiano abbiamo avuto 10 mila euro». (s.m.)
L’avo Pietro padre del neoclassico a Trieste
Realizzò la chiesa di Sant’Antonio nuovo e la Lanterna, diresse la Scuola di architettura di Vienna
TRIESTE La chiesa di Sant’Antonio Nuovo, la vecchia Lanterna, palazzo Biserini che oggi ospita la Biblioteca civica. Sono opere triestine realizzate su progetto dell’architetto Pietro Nobile, uno dei padri del neoclassico a Trieste (a lui si deve anche la scoperta dei resti del Teatro romano) che era il bisavolo di Carlo Nobile. Pietro era nato a Campestre ticinese nella Confederazione elvetica, ma aveva solo sei anni nel 1780 quando si trasferì a Trieste perché il padre aveva messo in piedi una piccola impresa di costruzioni navali. Pietro si appassiona agli studi architettonici e va ad approfondirli a Roma dove fa amicizia con Antonio Canova. Continua a studiare all’Accademia imperiale e reale di Belle Arti di Vienna e viene nominato Consigliere alle fabbriche di Trieste. Nel 1816 arriva in visita a Trieste l’Imperatore Francesco I che dopo avergli ordinato due progetti per i fari di Salvore e Promontore (il primo sarà realizzato, il secondo no) lo nomina direttore della Scuola di architettura di Vienna ordinandogli: «Datemi il più presto possibile dei buoni architetti». Tra i suoi allievi più famosi ci sarà il figlio di Napoleone, il Re di Roma che grato al maestro gli donerà un anello con dieci brillanti. A Vienna, Nobile realizza parecchi progetti: il Teseion nel giardino della Hofburg, il café Curtj nella Voksgarten e la Burgtor (la porta ci città). Quest’ultima è un colpo di mano di Nobile e dei suoi allievi incaricati dal Principe di Metternich di spodestare il progetto dell’architetto milanese Castagnola. Più breve e tinta di giallo la breve e meno nota vita del fratello Francesco che si laureò in medicina dopo aver fatto gli studi a Roma e a Vienna e per sette anni fece il medico a Trieste. Il Magistrato di Trieste si rifiutò però di assumerlo come medico stipendiato. Il giovane deluso accettò allora un’altra interessante offerta di lavoro e si recò dapprima a Salonicco e poi a Seres, cittadina della Macedonia greca allora compresa nell’Impero ottomano. «Il bascià di Seres - scrive G. Fraschina nella biografia di Pietro Nobile - riconoscendo il sapere di Francesco nel marzo 1812 lo nominò medico suo e della sua corte conferendogli il titolo di protomedico della città. Qui egli cominciava a fare considerevole fortuna, quando giunse inattesa ai parenti l’annuncio della sua morte nel fiore dell’età nel 32.mo anno e si vuole per veleno propinatogli da qualche triste invidioso in quella terra straniera». (s.m.)
09 - Il Messaggero 03/01/12 Roma- Villaggio Giuliano Dalmata: I ricordi di Romano Sablich, 87 anni, il primo abitante del quartiere
Targhe, lapidi e cippi: un museo a cielo aperto che ricorda gli istriani fuggiti da Tito
LA TESTIMONIANZA
«Qui ho costruito la mia capanna»
I ricordi di Romano Sablich, 87 anni, il primo abitante del quartiere
Stravagante com'è, il primo abitante del quartiere Giuliano Dalmata, Romano Sablich, istriano, una mattina del '47 lasciò il suo alloggio di Palazzo Braschi, prese un bus, e andò a costruirsi una capanna nei padiglioni dell'ex villaggio operaio E24, in mezzo alla campagna: «A palazzo noi profughi stavamo stretti. Nei padiglioni c'erano legnami e mobili lasciati dagli americani che si erano accampati lì: ricavai una piccola casa per me e Anna».
Anna che non c'è più, loro due soli, innamorati l'uno dell'altra e entrambi della vita, lei forte e ottimista, lui che era stato in un lager nazista senza accorgersene: «Un incubo, ma che fosse un lager l'ho capito solo quando mi hanno dato la medaglia di deportato», ride. Ride sempre, Romano, mentre racconta di quando si inventava lavori di fortuna, «ed eravamo felici», e la memoria gli fornisce le energie per esserlo ancora, a 87 anni, con tutti i suoi ricordi e i suoi risarcimenti: vigile urbano per 30 anni, stipendio e prestigio e multe, «anche sessanta in un giorno», per la soddisfazione di invertire vessati e vessatori, o solo per quell'integralismo nordico, chissà. Poi, al villaggio, arrivarono altre dodici famiglie, e poi duemila, e
c'erano ricchi e poveri, e diventarono una comunità, e fu un esperimento sociale di successo. «Portammo qui la chiesa, la sanità, la scuola, le botteghe: diventammo un punto di riferimento per tutto l'agro laurentino», ricorda Loredana Vatta, 82 anni, «I soldi non bastavano, bisognava lavorare tutti», rammenta sua sorella Fiorella, 84. Così lei divenne la levatrice del villaggio. «Ho fatto nascere tutti i bambini degli esuli, ma mi chiamavano persino dai Parioli. Duemila parti, e il dottore solo per la sutura». Il dottore, Attilio Paliaga, leggendario come Lodovico Zeriag, al quale è intitolata la piazza: «Maestro di scuola e di vita, ha formato i bambini del villaggio all'orgoglio della nostra storia», racconta Loredana. Lei, chissà come, riuscì a farsi portare il suo piano da Pola. Lavorò da concertista e da maestra, ma lo scopo della sua vita era lui, suo marito: Attilio Colella, autore, tra l'altro, del monumento in piazza e di una vetrata nella cripta della chiesa, «un grande artista e un grande uomo». Tema dominante delle sue opere: l'esilio. La patria che si sposta altrove. Il cuore che rimane lì.
m.l.p.
10 – La Voce del Popolo 24/12/11 Speciale - Castelvenere : «Noi Castellani, petto de ferro», ovvero una delle Comunità più vivaci del Buiese
di Serena Telloli Vežnaver
Quattro chiacchiere con la simpatica e spigliata presidente del sodalizio, Tamara Tomassich
«Noi Castellani, petto de ferro», ovvero una delle Comunità più vivaci del Buiese
La Comunità degli Italiani di Castelvenere, nata nel 1998 su iniziativa di Mario Vizintin, Roberta Dubac, Maria Brčić, Marilena Lisjak ed Egidio Bulfon, è un sodalizio piccolo ma molto attivo. Oggi conta circa 400 iscritti e molti tra questi partecipano con entusiasmo alle attività e agli eventi che vengono promossi dal sodalizio. All’epoca in cui venne istituito molti connazionali residenti a Castelvenere erano iscritti alla Comunità degli Italiani di Buie e partecipavano attivamente in tale sede alle varie iniziative che erano di loro interesse.
Dal momento che si trattava tuttavia di un considerevole numero di persone che per frequentare un sodalizio della nostra etnia si trovavano costretti a fare i pendolari, e che il momento era particolarmente favorevole anche dal punto di vista politico, la Comunità venne fondata. A presidente del sodalizio venne eletto Egidio Bulfon che ne tenne le redini fino al 2010, quando a subentrargli fu l’attuale presidente, Tamara Tomasich.
ATTIVISTI GRANDI ATTORI Non appena la incontriamo ci parla subito con entusiasmo e con molto orgoglio delle tante sezioni che fanno attività in ambito alla CI e ce le elenca tutte.
"Abbiamo anzitutto le Sezioni di ballo, che sono ben tre e coinvolgono soprattutto giovani e giovanissimi. Si va dai più piccolini, fino a tre anni di età, al gruppo dei medi, che sono ragazzi fino ai 15, e agli adulti, che sono giovani fino ai 23 anni" - ci spiega. Tutti i gruppi di danza vengono seguiti dall’insegnante Donatella Krastić. C’è poi la Sezione di filodrammatica. Anche il gruppo di recitazione – chiarisce la presidente – opera suddiviso in tre sezioni: piccoli, giovani e adulti. A seguirli è lei stessa.
"Le prime due sezioni esistono da un lustro e hanno festeggiato proprio quest’anno il quinto anniversario di attività" – ci spiega la simpatica e spigliata Tamara Tomasich –. La Filodrammatica adulti, invece, ha raggiunto il traguardo dei 10 anni di esistenza e festeggeremo quest’importante anniversario nel marzo dell’anno prossimo".
Inizialmente la Filodrammatica della CI di Castelvenere era diretta da Dolores Barnabà, connazionale ben nota in tutto il Buiese, che ancora oggi segue e istruisce tantissimi giovani in diverse Comunità del comprensorio. L’attuale presidente del sodalizio faceva parte del cast. Poi, essendo molto portata anche alla stesura dei copioni e alla regia, accettò di assumere lei stessa le redini dei gruppi. Il primo grande successo portato in scena dalla Filodrammatica di Castelvenere si intitolava "Noi Castellani, petto de ferro" – ricorda la presidente. Si trattava di una commedia brillante scritta da Ruggero Paghi e fu a lungo il cavallo di battaglia della CI.
PRESTO UN REVIVAL "Proprio per questo motivo ultimamente la compagnia sta pensando di riproporla in un ‘medley’. L’idea è di riproporre al pubblico le scene più esilaranti. La nostra ultima fatica si intitola invece ‘Una giornata quasi normale’, e finora ha riscosso grandissimo successo sia in casa che nelle altre Comunità nelle quali è statarappresentata" – ci spiega la responsabile del gruppo.
"La maggior parte dei nostri attivisti ha iniziato a frequentare gli ambienti del nostro sodalizio fin dall’infanzia, molti addirittura fin dai tempi dell’asilo, e insieme alla Comunità è cresciuto, maturato e si è sviluppando anche un profondo senso di appartenenza e di identità nazionale. Ciò nonostante, alle attività che promuoviamo partecipano anche molti bambini e ragazzi che frequentano la scuola croata e che si inseriscono nelle attività che facciamo sia perchè il posto è piccolo e tutti ci si conosce, sia perchè offre l’opportunità di imparare bene la lingua italiana".
IL PUNTO FORTE SONO I GIOVANI Il punto forte della Comunità degli Italiani di Castelvenere sta proprio nel poter contare su un considerevole numero di validi elementi molto giovani, quindi caratterizzati da quella carica, dall’entusiasmo e dalla voglia di fare, tipica per la gioventù.
Oltre alle attività elencate, dal 2010 in ambito alla CI è attivo pure il gruppo dei Minicantanti, diretto da Erika Barnabà. Da circa 12 anni vengono promossi inoltre i corsi di fisarmonica e pianola. A promuoverli fu la triestina Alessandra Zgur. Oggi a occuparsi di questa Sezione è invece Martina Brčić. In seno alla CI opera poi un gruppo artistico, diretto da Morena Brčić. A occuparsi della biblioteca e dei servizi di segreteria, è invece Roberta Rihter.
NASCE UN GRUPPO CANORO MASCHILE Con lo stesso entusiasmo con il quale ci ha illustrato le iniziative promosse dai gruppi di recitazione e da quelli di danza, la presidente ci parla poi di alcune nuove iniziative. Apprendiamo così che di recente è stato fondato in ambito comunitario un nuovo complesso vocale. Si tratta di una "klapa" maschile, composta da una decina di elementi. Per il momento non hanno ancora scelto un nome. Si stanno esercitando con massimo impegno e serietà e con molta probabilità debutteranno nel marzo dell’anno prossimo, in occasione dei festeggiamenti che saranno indetti per ricordare il decennale del Gruppo di recitazione.
Come rileva Tamara Tomasich non tutte le attività promosse dal sodalizio rientrano nel Piano dei finanziamenti previsto dall’Unione Italiana. "Non per questo ci scoraggiamo – spiega; – molto spesso le nostre sono iniziative autofinanziate dagli stessi attivisti. Come nel caso del gruppo canoro appena istituito, il quale, pur di avere uno spazio a disposizione per le prove, ha provveduto a sistemare a proprie spese una stanza in disuso all’interno della sede della CI. Sede che, come forse molti sapranno, attende da tanto tempo la ristrutturazione.
A QUANDO IL RINNOVO DELLA SEDE? E qui si tocca un tasto dolente. Il problema del rinnovo della sede della Comunità di Castelvenere è una spina nel fianco che accompagna la storia del sodalizio praticamente dalla sua nascita. La casa in cui la CI opera è di proprietà dell’Unione Italiana e versa da anni in uno stato fatiscente. Dopo un iter burocratico lunghissimo, sembrava quasi si fosse in dirittura d’arrivo per la realizzazione del restauro. Purtroppo però il lavori sono stati nuovamente fermati lasciando per l’ennesima volta i connazionali di Castelvenere nello sconforto.
"Se il caseggiato venisse adattato potremmo avere a nostra disposizione circa 300 metri quadrati di spazio –, ci spiega la Tomasich – Invece, vista la situazione in cui versa la struttura, che ha il tetto che perde, possiamo utilizzare soltanto la sala del pianterreno. Con attività come le nostre vi lascio immaginare quanto sia difficile accontentare tutti e quanto sia complicato organizzare gli orari delle prove per le varie sezioni che fanno attività. In poche parole tutti devono usare lo stesso spazio".
Nonostante i problemi tuttavia, gli attivisti non si perdono d’animo nè si lasciano scoraggiare e durante l’arco dell’anno intero non perdono occasione per realizzare incontri, feste, manifestazioni e altri eventi, come l’appuntamento dedicato alla festa di Halloween, all’8 marzo, o quelli che si svolgono all’insegna del Natale.
Da molto tempo la CI di Castelvenere collabora con la locale Società artistico culturale "Lipa". Durante il mese in corso ha organizzato una serata a scopo umanitario per aiutare l’umaghese Elvi Piršl. L’evento dell’anno resta comunque la tradizionale "Sparisada", la festa dell’asparago selvatico che coinvolge puntualmente rutti i castellani, connazionali e non e che porta a Castelvenere in primavera un numero di visitatori sempre più grande.
PROGETTI PER IL FUTURO Molti e davvero interessanti sono anche i progetti per il futuro; da un corso-gioco di inglese, aperto a genitori e bambini per consentire loro di imparare una lingua straniera in allegria e divertimento, dando nel contempo anche l’opportunità a mamme e papà di passare un po’ di tempo in più con i propri figli, alla simpatica idea di organizzare in sede tornei di giochi di società, come Risiko, Cluedo o Monopoli, o i giochi di un tempo, o a quella di realizzare una gara di recitazione con tanto di giuria e coppe per i vincitori.
Per quanto riguarda le collaborazioni con istituzioni, la presidente del sodalizio si è detta soddisfatta dell’ottimo rapporto instaurato con la scuola croata e con la Città di Buie, sotto la cui giurisdizione rientra anche Castelvenere, e dalla quale la Comunità riceve annualmente dei piccoli finanziamenti per portare avanti le proprie iniziative.
11 – La Voce del Popolo 24/12/11 Speciale - Castelvenere parla tre lingue e in paese nessuno ha bisogno di interpreti
Servizio di Serena Telloli Vežnaver
Località di grande interesse storico, artistico architettonico e archeolgico,
dal 2005 è bene culturale protetto dal Ministero alla cultura
Castelvenere parla tre lingue e in paese nessuno ha bisogno di interpreti
L’antico nucleo storico di Castelvenere è situato a 141 metri al di sopra della piana di Sicciole, proprio in margine all’odierno confine tra la Croazia e la Slovenia. Si sa che nella preistoria è stato sede di un castelliere, mentre in epoca romana è stato quasi sicuramente un "oppidum", ovvero una città fortificata priva di un confine proprio invece dell’urbe.
A quei tempi veniva chiamata Castrum Veneris. Il nome latino del luogo potrebbe derivare dalla presenza di un tempio dedicato alla dea Venere, mentre il termine "castrum" starebbe ad indicare l’importanza del luogo per fini militari. Ma il toponimo potrebbe anche derivare dalle rocce a picco sulla valle, che gli Istri chiamavano "Vena", da cui Castello della Vena, tramutatosi in Castelvenere. Nel Medio Evo restò una fortezza, perennemente contesa a quei tempi dai patriarchi di Aquileia e dai Veneziani.
UNA FORTEZZA IN POSIZIONE STRATEGICA L’importanza di questo sito risiedeva fin dagli esordi, nella sua posizione strategica, che permetteva a chi la governava di controllare sia il vallone del Dragogna, che scorre ancora oggi ai suoi piedi, sia la strada che dalla valle sottostante sale alla collina sulla quale s’erge Castelvenere per poi inoltrarsi nell’interno dell’Istria.
Nel 1888 a Castelvenere vennero effettuati i primi scavi archeologici del sito che portarono alla luce molte urne cinerarie preistoriche, prova dell’esistenza di un castelliere con annessa una necropoli. Ulteriori scavi, avvenuti nel 1954, hanno permesso il ritrovamento di 24 tombe scavate nella roccia viva, risalenti al IV secolo a.C.
All’interno delle mura di cinta vi era poco spazio per le abitazioni e fuori dalle mura sorsero la chiesa, il campanile ed il cimitero. La parrocchiale di Castelvenere, dedicata a San Saba, è del 1869. È una costruzione di base rettangolare, con il battistero a sinistra, mentre il campanile con cuspide e bifore è staccato dal corpo della chiesa. Da antichi documenti si sa che Castrum Veneris venne donata da Artuico di Pirano al marchese d’Istria Ulrico I di Weimar nel lontano 1064 e che quest’ultimo lo regalò, nel 1102, al Patriarcato di Aquileia che vi stabilì il centro amministrativo del Marchesato per l’Istria Settentrionale.
Castelvenere sarà sempre al centro di molte guerre per la sua posizione altamente strategica, dal momento che si trovava nel mezzo della principale via di commercio tra la costa e le zone dell’interno. Nel 1310 Castelvenere fu tenuta sotto assedio e incendiata ad opera dei Veneziani, cadendo sotto il dominio della Serenissima e rimanendovi fino alla caduta della Repubblica di San Marco, avvenuta nel 1797. Dopo il governo veneziano Castelvenere fu assegnata al regno d’Austria. Nel 1894 in paese venne aperta la prima scuola in lingua italiana.
LE LEGGENDE DEI TEMPLARI Dal nucleo storico che s’erge sul colle, in tempi recenti l’abitato di Castelvenere si è notevolmente ampliato costituendo un nuovo nucleo residenziale, più moderno e ben attrezzato e che comprende diverse piccole frazioni, come la borgata di Visinada, toponimo questo che deriva da "vicinìa", che significava adunanza di popolo. È qui che si trova l’antica chiesetta di San Michele, risalente al XIV secolo.
Si tratta di una piccola costruzione sacra immersa nel verde, con un piccolo campanile senza campana, oggi abbandonata. Nei pressi sono stati rinvenuti i resti di costruzioni romane e medioevali che forse facevano parte di un antico monastero e secondo certe leggende chiesetta e convento avrebbero avuto a che fare con i misteriosi Templari. Stando a certe fonti i cavalieri templari ebbero diverse commende, monasteri e possedimenti anche in Istria, ma pochissime sono le testimonianze giunte fino a noi. Le documentazioni sono scarse e lacunose ma comunque sufficienti per tracciare almeno un quadro generale della loro presenza anche in questa regione.
A poco più di un chilometro di distanza da Castelvenere si trova la località di Plovanìa, il cui nome sembra derivi dal termine "giurisdizione del pievano". Altre frazioni del circondario sono il villaggio di Scudelin, che deve il nome ad una sorgente che sgorga in una pozza a forma di scodella, e Schiavonìa, nome derivato dalla famiglia piranese Schiavuzzi.
I SOPRANNOMI DELLE FAMIGLIE Una caratteristica singolare di Castelvenere è che da tempi lontanissimi ogni famiglia del luogo ha un proprio appellativo: un soprannome in base al quale a tutt’oggi, vista la frequenza di cognomi identici, si possono riconoscere le appartenenze ai vari ceppi delle famiglie.
Dai soprannomi si può dedurre ad esempio la provenienza di alcune famiglie, come i Karnjeli o i Todeški. Altri appellativi, soprattutto quelli di etimologia croata, rimandano alla somiglianza con alcuni animali, come Ćuk o Miš ad esempio, che in italiano sarebbero civetta e topo. Altri soprannomi fanno riferimento a affinità caratteriali, mestieri o attitudini: Pipač, Žvejarin, Peverin...
Oggi, come nell’antichità, Castelvenere è un punto d’incontro e di transito non solo per la sua particolare posizione geografica, che comunque lo pone al confine tra la Slovenia e la Croazia, ma anche per le diverse culture, italiana, slovena e croata, che da sempre convivono in questa zona. Non è strano infatti sentir parlare la gente in italiano, sloveno e croato in una stessa compagnia, senza bisogno di interpreti.
INTERESSANTI REPERTI ARCHEOLOGICI Dal 2005 Castelvenere è stata proclamata bene culturale protetto dal Ministero alla cultura della Repubblica di Croazia. Recentemente nel posto sono stati compiuti alcuni scavi di recupero ad opera del Museo Civico di Umago. I lavori sono stati seguiti dagli esperti del Museo, tra i quali l’archeologa Branka Milošević, e hanno dimostrato che le antiche mura di cinta di Castelvenere sono state costruite a più riprese. Secondo gli archeologi gli Istri si stanziarono sul colle intorno all’VIII-VII secolo a.C. e vi rimasero fino al I secolo a.C., epoca in cui arrivarono i Romani. Negli strati più bassi della zona interessata dalla campagna di ricerca sono stati ritrovati reperti dell’epoca preistorica, quali pentole di terracotta con bordi ben definiti e altri oggetti e utensili creati con materiali più grezzi.
La presenza di Roma sul sito di Castelvenere si deduce invece dal ritrovamento di un pezzo di tegola recante il timbro dell’officina P.ITURI SAB(INI; un’insegna molto rara. Non si sa con certezza dove fosse questa officina ma sicuramente nella zona di Capodistria. Reperti con impresso lo stesso sigillo sono stati trovati a Momiano e Pinguente, nella parte dell’Istria Croata e in Slovenia a Carcàse, località dei pressi di Capodistria ma comunque molto vicina all’attuale confine con la Croazia.
GIOVE AMONE E LA GORGONE MEDUSA Durante gli attacchi delle popolazioni barbariche, nel III e IV secolo, le popolazioni sono costrette a rifugiarsi sui colli, quindi anche a Castelvenere. Dell’epoca tardo antica sono rimaste le mura di cinta e difesa che seguono l’andamento del colle. Le ceramiche ben lavorate, le anfore, i pettini e gli anelli d’osso e i coltelli di ferro rinvenuti durante gli scavi, dimostrano che il sito era abitato fino al VII secolo d.C., quando l’abitato venne incendiato e abbandonato. Inoltre sono stati trovati due antefissi in ceramica con il rilievo di Giove Amone e della Gorgone Medusa, databili II-III secolo d.C., che dimostrerebbero l’esistenza di una casa romana appartenuta a una famiglia molto benestante. Questo tipo di antefissi aveva la duplice funzione di proteggere l’abitazione dalle perdite d’acqua e di preservare i suoi abitanti dalle influenze negative.
Come sappiamo, durante il Medio Evo, Castelvenere divenne un feudo di proprietà del Patriarcato di Aquileia ed in quel tempo vennero rinnovate le antiche mura di cinta. Nel XIII secolo durante le guerre tra Aquileia ed i conti di Gorizia, venne distrutta la torre medievale, mentre sotto il dominio di Venezia le mura persero la loro funzione e nel XIX seccolo le pietre vennero usate come base per erigere le fondamenta delle nuove abitazioni.
La cosa più importante che gli esperti hanno dedotto dagli scavi è che il sito di Castelvenere è stato sempre abitato, fin dai tempi della preistoria, magari alternando momenti di prosperità a momenti di abbandono ma. Come hanno dimostratotuttavia gli esami delle varie stratificazioni sulle quali sono state costruite le abitazioni del nucleo storico del borgo, il luogo era abitato in continuità.
IL MITO DELLA CATENA D’ORO Oltre alle prove storiche e ai materiali d’archivio che parlano di Castelvenere ci piace ricordare in quest’occasione una strana leggenda che da queste parti viene tramandata di generazione in generazione e che racconta di una grande catena d’oro sepolta tutto attorno al monte, non si sa da chi e in quale epoca. Ma era una catena talmente grande da non poter essere spostata
12 - LA CICALA zaratina n°15 - Novembre 2011 L'Angolo dei Ricordi - Walter Matulich: Percorsi e divagazioni - Zara estate 2011
WALTER MATULICH
L'ANGOLO DEI RICORDI
Percorsi e divagazioni
ZARA: estate 2011
Passate tre stagioni, mi ritrovo sulla banchina della ex-"Riva Derna" (oggi Istarska Obala), negli occhi ancora le visioni del maestoso Velebit, colte dal traghetto alle prime luci dell'alba, nel Canale di Zara. Altro mare mi accoglie, non quello grigio-opaco di Ancona: di un blu intenso, costellato di isole. Impossibile resistere alla sua seduzione.
Nulla sembra cambiato: i sussumi molli dell' "Organo marino" ed i bagliori de "Il saluto al sole" a dare il benvenuto. Nell'atmosfera ovattata del primo mattino, l'automobile scivola silenziosa lungo l'ex-Viale Tommaseo (Ul .Mihovila Pavlinovica), la Fossa, l'Ospedale, l'ex-Manifattura Tabacchi. Antichi, penetranti, odori avvolgono: di alghe marine, di lavanda, di pini. Apro il cancello, il lucchetto un po'arrugginito, entro nel cortile: ad ogni passo, ad ogni sasso, un accavallarsi di memorie. Non me ne sono in realtà mai allontanato.
Disorienta ogni volta questo varcare l'Adriatico, scompiglia pensieri e idee. Giorni per assuefarsi a humus che pur ha visto nascere e crescere, modellando gli anni della fanciullezza ed imprimendovi le stigmate della dalmaticità. Né decenni di vita in Val Padana sono valsi a corroderle.
Antichi percorsi riesploro il giorno dopo, e quelli successivi ancora, per raggiungere "Piazza dei Signori" (Narodni Trg), cuore pulsante della città. Una volta, passando per le Colovare, per il "Platz", la Centrale Elettrica, la Fossa; altra volta, rasentando le Case Bianche, la calletta degli "Scarpona" (non sbirciano più, dall'uscio della loro casetta, Mate, Zorka, Sime), Val de' Ghisi, Casa Crivellari, la Scuola Industriale Bakmaz. Mi si ripropongono scenari consueti: frotte di persone, sedute ai tavolini dei bar sotto ampi ombrelloni, sorseggiano caffè o bibite fresche e, vezzo diffuso in questo habitat, intrecciano coi dirimpettai interminabili dialoghi, mettendo a soqquadro il mondo intero. Non c'è argomento che non venga sviscerato, sezionato, giudicato, condannato, esaltato: dallo sport (basket "in primis") alla politica, nazionale ed internazionale, alla stramaledetta globalizzazione che, tutti d'accordo, sta sovvertendo collaudati assetti socio-economici.
Nella marea di gente che ondeggia, fatico a riconoscere volti indigeni. Sobbalzo quando ne individuo qualcuno. Ed un sollievo indescrivibile m'assale quando mi riesce distinguere chiaramente facce note, invecchiate sì, ma che ricollegano all' "età fiorita / come un giorno d'allegrezza pieno" (G. Leopardi) : Dino (imprenditore edile in quiescenza, grande scavezzacollo da ragazzino), Pino (ex-formidabile cestista), Sime (ex-campione di ciclismo), Gianni (ex- compagno della Scuola Ottennale Italiana), Anto (ex-calciatore della squadra di Borgo Erizzo, nei primi anni del secondo dopoguerra).
Non servono preliminari per intavolare quale che sia conversazione con Pino Giergia, impareggiabile, versatile, atleta zaratino ("recte": borgherizzano). Basta sedersi al suo usuale tavolino, ove trascorre metà mattinata, divagando su argomenti vari. Non c'era attività sportiva, ricordo, dai primi anni '50 in poi, nella quale egli non primeggiasse. Espresse tuttavia il meglio di sé nella pallacanestro: ne fu protagonista assoluto per ben ventidue anni, indossando un'unica maglietta, quella della squadra della sua amata città. Grazie a lui, un modesto team di provincia si trasformò in un'Invincibile Armata, toccando i fastigi della notorietà e della gloria. Punta di diamante della ex- Nazionale Jugoslava, partecipò a due Olimpiadi, quelle di Roma (1960) e di Tokio (1964). Nel corso di una partita amichevole al Palalido di Milano, anni '60, riuscì a stupire colla sua maestria il noto giornalista del basket, Aldo Giordani. Incantato dalla sua raffinata tecnica e dalla sua stupefacente motilità, il Giordani gli appioppò, lì per lì, l'epiteto di "Figlio di Dio". Perché? Non molto alto, ma dotato di una possente struttura fisica, associata a grazia apollinea, Pino riusciva ad elevarsi talmente, in mezzo ad altri giganti che lo sovrastavano, da dar l'impressione di librarsi letteralmente in aria: proteso a sfiorare le volte dell'empireo Ciel. Il cestita negro Michael Jordan della squadra NBA di Chicago si meritò, anni addietro, la qualifica di " Air Jordan" per i suoi guizzi e stacchi "volanti". Qualifica che ritengo usurpata. Prima che a lui, sarebbe dovuta essere assegnata al nostro formidabile "Air Pino". Smessa l'attività agonistica, la città natale ed il club di appartenenza non tardarono a scordare le benemerenze sue. Miserie e misteri umani che il Vangelo di Luca e di Matteo, con l'espressione "Nemo propheta acceptus est in patria sua" ha da tempo svelate e....giustificate. Il successo di uno che non conosciamo non ci disturba, non ci umilia; quello del signore che abita nella casa di fronte suona come una provocazione.
La sorte, devo aggiungere, gli ha in parte lenito le pene, concedendogli di riabbracciare il suo mentore. Quell'Isidoro/Isi Marsan (pure Borgherizzano), inarrivabile giocatore-allenatore della squadra zaratina nell'immediato secondo dopoguerra; e successivamente (dal 1953 in poi) validissimo giocatore-allenatore di squadre appenniniche (Gradisca d'Isonzo, Pavia, Cantù, Bologna), ove lasciò indelebili tracce di sé, per bravura di gioco, correttezza di atteggiamenti ed onestà intellettuale. Le circostanze della vita lo portarono ad emigrare in Australia. Ci visse una quarantina d'anni, impiantandovi ex novo gratificante attività professionale. Che pensò bene, qualche anno fa, di liquidare, tornandosene nella sua Borgo Erizzo, per riannodare con la sua gente legami e rapporti che, per la verità, mai erano stati definitivamente recisi. Due destini incrociatisi nelle altalenanti fortune, cementati dall'ardore per la pallacanestro.
Fa tenerezza, oggi, vederli nuovamente insieme nella loro Zara, maestro ed allievo, sul gobbo di entrambi le traversie, successi ed insuccessi, di sessant'anni. Tessitori e testimoni d'amicizia e solidarietà: incanto di passioni che dividono le angosce a metà.
Altro percorso: il Cimitero, passando per la tante volte calpestata Via dei Kotlar. Nel tardo meriggio afoso, accoglie all'ingresso l'iscrizione che dovrebbe essere consolatoria: " Post tenebras lux ". Sarà davvero "lux" ? Mi raccolgo in preghiera sulla "mia" tomba: dalle immagini incastonate nella pietra, il nonno, la nonna, una loro figlia, mi sogguardano, pare vogliano rassicurare. " Serbi un sasso il nome" auspicava il poeta (U. Foscolo) e quelli scolpiti sulla lapide, ma sì, mi dico, hanno lasciato il conforto dell' "eredità di affetti". Non posso non riandare col pensiero a mio padre ed a mia madre, che giacciono in altro sepolcro, a Monza, confusi fra gli anonimi Brambilla, Casati, Fossati, Gelmini, Montrasio, Villa. Più lieti sarebbero, e me lo rimprovero, se avessero condiviso l'eterno riposo qui, coi Relja, Duca, Petani, Marsan, Bajlo, Dujella, in mezzo ai quali hanno vissuto l'età loro prima. Mi sovviene che altre figlie dei nonni, mie zie, hanno trovato tregua alle umane sofferenze negli avelli di Modena Italia) e persino in quelli di San Paolo (Brasile). Una famiglia numerosa, compatta, vissuta in quel cortile la cui soglia ho varcato col cuore in gola giorni fa, s'è pur smembrata, dispersa, con resti disseminati
nell'universo mondo. "Questa la sorte delle umane genti? " ( G.Leopardi) . E le mie spoglie dove saranno deposte ?
Per rasserenare l'animo, ripercorro quasi ogni giorno, a braccetto con la moglie, l'antico tragitto che dalla casetta avita, lambendo la casa dei Ciucciulla ed attraverso la piazzetta della Chiesa, che conduce al mare delle Col ovare, nel vallone sottostante il vecchio cimitero di Borgo Erizzo. Ci immergiamo, increduli, nelle acque in cui bagnammo corpi giovinetti, cinquanta e passa anni fa. Riconosciamo quasi ogni pietra della rustica spiaggia, i viottoli attraverso i quali raggiungere fondali tranquilli. Quei pochi, sabbiosi, che ornano qua e là la costa, erano stati originati dalle bombe cadute in mare durante la II Guerra Mondiale : li chiamavamo "Bira e bumb's" (cavità della bomba), ricorrendo a linguaggio albanese, in uso, allora, assai più che oggidì. Nel nostro quotidiano girellare, fra casetta e Colovare, su e giù, incontriamo spesso Fiorella e Aurelio, altri compaesani residenti a Milano, afflitti dalle stesse nostre paturnie. Né sappiamo come sottrarvisi. Discorriamo del più e del meno, intorno ai medesimi temi che, da sempre, condiscono il vivere. Un vivere diviso, fisico e mente, fra le due sponde dell'Adriatico, escluse nette sensazioni di appartenenza. Soccorre e placa il Tommaseo: " Dalmazia: Patria viva non ha chi di te nacque".
Walter Matulich
Chiari (BS)
13 - Panorama Edit 15/12/11 Una città-stato di cristiani che si affacia alle porte del mondo d'Oriente, la particolareggiata testimonianza su Ragusa-Dubrovnik ad opera di Lucas de Linda
Una città-stato di cristiani che si affacia alle porte del mondo d'Oriente
La particolareggiata testimonianza su Ragusa-Dubrovnik ad opera di Lucas de Linda, un polacco che la visitò nel Seicento
di Giacomo Scotti
Nel 1656, un anno prima di diventare segretario di Stato della Repubblica di Danzica alla giovane età di 31 anni, il polacco Lucas de Linda pubblica il libro Descriptio Orbis & Omnium eius rerempublicarum. In qua praecipua omnium regnorum & rerum publicarum eccetera, stampato da Jacob de Zetter in Amsterdam.
Compilata sulla scorta di precedenti descrizioni delle "quattro parti" del mondo di altri geografi, l'opera verrà tradotta, accresciuta e corretta dal marchese Maiolino Bisaccioni e pubblicata in italiano a Venezia nel 1664 con il titolo Le Relationi et descrittioni universali et Particolari del Mondo, stampata nella tipografia Combi & La Noù. Il volume di oltre mille pagine presenta un ampio panorama della storia universale, con riferimenti alla geografia delle varie regioni, al governo, all'economia, ai costumi, alla religione professata dalle varie popolazioni ed alla politica dei singoli Stati e paesi. Viene dedicato ampio spazio all'Istria, alla Dalmazia e all'Illirico in genere. Un capitolo ci parla "Della Repubblica di Ragusa", inserito alla pagine 640-643 nella parte riferita all'Illirico.
Leggiamo, di seguito, alcuni brani.
Duecittà, cinque isole: tutto un grande mercato
"Ragusa Città, e Metropoli (...) è risorta dalle ceneri dell'antico Epidauro, fu fabricata secondo Michele Salonitano, e li più antichi autori osservano, su una penisola esposta al mezzo giorno, in posto molto ameno. Il Stato suo (...) ha oltre due Città, due sono Stagno e Ragusa vecchia. Ha cinque Isole tutte habitate, e fertili, abondanti di grano, vini, legna; e una d'Olio, e Coralli. Meleda (è) una di queste. Alcuni scrittori vogliono che sia stata quell'Isola che si rese celebre per la venuta di San Paolo, della quale parla San Luca, negli Atti Apostolici, al Capitolo 28. (...)
Oltre questi vi sono più porti sicuri dagl'accidenti del mare, e capaci ciascheduno di loro, di accogliere più armate grandi: e il Mare d'ogni intorno è abbondante di Pesci quanto mai possa crederci, & in più lochi d'Ostrighe, Conchiglie pretiose, & altri frutti Marini. Tutto ch'il paese sia per lo più Sassoso, non ha molta cacciaggione: si prendono però in quantità grande Pernici, Tortore, Tordi, e Quaglie, queste però per delitia, si cacciano con li Sparavieri. In una Città di suo Dominio chiamata Stagno, v'ha un buon ricinto di Saline, con le quali provede ancora il Paese del Turco confinante (...).
La Città (...) ragionevolmente può chiamarsi Porta dell'Oriente; già c'hora dalle Smirne fin'à Vene-tia non v'è altra piazza, in cui concorrano le mercantie di Levante; onde di quali provedono di merci venute da quelle parti tutta l'Italia, e dove per lo più, si conducono a Venetia. Ancona, Barletta, & Messina, che poi le communicano alle loro Provincie. Gl'Isolani, & alcuni di Terraferma, sono molto dediti alla Marinaresca; onde sono arrivati a metter in mare quantità di Vasselli d'alto bordo, e da guerra, e da carico, e con essi sono penetrati fin'al Novo Mondo".
La libertà pagata con scudi sonanti
Esagerando un tantino nel panegirico, l'autore afferma ancora:
"Ell'è rimasta unica Republica, tra tutte l'altre Città della Provincia dell'Illirico; nè mai ha portato giogo servile dell'altrui dominio; (...) è ben vero che più volte è stata confederata con più Prencipi, & Imperadori. Tutto che paghi alla Porta del Turco all'Anno 12. Mila scudi d'oro, ò sia Sultanini, con questo si compra il poter trafficare per tutto il suo Imperio, con essenzione di gabelle di qualunque sorte liberi, e franchi tutti i sudditi di quella, da tutti i pesi, & aggravij. (Bodino de Rep. Lib. II. Cap. 6. De Hist..) a quali sono sogetti i medemi Turchi, e con essentioni tali, che oltre che i Ragusei in tutti li Stati dell'Imperio Ottomano, godono tutte le franchiggie, nè pagano alcun Datio; a loro è concesso mantenere le Chiese, & in quelle celebrare i divini uffitij, e publicamente le messe, e far altre funtioni con tutte quelle solennità, e decoro, come s'usa nel mezzo del Christianesimo, e non solamente nelle Città, ma anco tra la militia, e nel mezzo del campo, e degli eserciti, dove interviene il medesimo Prencipe Imperatore de Turchi, è permesso a gl'Ambasciadori de Ragusa far celebrar le messe e tutto ciò che appartiene al culto Divino, secondo gl'instituti del Cristianesimo".
Gli ambasciatori nell'esercito del sultano
Le messe di rito cattolico furono perfino celebrate nell'accampamento dell'esercito ottomano quando questo, sotto il diretto comando del Sultano Osman "andò a invader Polonia" nell'anno 1621. E questo perché in quell'esercito erano presenti "gl'Ambasciatori della Repubblica di Ragusa nel mezzo del campo medesimo sotto i proprij Padiglioni" con al seguito i loro Cappellani militari che potevano "publicamente celebrar la messa, alla quale liberamente intervenivano tutti quelli Christiani, che sotto la loro protettione si trovavano nel detto campo" .
Sotto il patrocinio dei Ragusei vivevano "in tutto il paese, & Imperio del Turco, tutti quei Christiani" che erano riusciti a mantenere viva la loro fede nell'Oriente islamico, "mantenendosi quelle poche reliquie del Christianesimo con infinito dispendio di quella Religiosissima Republica, nella purità della Fede Catholica, protetti, favoriti e mantenuti" dalla stessa Repubblica di S. Biagio, la quale manteneva "in tutte le Città principali del detto Imperio Ottomano diverse colonie de loro sudditi, le quali proteggono gli altri Christiani che in quelle habitano con le loro famiglie".
I Ragusei provvedevano con i propri mezzi a "mantenere le Chiese, Capellani, Confessori, Predicatori, & altri Ministri del ministerio Evangelico, e nel servitio di Dio". Infine la Repubblica ragusea sosteneva e incoraggiava "tante anime di quelli Christiani nel proposito dell Santa Fede spendendo denaro innumerevole ogn'anno" .
Passando a illustrare l'ordinamento politico della Repubblica di Ragusa, Lucas de Linda scrisse: "Assistono al suo Governo li Nobili soli, i quali non hanno consuetudine contrattare Matimonii, che tra loro soli; onde l'antichità, purità, e Nobiltà di sangue spicca in essa più, che in qualunque altra gran Città. La forma del suo governo è divisa in più Consegli, e radunanze. Il supremo di tutti, è il Conseglio Maggiore, in cui entrano tutti li Nobili, compito che hanno li vinti anni. Questo, capate le persone più mature, e prudenti, crea d'esse il Conseglio de Pregati, e così dura nel tal Ufficio un'anno, nel quale amministrano l'interessi dello Stato, e deputano Ambasciatori alle Corone. Crea ancora il Prencipe da loro chiamato Rettore, la cui dignità dura un Mese solo. Al Prencipe assegna ogn'anno undeci ben sperimentati, e giudiciosi Senatori, e per questi tra Consegli passano le negotij più importanti come mutare, ò aggiungere leggi, hahilitano li contumaci, e simili. Cinque Proveditori personaggi di molt'autorità, intromettono per la maggior parte de voti, qualunque speditione fatta d'altri Magistrati.
Sei Giudici Criminali, riconoscono quasi tutte le cause Criminali, e sententiano anco nella vita, conforme pare a loro giusto; guidandosi così essi, come tutti l'altri Magistrati con le loro leggi Municipali; e questa Giustitia viene con tanta puntualità amministrata, che di rado si sentono homicidij. Sei Giudici Civili assistono, e decidono le cause vertenti nel Civile. Li tre Officiali dell'Arte della Lana sopraintendono a i lavori, e lavoranti di questo mestiere. Sono cinque Uffitiali detti delle Ragioni; perche rivedono li conti dell'entrate publiche. Li quattro Doganieri assistono per mezzo de loro Ministri alla riscossione della Dogana per il pubblico, e maneggiano la Zeccha, in cui la Republica fa batter di continuo moneta. Li cinque Proveditori alla Sanità hanno cura d'invigilare alla buona salute della Città, ammetter' alla prattica li forastieri non sospetti di mal contaggio-so, & alli sospetti dar commodità da purgare il sospetto con la contumacia. Il Collegio è composto di 29. Nobili (e in questo ponno esser più Soggetti del medesimo casato, come anche nel Conseglio di Pregati, e non in altri). Questi giudicano l'Appellationi sin' alla somma di 500. Ducati; ma quelle che passano tal somma, si devolvono al Senato, al quale si supplisce il numero delli non competenti a giudicare, ò per parentella, ò altro con altrettanti cavati dal Collegio; come anche quando non è perfetto il numero delli Giudici al civile, si supplisce il numero con questi. La cura della Thesoreria, come cosa molto gelosa, si conferisce a persone di maggior autorità, e stima. Nelle mani loro è depositato il danaro del publico; amministrano molti legati pij, hanno il ius patronato di presentar à molti benefitij Ecclesiastici. Altri Uffitij più minuti per brevità si tralasciano".
L'assediarono in tanti dai veneti ai saraceni
"Di maggiori forze anticamente si vantava Ragusa. Li Saracini con ostinato assedio l'hanno battuta per un pezzo: ma tanto loro, quanto Bodino Rè di Rassia, e Servia, che per sett'anni la tenne assediata, non guadagnorono altro, se non ch'essa, e si fortificasse meglio, & amplificasse il suo circuito. Soccorsero li Ragusei Basilio Imperadore di Costantinopoli con navi per dar la fuga alii Saracini; e nelle guerra che mosse Alessio Com-neno Imperadore in compagnia de Veneti à Roberto Guiscardo Rè di Puglia, adherirono, & aiutarono Roberto. Furono in aiuto, e favore à Pietro Rè di Aragona contra Carlo d'Angiò Rè di Napoli; ai Genovesi, e Duca di Ferrara contra li Venetiani: e un'altra volta mutate le circostanze, ai Veneti contra de Genovesi. Rimisero a viva forza li Nobili Spalatìni nel possesso della nativa loro Repubblica di Spalato scacciati d'essa ingiustamente. E finalmente, per lasciar molt'altri, servirono il Rè Cattolico con gran quantità de Navi nella Guerra di Gerbi à tempi nostri, e con quaranta Navi nella conquista di Portogallo. Donde si cava, che li Ragusei havessero gran stima appresso le genti straniere, e non minor forza da soccorrere, chi soccorso li chiedeva, e diffendere se stessi. Con quella generosità si sono portati".
Giustificando l'appoggio dato da Ragusa ora a questo ora a quello Stato, definendo "generosità" e "soccorso" interventi armati o alleanze stipulate per gli esclusivi interessi della piccola repubblica, l'autore del libro esalta la prudenza dei governanti ragusei, ma soprattutto la bravura dei suoi marinai.
"Sempre nell'occasioni, nelle quali gl'è convenuto, ò di guerreggiare per terra con li confinanti, ò disfare l'Armi nemiche e entrare ne ' loro Mari, come quando ruppero l'Armata di Lodovico Duca d'An-giò; & ogn'uno havrà occasione da stupire la matura, e vigilante prudenza, con cui s'è guidata questa Republica per spatio di tant'anni, in cui ell'è fiorita; già che essendo per le mercantie di Levante piazza ordinaria, piena di figurissimi porti, vasselli, e gente prattica della marinarezza, ai confini e su le fauci d'un nimico poderosissimi, mai habbi, nè oscurato, non che spento il bel candore della sua nativa, & antica libertà".
Vengono successivamente elencati i "molti Tempij, Conventi, Monasteri, e Spedali" ed altre istituzioni a favore degli ammalati e dei mendicanti, si dice delle "continue limosine" somministrate ai poveri, del riscatto degli schiavi, delle doti che lo Stato raguseo elargiva alle zitelle per farle maritare, dei "suffragi e Sagrifitij per li defonti" per dire quanto fosse "incredibile la pietà ch'essercita così il Pubblico, come il privato" . Ragusa, inoltre, vantava il possesso di un' "abbondanza di Sagre Reliquie" , alcune dello stesso Gesù Cristo, come il suo "Pannicello, Spine, e quasi due palmi del Legno della SS. Croce" oltre alle reliquie dei "Santi più celebri". Esse venivano conservate con decoro, "essendo tutte legate in oro, argento, e coperte con ricchi panni".
Le zitelle mai in pubblico prima di maritarsi...
Dopo altre lodi e lodi ai Ragusei descritte come persone modeste e gentili con gli ospiti, Lucas de Linda spiega pure come erano vestiti ed altri particolari.
"Del resto li Ragusei sono di genio molto candido, cortesi con li forastieri, e di tratto molto molto cordiale, & amorevole. La modestia in essi spicca à meraviglia massime circa le donne, a tal segno, che le Zitelle, prima che vadino al marito, mai compariscono in publico, nè si lasciano vedere da i loro sposi medesimi, prima che questi accompagnati da i parenti, entrino in casa loro, nella quale sono ricevuti con gran pompa, magnificenza, e lautezza de banchetti, ne' quali mostrano la loro nativa grandezza, e splendore assieme con una modestia grave sì, ma signorile.
Vestono li Nobili, & altra gente più civile d'habito lungo, ma nero, da loro addimandato la Toga; però il loro Prencipe veste alla Ducale di rosso, & alcune feste più solenni;
li Senatori del Minor Conseglio, & anco i magistrati ancora loro vanno vestiti di simili vesti Ducali, ma di colore nero, e foderate di pelli pretiose.
Sono assai dediti alla mercatura: onde per volta da Levante compariscono ben mille somme cariche di diverse merci, a cui loro corrispondono con altrettante, che si rimandano a diverse piazze dello Stato Ottomano, il valsente delle quali, massime delle caravane, passa 200. Mila talari per volta".
Stando allo scrittore polacco, i Ragusei parlavano "nella loro lingua nativa" che era la slava, "la più ampia del mondo, arrivando fin'al Mar gelato". Nella "lingua nativa" scrivevano una poesia "di dolcissimo suono" e "molto ad essa si applicano, e tutto il dì li ne mandano le composizioni alle stampe" .
E tuttavia era italiana la lingua delle leggi e regolamenti, era italiana pure la lingua imperante negli affari. "Però gl'homini - scriveva infatti il De Linda - quasi tutti per li traffici che tengono con l'Italia, fanno ottimamente il parlare italiano, e conducono ogn'anno con gran spesa da Italia un Predicatore di grido, quale nella Metropolitana predichi l'Avvento, e la Quaresima; benchè non li manchi mai buoni Predicatori che nel loro linguaggio riescono a meraviglia bene". E ancora: "Si governano con le loro leggi Municipali, e però in esse massime li Nobili fanno gran studio".
Il capitolo di Ragusa si conclude con un'annotazione titolata "Cognomi delle famiglie nobili della Repubblica di Ragusa": Bona, Bobali, Bonda, Sorgo, Saraca, Giamagno, Benessa. Gozzi, Gradi, Gondola, Buchia, Basegli, Binciola, Giorgi, Palmotta, Ragnina, Ghetaldi, Caboga, Resti, Ragnina ed altri che, oltre a tenere in mano le redini dello Stato, "attendono assai alle belle lettere, & in particolare alla lettura delle Storie, dalle quali i giovani cavano per il governo della loro Repubblica quella prudenza sperimentale, alla quale appena arrivano li vecchi con prattica lunga e continuata".•
14 - Il Piccolo 27/12/11 La strada degli ulivi di Rumiz - Il racconto della traversata a piedi dell’Istria da Trieste a Capo Promontore diventa una guida escursionistica
La strada degli ulivi di Rumiz libro in regalo con "Il Piccolo"
Il racconto della traversata a piedi dell’Istria da Trieste a Capo Promontore diventa una guida escursionistica
il viaggio
0tto tappe in 96 pagine
Ai primi di settembre del 2011 Paolo Rumiz ha compiuto a piedi in otto giorni la traversata della penisola istriana da Trieste a Capo Promontore, e pochi giorni dopo il racconto di quel viaggio è stato pubblicato a puntate sul Piccolo. Ora il racconto diventa un libro, con annessa guida escusrsionistica, dal titolo "La strada degli ulivi - A piedi da Trieste a Capo Promontore" (pagg. 96) in regalo domani acquistando una copia de "Il Piccolo". Il volume è arricchito da cartogafie e indicazioni fornite dalla sezione XXX Ottobre di Trieste del Club Alpino Italiano. Gioved’, invece, in regalo con "Il Piccolo" ci sarà l’agenda 2012, 366 pagine per un anno.
di Pietro Spirito Il viaggio a piedi, il pellegrinaggio, il trekking, hanno ormai assunto un valore che va al di là dell’idea di impresa, sportiva o culturale che sia. Adottare le modalità degli antichi viandanti in un’epoca in cui tutti possiamo essere sempre in qualsiasi punto al globo - tanto che gli esperti oggi si interrogano sulla fine del valore bidimensionale delle mappe, annunciando apertamente una "crisi della ragione cartografica" per dirla con il geografo Franco Farinelli -, riscoprire insomma la fatica e i tempi di un lungo spostamento a piedi, diventa contrapposizione di un andare lento e attento all’andare rapido e disattento che un po’ tutti ci accomuna. E in questo senso non è rilevante tanto la distanza coperta negli spostamenti: l’importante è assumere l’abito mentale del viandante, riposizionare i parametri del viaggio - dal bagaglio, all’abbigliamento, alla scelta del percorso - secondo moduli cui non siamo più abituati. A cominciare dal tempo dilatato, ampliato, che aderisce allo spazio percorso in un modo che, per chi è abituato a spostarsi in auto, bici, moto, treno, bus, metropolitana, aereo ecc. non appartiene più all’esperienza diffusa del movimento. E che impone un atteggiamento diverso nei confronti di quanto ci circonda, obbligandoci all’ascolto, all’osservazione e alla riflessione. Ecco perché la traversata compiuta da Paolo Rumiz da un capo all’altro della penisola istriana va letta non come impresa - lo dice l’autore stesso - ma quale racconto di una ri-scoperta. E questo sia per il percorso scelto (l’interno della penisola e non l’affollatissima costa, come nota Paolo Possamai in prefazione ), sia per il racconto in sé, omaggio alla terra d’Istria che grazie alla penna di Rumiz diventa esperienza di un’epica quotidiana, dove contano un incontro, uno scambio di battute, sensazioni ed emozioni suggerite dal apesaggio, persino l’apparizione di un cane aggressivo. È la terra che al camminatore si rivela e si confida attraverso segreti minimi, brevi scarti di senso, spazi inattesi. Com’è sempre avvenuto per ogni viandante. Rumiz, che del viaggio ha fatto la poetica del suo mestiere di giornalista e scrittore, sa come sintonizzare le antenne del narratore in questo trek che unisce quella regione straordinaria che è l’Istria da un capo all’altro, consegnando al lettore quel distillato di emozioni che è garnzia di ogni bel racconto di viaggio. Nella "Strada degli ulivi", grazie alle giuste varianti e all’apporto degli esperti escursionisti del Cai XXX Ottobre il racconto del viaggio a piedi da Trieste a Capo Promontore passando per il centro della penisola (toccando fra l’altro Montona, Antignana, Canfanaro e avanti per una linea che gli alpinisti potrebbero definire "direttissima"), si trasforma in una vera e propria guida escursionistica per tutti, con una minuziosa descrizione delle tappe, le indicazioni utili, le cartine geografiche con lunghezze, dislivelli e tempi di percorrenza, in modo che le singole tappe possono diventare brevi escursioni a se stanti.
15 – La Voce del Popolo 29/12/11 Zagabria - «Siano resi i beni confiscati dagli ustascia»
Rinnovato pressing della diplomazia straniera nei confronti delle autorità croate
«Siano resi i beni confiscati dagli ustascia»
Ritorna in primo piano la questione della restituzione del patrimonio nazionalizzato ai cittadini stranieri
ZAGABRIA – I rappresentanti diplomatici accreditati in Croazia premono affinché il nuovo governo affronti con maggior interesse la questione dei beni confiscati dal regime ustascia di Ante Pavelić. Lo scopo dell’iniziativa consiste fondamentalmente nello spingere le autorità di Zagabria a implementare la legge relativa alla restituzione o al risarcimento dei beni nazionalizzati o confiscati dal regime comunista jugoslavo, senza fare distinzioni tra cittadini croati e stranieri.
Il valore dei beni confiscati dal regime di Tito è stato stimato dagli esperti attorno al miliardo di kune. A beneficiare dell’iniziativa dei diplomatici stranieri sarebbero principalmente gli ebrei, ma anche cittadini austriaci, tedeschi, italiani e sudamericani, in primo luogo argentini e venezuelani.
PALAZZI A ZAGABRIA Da fonti ufficiose si apprende che fino ad oggi alle autorità croate sono state presentate circa 200 richieste di risarcimenti da parte di cittadini israeliani. I beni confiscati agli ebrei dal regime ustascia spesso sono palazzi di grande pregio situati nelle principali città del Paese, ad esempio l’odierna sede centrale dell’HDZ o la sede di un ministero in via Maksimir, entrambe a Zagabria.
Molti dei beni confiscati agli ebrei dal regime di Ante Pavelić, dopo la Seconda guerra mondiale furono nazionalizzati dalle autorità comuniste e assegnati a personalità di spicco del regime di Tito. È questo il caso di Villa Rado nella quale abitò Vladimir Bakarić, presidente della Lega dei comunisti della Croazia dal 1948 al 1969, considerato uno dei più stretti collaboratori di Josip Broz Tito. L’abitazione è oggi reclamata da una famiglia israeliana. Una famiglia tedesca chiede, invece, che le sia restituito un edificio, in via Masaryk a Zagabria. Nell’immobile in questione è situato l’appartamento utilizzato in passato dall’ex ministro delle Infrastrutture, Božidar Kalmeta.
RICHIESTE DI RIMBORSO Dal momento del varo della legge sulla restituzione dei beni nazionalizzati o confiscati dal regime comunista jugoslavo, sono oltre 4.200 le richieste di rimborso presentate da cittadini stranieri. Queste domande inizieranno ad essere vagliate a partire dal 2015. Si tratta di domande presentate da persone le cui richieste prima del luglio scorso erano state respinte in quanto la Croazia non riconosceva loro il diritto ad alcun tipo di indennizzo. All’epoca, infatti, la Croazia acconsentiva a risarcire solo i cittadini dei Paesi con i quali aveva firmato appositi accordi bilaterali.
Ad insistere sulla questione sono in particolar modo gli Stati Uniti. Lo prova l’interessamento dimostrato dal vicepresidente americano, Joe Biden, e dai funzionari del Dipartimento di Stato alla cui guida c’è Hillary Clinton. Lo stesso ambasciatore statunitense a Zagabria, James Foley, ha menzionato in diverse occasioni la faccenda. L’ambasciatore americano ha però precisato che a prescindere dal diritto di molti cittadini statunitensi ad essere risarciti, bisogna tenere conto della situazione finanziaria ed economica nella quale versa la Croazia. L’argomento era stato affrontato anche in occasione della visita dell’ex primo ministro Jadranka Kosor in Israele. All’epoca il premier dichiarò che gli israeliani avevano voluto discutere della materia, ma senza esercitare pressioni nei confronti della Croazia.
Ad aprire le porte alle domande di risarcimento dei cittadini stranieri è stata una sentenza emessa nel settembre 2010 dalla Corte suprema, che si era espressa a favore di una richiesta presentata in tale senso dagli eredi di una cittadina brasiliana, Zlata Ebenspanger. Interpellato in merito alla questione, il ministro della Giustizia, Orsat Miljenić, si è limitato a dichiarare che la questione deve essere affrontata in maniera obiettiva.
Si ringrazia per la collaborazione l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia di Gorizia e l’Università Popolare di Trieste
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/