N. 839 – 18 Agosto 2012
Sommario


511 - Il Piccolo 13/08/12 Dopo Marco Polo, Ulisse: e l'Odissea diventa dalmata (Mauro Manzin)
512 - Corriere della Sera 11/08/12 Il Caso - «Marco Polo croato? Falso, è solo marketing» (Alice D’Este)
513 - La Voce del Popolo 13/08/12 L'Intervento - E l'Italia scopre l'acqua calda (Kristjan Knez)
514 - Il Piccolo 18/08/12 A Ragusa una mostra in omaggio di Missoni
515 - La Voce del Popolo 13/08/12 La Madonna di Strugnano, cinque secoli di storia e devozione (Kristjan Knez)
516 - La Voce del Popolo 10/08/12 Cultura - L'Arena di Pola unico monumento che si autofinanzia (mr)
517 - CDM Arcipelago Adriatico 11/08/12 Nazario Sauro, eroe d'altri tempi (rtg)
518 - Il Piccolo 11/08/12 Slovenia Paese sull'orlo del default (Mauro Manzin)
519 - La Voce del Popolo 11/08/12 Sloveni in Italia, si rischia il collasso
520 - Messaggero Veneto 17/08/12 Da Lubiana si potrà arrivare a Gorizia e poi in Friuli in treno (Flavio Nanut)
521 - La Voce del Popolo 23/08/2003 E. & R.: La Torre di Babele - ciacolade di Giulio Scala (Roberto Palisca)
522 – La Voce del Popolo 11/08/12 Speciale - Nona, la città di San Gregorio (Mario Schiavato)
523 - Il Piccolo 12/08/12 L'Intervento - Esodo e foibe, non è vero che fu tutta colpa del fascismo (Ada Ceccoli Gabrielli)
524 - Il Piccolo 18/08/12 L'Islam balcanico si salva dal germe integralista (Stefano Giantin)

 

A cura di Stefano Bombardieri
Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti :
http://www.arcipelagoadriatico.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.arenadipola.it/

 

511 - Il Piccolo 13/08/12 Dopo Marco Polo, Ulisse: e l'Odissea diventa dalmata
Dopo Marco Polo, Ulisse: e l'Odissea diventa dalmata
Dopo Marco Polo e Re Artù anche l’Odissea rivisitata in un libro. La regina Calipso abitava a Meleda
di Mauro Manzin
TRIESTE. La Croazia ha deciso di riscrivere la storia dell’umanità. Pro domo sua. Sì, perché dopo la “scoperta” che Marco Polo era croato così come Re Artù, ora tocca ad Ulisse e alla mitica Odissea. A sostenere la tesi nazional-popolare è lo scrittore di viaggi e giornalista, croato ovviamente, Jasen Boka nella sua ultima fatica letteraria intitolata “Sulle vie dell’Odissea”. Nel quale appare chiaro che il mare dell’Odissea è quello Adriatico che bagna le coste croate. Insomma Ulisse ha vissuto le sue avventure in Dalmazia.
Secondo l’illuminato scrittore Ulisse venne colto da una forte bora (ma non soffia da Nord-Nord Est?) già al largo del Peloponneso (famosa la bora greca!!!) e poi spinto sulle coste dalmate da un prepotente scirocco. Boka ha studiato per più di due anni l’omerica saga e alla fine ha stabilito che, ad esempio, l’isola della regina Calipso altro non è se non l’isola di Meleda (Mljet). Molti “indigeni” sostengono la stessa tesi indicando la grotta che si trova a Sudovest dell’isola come la grotta di Ulisse. Kirkina Aia poi che secondo gli studi fin qui effettuati sarebbe un isolotto nel Tirreno meridionale per il nostro autore invece è l’isola di Curzola (e rieccola!). L’area in cui vivevano i lotofagi invece è quella che circonda Almissa (Omiš).
L’analisi dei venti, la geografia, l’archeologia e chi più ne ha più ne metta ha indotto Boka a localizzare nell’isola di Cazza (Susa›) che si trova a 20 chilometri a Sud dell’isola di Lagosta (Lastovo) il luogo dove viveva il mitico Eolo, il re dei venti, che li conservava in otri e poi li liberava in prossimità degli antri dell’isolotto che in effetti ha una peculiarità geologica (difficile da ricondurre fino a Eolo) costituita da un laghetto interno cui si accede da una grotta sottomarina.
E c’è spazio anche per il Ciclope. La sua “tana” per il giornalista croato era l’isola di Š›edro, 2,7 km (1,7 miglia) al largo della costa meridionale dell'isola di Lesina (Hvar). Il nome deriva da štedri, nel senso di beneficenza in slavo antico, perché l'isola offre due profonde e ben protette baie. Il nome latino del Š›edro era Tauris da cui deriva l'italiano Tauricola o Torcola.
E Scilla e Cariddi? Altro che stretto di Messina con le sue correnti e i suoi gorghi nonché la girandola di venti che mettono in difficoltà in naviganti. Scilla e Cardiddi altro non è se non lo stretto che divide la penisola di Sabbioncello (Pelješac) dall’isolotto di Ulbo (Olib).
Signore e signori l’Odissea in salsa croata è bella e servita. A questo punto viene da chiedersi dove si trovasse Itaca. Seguendo il “ragionamento” del giornalista croato viene subito in mente Lussinpiccolo. Sì è bello pensare a Penelope che tesse la sua tela affacciata sulla baia di Cigale aspettando il suo amato marito. Ora non resta che scoprire una copia dell’Odissea scritta in glagolitco e anche Omero diventerà croato. L’unica cosa che non fa tornare il conto è Troia. Maledetto Schlimann e i suoi scavi.

 

512 - Corriere della Sera 11/08/12 Il Caso - «Marco Polo croato? Falso, è solo marketing»
IL CASO
«Marco Polo croato? Falso, è solo marketing»
Inaugurato un museo a Curzola, secondo i dalmati isola natale dell’esploratore. Romanelli: «Tentativo per attirare turisti». Gli storici: operazione senza fondamenti
In tutto sono appena 279 km quadrati e poco più di 17 mila abitanti.Ma una cosa è certa: non demordono facilmente. Dopo la pre-inaugurazione in Cina a Yangzhou (che era stata presenziata dall’ex presidente croato Stjepan Mesic), nei giorni scorsi a Korcula (o Curzola, in italiano) ha aperto definitivamente i battenti il museo dedicato a Marco Polo. Al centro delle sale (e dell’attenzione dei turisti potenziali) i viaggi, le scoperte, ma anche la vita quotidiana dell’«esploratore », perché, come non hanno mancato di sottolineare gli organizzatori nella nota diffusa durante la presentazione, Marco Polo è (a detta loro) «Il personaggio più noto originario di Korcula che nel XIII secolo visitò la lontana e sconosciuta Cina ». Proprio sulla paternità dei natali di Marco Polo, si è scatenata da tempo una querelle che sembra non trovare soluzione.
«Ho visto con raccapriccio questo ennesimo tentativo di assumersi una paternità inesistente - dice Beppe Gullino, docente di Storia moderna all’università di Padova- il problema è che a quel tempo i certificati di nascita spesso non c’erano, quindi non abbiamo un documento per mettere fine ufficialmente a questo scempio. Mai dati storici sono chiari: il padre di Marco Polo era un mercante veneziano, la madre era veneziana, e lui stesso ha sposato una donna veneziana e ha avuto con lei figli cresciuti a Venezia. Senza contare che, a partire dal nome (Marco, più veneziano di così non si può), per arrivare a quello che lui stesso chiama "ritorno in patria", altra scenografia non si vede nelle sue memorie che quella della città lagunare ». Insomma, che il primo vagito di Marco Polo sia stato fatto in terra dalmata (che all’epoca, però, era d’influenza veneziana a tutti gli effetti), oltre ad essere del tutto improbabile, poco importerebbe. La formazione e la vita di Marco Polo hanno infatti una collocazione precisa: Venezia. Come se non bastasse, poi, c’è il «titolo» del Milione a parlar chiaro. Omeglio, il titolo originario, scritto in lingua d'oeil, come il libro stesso: Le livre de Marco Polo citoyen de Venise, dit Million, où l'on conte les merveilles du monde (il libro di Marco Polo, cittadino di Venezia, detto Il milione, dove si raccontano le meraviglie del mondo).
«Non c’è nessun fondamento scientifico in questa millantata paternità - spiega Alvise Zorzi, storico veneziano - Marco Polo non è un personaggio immaginario, di lui ci restano svariati documenti, a partire dal testamento di suo padre. La famiglia Polo, infatti, era nota a Venezia fin dal X secolo». Maallora, perché questo fiorire di falsi storici? «Vanno avanti da un bel po’ di tempo - dice Giandomenico Romanelli, docente dell’Università di Ca’ Foscari ed ex direttore della Fondazione Musei civici di Venezia - cose di questo tipo però si possono affermare soltanto con documenti alla mano, altrimenti si tratta soltanto di pure operazioni di marketing per i turisti». E in effetti, «la paternità ritrovata» di Marco Polo, puzza di marketing. Specialmente se si considera che l’offerta speciale dei ticket d’ingresso è rivolta niente meno che ai cittadini cinesi, che entreranno sempre gratis nel museo. «Per fare concorrenza a Venezia ci vuole ben altro - ha detto il sindaco Giorgio Orsoni, - si tratta solo dell’ennesimotentativo di appropriazione di miti veneziani che lungo le coste della Dalmazia accade da tempo. Niente di nuovo. E niente di preoccupante. Ciò che vale, in questo, è soltanto il giudizio degli storici, e quand’anche i natali fossero (e non sono) di Curzola, Marco Polo rimane e rimarrà sempre un veneziano ». E mentre le istituzioni veneziane fanno spallucce, la «rivisitazione storica» continua. D’altra parte l’ha scritto anche Calvino, quando, nelle sue Città invisibili (cap VI) fa parlare Marco Polo con il Kubilai Khan: «Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano - disse Polo - forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse parlando d'altre città, l'ho già perduta a poco a poco». Sarà andata così anche nelle ricostruzioni degli storici di Curzola..
Alice D’Este

 

513 - La Voce del Popolo 13/08/12 L'Intervento - E l'Italia scopre l'acqua calda
L'INTERVENTO
E l’Italia scopre l’acqua calda
In queste calde e afose giornate agostane, la notizia dell’oro vinto da Giovanni Cernogoraz ai giochi olimpici di Londra, nel tiro a volo, specialità fossa olimpica, ha rallegrato tutti. È un traguardo che consacra il suo lungo periodo d’impegno, di dedizione e di tenacia in uno sport che richiede concentrazione e abilità non indifferenti. La lista dei riconoscimenti e delle coppe da lui vinte è lunga, ma il primo posto sul podio della massima manifestazione sportiva ha, decisamente, un altro peso. Ed è un oro che sentiamo anche “nostro”, perché Gianni è “nostro”, e lo ha manifestato palesemente nel dopo gara. La vittoria, raggiunta dopo un appassionato spareggio all’ultimo piattello, con l’italiano Massimo Fabbrizi, è stata seguita con interesse dai mezzi d’informazione del Bel Paese. Ancora una volta abbiamo colto quella sorta di “smarrimento” nel momento in cui ci si avvicina all’Istria. La medaglia d’oro è andata alla Croazia, lo sportivo, però, solo croato proprio non lo è. Ma come? Possiamo solo immaginare lo stupore che (quasi) tutti avranno provato nel momento in cui il nostro campione ha “usufruito” dello stesso interprete assegnato all’atleta italiano. Ebbene sì, perché la lingua dei due è la stessa, anche se indossavano i colori di due Stati diversi. In pratica abbiamo assistito ad un confronto tra connazionali, infatti abbiamo letto di un “mezzo oro italiano”. Per non parlare della dichiarazione in cui Giovanni ha evidenziato che a casa sua parla solo il veneto. E la cosa non è passata inosservata; Marco Mensurati, sulle colonne de “la Repubblica”, riporta che, effettivamente, si è rivolto ai giornalisti con “accento veneto e pure fortissimo”. Ma allora chi è questo ragazzo? Siamo convinti che le idee di più di un giornalista si saranno offuscate nel presentare il trionfatore: nato a Capodistria (Slovenia, ma non nel 1982), residente a Cittanova (in Croazia), ma italiano. Proprio così e a sostegno di questa nostra considerazione è sufficiente ricordare che i maggiori quotidiani d’Italia non hanno usato, nemmeno tra parentesi, il nome italiano della sua località di provenienza; per “la Repubblica” questi risiede e si allena in un’improbabile “Novograd”, mentre il “Corriere della Sera” scrive solo Novigrad. Le poche cose chiare sono così finite per essere sommerse da parecchi punti interrogativi. Tutto troppo complicato? Forse, ma solo per chi ci guarda da Milano o da Roma, per noi è la semplice quotidianità. Quando sul Dragogna non c’era un confine che divideva la penisola, si veniva alla luce nell’ex convento capodistriano dei Serviti, che ospitava il reparto di maternità. Tra poco meno di un anno quel limite verrà meno e, finalmente, quel fazzoletto di terra, racchiuso fra Trieste, Pola e Fiume, avrà nuovamente una sua unitarietà. Tanto stupore per nulla? Credo proprio di sì. Comunque questa straordinaria circostanza ha portato all’attenzione di tutti l’esistenza di una presenza italiana in Istria e quindi in Croazia, autoctona, abbarbicata sul territorio del suo insediamento secolare, perciò che Giovanni abbia in tasca anche il passaporto italiano c’entra ben poco, anche senza quel documento la sua identità sarebbe tale e quale. Molti mass media, invece, si sono trovati spiazzati, poiché il loro interesse non è mai rivolto agli Italiani “di là”, semplicemente non esistono. È mancato addirittura l’abbiccì, ecco il perché di tante meraviglie. Nulla di strano, è il frutto di decenni di rimozioni o meglio di menefreghismo nei nostri confronti. A parte qualche servizio o inserto dedicato all’Adriatico orientale, perlopiù alla sua offerta turistica, in cui gli strafalcioni non si contano, è più unico che raro riscontrare qualcosa sulla storia di queste terre e pressoché nulla sulla realtà odierna. Perché questa comunità nazionale non merita neanche un trafiletto o un breve servizio televisivo? Non si tratta d’immigrati, ma di un corpo che appartiene a questa terra, che oggi rappresenta i resti di un popolo, che i sinistri accadimenti della storia contemporanea sradicarono e dispersero, senza risparmiare chi è “rimasto”. Vi ricordate di Marina Razman? La bella bionda rovignese che nel 2004 si classificò seconda al concorso “Miss Italia nel mondo”? Anche lei, a differenza delle altre partecipanti, che non di rado si esprimono in un italiano impacciato e approssimativo, aveva mostrato non solo di padroneggiare con quella che è poi la sua madrelingua, ma anche di usarla fluentemente e senza alcuna inflessione “straniera”. Se qualcuno s’interessasse solo un po’ a quella che è stata definita la “piccola Italia”, che ha scuole, istituzioni, mezzi d’informazione, ecc., che operano in lingua italiana, sarebbe al corrente che esistono persone, anche di giovane età, che ancora pensano, lavorano e fanno progetti in italiano. In questo modo si eviterebbe di scoprire l’acqua calda. Come pure trasmettono i loro sentimenti in questa stessa lingua; il messaggio del figlio Leonardo scritto su Facebook: “Bravo papà, son fiero e orgoglioso de ti, te vojo tanto ben”, è la testimonianza più genuina di un’italianità vissuta ogni giorno, tra alti e bassi.
Giovanni, ancora congratulazioni per la meritata vittoria e grazie per aver “segnalato” la nostra esistenza in una cornice così importante.
Kristjan Knez

 

514 - Il Piccolo 18/08/12 A Ragusa una mostra in omaggio di Missoni
A Ragusa una mostra in omaggio di Missoni
Una mostra per celebrare il “Genio del colore”, lo stilista italiano Ottavio
Missoni. È Ragusa, ove nacque nel 1921, a ospitare fino al 9 settembre l’esposizione che rende omaggio non solo all’icona dell’eccellenza italiana nel mondo dei tessuti e della moda grazie al suo inconfondibile segno cromatico, ma anche alla sua carriera sportiva nell’atletica leggera. La mostra ne ripercorre la storia di successo in un percorso espositivo che si dipana attraverso tre aree tematiche, dalla carriera dello sportivo all’attività del creativo fino alla pura e gioiosa avventura dell’artista.
Questa sera, in occasione della visita di Ottavio e Rosita Missoni, si terrà nella Gallerija Dulcic/Masle/Pulitika un evento organizzato dall’Unione italiana, che ha allestito la mostra in collaborazione con le Gallerie Costiere di Pirano, l’Università popolare di Trieste, la Fondazione Ottavio e Rosita Missoni, l’Istituto italiano di cultura di Zagabria, il Centro italiano Carlo Combi di Capodistria e la Comunità degli italiani di Capodistria, in collaborazione con la Galleria d’arte di Ragusa, con il patrocinio dell’Ambasciata italiana a Zagabria, della Città di Zagabria e della Regione Istriana.

 

515 - La Voce del Popolo 13/08/12 La Madonna di Strugnano, cinque secoli di storia e devozione
di Kristjan Knez
ANNIVERSARI (1512-2012) Cinquecento anni fa l'apparizione
della Beata Vergine Maria nell'odierna chiesa di Santa Maria della Visione
La Madonna di Strugnano, cinque secoli di storia e devozione
Quest’anno ricorre il cinquecentesimo anniversario della Madonna di Strugnano. Per ricordare un’importante pagina di storia delle nostre terre, proponiamo alcune note sulla chiesa, sull’apparizione di cinque secoli or sono e sulla devozione popolare, che fece della località istriana uno dei principali centri di culto mariano.
Una chiesa antica
Sul finire del XIII secolo, fra le vigne esistenti sul colle sovrastante San Basso, i frati del convento di Santo Spirito edificarono una piccola cappella dedicata alla Beata Vergine Maria. Con il passare del tempo, la struttura, complice, molto probabilmente, la sua mancata manutenzione, cadde in rovina. La piranese Osvalda de Petrogna (Petronio), soprannominata Barcazza o Barcaccia, vedova del facoltoso Cristoforo, discendente di una famiglia di mastri d’ascia e di costruttori d’imbarcazioni, offerse i suoi denari per la sua ricostruzione. Nel 1463 la proposta fu appoggiata dal canonico piranese Bernardino Venier (questi, nel 1487, all’età di 26 anni, sarà nominato vescovo di Chioggia da papa Innocenzo VIII). Per evitare che si esaurissero i mezzi necessari alla cura dell’edificio di culto, e per celebrare i riti religiosi, la benefattrice donò, con lascito testamentario, cinque cavedini e mezzo, cioè bacini di cristallizzazione, situati nelle saline di Fontanigge.
L’apparizione (14-15 agosto 1512)
Nonostante l’importante contributo offerto dalla danarosa signora piranese, che risollevò la fatiscente chiesetta, in poco meno di mezzo secolo essa era nuovamente in rovina. È vero che il capitolo di Pirano aveva concesso quei bacini in affitto al piranese Domenico Venerio, che avrebbe dovuto contraccambiare con una quantità annuale di sale pari a due moggi e mezzo (due tonnellate circa) e impegnarsi alla manutenzione della chiesa, ma si ritiene plausibile che l’accordo non sia stato rispettato. Infatti, circa due decenni più tardi essa versava nuovamente in cattive condizioni ed era impossibile celebrare le funzioni liturgiche. Ma se nell’anno dell’apparizione la chiesa di Santa Maria Barcaccia era praticamente diroccata, non è da escludere che i danni siano stati provocati dal violento terremoto che nel 1511 aveva interessato un’ampia area geografica, che danneggiò pure le case di Pirano.
Nella notte tra il 14 e il 15 agosto 1512 due guardie campestri, Giovanni Grandi e Pietro di Zagabria, custodi delle vigne di Domenico Spadaro, furono attratte da una fiamma. Pensando si trattasse di un ladro si avvicinarono alla chiesetta in rovina, lì notarono una donna vestita di bianco con il capo coperto la quale, alla presenza di un anziano monaco barbuto, lamentava lo stato decadente dell’edificio sacro. Ai due sorveglianti, impressionati, si rivolse con la preghiera di intercedere presso il pievano affinché si provvedesse a rimettere in sesto la struttura ridotta a un rudere. Su questo episodio esistono le deposizioni dei due testimoni, che giovarono alle autorità ecclesiastiche e civili intente a fare chiarezza su quell’episodio. Il 9 settembre 1512 il pievano piranese, Balsamino da Preto, e un pubblico notaio si recarono nell’abitazione di Pietro di Zagabria, ammalato e a letto, per la registrazione di quanto era accaduto. Nella sua deposizione si legge che la Madonna si sarebbe rivolta con le seguenti parole: “Ve’ casa mia a che modo che la xe ruinada!”, e ancora: “Non scampate: disete al Piovan, che ad ogni modo fazi che conzi questa Giesia, et aguai a Piran se la non se conza”. Il giorno successivo, Giovanni Grandi depose, sotto giuramento, la sua versione nel palazzo municipale, alla presenza del podestà Marco Navagerio e dello stesso pievano, che la inoltrò al vicario generale di Capodistria.
Importante santuario mariano
Qualche settimana dopo l’apparizione, il 12 settembre 1512, per ordine della Curia Vescovile di Capodistria, a Pirano, al termine del Vangelo della messa solenne, fu reso noto al pubblico l’eccezionale avvenimento, mentre una settimana più tardi, il 19 settembre, vi fu la prima processione sul colle di Strugnano, con l’intervento di tutto il clero secolare e regolare, delle confraternite, del podestà piranese, Marco Navagerio, e una partecipazione importante di cittadini provenienti dalla città di San Giorgio e dalle località vicine. Non lungi dalla chiesa quasi diroccata fu celebrata una messa e da quel giorno prese il nome di Santa Maria della Visione. Il 5 dicembre 1512 il Consiglio municipale di Pirano si riunì per prendere atto della Visione e per deliberare in merito all’amministrazione delle elemosine offerte dai fedeli per il restauro dell’edificio (affidate alla confraternita della Madonna, istituita il 16 ottobre 1512 e voluta dal pievano di Pirano), alle altre questioni patrimoniali nonché alla costruzione di un edificio per i pellegrini.
Successivamente iniziarono i lavori che sistemarono decorosamente il luogo sacro. Gli interventi furono possibili anche grazie agli oboli offerti dalle migliaia di fedeli che ormai affluivano per rendere omaggio alla Madonna. Nel XVII secolo si registrarono ulteriori ampliamenti (1640), qualche decennio più tardi le pareti della chiesa furono invece arricchite dalle dieci grandi tele (2,80 x 2,50 m) raffiguranti la Vita di Maria, realizzate tra il 1656 e il 1671. La tradizione vuole che il ciclo sia stato eseguito dal parroco piranese nonché pittore Tomaso Gregolin (o Gregorin), ma sembra molto improbabile, già nel XIX secolo sorse il dubbio sull’attribuzione, perché l’ecclesiastico non sarebbe stato un artista. Gli episodi rappresentati furono sviluppati, molto probabilmente, dai suggerimenti grafici e pittorici che facevano riferimento non solo alla tradizione artistica veneziana bensì anche a quella manieristica dell’Italia centrale. La località era ormai un importante luogo di culto mariano nonché una meta di pellegrinaggio, caratteristiche che non passarono inosservate. Il vescovo di Capodistria, Paolo Naldini, ad esempio, nella sua corografia della diocesi capodistriana, data alle stampe a Venezia nel 1700, scrive che a Strugnano, tra le varie chiese esistenti, vi era quella della Beatissima Vergine, “resa memorabile, e veneranda à tutta l’Istria dalla prodigiosa Apparitione di Maria (…)”.
La pala dell’altare maggiore
Al termine dei lavori, iniziati poco dopo l’eccezionale evento, grazie ai quali il colle riebbe la sua chiesa, sull’altare maggiore fu collocata l’immagine più nota e caratteristica sull’episodio avvenuto in quella notte d’agosto. Si tratta di un olio su legno (110 x 110 cm), molto probabilmente del 1520, opera di Francesco Valerio. Rappresenta l’apparizione in base alle testimonianze rilasciate dalle due guardie campestri. La Vergine, addolorata per le condizioni fatiscenti in cui si trovava la sua casa, sembra trovare conforto da un monaco barbuto d’età avanzata, che stringe un cero, mentre Giovanni Grandi e Pietro di Zagabria, con l’alabarda in mano, assistono increduli alla scena. La pala, situata sotto due cortine aperte di marmo sorrette da due angeli, è interessante perché quel motivo ricomparirà nell’angolo superiore di quasi ogni immagine votiva. Sull’arco che incornicia l’altare maggiore, nel 1912, furono raffigurati quindici medaglioni con i Misteri del Rosario, realizzati da Giacomo de Simon, lo stesso che sulle pareti laterali dipinse la deposizione delle testimonianze giurate da parte dei due guardiani e la seduta del Consiglio cittadino piranese, dipinta assieme ad un suo allievo.
Gli ex voto
Una testimonianza importante della devozione popolare locale è rappresentata dalle immagini votive, che si conservano numerose. Queste opere d’arte, per lo più di autori ignoti o dilettanti, non hanno un particolare valore artistico, viceversa sono degli eccezionali documenti per conoscere la storia delle persone, le attività svolte e le sventure accadute ai singoli interessati. Offrono, quindi, non pochi elementi per cogliere determinati aspetti della società dei tempi passati. Alcuni esemplari sono, invece, opera di abili pittori locali. Le rappresentazioni sono alquanto semplici, immediate e trasmettono un’emozione correlata all’episodio raffigurato. Ex voto è la formula presente sui medesimi, cioè sugli oggetti offerti in dono, nel caso specifico alla Vergine, per grazia ricevuta. Gli esemplari conservatisi sino ai giorni nostri sono prodotti che palesano l’influenza esercitata dall’arte italiana. Come scrive il già ricordato vescovo Naldini, la chiesa era riccamente addobbata, sugli altari vi erano “ricchi argenti”, ciò che la distingueva erano però “(…) l’innumerevoli Tabelle de’ Voti, d’ogni intorno appese in attestato delle gratie qui diluviate dall’immensa Beneficenza di Maria à suoi divoti”. Anche gli ex voto di Strugnano sono una sorta di segno di gratitudine per una scampata sventura, per lo più da parte di chi si guadagnava da vivere grazie alla navigazione. Non sono giunti fino a noi gli esemplari più antichi, che esistevano dato che troviamo menzione nelle varie fonti; il più vecchio risale al 1787, è un olio su tela, di 37 x 30 cm, donato da Bortolo Viezoli.
I Padri Francescani trentini
Il 14 ottobre 1907, su invito del vescovo della diocesi di Trieste e Capodistria, Francesco Saverio Nagl, poi cardinale arcivescovo di Vienna, a Strugnano giunsero i frati francescani della Provincia trentina di San Vigilio, ai quali fu affidata l’amministrazione del santuario. Grazie alle loro iniziative dettero nuovo fervore alla dimensione devozionale e la chiesa fu interessata da una serie d’interventi di restauro e di abbellimento che la resero particolarmente graziosa. Le caratteristiche attuali, sia interne sia esterne, sono il risultato dei lavori compiuti cent’anni fa. Il primo custode, padre Serafino Inama, di comune accordo con il presule sopraccitato, rivolse una richiesta a Roma per l’incoronazione della sacra immagine della Madonna; l’autorizzazione pervenne il 10 giugno del 1910. I lavori iniziarono invece nel gennaio del 1912 e durarono per cinque mesi circa; furono affidati a Giacomo de Simon, pittore decoratore triestino alquanto noto, e ai suoi allievi. Questi presentò il progetto che fu approvato dall’ing. cav. Giusto Catolla. In quel periodo di lavorio, il soffitto a crociera del presbiterio, ormai annerito, fu lavato e rinfrescato e si intervenne sull’immagine dei quattro Evangelisti. Il pavimento del presbiterio, a tavole di cemento, fu rinnovato con elementi di ceramica. Le pareti, che a detta dei contemporanei, avevano l’aspetto di una sala furono tinteggiate a finta pietra. Ai lati dell’altare furono ricavate due nicchie in cui trovarono posto le statue in legno di Sant’Antonio di Padova e di San Francesco d’Assisi. Sul frontone triangolare fu sistemata la statua della Madonna e ai lati quelle di due angeli. Fu restaurato anche il campanile e acquistate cinque campane (dedicate alla SS. Trinità, a S. Maria della Visione, a S. Giuseppe, a S. Francesco e a S. Antonio), che il 13 luglio 1912 il vescovo della diocesi di Trieste e Capodistria, Andrea Karlin, consacrò con il concorso del clero locale e del popolo, e il giorno dopo anche la chiesa.
L’incoronazione della Madonna (15 agosto 1912)
Nel 1912, in concomitanza con il quarto centenario dell’apparizione, una grande festa religiosa accompagnò le manifestazioni che culminarono con l’incoronazione della Madonna, cioè il massimo riconoscimento e il maggiore onore per un santuario, avvenuta con l’approvazione di papa Pio X. In quell’occasione sul capo della Vergine, nell’immagine dell’altare maggiore, fu posta la corona dorata con pietre preziose. La ricorrenza fu seguita da vari giornali, non solo locali; un articolo dettagliato fu pubblicato anche dallo “Slovenec”, il principale quotidiano sloveno. Anche il foglio ecclesiastico lubianese “Bogoljub” riportò un resoconto ricco di considerazioni sull’ottima riuscita delle celebrazioni. I piroscafi trasportarono un flusso continuo di fedeli. Per la celebrazione dell’Assunta, la Santa messa fu officiata dal vescovo di Trieste e Capodistria, mons. Karlin, giunto con il piroscafo “Audax”, assistito dal prelato di Lubiana, Anton Bonaventura Jeglič, e dall’arcivescovo trentino Nicola Marconi. La partecipazione del popolo fu davvero importante. Si stimò vi presero parte circa 20.000 persone. Al termine della messa, fra la musica delle bande di Capodistria, di Umago e di Sicciole e il suono delle campane, nel duomo di S. Giorgio, il vescovo incoronò la Vergine. Il prezioso era uscito dal laboratorio torinese di E. Virando. Era un oggetto in oro giudicato splendido, sul quale erano stati incastonati 625 diamanti, 1 brillante, 17 perle, 5 amatiste e 10 turchesi. Pittoresca fu, indubbiamente, la processione sul mare in cui furono coinvolte alcune decine d’imbarcazioni. “Il Piccolo”, nella sua corrispondenza da Pirano, propose una puntuale cronaca della giornata di festa nella città di Tartini. Il quotidiano triestino, nell’edizione del 18 agosto 1912, scrive: “Alla mezzanotte alla presenza di oltre 5.000 persone, venne celebrata la messa all’aperto. Interessantissima per l’innumerevole sgargiare dei colori, per la magnifica serie di barche infiorate, per la festosità di tutto un popolo, riuscì nel pomeriggio la processione per mare da Strugnano verso Pirano e da qui nel medesimo ordine di ritorno al Santuario. Ventisette grandi brazzere, tutte pavesate a festa, con a bordo di ognuna un’ottantina di persone, trainate da quattro rimorchiatori, formarono una linea diritta, dando imagine per colori e per pavesi di una flotta di galee venete festanti” e prosegue “Arrivata la testa del corteo al molo, la sacra immagine venne sbarcata e portata a mano da quattro sacerdoti processionalmente al Duomo, seguita dal clero, dal podestà, dalle autorità governative, dalle bande musicali e dalla folla. Finita la cerimonia dell’incoronazione e della benedizione alla città impartita dal vescovo, la processione ridiscese nel medesimo ordine per tornare”. Quel centenario fu celebrato in un momento di forti dissidi politici e nazionali, pertanto le parole di padre Teodorico Asson, pubblicate l’anno dopo in una pubblicazione dedicata alle celebrazioni, possono essere colte come una sorta di auspicio per i tempi venturi: “Queste feste furono una scossa e un punto di unione dei popoli dell’Istria. Essa è purtroppo divisa da lingua e da partiti; che vi sia un’idea possente di unione, è la cosa più bella e più sentita. E queste furono le feste religiose, perché si trovarono insieme, non solo di diverse lingue, ma di diversi sentimenti e idee, lieti di trovarsi d’accordo nel punto essenziale della vita”.
(L’autore ringrazia l’amico Franco Viezzoli di Trieste per aver generosamente messo a disposizione le immagini del suo archivio fotografico a corredo del presente articolo).

 

516 - La Voce del Popolo 10/08/12 Cultura - L'Arena di Pola unico monumento che si autofinanzia
I 300 MILA VISITATORI ALL'ANNO PORTANO UN GUADAGNO DI 10 MILIONI DI KUNE
L’Arena di Pola unico monumento che si autofinanzia
POLA – L’Arena di Pola è per grandezza il sesto anfiteatro nel suo genere e il maggior monumento della romanità in Croazia. Il suo nome deriva dal latino ărēna, che indica la sabbia che ricopriva le platee degli anfiteatri romani. Il monumento emblema della città, dal grandissimo valore simbolico ed affettivo, è chiamato dai polesi solitamente Rena, dal dialetto istroveneto.
Di fronte all’Arena soprattutto nei mesi estivi, nonostante il forte caldo, tutti i giorni c’è una lunga coda per il biglietto di ingresso. Sono in tanti ad aspettare sotto il sole cocente, per non rinunciare al “viaggio” nella storia antica. Ogni anno l’Arena registra un numero crescente di visitatori.
Nel primo semestre di quest’anno a fare vistia al monumento simbolo di Pola sono state 162mila persone che, in confronto all’anno scorso, sono 10mila in più. Fino alla fine del 2012 si prevede che il numero dei visitatori potrebbe raggiungere quota 300mila, il che fa dell’Arena uno dei monumenti più apprezzati in Croazia e porta un guadagno alle casse della città di 10 milioni di kune.
“Possiamo affermare che questo sia uno dei pochi, se non l’unico monumento, che si autofinanzia, anche sotto l’aspetto restaurativo” ha dichiarato a proposito Darko Komšo, direttore del Museo archeologico polese. L’incasso più alto avviene nei mesi estivi; solo nel mese di luglio i 70mila visitatori hanno portato nelle casse 2 milioni di kune di introiti. Sempre a luglio, anche il Pola Film Festival ha registrato un nuovo record, con 78.300 spettatori, diventando l’edizione più visitata nella storia del Festival. Grazie ad esso l’Arena ha registrato un numero molto elevato di presenze anche nelle ore notturne. Quest’anno per la prima volta, nel mese di settembre, l’Arena ospiterà i gladiatori dell’età moderna: infatti, la squadra di hokey ‘Medveščak’, di Zagabria, terrà due partite del noto sport americano che di anno in anno sta prendendo sempre più piede anche in Croazia. Sicuramente - ha concluso Komšo - la notizia di questa partita in un ambiente così particolare farà il giro del mondo e sarà una forte promotrice di Pola e di tutta la Croazia”. Per questo evento sono attesi oltre 14 mila spettatori; i biglietti stanno già andando a ruba. (mr)

 

517 - CDM Arcipelago Adriatico 11/08/12 Nazario Sauro, eroe d'altri tempi
NAZARIO SAURO, EROE D’ALTRI TEMPI
Un "eroe" istriano diventato storia e mito. Nella ricorrenza del suo sacrificio si svolgono manifestazioni, una in particolare a Trieste il 10 agosto di ogni anno, per ricordarne il valore, la coerenza, lo spirito indomito legato ad "altri tempi". Ebbene, molti gli autori che si sono occupati della sua figura e molte le scuole ed associazioni che portano il suo nome. A pochi giorni dalla cerimonia di Trieste, vogliamo ricordare alcuni momenti che ne tracciano il profilo.
Il primo riferito ad un’opera di Claudio Loreto su "Nazario Sauro, eroe d’Italia e della canottieri Libertas" nella quale leggiamo: "A Capodistria, durante la dominazione austriaca, il Circolo Canottieri Libertas fu anche una autentica scuola di "irredentismo".
A tale club apparteneva Nazario Sauro, il quale non si lasciava sfuggire occasione per manifestare il proprio amore assoluto per l’Italia. Nel 1912, paventando manifestazioni pro Roma, le autorità asburgiche preferirono fare ancorare al largo di Punta Grossa una nave da guerra italiana giunta in missione ufficiale. Sauro radunò sei canottieri e si impossessò della lancia-scuola sociale a sei vogatori Dogali (tutte le imbarcazioni della Libertas, a mo’ di sfida all’oppressore, venivano battezzate con nomi che rievocavano le glorie d’Italia); raggiunta quindi l’unità militare, egli fece alzare i remi in aria e dispiegare il Tricolore che aveva legato ad ognuno d’essi, in segno di omaggio a quel "pezzo" di Madrepatria.
Sauro aderiva al principio mazziniano del diritto di ciascun popolo all’indipendenza: così, comandante di battelli mercantili, trasportò armi per i patrioti albanesi in lotta contro l’occupante turco.
Allo scoppio della I Guerra Mondiale riparò a Venezia, arruolandosi successivamente nella Regia Marina; dal Veneto favorì la fuga di diversi giovani della Libertas, ansiosi di combattere gli austriaci. Per raggiungere le coste italiane, i canottieri capodistriani si servivano delle imbarcazioni del club, cosicché, per porre fine a quelle diserzioni, gli austriaci incendiarono le barche residue e la sede stessa della Libertas.
A bordo di unità siluranti, Sauro fu protagonista nell’Alto Adriatico di imprese temerarie, che nel giugno 1916 gli valsero la medaglia d’argento al valore e la promozione al grado di tenente di vascello. Il successivo 31 luglio una sfortunata missione con il sommergibile Giacinto Pullino lo fece però cadere nelle mani del nemico: identificato e processato per alto tradimento, Sauro venne impiccato a Pola il 10 agosto dopo aver ripetutamente gridato Viva l’Italia! In seguito il Re Vittorio Emanuele III volle esaltarne il sacrificio decretando la medaglia d’oro alla sua memoria.
Dopo il conflitto, ad ogni anniversario della morte dell’eroe tutte le imbarcazioni della Libertas uscivano in mare per adagiare sulle onde una corona d’alloro; nel 1921 il circolo adottò come proprio motto l’esortazione "Sempre, ovunque e prima di tutto italiani", fatta da Sauro ai figli nella sua ultima lettera-testamento. Il 9 giugno 1936, al cospetto del Sovrano e di numerose unità navali da guerra, sulla riva di Capodistria venne inaugurato un grandioso monumento dedicato al patriota; ai piedi dell’opera, su appello della Libertas, si concentrarono ben 148 imbarcazioni, di cui 55 a remi con a bordo 288 commossi vogatori. Il monumento venne smontato dai tedeschi nel 1944 e le sue componenti distrutte dagli jugoslavi dopo la loro occupazione dell’Istria; sulla gloriosa Società in cui Nazario Sauro si era formato calò poi presto il sipario".
Nel dare l’annuncio della cerimonia avevamo citato anche il libro dedicato a Sauro dal giornalista Ranieri Ponis. All’archivio del CRS di Rovigno troviamo invece citata l’opera di Marco Pogliacco "Nazario Sauro il grande marinaio d’Italia" e numerosi scritti che accompagnarono il centenario dell’Istituto nautico di Lussino intitolato al capitano capodistriano.
Spulciando tra libri e notizie non mancano cenni critici sulla sua figura. Viene contestato l’appellativo di "eroe" attraverso una valutazione estrapolata dal contesto in cui egli visse ed operò. Oggi in una realtà pacificata è difficile comprendere divisioni che cent’anni fa tanto dolore determinarono in queste nostre terre di confine. Ogni nuovo trattato, ogni definizione delle linee di demarcazione portava a lacerazioni profonde, a tragedie ed atti d’eroismo. Sauro fa parte di questo sofferto panorama e come tale va considerato. All’avvicinarsi del centesimo anniversario dal suo sacrificio estremo, una rilettura della sua figura non può che apportare nuova conoscenza e nuova consapevolezza di ciò che la storia insegna attraverso le gesta dei suoi protagonisti.
Da qui l’importanza della cerimonia svoltasi ieri davanti al suo monumento sulle rive triestine e la necessità di rileggere esperienze che oggi sembrano semplice leggenda, fantasie di un sentire dissolto. Ma Sauro fu uno dei tanti figli dell’Istria e di questi portò a galla principi e caratteristiche che hanno distinto, nelle diverse epoche, questo piccolo mondo. (rtg)

 

518 - Il Piccolo 11/08/12 Slovenia Paese sull'orlo del default
Vola lo spread in Slovenia Paese sull’orlo del default
Nuova manovra economica in autunno con ulteriori tagli a stipendi e pensioni Possibile richiesta al fondo salva-stati dell’Eurozona. Sindacati: «Sarà guerra»
di Mauro Manzin
TRIESTE. Tempi duri per Lubiana. Nell’arco di una settimana la Slovenia, in passato il primo della classe dei nuovi Paesi europei, oggi duramente colpita dalla stretta creditizia, si è vista tagliare il rating del suo debito sovrano e delle maggiori banche da tre agenzie internazionali, per la seconda volta dall’inizio dell’anno. Sono pertanto sempre più insistenti le voci secondo le quali in autunno la Slovenia potrebbe diventare il sesto Paese membro dell’Ue a chiedere aiuti al fondo salva-stati europeo. Prima il 2 agosto Moody’s ha declassato lo status della Slovenia da A2 a Baa2, con un outlook negativo, poi è stata la volta di Standard and Poor’s (da A+ ad A) e infine, mercoledì scorso di Fitch, sempre di un punto, ad A-, spiegando che la decisione è motivata «dallo stato preoccupante in cui versa il settore finanziario del Paese».
Il deterioramento della situazione nelle banche e la lentezza dell’azione del governo, che continua a posticipare la decisione sulla ricapitalizzazione dei maggiori istituti di credito, tra l’altro di proprietà dello Stato, vengono indicati da tutte e tre le agenzie come la principale ragione per il giudizio negativo sullo stato delle finanze pubbliche slovene. Secondo Fitch il governo dovrà spendere circa 2,8 miliardi di euro per stabilizzare le banche, pari all’8 per cento del Pil nazionale. Immediatamente è schizzato anche lo spread e ora gli interessi sui titoli di Stato sloveni a scadenza decennale sono arrivati al 7,03 per cento, limite considerato insostenibile a lungo termine, dopo il quale altri Paesi dell’euro hanno dovuto chiedere aiuti a Bruxelles. Il governo, guidato dal conservatore Janez Janša, ha più volte smentito le voci che Lubiana dovrà ricorrere al fondo salva-stati e si è definito «sorpreso» dal giudizio delle agenzie che «non avrebbero valutato in modo adeguato le misure di risparmio messe in atto dallo scorso maggio». Janša continua a insistere come, per quanto sia evidente che la banche avranno bisogno di aiuto, lo stato delle finanze pubbliche è lontano dal definirsi preoccupante. Infatti, la legge finanziaria prevede una diminuzione del deficit dal 6,4 nel 2011 a circa 4 per cento quest’anno, mente il debito pubblico continua a mantenersi a livelli contenuti, al 48 per cento del Pil.
Ma al di là delle smentite una manovra bis in autunno che andrà nuovamente a tagliare gli stipendi degli statali, le pensioni e le indennità di disoccupazione sembra oramai ineludibile. Lo scrive il quotidiano lubianese Delo e il ministero delle Finanze non conferma ma non smentisce. Voci che hanno mandato i sindacati su tutte le furie. Le parti sociali, infatti, promettono ferro e fuoco forti anche del fatto che nell’accordo stipulato con il governo che ha fatto passare la legge finanziaria si stabilisce nero su bianco che «l’esecutivo fino alla fine del 2013 non ha in progetto tagli agli stipendi del pubblico impiego».
Intanto le Cassandre preannunciano tempi durissimi. L’economista del Centro internazionali di studi economici comparati di Vienna, Vladimir Gligorov non ha dubbi: «La Slovenia dovrà chiedere aiuto o al Fondo monetario internazionale o al fondo salva-stati dell’Eurozona». La situazione è simile a quella della Grecia prima del default. E c’è già chi dice: «Torneremo a fare la spesa in Ponterosso a Trieste».

 

519 - La Voce del Popolo 11/08/12 Sloveni in Italia, si rischia il collasso
I FINANZIAMENTI ASSICURATI DAL GOVERNO ITALIANO RITARDANO. PREOCCUPATE LE ORGANIZZAZIONI
Sloveni in Italia, si rischia il collasso
TRIESTE – I versamenti dei finanziamenti destinati alla realizzazione delle attività registrano importanti ritardi e le associazioni, gli enti e le organizzazioni della Comunità slovena del Friuli Venezia Giulia versano in gravi difficoltà economiche. Dall’inizio dell’anno, infatti, risulta che nessun versamento sia stato fatto sui conti dell’Unione culturale ed economica slovena (SKGZ) e della Confederazione delle organizzazioni slovene (SSO), che si trovano ad affrontare non poche difficoltà e temono che la prima tranche del finanziamento potrebbe arrivare appena a fine anno. Uno scenario che metterebbe a dura prova il mantenimento di alcune attività e di conseguenza anche gli enti che le realizzano.
SOLUZIONI IDONEE A denunciare la serietà della situazione è stata ieri la stessa SKGZ, che ha diramato un comunicato nel quale sottolinea che “si attendeva che le problematiche inerenti alla Comunità Nazionale Slovena in Italia avrebbero trovato una soluzione più idonea dopo i numerosi incontri ufficiali tra l’Italia e la Slovenia, ed in particolare dopo la visita ufficiale del presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, in Slovenia”. Una visita, si ricorda, svoltasi il 10 e 11 luglio scorsi e nel corso della quale ampio spazio è stato dedicato proprio al tema delle rispettive minoranze e al loro status, definito dal Capo dello Stato sloveno, Danilo Türk, “una misura della qualità dei rapporti tra gli Stati”.
SERIE DIFFICOLTÀ Ai massimi livelli, quindi, le buone intenzioni di certo non mancano, ma la crisi ci mette del suo. E così l’SKGZ avverte: “È reale il pericolo che le complicazioni e i ritardi nel finanziamento della legge di tutela della minoranza slovena in Italia pongano numerose organizzazioni e istituzioni della Comunità sull’orlo del collasso finanziario. Alcune registrano serie difficolta a versare le mensilità agli impiegati, mentre allo stesso tempo stanno venendo meno i fondi per le attività già in programma. Queste condizioni pongono in serio pericolo l’inizio della nuova stagione programmatica”.
TEMPI DILATATI Nel comunicato si avverte quindi che non soltanto “si fa reale la possibilità che il primo aiuto economico giunga solo a fine anno”. Infatti, si legge nella nota,“non c’è chiarezza nemmeno sull’ammontare complessivo dei contributi. Esiste la reale possibilità che i fondi legati alla legge di tutela vengano ridotti di ben 1,8 milioni di euro. In riferimento a questo dato viene spesso dimenticato che negli ultimi dieci anni nelle casse dello Stato sono ‘rimasti’ più di 30 milioni di euro in quanto la legge di tutela non e stata realizzata in tutti i suoi punti, nonostante la stessa preveda la sua piena attuazione entro i primi sei mesi dal febbraio 2001”.
COLLOQUI INFORMATIVI Con l’obiettivo di trovare soluzioni adeguate alla situazione venutasi a creare, il presidente dell’Unione Culturale Economica Slovena, Rudi Pavšič, ha avuto nei giorni scorsi numerosi incontri a scopo informativo con rappresentanti delle organizzazioni della Comunità per sondare la situazione effettiva. Dai colloqui è emerso, si legge nel comunicato, che “alcune organizzazioni si trovano in difficoltà avendo già usufruito delle modeste riserve finanziarie. Altre sono dovute ricorrere a prestiti bancari con ulteriori spese riferite agli interessi, che non fanno altro che pesare ulteriormente sul loro bilancio. Se da Roma e dalla Regione (che ha promesso di anticipare circa la meta dei contributi) non arriveranno segnali positivi, in autunno andremo incontro ad un vero e proprio collasso finanziario di tutte la maggiori organizzazioni della minoranza”.
«PRIMORSKI DNEVNIK» “A questo bisogna aggiungere le gravi difficoltà del Primorski dnevnik e di alcuni settimanali sloveni a causa della riduzione di fondi inerenti alla legge sull’editoria. Questa e stata anche la causa che ha costretto il direttivo dell’unico quotidiano sloveno a dichiarare lo stato di crisi mettendo in serio pericolo la regolare pubblicazione del giornale riducendo lo stipendio a tutto il personale”, prosegue il comunicato dell’SKGZ, nel quale si ricorda che “durante l’incontro di Lubiana tra i presidenti d’Italia e Slovenia e stata ribadita la convinzione che le minoranze rappresentano un valore aggiunto e un’occasione per una collaborazione più stretta tra i due Stati”.
GARANTIRE LA SUSSISTENZA “I presidenti Türk e Napolitano hanno indicato il percorso da seguire per risolvere i problemi che dovrebbero essere affrontati sia dal governo nazionale come pure dell’amministrazione regionale, così come e stato ribadito recentemente a Trieste durante l’incontro tra il sottosegretario al Ministero degli Interni, Saverio Ruperto, e i rappresentanti della Comunita slovena. Se le minoranze in Italia e in Slovenia rappresentano un valore aggiuntivo, e giusto che venga loro reso possibile esercitare le proprie funzioni integralmente, senza continue preoccupazioni riguardanti la propria sopravvivenza. Le difficolta economiche della Comunità slovena non rappresentano, malgrado la crisi economica globale, un ostacolo insuperabile per lo Stato italiano. La Slovenia stessa, pur essendo in un grave momento economico, ha mantenuto inalterata la sussistenza alle proprie minoranze riconosciute. Le realtà minoritarie sono la parte più vulnerabile di ogni comunità, per le quali l’abbassamento del livello di tutela ed i tagli ai contributi finanziari – conclude la nota dell’SKGZ – possono rivelarsi decisivi per la loro esistenza e per il loro sviluppo”.


520 - Messaggero Veneto 17/08/12 Da Lubiana si potrà arrivare a Gorizia e poi in Friuli in treno

Da Lubiana si potrà arrivare a Gorizia e poi in Friuli in treno
Ripristinato il raccordo ferroviario di 8 chilometri fra la città e Nova Gorica. Capoluogo fuori dall’isolamento, l’Unione europea favorevole al progetto
di Flavio Nanut
GORIZIA. Sarà ripristinata la tratta ferroviaria Gorizia-Nova Gorica per il traffico passeggeri. A far uscire il capoluogo isontino da un isolamento sempre più marcato sarà il progetto della metropolitana leggera, che ha già ricevuto il via libera dall’Unione europea e che nelle prossime settimane sarà al centro degli incontri transfrontalieri fra autorità italiane e d’oltreconfine sotto l’ombrello del Gect, il Gruppo europeo di cooperazione territoriale.
Il progetto si prefigge lo scopo di creare le premesse per la creazione di un’area, servita da una metropolitana leggera a “ring” a cavallo del confine, vale a dire sul tratto Gorizia-Nova Gorica-Sesana-Trieste-Monfalcone-Gorizia. Nello specifico, sono previsti l’elettrificazione della linea che collega Nova Gorica a Sesana, la progettazione di un collegamento diretto verso la Slovenia, attraverso il capoluogo isontino, per i convogli provenienti da sud, quindi dalla direttrice Venezia-Mestre-Ronchi.
Il tutto in un contesto che prevede il potenziamento dei collegamenti ferroviari fra Italia e Slovenia nella zona dell’autoporto. Un particolare, quest’ultimo, frutto dell’opera svolta dal gruppo di lavoro e dagli amministratori di Gorizia, Nova Gorica e San Pietro-Vertoiba.
Il tratto si svilupperà sull’attuale raccordo ferroviario di circa otto chilometri e interesserà i servizi viaggiatori delle ferrovie italiane e slovene. Una parte dei treni guidati da locomotori diesel e provenienti da Sesana e Lubiana invece di concludere la corsa a Nova Gorica potranno proseguire fino a Gorizia e, in questo modo, sarà possibile usufruire di coincidenze con i convogli di Trenitalia che percorrono la Trieste-Udine-Venezia. Una boccata d’ossigeno per il trasporto ferroviario goriziano, che in questi ultimi anni è stato spesso messo emarginato e relegato in ambiti sempre più locali.
Dicevamo del parere favorevole pronunciato dagli organismi europei. A tale proposito va precisato che sono pronti 3 milioni e mezzo destinati alla progettazione della metropolitana leggera di superficie. E a convincere le autorità dell’Ue sono stati, in primo luogo, due fattori: il fatto che l’opera in parola coinvolge un’area transfrontaliera e favorisca i traffici in un lembo d’Europa troppo spesso dimenticato e la constatazione che per passare dalle parole ai fatti non ci sarà bisogno di ricorrere a opere faraoniche.
Il traffico passeggeri, in buona sostanza, potrà far leva su strutture già esistenti sul territorio, da una parte e dall’altra del confine, senza stravolgere l’ambiente e senza bisogno di massici interventi. Insomma, la spina dorsale della nuova linea ferroviaria c’è già, si tratterà di “irrobustirla”.
Del resto, del progetto si è discusso a più riprese, nei mesi scorsi, in sedi prestigiose, prime fra tutte quelle italiane e slovene. E gli ampi consensi registrati in tali circostanze si sono ripetuti, come anticipato, anche in ambito comunitario. Quando se ne è parlato a Bruxelles, l’assessore regionale ai Trasporti, Riccardo Riccardi, ha sottolineato come la linea ferroviaria così concepita sia in grado «di costituire una piattaforma logistica, e dunque di sviluppo economico, aperta alla porzione più settentrionale del mare Adriatico e anche al servizio dell’Europa meridionale».

 

521 - La Voce del Popolo 23/08/2003 E. & R.: La Torre di Babele - ciacolade di Giulio Scala

Inserisco questo articolo del 2003 nella Rassegna stampa odierna, per ricordare l’amico fiumano della MLHistria, Giulio Scala, che cj ha lasciato nei giorni scorsi
Speciale a cura di Roberto Palisca

Ciacolade
La Tore de Babele

Ogni omo (o dona) che nasi su la Tera el gà una lingua o favela che se ciama lingua madre o Madrelingua, perché la xe la lingua, el idioma che la sua mama, essa la ghe parlava quando che el era picio. Mi go la madrelingua italiana perché la mia mama, essa la me ga sempre parlado in italian, ossia in fiumàn, de quando che go averto i oci e respirado la prima bocada de aria de Fiume, aria che nel milenovecento e venti oto la era , mi credo, più neta e meno inquinada de ogi. De noi a Fiume, emporio e punto de incontro tra el Oriente e el Ocidente, se parlava diverse lingue.

La mia mama bonanima, presempio, essa la saveva parlàr franco per todesco (austriaco), croato (dialeto de Fiume-Susak) e qualcossa de ungarese. E era, se volemo, una bela roba, che sta gente la parlava tute 'ste lingue. La mentalità la era più vasta e se se capiva con tuti: coi ciosoti che i vegniva coi bragozzi a vender angurie, coi gendarmi ungaresi, cole mlecarizze che ogni matìna le ne portava a casa late fresco, skorupich e puìna. I dotòri presempio - che molti de lori i gaveva studiado a Viena - in sala de operaziòn ( Ospedale Civile di SS. Spirito) tra de lori i se parlava spesso e volentieri per todesco. E era - ripeto - assai bèl che noi gavevimo sto caratere cosmopolita.

Mi, dopo el esodo, gò girado, un poco come tuti noi : prima campo profughi e dopo - per un pochi de ani - in giro per el mondo, per paesi e lingue diverse. E credo, sinceramente, che tuto sto ghèto tra i omini e i popoli, 'sti dispeti, guerigliamenti e mazamenti che i se fa, xe tuto colpa de la Tore de Babele. Mi me ricordo che, durante le "sanzioni", nei anni Trenta, noi muli erimo andadi in clapa, organizadi dal partito fascista, a far remitùr ("dimostraziòn" se diseva già quela volta) soto el consolato inglese a Fiume, in Riva, che el era nel palazzo indove che era el cinema "Sala Roma" (Palazzo Bacich)..

Erimo andadi a protestàr contro la "Home Fleet" (la flotta britannica) che la ne blocava i comestìbili e el carbòn. Per farghe smàco apunto a la "Home Fleet", gavevimo manighi de scòva con suso impicadi baràtoli del "Flit" cola pompèta col manigo de legno: tanto per capirse, quei de la "Guera ale Mosche" (dichiarata da Benito Mussolini) che, se ve ricordè, in ultimo la gaveva vinta le mosche.

Bon, quela volta mi ero fermamente convinto che tuti 'sti inglesi, come che i ne contava a scòla, i era tuti una maniga de manigoldi, ludri, zòbani e derelitti. Tanti anni dopo - tanti - mi go anche vissudo con una famiglia inglese patòca a Chipperfield, nel Hartfordshire, in campagna, vizìn de Londra. Parlando la lingua e capìndome ben con 'sta gente, go visto che anche 'sti britanici i era gente come noi, assai a la bona, un poco strazòni, sì, (cola giachèta de tweed coi tacamachi de coràme sui còmi - che adesso xe assai moderno e chic) - se capivimo, disevo, benissimo e mi me son trovado assai ben e gavemo fato quela volta in bètola (pub come ghe dixe lori) tante bele cantade e bevude insieme.

A tuti i omini ghe piasi ciacolàr. Che i parli per taliàn, inglese, croato, todesco, spagnòl o swahili. E davanti de un otavo de vin o una birrèta, mi go fato in tuto el mondo tantissime e simpatiche ciacolade per inglese, franzese o todesco. Credeme a mi, muli, xe tuto colpa de la Tore de Babele.
I nostri fioi e nipoti co' i va a scola coi muli australiani a Melbourne, coi canadesi a Toronto, coi pelirosse a Chicago o coi greghi, spagnoi e turchi a Francoforte, noi ga nissùn ,ma nissùn , problema. I se gioga in tìtilaga o in zop-zop, ogni tanto i se mola una papìna o i se dà, cole mulete, un baseto in scuro.

Domani, quando che noi sburteremo radìcio (de soto) lori i sarà citadini de 'sti paesi e i dirà sempre: la mia mama, el mia papà, la mia nona, i me contava che noi semo de una zità che xe ciamava Fiume, una zità che la era assai bela e elegante, con un grando Golfo de mar tuto blu, indove che era boschèti de làvrano e bone zarièse e àmoli. Mi credo che la Tore de Babele la xe una invenziòn de un qualche malignaso per seminàr zizzania e incompresiòn fra i omini.
Noi fiumani , noi non volemo far guèra a nissun.

In Italia, Australia, Canada, a Neviork a Zurigo noi rispetemo tuti, ciacolemo con tuti e volemo che tuti ne rispeti: non semo zìngani o gente senza una naziòn , ma semo fioj de una Tera de lingua e cultura italiana che la era el ultimo avanposto de la "Abendland" come che disi i todeschi, cioè de la cultura de el occidente, rispetto al "Morgenland" che xe el Est de la Europa e tuto el Oriente, Medio o Lontàn.

Scolteme a mi, muli, ciacolè e non steve far cativo sangue. 'Sti anni che ancora ne resta sul Pianeta Terra ciacolemò liberamente e serenamentee zerchèmo de contarghe tuto ai nostri fioj e nipoti perché i sàpi che la origine, la "matrice" de tuti noi la se ciama e la se ciamarà sempre Fiume.

Giulio Scala


522 – La Voce del Popolo 11/08/12 Speciale - Nona, la città di San Gregorio
SPECIALE

di Mario Schiavato
SITUATA SU UNO STRETTO ISOLOTTO NEI PRESSI DI ZARA, HA VISSUTO ALTI E BASSI NEL CORSO DELLA SUA LUNGA STORIA
Nona, la città di San Gregorio
Abbiamo scoperto Nona (Nin) quasi per caso, durante un breve soggiorno estivo nei pressi della città di Zara, dalla quale il paesetto dista qualcosa come 18 chilometri, e questo perché degli amici ci avevano qui indirizzato per farci una cura di fanghi contro i reumatismi. In effetti, non è che nella località ci siano delle terme vere e proprie, alberghi, né istituzione alcuna che si occupi di queste cure. Il terreno paludoso che si estende attorno alla cittadina murata è di un fango oleoso e nero il quale – dicono – abbia delle particolarità curative incredibili ed è per questo che sono molti coloro che arrivano sin qui per spalmarselo addosso e poi attendere pazientemente distesi che il sole lo asciughi ben bene, lo faccia diventare una crosta da levare con una nuotata. Pare che apporti davvero dei benefici. Comunque, si fa tutto sulla base del... se ci credi, fai pure! La faccenda è quasi una leggenda che si tramanda da moltissimo tempo, perché pare che i primi a venirsi a curare i loro malanni siano stati nientemeno che i soldati romani.
Origini antichissime
Nona ha origini molto antiche. Le più remote tracce di vita risalgono già al periodo neolitico. Situata su uno stretto isolotto lungo all’incirca 450 metri e con un’altezza del terreno sul livello del mare di appena due metri, è unito alla terraferma da due ponti. Per la sua posizione particolare e per la fertilità del terreno che la circonda, divenne già nel lontano passato un centro urbano, culturale e politico molto importante. Dai reperti ritrovati (soprattutto gioielli e terracotte), si può affermare con esattezza che Nona venne popolata fin dagli inizi dell’età del ferro.
Nell’ultimo millennio avanti Cristo, tutta la Dalmazia settentrionale venne occupata dalle tribù illiriche dei Liburni i quali nella maggioranza erano grandi navigatori e commerciavano soprattutto con l’Italia del tempo. È certo che sono state proprio queste popolazioni a fondare il primo abitato sull’isolotto. Non solo, ma furono ancora loro a fortificarlo e cingerlo di mura a secco. Infatti, i reperti liburnici ritrovati a Nona risalgono dal IX al I secolo avanti Cristo, cioè praticamente fino al tempo del primo dominio romano. Di quel periodo, molto interessanti e importanti sono anche i reperti provenienti, cioè importati, sia dalla Grecia che dall’Italia, in primo luogo il vasellame d’argilla con ornamenti geometrici policromaci, quindi fibbie ornamentali, collane, orecchini, pendagli, monete nonché cinture e spade...
La civitas romana
Nona preistorica, cioè la Aenona illirico-liburnica, continuò la propria vita anche dopo che i Liburni persero il predominio sull’Adriatico (V-I secolo a.C.). Con l’arrivo dei romani, infatti, in breve tempo divenne una vasta e importante comunità territoriale (un’autentica civitas) la quale, sotto i primi imperatori, acquistò una costituzione municipale, cosicché tra i suoi abitanti apparvero spesso cittadini della stirpe Giulia (come Caio Julio Curtico, costruttore di uno dei ponti che ancor oggi collega l’isolotto alla terraferma), ed ebbe inizio l’urbanizzazione dell’abitato secondo i principi classici romani, cioè con il cardo, con uno sfarzoso foro, con il decumano che correva in direzione dell’odierna via principale sboccando in linea retta sulla porta della città. Alla sua periferia occidentale, si ergeva un tempio monumentale che venne costruito al tempo dei Flavi, cioè attorno all’anno 70 dopo Cristo.
Questo tempio è quello dalle più vaste dimensione trovato sinora in Croazia. Aveva una facciata con ben sei colonne ed era praticamente un augusteo sacro agli imperatori defunti. Anche nei dintorni, sulla terraferma, sono stati ritrovati molti resti archeologici. Si tratta di monumenti pubblici, di are votive e soprattutto di diversi sepolcri, tra i quali non bisogna dimenticare più di qualche “cippo liburnico” che rivelano una spiccata nota provinciale indigena, soprattutto nell’elaborazione dei ritratti sulle stele. Notevoli anche i resti di un acquedotto che riforniva la località di acqua corrente. Moltissimi dei reperti dell’antica Nona, oggi costituiscono il fondo più prezioso del materiale esposto al Museo archeologico di Zara.
La calata dei Barbari
Con la fine dell’epoca classica, meglio con la calata dei Barbari, incominciò anche la decadenza di Nona. Poi, all’inizio del VII secolo, la città venne occupata dai Croati i quali, scesi dopo gli Ostrogoti sulla sponda orientale dell’Adriatico, distrussero numerosi abitati della Dalmazia ad eccezione di quelli che erano meglio fortificati. Da allora, queste popolazioni si stabilirono definitivamente su queste terre. Sottrattisi al dominio degli Avari, all’inizio del IX secolo caddero però sotto l’influenza dello stato franco, ma ben presto ne formarono uno proprio. In questo modo Nona divenne il primo centro politico, culturale e religioso dell’antico stato feudale croato. Fu, allo stesso tempo, la prima sede dei sovrani – qui vi si convocava la Dieta – nonché la sede del primo vescovado croato, la cui giurisdizione si estendeva sull’intero stato di allora. Questa istituzione fu di primaria importanza ai tempi dei cosiddetti “sovrani nazionali”. Alcuni vescovi come Teodosio, Adalberto e soprattutto il celebre Gregorio – la cui colossale statua in bronzo, copia del capolavoro del Meštrović (l’originale si trova a Spalato) troneggia nella piazza – furono personaggi eminenti della più antica storia croata.
Autonomia e privilegi
All’inizio del XII sec., allorché lo stato croato venne aggregato alla corona ungherese e perse quindi la sua indipendenza, Nona divenne una città autonoma con tutta una serie di privilegi. In seguito fu costretta a condividere le sorti delle altre città dalmate, rimanendo sotto il dominio di Venezia fino al crollo della Serenissima nel 1798. Comunque, nel periodo delle frequenti incursioni turche in Dalmazia, Nona venne presso a trovarsi al centro di quel terribile vortice, con conseguenze veramente tragiche, sia per l’abitato, che venne distrutto parecchie volte, che per i suoi abitanti, i quali dovettero emigrare. Anzi, nell’anno 1646 i Veneziani fecero evacuare tutta la popolazione, trasferendola in buona parte nella nostra Istria.
Tanti reperti preziosi
Nonostante tutto, numerosi monumenti di notevole importanza storico-culturale, sopravvissero a quei lunghi tempi turbolenti. Tra i più importanti va annoverata la chiesetta di Santa Croce del IX secolo. Si tratta di uno dei più begli esemplari dell’architettura ecclesiastica veterocroata conservato fino ai nostri giorni. Sul suo sovrapporta è incisa una scritta recante il nome dello zupano Godečaj, che la fece costruire. Un altro reperto molto importante è il battistero del principe croato Višeslav, risalente attorno all’anno 800, cioè al tempo della cristianizzazione dei croati.
Certo ci sarebbe ancora molto da ricordare sulla storia di questa particolare cittadina dalmata, dei suoi validi reperti, soprattutto delle bellissime statue ritrovate all’interno del tempio tra le quali bisogna senz’altro annoverare quella dell’imperatore romano Augusto (I secolo della nostra era) o quella celebre della cosiddetta Venere Anzotica con accanto Priapo, entrambe conservate nel già citato Museo archeologico di Zara.
Gli appunti di Giuseppe Host
Non possiamo tuttavia terminare questo articolo senza ricordare le note di un celebre viaggio fatto dal botanico fiumano Giuseppe Host compiuto lungo le coste adriatiche nell’anno 1801. Egli faceva parte di una “Commissione Aulica” che oltre a studiare e a scoprire nuove piante, doveva anche rendersi conto delle condizioni di vita delle popolazioni di questo territorio ai tempi dell’Impero asburgico. A proposito di Nona egli scrisse: “Arrivati, andammo alla possessione del signor Manfrin, ov’egli pocanzi seminava il Tabacco ed ora non trovandovi vantaggio abbandonò tale cultura, fabbricò case, ed istituì varie colonie, i quali lavoranti seminano il grano con ben maggior emolumento. Ma poiché l’aria a Nona è malsana e paludosa, così molti di questi coloni foresti muoiono di una brutta malattia, la malaria. Per altro la situazione è molto amena ed il terreno molto fertile se il vento boreale o la siccità non vi distruggesse più volte il tutto”.
Al proposito è interessante anche il seguito della descrizione del territorio da parte di Host: “Nel bosco del suddetto Cavaliere, ho osservato che la maggior parte degli alberi sono coperti da una crosta bianca, come se la notte antecedente vi avesse nevicato e la neve vi si fosse gelata, ma prendendone un poco e ponendolo sulla lingua osservai essere purissimo sale e ciò perché avanti due giorni una gagliardissima bora levava l’acqua marina dal canale della Morlaca ed aspergeva impetuosamente ciò che incontrava da due miglia circa in lontananza”. Fenomeno questo che, quando accadde, a tutt’oggi danneggia parecchio le colture, soprattutto i campi tenuti a verdure, coltivati per il crescente fabbisogno del turismo locale in continua crescita.
I nidi di rondine
Non potevano chiudere il nostro scritto senza ricordare una breve leggenda legata agli innumerevoli nidi di rondine incollati sulle pareti della chiesa parrocchiale. Raccontano i vecchi che quando Sant’Asello, il patrono di Nona, arrivò nella cittadina, fu impressionato e rattristato dal silenzio che vi regnava. Ci pensarono le rondini, con i loro canti e con i loro voli, a rallegrare le sue giornate. Per questo oggi la sua statua è murata sulla parete della chiesa accanto alla miriade di nidi.

 

523 - Il Piccolo 12/08/12 L'Intervento - Esodo e foibe, non è vero che fu tutta colpa del fascismo
L'INTERVENTO
Esodo e foibe, non è vero che fu tutta colpa del fascismo
Mi è stato segnalato per caso un libretto edito quest'anno a Torino «Senza più tornare» nel quale sono riportati gli interventi svolti in un seminario organizzato dal Comitato della Resistenza e Costituzione e dall'Istituto piemontese della Resistenza nel 2011 di cui nessuno aveva sentito parlare.
Mi sono poi allarmata quando ho letto sulla rivista «Fiume» (gennaio-giugno 2012) alcune affermazioni del direttore editoriale Giovanni Stelli.
In buona sostanza lo Stelli e altri personaggi che dovrebbero istruire i docenti italiani su Foibe, Esodo e cultura italiana nell'Adriatico negano che vi sia stata la pulizia etnica e riprendono le vecchie tesi che addossò al fascismo ogni responsabilità nelle lotte fratricide verificatesi nella penisola balcanica. Il tutto con l'acquiescenza della Federazione degli esuli che, dopo la svolta a sinistra del Presidente Codarin, lascia fare e anzi spinge in questa direzione.
La pulizia etnica non iniziò affatto con i partigiani di Tito ma fu attuata già ai tempi dell'Austria prima con la persecuzione della nobiltà veneta che rappresentava la classe dirigente del tempo (1815-1845), poi quella degli intellettuali (1848-1918) di cui ricordiamo l'esilio del sebenicense Niccolò Tommaseo, del raguseo Federico Seismit Doda diventato ministro del Regno d'Italia nei governi presieduti da Cairoli e Crispi, dello scrittore e giornalista Arturo Colautti fondatore di riviste e quotidiani italiani che tuttora pubblicano, e una gran schiera di altri intellettuali.
Gli esuli ben sanno che gli stermini effettuati in Jugoslavia dal 1941 al '45 sono dovuti essenzialmente al feroce scontro tra cetnici serbi, ustascia croati, domobrani sloveni e croati, SS bosniache e partigiani comunisti jugoslavi di Tito. Nel mattatoio balcanico l'esercito italiano ebbe un ruolo marginale anche perché la stragrande maggioranza della strage ebbe luogo dopo l'8 settembre 1943, quando il nostro esercito non operava più in quel territorio. Circa la metà degli uccisi risulta assassinata dopo la fine della guerra dai titini.
Ada Ceccoli Gabrielli presidente Dalmazia Club 1874 Trieste

 

524 - Il Piccolo 18/08/12 L'Islam balcanico si salva dal germe integralista
L’Islam balcanico si salva dal germe integralista
Studio dell’influente Pew Research Center sui fedeli di Allah nel mondo Musulmani bosgnacchi, kosovari e albanesi sono i meno interessati alla religione
di Stefano Giantin
BELGRADO Saranno forse gli effetti di lunga durata del comunismo – da quello “temperato” della Jugoslavia a quello “duro e puro” dell’Albania di Hoxha -, in parte ancora vivi e presenti. Comunque sia, l’Islam balcanico rimane secolare. E terreno assai poco fertile per gli integralismi. Lo conferma un approfondito studio del Pew Research Center, influente think-tank Usa che ha pubblicato “The World’s Muslims: Unity and Diversity”. Un comprensivo rapporto, quello del centro di ricerca d’oltreoceano, «che tenta di descrivere sia l’unità, sia la diversità dell’Islam nel mondo». L’ha fatto attraverso 38mila interviste faccia a faccia, «condotte in 80 lingue» e in
39 Paesi «patria dei due terzi» del miliardo e mezzo di fedeli in Allah. Fra questi, anche i sei milioni che vivono in Bosnia-Erzegovina (41% i musulmani sulla popolazione totale), in Kosovo (92%) e in Albania (82%). Sfogliando le pagine del rapporto, si può percorrere un viaggio assai istruttivo nel modo di vivere la religione dei musulmani della regione. Un viaggio nella “via balcanica all’Islam”, quella seguita tra Sarajevo e Pristina, “rilassata” e tra le più secolari al mondo, con i suoi fedeli che segnano un record: sono fra i meno interessati alla religione tra tutti quelli intervistati. I dati parlano chiaro. La religione è «importante nella vita», anzi, «centrale», solo per il 44% dei kosovari musulmani, per il 36% dei bosniaci di fede islamica e per una minoranza, il 15%, in Albania. Per avere un metro di paragone, le percentuali salgono al 59% in Libano e al 67% in Turchia, schizzano oltre il 90% nell’Africa subsahariana, al 92% in Afghanistan e 94% in Pakistan, 89% in Marocco, 82% in Iraq, 95% in Tailandia. Bassi nella regione anche «i livelli di pratica e impegno religioso». «Prega molte volte al giorno» il 43% in Kosovo, il 19% in Bosnia e solo il 7% in Albania. «Va in moschea una volta a settimana o più» il 22% dei kosovari di religione islamica, il 30% dei bosgnacchi e il 5%, sempre fanalino di coda, degli albanesi. Addirittura il 44% degli albanesi non ha mai messo piede in moschea, come il 39% dei kosovari e il 10% dei bosniaci. Solo l’8% a Sarajevo legge il Corano ogni giorno, il 7% a Pristina, il 3% a Tirana. I Balcani si attestano invece sui livelli più alti fra le nazioni inserite nel sondaggio per il parametro “zakat”, l’elemosina annuale ai poveri. Dona ben l’81% dei bosniaci, il 60% dei kosovari, il 43% degli albanesi. Un altro «pilastro della fede» rispettato nella regione è quello del digiuno durante il Ramadan, osservato dal 76% degli intervistati in Kosovo, dal 75% in Bosnia e dal 44% in Albania. Molto sotto la media, ma comunque elevate, le percentuali di chi crede alla vita dopo la morte, all’insegnamento del Corano che predica «Dio giudicherà ogni individuo per le azioni compiute e il paradiso attende chi ha vissuto onestamente», mentre l’inferno accoglierà chi si è macchiato di azioni scellerate: 83% in Bosnia, 72% in Kosovo, 53% in Albania. Modeste anche le stime di chi confida negli aspetti più superstiziosi della religione. Dalla stregoneria (43% in Albania, 33% in Kosovo, 21% in Bosnia) ai “jinn”, i geni a volte benigni a volte malefici:
36% tra i bosniaci, 24% in Kosovo, 23% in Albania. Non esiguo – ma di molto inferiore alla media dell’Africa subsahariana, del Maghreb, del Medio Oriente e dell’Asia –, il numero di chi ripone fiducia nei «curatori religiosi tradizionali»: 38% nella terra delle Aquile, 25% nell’ex provincia serba, 16% tra Sarajevo e Mostar. Quasi nessuno (2-5%) nei Balcani crede all’esorcismo e ai suoi ministri. Sono infine indifferenti, i musulmani balcanici, alle divisioni spesso sanguinose tra sunniti e sciiti, a riprova della moderazione dell’Islam balcanico. Il 54% in Bosnia, il 58% in Kosovo, il 65% in Albania afferma di essere «solo musulmano». Per un sondaggio sugli aspetti sociali e politici dell’essere musulmano nei Balcani (e nel mondo) bisognerà aspettare invece l’autunno, promette il Pew.

 

Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it
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