Rassegna Stampa Mailing List Histria
a cura di Maria Rita Cosliani, Eufemia Giuliana Budicin e Stefano Bombardieri
N. 858 – 04 Gennaio 2013
Sommario
01 - CDM Arcipelago Adriatico 23/12/2012 Censimento: Non contiamoci più. (Ezio Giuricin)
02 - Il Piccolo 22/12/12 Croazia : Gli italiani cattolici stravincono la "sfida" Ma l'ateismo avanza (di Andrea Marsanich)
03 - La Voce del Popolo 24/12/12 Speciale - Furio Radin: «Dobbiamo essere sempre più intelligenti, creativi e organizzati» (Dario Saftich)
04 - Difesa Adriatica - Gennaio 2013 Nel segno del ricordo le nuove sfide dei prossimi anni (p.c.h.)
05 - Il Piccolo 29/12/12 Il Municipio di Pola si rifà il look con i soldi del Veneto (p.r.)
06 – La Voce del Popolo 29/12/12 Venezia -Zara, fondi per l'asilo CNI (Christiana Babić)
07 - La Voce del Popolo 22/12/12 E & R - Muli del Tommaseo: è scomparso Renato Suttora (Rudi Decleva-Roberto Palisca)
08 – La Voce del Popolo 27/12/12 La prof.ssa Luisa Morettin: La nostra storia vista dal Regno Unito (Nicolò Giraldi)
09 - Il Giornale 31/12/12 Tratti italiani: Nino Benvenuti: Il campione per sempre che vive ancora per la sua boxe (Riccardo Signori)
10 - L'Arena di Pola 19/12/12 Dagli imperialismi contrapposti alla Grande guerra (Paolo Radivo)
11 – La Voce del Popolo 28/12/12 Cultura - Ricchezza di approcci per il polese Endrigo (Patrizia Venucci Merdžo)
12 - Il Piccolo 23/12/12 Trieste e il Friuli, splendido set per oltre 200 film e fiction (Paolo Lughi)
13 –L’Arena di Pola 19/12/12 Libro - La donna che uccise il generale (Silvio Mazzaroli)
14 - Il Gazzettino 06/12/12 La Ricerca - Il Leone, le 7000 facce di Venezia, presentata l'opera di Alberto Rizzi sull’emblema marciano e il suo ruolo nella storia della Serenissima (Sergio Frigo)
15 - il Piccolo 28/12/12 Lettere - Fino agli anni '70 sconsigliabile occuparsi dei nostri caduti A.U. (Enrico Mazzoli)
16 - L'Eco di Bergamo 04/02/1947 Benvenuti !
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01 - CDM Arcipelago Adriatico 23/12/2012 Censimento: Non contiamoci più.
CENSIMENTO: NON CONTIAMOCI PIU'
La scure della conta nazionale si è abbattuta nuovamente sulla nostra comunità. I dati del censimento relativi all'appartenenza nazionale e alla lingua materna resi noti dall'Istituto di statistica croato - con un inqualificabile ritardo di ben otto mesi - parlano chiaro: nell'ultimo decennio gli appartenenti al nostro gruppo nazionale in Croazia sono calati di oltre il 9 % (9,3). In poco più di un ventennio, dai confortanti dati del 1991 che avevano registrato una crescita quasi esponenziale, vicina all'80%, abbiamo "perso" - quanto a dichiarazioni di appartenenza nazionale - 3.946 connazionali, oltre il 16% del nostro corpo nazionale: un connazionale su sei.
Nell'ultimo decennio sono scomparsi nei meandri delle rilevazioni statistiche più di 1800 connazionali: l'equivalente - sempre riferendoci agli italiani dichiarati - di un sodalizio di grandi dimensioni (come Umago o Rovigno). Ci consola solo il fatto - di per sé poco confortante - che quasi tutte le altre minoranze in Croazia hanno subito dei decrementi ancora più consistenti (i serbi il 12%, gli ungheresi il 15%, gli sloveni il 20%, con l'eccezione dei rom e degli albanesi, che invece sono cresciuti significativamente). I dati relativi alla lingua materna si allineano, per quanto riguarda le percentuali di decrescita, a quelli sulla nazionalità, con un meno 9,49% rispetto al decennio precedente (nel 2001 avevamo invece rilevato un calo, rispetto al 1991, del 22 %).
Ma come sempre accade in campo statistico, il "diavolo" si annida nei dettagli; cioè nella lettura dei dati concernenti le singole località e nella complesssa composizione sociale e territoriale della nostra presenza. La regione con la maggiore flessione numerica e l'istriana: quella cioè che dovrebbe costituire lo "zoccolo duro" del nostro tessuto comunitario, con un calo del 12%. Il Buiese - da sempre vero e proprio "baluardo" della nostra presenza storica, e della nostra consistenza numerica, registra in talune località delle flessioni altissime (Buie il 20%, Umago il 17, Cittanova il 13 %). Il record del maggiore decremento di italiani spetta a Parenzo, con un triste 26%. Tiene sostanzialmente Rovigno. Le città come Fiume e Pola rilevano una flessione più contenuta, dal 10 all'11%. Tutto da studiare invece il calo molto più contenuto avvertito a livello di Regione Litoraneo-Montana, dove la "perdita" degli italiani dichiarati, è stata contenuta, nonostante la flessione di Fiume, a poco più del 3% (grazie, in parte, all'incremento di italiani fatto registrare a Lussino e Abbazia).
Ora ai vertici delle nostre strutture associative spetta un'attenta analisi delle cause e delle ragioni di questa flessione. Tra i meccansimi che possono giustificare in parte il decremento vi è il sostanziale mutamento dei criteri metodologici impiegati nel censimento del 2011 rispetto a quelli precedenti: per la prima volta è stato adottato (come in Slovenia nel 2002) il criterio della "residenza abituale" : ovvero non è stata rilevata la presenza dei tanti nostri connazionali non residenti di "fatto" per motivi di lavoro e di studio. Ma certamente si tratta ora di avviare un serio confronto e approfindimento sulle radici di questa deludente "evidenza statistica".
Con una fondamentale premessa. Ci dobbiamo liberare definitivamente dai ricatti delle periodiche "conte nazionali", anche in in considerazione della loro discutibile attendibilità scientifica e sociologica. In Slovenia l'anno scorso per fortuna è stato abbandonato il tradizionale censimento "nazionale", per adottare quello - meno costoso - a "registro", privo, per la prima volta, dei dati sensibili sulla nazionalità, la religione o la lingua. Ma ciò probabilmente non può bastare.
Dal rilevamento del numero dei connazionali, ovvero dell'aspetto meramente quantitativo della nostra comunità dobbiamo cercare di passare a indagini costanti e più approfondite sulla qualità, la struttura, la composizione sociale, le caratteristiche sociologiche, economiche e comportamentali degli appartenenti al gruppo nazionale; dobbiamo cercare di capire cioè i meccanismi che influiscono sull'affermazione dell'identità e della coscienza nazionale per poter delineare dei progetti e delle serie strategie di sviluppo della nostra dimensione minoritaria.
Le minoranze nazionali non debbano essere contate, ma bensi' studiate e analizzate, per conoscere le loro particolari problematiche ed esigenze, e definire di conseguenza gli strumenti atti a garantire il loro sviluppo. A nostro avviso tali studi debbono essere affidati innanzitutto alle minoranze, offrendo loro gli strumenti per capire e conoscere se stesse, attuando una costante operazione di autodiagnosi.
Al peso dei censimenti dovremo cercare di opporre la nostra capacità di capire chi siamo e di definire delle chiare prospettive di crescita. Per evitare che del nostro futuro continuino a decidere i numeri.
Ezio Giuricin
02 - Il Piccolo 22/12/12 Croazia : Gli italiani cattolici stravincono la "sfida" Ma l'ateismo avanza
Gli italiani cattolici stravincono la “sfida” Ma l’ateismo avanza
Lo rivelano i dati dell’ultimo censimento croato Solo tre connazionali sono di fede ebraica e sei musulmani
di Andrea Marsanich
FIUME. I 17 mila e 807 italiani che vivono in Istria, Quarnero, Dalmazia e Slavonia sono in gran parte di fede cattolica, ma si registrano anche piccoli drappelli di ortodossi, protestanti e di altre confessioni cristiane.
Ci sono anche connazionali che praticano l’ebraismo, c’è chi è di fede musulmana e si sente italiano e poi ci sono consistenti quote di ateisti, agnostici e di coloro che preferiscono non indicare quale fede abbracciano.
Il censimento dell’aprile 2011 in Croazia ha confermato che l’italiano è quasi compattamente cattolico, con le solite e interessanti diversità. I cattolici di nazionalità italiana sono 15 mila e 83 e dominano il variegato panorama delle confessioni assieme a croati, ungheresi, sloveni, slovacchi, cechi, ruteni e polacchi.
Al secondo posto tra i connazionali vi sono i praticanti di altre fedi cristiane, 57 per l’esattezza, che precedono gli ortodossi e i protestanti, con 26 credenti a testa. Ad essere attratti dalle religioni orientali sono 25 italiani, con 6 di fede musulmana e 3 di quella ebraica.
A dichiarare l’appartenenza ad altre fedi e movimenti sono stati 17 connazionali. Gli agnostici e gli scettici sono invece 233, gli ateisti 1579, le persone che hanno preferito non rispondere alla domanda sulla fede religiosa risultano essere 682, mentre 70 connazionali sono stati inseriti nella tabella indicante il nome “sconosciuto”.
Se ci soffermiamo sui regionalisti, che al censimento hanno registrato un grande aumento nei confronti del censimento 2001, vediamo che delle 27 mila e 225 unità i cattolici toccano quota 22.331. All’interno di questo “schieramento” si presentano 124 ortodossi, 35 protestanti, 72 “altri cristiani”, 60 musulmani, 3 israeliti, 30 di religione orientale, 60 delle restanti religioni e movimenti, con 486 agnostici, 2836 ateisti, 1110 coloro che preferiscono non esprimersi e 76 gli “sconosciuti”.
Tra le persone che si identificano in una regione, come da noi già scritto, ben 25 mila hanno dichiarato di essere istriani e 705 dalmati.
In Croazia sta salendo, e non di poco, il numero degli ateisti. All’inizio dello scorso decennio erano 98 mila, ora il loro numero è salito a quota 163 mila. La Chiesa cattolica croata ha già reagito a questo trend, affermando che non si tratta di un grosso danno in quanto le persone che «hanno abbandonato il gregge non erano dei veri cattolici». Insomma, l’episcopato croato non ritiene preoccupante il fenomeno.
Ci sono infine altri dati su cui è opportuno soffermarsi: tra i 17.513 albanesi, i cattolici sono 7109 e la percentuale cresce in riferimento ai 16.975 rom. Questa etnia ha 8200 cattolici, come pure 5039 musulmani e 2381 ortodossi.
03 - La Voce del Popolo 24/12/12 Speciale - Furio Radin: «Dobbiamo essere sempre più intelligenti, creativi e organizzati»
A Colloquio con il presidente dell'Unione Italiana e deputato della Comunità nazionale italiana al Sabor, Furio Radin, sulle prospettive e le sfide che attendono l'etnia
«Dobbiamo essere sempre più intelligenti, creativi e organizzati»
All'Italia bisogna rendere merito anche per non avercelo fatto pesare politicamente, il proprio sostegno: è setato un aiuto umano e disinteressato, molto più di amore che di reciprocità
Abbiamo superato la metà dell’attuale legislatura dell’Unione Italiana, caratterizzata dall’elezione diretta dei vertici, ovvero del presidente dell’UI e del presidente della Giunta esecutiva. Stiamo vivendo pure in un periodo caratterizzato da una profonda crisi economica, non soltanto nei Paesi di residenza, Croazia e Slovenia, ma anche nella Nazione madre, l’Italia. Pertanto questo è il momento giusto per fare il punto della situazione con il presidente dell’Unione Italiana e deputato della Comunità nazionale italiana al Parlamento di Zagabria, Furio Radin. La CNI e l’UI sono reduci da un successo di non poco conto: il rifinanziamento dei fondi dell’Italia a favore dell’etnia. Fondi senza i quali la massima organizzazione rappresentativa della minoranza perderebbe chiaramente non soltanto la possibilità di sostenere tutta una serie di attività culturali, scolastiche e di altro genere indispensabili per mantenere la presenza fattiva degli italiani sul territorio, ma anche una parte del suo peso politico nei rapporti con le autorità sia statali, che locali e regionali.
Mentre l’UI ha superato la metà del suo mandato, nel contempo a Zagabria la coalizione di governo di centrosinistra ha appena concluso il primo anno della legislatura. Rileviamo quest’ultimo fatto perché il deputato della CNI al Sabor assieme agli altri parlamentari delle minoranze dà il suo sostegno esterno alla maggioranza di centrosinistra, senza che sia stato firmato alcun accordo di programma con il premier. In precedenza, lo ricordiamo, per otto anni Radin e gli altri deputati minoritari erano stati parte integrante della maggioranza di centrodestra. Fatto questo che aveva permesso di ottenere notevoli risultati sia sul piano dell’aumento dei finanziamenti per le attività culturali delle etnie, sia sul piano dello sviluppo dei diritti minoritari. Come non ricordare nel caso dell’Istria l’introduzione del bilinguismo sul segmento occidentale dell’autostrada, oppure le modifiche di legge che hanno permesso l’avvento della denominazione bilingue in tutta una serie di città e comuni, fra i più importanti e popolati della penisola. Qualcosa di quegli otto anni è rimasto: se non altro l’attuale coalizione di governo non ha ritenuto opportuno ritoccare al ribasso in maniera marcata il sostegno finanziario alle comunità nazionali, nonostante il periodo di grave crisi e di austerità che il Paese sta attraversando. Ma per il resto la situazione non appare troppo rosea: paradossalmente, a prescindere dalla necessità di fare passi avanti nel campo dei diritti delle minoranze quale condizione essenziale per l’ingresso del Paese nell’Unione europea, si ritorna a parlare di un possibile ridimensionamento delle prerogative dei deputati delle comunità nazionali. Buona parte della scorsa estate è stata caratterizzata da una telenovela di tal fatta. Il Capo dello Stato si è distanziato da iniziative simili, però lo spettro di interpretazioni al ribasso dei diritti minoritari rimane. Rimane qui la constatazione di fondo che togliendo ai parlamentari minoritari il diritto di votare il bilancio e la fiducia al governo equivarrebbe a renderli alla stregua del “ficus” ormai famoso nella politica croata, ovvero una pianta da ornamento al Parlamento senza effettive capacità di incidere politicamente nelle cose che contano. Che in Croazia non siano ancora maturate le condizioni per poter dire che la “questione nazionale” sia stata risolta lo dimostrano anche i dati dell’ultimo censimento della popolazione, che danno in calo tutte le comunità etniche storiche, quelle ufficialmente presenti, organizzate e attive prima dello sfaldamento dell’ex Jugoslavia. Certo, l’Istituto di statistica ha buon gioco nell’affermare che i criteri con i quali è stato organizzato questo rilevamento sono diversi rispetto agli “appuntamenti” decennali precedenti e pertanto i risultati non sono raffrontabili con quelli dei censimenti precedenti. Resta però il fatto che una parte dei diritti minoritari sul territorio, legge costituzionale alla mano, dipende proprio dalla consistenza numerica delle etnie, per cui un calo di quest’ultima può comportare un’erosione del livello di prerogative istituzionali. Nel caso della CNI il pericolo è minore, perché buona parte della tutela sul territorio d’insediamento storico è regolamentata dagli statuti delle autonomie locali e regionali. Ma comunque, la spada di Damocle dei numeri resta e per giunta dipende da criteri non univoci nel tempo. Un motivo in più, anche per le autorità. per ripensare l’opportunità di una conta, i cui risultati sono o dovrebbero essere imbarazzanti pure per il Paese.
Quanto rilevato conferma, nel caso della Comunità nazionale italiana, l’importanza del ruolo politico sia dell’Unione Italiana che del deputato della CNI al Sabor. Ma sentiamo l’opinione di Furio Radin:
Ormai è trascorsa oltre la metà dell’attuale mandato. Manca un anno e mezzo alle elezioni in seno all’Unione Italiana. Può tracciare un bilancio di questo periodo, anche alla luce del nuovo assetto istituzionale che si è data l’Unione Italiana…
La Comunità nazionale italiana funziona in un modo molto specifico ed ha un’assetto diverso da tutte le altre comunità nazionali minoritarie. La democrazia instaurata più di due decenni addietro con elezioni dirette a suffragio universale, e l’elezione diretta per i presidenti, ci rende particolari, senza paragoni nel mondo delle associazioni, dove si vota ancora per alzata di mano. Inoltre, ci riuniamo in assemblea ogni trimestre e non, come gli altri, ogni anno, per non parlare della Giunta esecutiva che è in seduta permanente. È per questo che, per statuto, ci definiamo organizzazione, in virtù della nostra complessità. In quest’ultimo mandato ci siamo occupati di semplificazione: abbiamo optato per cinque membri di giunta, di fronte agli undici di un tempo, e un vicepresidente dell’Assemblea, invece di tre, e questo è un bene, dato che il nostro funzionamento è migliorato ulteriormente. È un processo che va portato avanti, dato che in tempo di crisi bisogna risparmiare, e la semplificazione è un modo per essere funzionali con meno risorse, o fare più cose con le stesse.
Soppesare ogni kuna
All’Assemblea svoltasi a Pola lei ha sottolineato l’esigenza di essere sobri, di perseguire una politica dell’austerità in linea con il difficile momento economico che stanno vivendo i nostri Paesi di riferimento. Resta sempre di questa opinione…
Non ci vuole molta intelligenza per vedere come va il mondo, e quelli che ci sono pervenuti sinora sono soltanto segnali di tempi indubbiamente difficili. Il modo migliore per imparare a fare bene con meno risorse è indubbiamente quando hai la fortuna di averne ancora, di soldi. Le riforme vanno fatte adesso, è ora che bisogna pesare ogni euro, ogni kuna, per farli valere di più.
Fare cose utili e durature
Un anno fa lei aveva proposto che una quota dei fondi perenti fosse assegnata alle Comunità degli Italiani, affinché li potessero spendere nel modo che ritenevano più opportuno. Questo è avvenuto. La prima tranche dei finanziamenti è già arrivata. Soddisfatto di aver aiutato le Comunità a crescere? Cosa si può fare ancora per venire incontro alle loro esigenze?
Per venire incontro alle loro esigenze è necessario dare loro la seconda e la terza tranche. Molte Comunità hanno impiegato queste risorse con grande lungimiranza, alcune con meno. Il mio consiglio rimane uguale: usare questi soldi per creare basi più solide per quando ce ne potrebbero essere di meno, di fondi. Questo momento critico potrebbe non arrivare mai o già il prossimo anno. Il consiglio che ci è stato dato, e che io semplicemente giro alla nostra Giunta e alle nostre Comunità, è quello di fare più cose utili e durature con i soldi che la Madrepatria è stata tanto lungimirante di concederci anche in questi tempi economicamente precari.
Intensificare gli sforzi creativi
È ipotizzabile una spinta innovativa per quanto concerne i contenuti delle iniziative avviate dall’Unione Italiana?
Abbiamo una Giunta esecutiva molto valida e intelligente, formata da persone competenti, e l’innovazione, per loro, è una costante, più che un progetto per il futuro. In questi giorni abbiamo parlato con loro di innovazione in sede di Comitato di coordinamento, e dunque anche con gli ambasciatori italiani a Zagabria e Lubiana, i consoli generali a Fiume, Capodistria e Spalato, e i rappresentanti dell’Università Popolare di Trieste, e si è deciso di intensificare i nostri sforzi creativi. Dunque, ci attendono delle novità positive, che naturalmente verranno discusse e, spero, approvate dalla nostra Assemblea quando si approverà il programma per il 2013.
Grazie Italia
I fondi della Nazione madre sono stati rifinanziati per un altro triennio. Quale iniziative politiche è possibile avviare per giungere a un finanziamento stabile, per arrivare finalmente alla legge d’interesse permanente dell’Italia nei confronti della Comunità nazionale italiana?
È chiaro che noi continueremo a chiedere all’Italia una legge quadro, che noi chiamiamo permanente, per avere la sicurezza di continuare a funzionare, e dunque ad esistere come entità collettiva. Allo stato attuale delle cose, però è dovere ringraziare l’Italia e il ministero degli Affari Esteri in particolare, per avere deciso di continuare a sostenerci, o se vogliamo, per avere riconosciuto i resti di una popolazione stravolta dalla tragedia della Seconda guerra mondiale.
Il sostegno finanziario della Nazione Madre può essere interpretato anche come un sostegno politico alla Comunità nazionale italiana. Ritiene che questo segno tangibile di appoggio da parte della Nazione madre abbia un impatto forte pure nei rapporti della Comunità nazionale italiana con i Paesi di residenza?
Il sostegno finanziario dell’Italia nei nostri confronti è interpretato indubbiamente dai Paesi di residenza come un sostegno politico. A differenza delle altre minoranze nazionali in Croazia e Slovenia, noi abbiamo più spazio di manovra anche in virtù del fatto che siamo relativamente indipendenti dal punto di vista economico. Se venisse a mancare l’aiuto finanziario italiano sarebbe molto più difficile mantenere il nostro alto livello di emancipazione. All’Italia bisogna rendere merito anche per non avercelo fatto pesare politicamente, il proprio sostegno: è stato un aiuto umano e disinteressato, molto più di amore che di reciprocità. Grazie Italia.
Regna il nulla
I deputati delle minoranze stanno offrendo un sostegno esterno al governo di centrosinistra di Zoran Milanović. I dissapori, ad esempio sull’imposta sugli immobili tra i partner della coalizione possono minare, secondo lei, la stabilità della maggioranza? Se qualche partito della coalizione si defilasse vi sarebbero più spazi di manovra per i parlamentari delle etnie?
È chiaro che, chi è in politica da tanti anni come me, lo è anche perchè ha voglia di farla, la politica. In questi due decenni ne ho passate e viste di tutte, sono stato all’opposizione per otto anni di un governo di destra, per altri otto ho fatto parte di una coalizione, e infine ho appoggiato dall’esterno due governi che non hanno voluto firmare con noi un accordo di programma. È chiaro che, nel momento in cui si aprissero nuove prospettive chiederei consiglio all’Unione Italiana e agirei di conseguenza. Far parte di coalizioni è un modo attivo di fare politica, a me più congeniale.
Soddisfatto dell’approccio avuto finora dal governo croato nei confronti delle esigenze delle comunità nazionali?
Mi piacerebbe rispondere di sì e non avrei niente in contrario a dire di no. In realtà mancano gli elementi per qualsiasi tipo di risposta, dato che i nostri contatti con il governo sono più che sporadici. Dal canto loro sono stati fatti pochi passi nei nostri confronti per poterli giudicare. In realtà, più che qualcosa di positivo o negativa regna il nulla.
Le etnie abbiano voce politica
Quest’estate per l’ennesima volta sono rimbalzate sulla stampa le ben note posizioni del consigliere presidenziale, Siniša Tatalović, relative a un possibile ridimensionamento del ruolo dei deputati delle etnie, ovvero a un cambiamento delle modalità della loro elezione. Il presidente della Repubblica, Ivo Josipović, si è distanziato dal suo consigliere. Basta questo per gridare allo scampato pericolo?
No ! I consiglieri dei presidenti della Repubblica, in linea di massima non agiscono da soli, o almeno in contrasto con il loro superiore, anche se forse la Croazia è un’eccezione. Credo ci sia, in alcuni ambienti in Croazia, una mentalità per la quale starebbero per scadere i termini della rappresentatività diretta delle minoranze in Parlamento, dato che la Croazia, a detta di questi “esperti” o politici che siano, alle minoranze nazionali sta dando tutto e di più. In realtà, senza le proprie voci in parlamento, nella società le minoranze non avrebbero voce politica, e che ne abbiano bisogno lo dimostrano molti fatti di intolleranza, come ad esempio a Vukovar dove non si vogliono dare i legittimi diritti linguistici ai serbi, o i risultati del censimento che dimostrano una flessione significativa del numero delle etnie minoritarie, compresa la nostra. Quando il numero delle minoranze cala, è chiaro che molto ancora non funziona.
Un modello elettorale che ci offre opportunità
La nuova legge elettorale per le autonomie locali, che prevede l’elezione diretta dei vicepresidenti di Regione e dei vicesindaci minoritari, fa discutere parecchio. Va cambiato qualcosa, secondo lei, nella proposta governativa? Si tratta di un passo avanti comunque? Quali le prospettive o magari i potenziali rischi?
I rischi sono quelli di avere dei vicesindaci con competenze ridotte. Nella realtà questo nuovo modello elettorale ci dà delle opportunità, dato che in alcune autonomie locali importanti, oltre al vicesindaco italiano votato da noi, ne avremo un altro della Dieta democratica istriana. Questo, naturalmente non succederà laddove ad essere italiano sarà lo stesso sindaco, dove comunque manterremo il vicesindaco italiano eletto da noi.
È fondamentale la coesione interna
Quali le sfide del 2013? Dovremo essere sempre più intelligenti, creativi e organizzati. I piccoli gruppi che non hanno una coesione interna al passo con i tempi soccombono.
Cosa augura alla Comunità nazionale italiana?
Di continuare ad essere molto più grandi delle proprie dimensioni numeriche. Ringrazio Maurizio Tremul e la sua Giunta, Floriana Bassanese Radin e tutta l’Assemblea, e i gruppi di pensiero all’interno di essa, per il lavoro che hanno fatto, e naturalmente le nostre Comunità degli Italiani e le nostre Istituzioni. Buon Natale e Buon Anno a tutti i connazionali.. E sempre Viva Noi.
Dario Saftich
04 - Difesa Adriatica - Gennaio 2013 Nel segno del ricordo le nuove sfide dei prossimi anni
Nel segno del ricordo le nuove sfide dei prossimi anni
L’approssimarsi del Giorno del Ricordo ci permette di tornare su argomenti che I’Anvgd - dalla Sede nazionale ai suoi Comitati e alle sue Delegazioni
affronta e rilancia ogni giorno e dalla sua lontana costituzione, a partire dalla conservazione e dalla divulgazione della memoria storica dell’italianità adriatica sino alla difesa e alla promozione dei diritti degli Esuli, pur in contesti frequentemente viziati da ignoranza, indifferenza, pregiudiziali arcaiche, residue ostilità vetero-ideologiche, ottusità tecnocratiche. Una cornice nella quale le associazioni dell’esodo sono abituate ad operare da sempre, avendo proceduto lungo decenni difficili e ingenerosi, resistendo al silenzio che si sarebbe voluto imporre con il coraggio della testimonianza e della memoria e sapendo con ciò non perdere la speranza e la fiducia nel futuro: un futuro allora non immaginabile, tanto granitico pareva l’assetto internazionale seguito alla Seconda guerra mondiale e così oscura l’eclisse di un’intera storia alla quale si è tentato di condannarla.
Ma il nuovo decennio di questo nuovo secolo ha aperto passaggi inattesi e altrettanto inimmaginabili, come ha opportunamente sottolineato nel suo intervento sul numero di dicembre il presidente Toth. Perché la storia, inevitabilmente e per grazia, non è un’entità immobile e cristallizzata una volta per sempre, è plasmata dalle generazioni che vi operano nel tempo loro concesso: e la risultante più alta è data quando e laddove le precedenti si congiungono con le nuove, consegnando a queste ultime le esperienze e le memorie non deperite nell'acredine e nella disillusione, ma indicandole come patrimonio umano da custodire, come chiavi di accesso ad un passato che - lungi dall'essere un paese sconosciuto - può ben illuminare il presente e darvi un senso ragionato.
È quanto accade evidentemente oggi, che si aprono varchi che vanno attraversati con consapevolezza e strumenti adeguati. Accade sulla scena internazionale, come a Trieste nel 2010 e a Pola nel 2011, accade sul fronte interno, come dimostra il lavoro congiunto delle associazioni con il Ministero della Pubblica Istruzione, un fortilizio che si poteva pensare inespugnabile soltanto pochissimi anni addietro, nonostante il lavoro
tenace condotto qua e là per l’Italia nei singoli istituti, quando non osteggiato da dirigenti scolastici e docenti ignari o ideologicamente e immutabilmente orientati. Ed è quanto accade con la collaborazione avviata, sempre nell’ambito del Gruppo di lavoro insediato presso il Miur, con il Touring Club Italiano, tante volte oggetto di critiche per le sue pubblicazioni ritenute non rispettose della toponomastica storica dei territori giuliani e dalmati. E nel 2012, come riportiamo in altra parte di questo numero, il primo concorso ed il primo viaggio di istruzione targato Tci- associazioni degli esuli. È quanto avviene con la terza edizione del Premio Giorno del Ricordo, previsto il prossimo 9 febbraio a Roma, attorno al quale I’Anvgd è riuscita a convogliare la ritrosa attenzione dei media e le più diverse personalità della cultura, del giornalismo, dello sport, dello spettacolo. Non ci sembra poco, per le limitate (numericamente) risorse umane ed economiche.
Nuove aperture, queste, nuove e inedite possibilità da cogliere e sfidare, perché di sfida anche si tratta, per sostenere la quale occorrono strumenti adeguati, disponibilità e capacità di interazione con una pluralità inedita di soggetti e di contesti, e questo ad oltre 60 dall’esodo. Due, ci sembra, i piani sui quali è chiaro si dovrà operare: delle istituzioni nazionali, come sempre e da tempo; della formazione dei docenti e dei giovani, come si è iniziato con rigore a provvedere con i primi due Seminari nazionali sul confine orientale del 2010 e 2011 e si proseguirà con il terzo nel febbraio prossimo; delle relazioni internazionali, il più complesso ma anche fortemente essenziale perché investe i territori di origine, gli Stati sotto la cui sovranità oggi ricadono, la loro disponibilità a riconoscere e rispettare l’autoctonia della memoria italiana. Quanti avrebbe immaginato, e sperato negli anni trascorsi, che ci si sarebbe trovati davanti ad un simile ventaglio di prove?
p. c. h.
05 - Il Piccolo 29/12/12 Il Municipio di Pola si rifà il look con i soldi del Veneto
Il Municipio di Pola si rifà il look con i soldi del Veneto
La Regione finanzierà il restauro degli stemmi della facciata Il progetto comunale costa complessivamente 120mila euro
POLA. La Regione Veneto ha dato disco verde al finanziamento destinato al restauro dei rilievi e degli stemmi in pietra collocati sulla facciata della Palazzina municipale in Piazza Foro, sede dell'amministrazione cittadina.
L'importo approvato è di 23.700 euro attinti annualmente dai fondi destinati al recupero e salvaguardia del patrimonio artistico, culturale e architettonico lasciato dalla Serenissima sul territorio istriano. Ci riferiamo alla nota legge Beggiato varata nel 1994 che finora convogliato a tale scopo milioni e milioni di euro.
Come spiega Kristina Fedel Timovski, assessore all'Informazione, la collaborazione internazionale e le politiche europee, i lavori riguarderanno la pulitura, in particolare la rimozione della patina oscura che ricopre i rilievi e gli stemmi, in seguito all'azione degli agenti atmosferici. Molte iscrizioni risultano illeggibili aggiunge per cui si rende necessario riportarle allo stato quanto più vicino all'originale. Ma non solo cosi ancora l'assessore, bisognerà procedere alla verifica del loro fissaggio sulla facciata e in caso di necessità intervenire in maniera adeguata.
La Palazzina municipale è stata costruita nel 1296 sui resti di un tempo romano. Nel 1331 è diventata sede del rettorato, del podestà e di altri funzionari cittadini. In tutti questi secoli ha subito numerosi restauri e sulla facciata troviamo rilievi decorativi e stemmi di varie epoche, gotico, rinascimento, barocco. Non poteva mancare il Leone di San Marco. Va detto che Pola ha inoltre avanzato quest'anno la candidatura per la seconda fase del restauro.
In questo caso i partner del progetto sono la Scuola media superiore di design e arti applicate e la Comunità degli italiani. Il valore del progetto è di 120.000 euro, di cui l'85 % viene richiesto al Veneto. Si attende ora il responso dell'apposita commissione.
Ricordiamo infine alcuni interventi eseguiti con i mezzi della Legge Beggiato: il recupero di Palazzo Bettica a Dignano, del Castello Morosini-Grimani a Sanvincenti, della casa del compositore Antonio Smareglia a Pola, delle cinta murarie di Cittanova e di alcuni organi Callidi.
(p.r.)
06 – La Voce del Popolo 29/12/12 Venezia -Zara, fondi per l'asilo CNI
IL CONSIGLIO REGIONALE DEL VENETO HA APPROVATO IL PROGRAMMA 2012 DI FINANZIAMENTO PER IL RECUPERO E LA VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE IN ISTRIA, NEL QUARNERO E NELLA DALMAZIA. SONO PREVISTI STANZIAMENTI PURE PER LE INIZIATIVE DELLE COMUNITÀ DEGLI TALIANI
Zara, fondi per l'asilo CNI
VENEZIA | Il Consiglio regionale del Veneto ha approvato, all’unanimità, il programma 2012 dei finanziamenti previsti dalla legge 15 del 1994 “Interventi per il recupero, la conservazione, la valorizzazione del patrimonio culturale di origine veneta nell’Istria e nella Dalmazia”. “La somma complessiva messa a disposizione quest’anno – ha detto il relatore Vittorino Cenci presidente della commissione Cultura – è di 450 mila euro. Lo scorso anno erano 520mila”.
Restauri di opere ed edifici
Duecentocinquantamila euro servono per finanziare interventi diretti della Regione Veneto destinati al restauro di edifici e opere d’arte legate alla presenza della Repubblica Veneta sul territorio: 24mila euro per il restauro di cinque leoni di San Marco conservati al museo di Zara; 18mila euro per il restauro degli affreschi nella casa Tartini di Pirano d’Istria; 60mila euro per il restauro di palazzo Portarol (Il castelletto) di Dignano; 48mila euro per il restauro della casa Maraston del XVI secolo nella piazza di Visinada; 23.750 euro sono destinati al restauro dei dettagli scultorei e degli stemmi del palazzo comunale di Pola; 30mila euro servono per il recupero della torre di San Martino di Buie; 20mila euro sono per la ristrutturazione della casa degli affreschi istriani di Cerreto; infine 26.250 euro sono destinati al restauro del crocifisso ligneo della parrocchiale di Santa Eufemia a Gallignana.
Iniziative culturali
La seconda tranche di 200mila euro è destinata a contribuire alle realizzazione di iniziative culturali, prevalentemente editoriali, che riguardano la storia dell’Istria e della Dalmazia. Stando a quanto riportato in una nota diffusa dal Consiglio regionale del Veneto, dodicimila e 500 euro servono per la pubblicazione “Il golfo adriatico. Storia, diritto, economia e arte nella dominazione veneziana” a cura de Limes Club di Verona; 2.000 euro per il volume “Le confraternite istriane” curato dalla società di studi storici di Pirano d’Istria; 15mila euro sono destinati all’Università Ca’ Foscari di Venezia per la pubblicazione dei risultati delle ricerche archeologiche sottomarine relative al relitto di nave veneziana di Melena; 16mila euro vanno alla Società Dalmata di Storia patria per la pubblicazione delle relazioni dei “Rettori dello Stato da mar”; 19mila euro sono per l’Istituto Veneto di Scienze, lettere e arti per pubblicare lo studio “Tra Venezia e Zara fonti per un complesso rapporto decisivo per gli equilibri adriatici”.
Asili di Zara e Cittanova
Undicimila euro per lo svolgimento di corsi di lingua italiana e di cultura storico-letteraria veneta da tenersi a Veglia, Zara, Spalato, Lesina, Ragusa e Cattaro a cura della Fondazione Maria e Eugenio Dario Rustia Traine di Trieste; 7.500 euro per corsi di lingua italiana Cattaro (Montenegro); 6.000 euro per la pubblicazione “Cultura e storia delle perle veneziane” a cura dell’associazione “Veneziani nel mondo”; 32mila euro servono come contributo all’asilo infantile italiano “Pinocchio” di Zara; 3.000 euro per la Società Dante Alighieri di Zara; 16mila euro sono destinati alla scuola materna italiana di Cittanova; 4.000 euro alla Comunità degli Italiani di Momiano per una monografia sulla storia del paese; 3.000 euro per il festival organizzato a Buie per valorizzare il dialetto istroveneto e le sue varianti parlate; 11mila euro alla Fondazione Dario Rustia Traine di Trieste per la pubblicazione di una guida della presenza veneziana nella Dalmazia montenegrina (Bocche di Cattaro); 10mila euro per la confezione di un DVD sul patrimonio culturale di origine veneta in Istria e Dalmazia curato dall’associazione “Cielo, Terra, Mare” di Pordenone; 4.500 euro vanno all’Università Ca’ Foscari di Venezia per il volume sugli scavi archeologici presso il palazzo dei Dogi di Antivari (Montenegro); 21.500 euro sono destinati alla Regione Istriana per una monografia sul patrimonio artistico delle chiese istriane; 6.000 euro al Comune di Tezze sul Brenta (VI) per il gemellaggio con un Comune dell’Istria croata.
Christiana Babić
07 - La Voce del Popolo 22/12/12 E & R - Muli del Tommaseo: è scomparso Renato Suttora (Rudi Decleva-Roberto Palisca)
a cura di Roberto Palisca
Muli del Tommaseo: è scomparso Renato Suttora
Renato Suttora, uno dei fondatori della “Libera Unione Muli del Tommaseo”, associazione apolitica costituita dagli ex allievi del Collegio brindisino “Niccolò Tommaseo” il 17 ottobre del 1987, per conservare e divulgare il patrimonio culturale e morale delle terre d’origine degli associati, è mancato ieri a Milano, dopo lunga malattia.
Aveva 84 anni. Era nato a Lussinpiccolo e aveva frequentato a Fiume l’Istituto Tecnico “L. da Vinci” e poi il Liceo Scientifico “A. Grossich”, concludendo l’ultimo anno a Brindisi.
Nell’ambiente del “Tommaseo” era stato consigliere, ma fu nell’incarico di responsabile della rivista semestrale “Zanzara” che mise in mostra le sue grandi qualità di “public relations man”.
Storico il suo lancio editoriale per il primo Raduno dei Muli:
“Muli de Fiume, de Zara, de Pola, de Lussin, de Pisin, e tutti i altri, Muli del Tommaseo, eccone qua’ fegatosi, ingropai, senza cavei, ma liberi e bei. Professori, dotori, piloti, colonei, generai, coghi, marineri, comandanti, ingegneri, bancari, industriali, cantautori, i xè rimasti a casa, neri, rossi, rosati che sia: qua semo noi del Tommaseo, guardemose ben nei oci, ciolemose per culo, femo due ridade, contemose i ani pasadi, mi qua ti là, ciò mi ciò ti, senza butarla tropo in nostalgia; lasemoghela ai veci...”
Di lui molti ricorderanno la grande passione per la vela, quando arrivava da Milano col suo “Snipe” alla Regata internazionale per la disputa della Coppa “Alberti”, a Santa Margherita Ligure, e soprattutto quando nel 1939 fabbricò, copiandola dai giapponesi, una maschera subacquea di assoluta novità.
Era successo che allo Scientifico di Fiume avevamo un valente insegnante di Scienze Naturali, il prof. Belario de Lengyel, il quale aveva pubblicizzato su riviste scientifiche l’eccezionale habitat del Quarnero per gli scampi nordici. In conseguenza di questa notizia giunsero a Cherso e Lussino due ricercatori giapponesi per studiare le tane dei nostri crostacei.
A quei tempi, per osservare il fondale si usava una specie di imbuto, con sul fondo un vetro a specchio che riusciva a ingrandire l’immagine. Questi giapponesi invece usavano una maschera primordiale che consentiva loro di tuffarsi e vedere da vicino il fondale. Renato, con il suo amico Sergio Costiera, pure lui lussignano e affermato velista, riuscì a riprodurre quell’innovazione che anticipava di ben dieci anni il successo dello sport subacqueo.
Suttora fece il redattore della “Zanzara” per molti anni, elargendo buon senso e schietto umorismo lussignano. Per spronare i Muli alla collaborazione e alla partecipazione, aveva scritto: “Date multa e recepite pauca”, aggiungendo che “I mejo amici i dà molto e i richiedi poco”.
Purtroppo un’altra foja del bel albero del “Tommaseo” che ne lassà.
Rudi Decleva
08 – La Voce del Popolo 27/12/12 La prof.ssa Luisa Morettin: La nostra storia vista dal Regno Unito
DA LONDRA, LA PROF.SSA LUISA MORETTIN STA PORTANDO AVANTI UNO STUDIO CHE INTENDE RESTITUIRE DIGNITÀ E RICONOSCIMENTO STORICO ALLE VITTIME DEI MASSACRI
La nostra storia vista dal Regno Unito
TRIESTE-LONDRA - La nostra storia, dal FVG sbarca nel Regno Unito. La professoressa Luisa Morettin del prestigioso King’s College di Londra sta compiendo una ricerca sulle testimonianze dell’Esodo e grazie alla collaborazione dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia si è prefissa l’intento di “ampliare i confini della conoscenza sulla storia italiana ed europea del secolo scorso”. Il Regno Unito, pur avendo avuto un ruolo importantissimo nella questione del confine orientale, sembra non conoscere affatto la nostra storia. Grazie alla professoressa Morettin, la storia dell’Esodo – il vero dramma delle nostre terre - verrà diffusa anche in quella società che tanto fu coinvolta nella questione istriana.
Rispettare la memoria significa risarcire il male fatto comprendendo la sua origine. L’ha scritto su Difesa Adriatica: è questa la direzione intrapresa dalla storiografia che si occupa del confine orientale italiano?
“Direi di sì. Accanto al lavoro di studiosi quali Moodie, Duroselle, Cox e Cusin, che hanno esaminato la storia del nostro confine tra gli anni ‘40 e ‘50, a livello locale se ne sono occupati storici quali Pupo, Valdevit, Spazzali e Apih i quali hanno affrontato su un piano rigorosamente storico la questione delle foibe e dell’esodo cercando di sottrarla al ricatto delle opposte memorie. A differenza di quanto sostenuto da alcuni studiosi come Bernard Bruneteau, che nel suo “Il secolo dei genocidi” afferma che “le rivendicazioni degli italiani giuliano-dalmati non sono pienamente legittime”, ritengo che vada comunque superata la logica fatta di giustificazioni e recriminazioni. Il mio studio si concentra su coloro che sono stati risucchiati dal vortice della violenza perché tutti i crimini di guerra, che siano commessi dalla Destra o dalla Sinistra, dalle vittime o dagli aggressori, sono e rimangono dei crimini contro l’umanità e in quanto tali noi studiosi abbiamo l’obbligo morale e ontologico di analizzarli, narrarli e condannarli”.
Nel 2011 lei fece uno studio sulle rappresentazioni letterarie del dramma dell’Esodo analizzando scritti di Anna Maria Mori, Nelida Milani, Enzo Bettiza. Ora fa parte di questo suo lavoro?
“La memoria individuale, a differenza di quella collettiva e istituzionale, è ritenuta per certi aspetti inaffidabile in quanto soggetta alle deformazioni e limitazioni intrinseche alla memoria umana. Per tale ragione a volte viene snobbata dalla storiografia: appare come una fonte sospetta, per dirla con Primo Levi, inesorabilmente soggetta alla deformazione del ricordo, come se a scrivere fossero dei falsari della memoria. Tuttavia sono convinta che la verità si trovi non solo nelle fonti d’archivio, riservate ad una ristretta cerchia di lettori specialisti, ma è racchiusa anche in una variegata produzione letteraria che presenta il vantaggio di non perdere mai di vista la sofferenza umana. Per questa ragione nella mia attuale ricerca oltre alle fonti primarie, che rappresentano buona parte dell’indagine, ho voluto introdurre, sia pure in misura minore, alcune considerazioni contenute nelle opere di romanzieri e intellettuali sia nostrani sia stranieri. È un po’ come voler declinare contemporaneamente storia e letteratura”.
Da dove è partita questa ricerca e perché ha voluto concentrarsi proprio su tale tema?
“Il mio cognome chiaramente denota origini veneto-friulane. Detto ciò, ho scoperto l’argomento storico solo tardivamente ed in modo fortuito, precisamente dopo la pubblicazione nel 1992 del romanzo di Carlo Sgorlon, “La foiba grande”. Sia al liceo che ho frequentato in Friuli e poi all’università di Padova non si è mai fatto cenno alla questione giuliana, anzi per quanto riguarda i programmi scolastici si arrivava alla maturità avendo a malapena studiato la Prima Guerra Mondiale. Però ricordo chiaramente che, non distante da casa mia, vivevano “gli istriani” o “quelli là” – dicevano gli adulti, con un tono che mal celava una forma di quasi disprezzo o comunque faceva intuire un tono di superiorità. Dopo Sgorlon ho scoperto lo splendido racconto-diario di Marisa Madieri, “Verde acqua”, e altri autori come Graziella Fiorentin, Anna Maria Mori, Enrico Morovich, Enzo Bettiza e Nelida Milani. Una volta soddisfatta la curiosità letteraria, il passo verso l’analisi storica di fonti primarie è stato più che naturale”.
Nel Regno Unito si conosce la storia del confine orientale italiano?
“La conoscenza della questione giuliana e del conseguente Esodo è quasi inesistente ed è prerogativa di pochissimi studiosi che si sono specializzati nel primo periodo della guerra fredda”.
Quale l’obiettivo di questa ricerca?
“Con questo libro, che spero esca nella primavera prossima per i tipi dell’ANVGD, credo di aver raggiunto i tre obiettivi che mi ero prefissa: il primo è quello di restituire dignità e riconoscimento storico alle vittime dei massacri a cui la vita non è bastata per raccontare; il secondo è quello di offrire al lettore i contorni e i contenuti di una realtà estremamente brutale, che punta dritto al lato oscuro dell’uomo; e, terzo, mi auguro di aver reso esplicito il concetto che il male subito non legittima il male inflitto”.
Non capita molto spesso che le questioni del confine orientale d’Italia vengano studiate all’estero. Qual è l’importanza che questa ricerca potrebbe rivestire all’interno della storiografia internazionale?
“Senza voler peccare di falsa modestia, mi auguro che possa ampliare i confini della conoscenza sulla storia italiana ed europea del secolo scorso. Un “secolo delle ideologie assassine”, come l’ha definito lo storico Robert Conquest, in nome delle quali sono stati perpetrati crimini inenarrabili contro individui e intere popolazioni e su cui non sempre è stata fatta chiarezza”.
Dopo questo lavoro di ricerca quali sono i Suoi progetti accademici?
“Dopo aver studiato le esecuzioni di massa compiute dalle forze di Tito nella Venezia Giulia, vorrei passare allo studio dei crimini fascisti. In questo modo i miei critici forse smetteranno di definirmi fascista, come se la verità dovesse essere per forza di colore rosso o nero. Alcuni italiani sono ancora così politicizzati che non riescono ad immaginare che uno studioso, indipendentemente dal proprio orientamento politico, riesca a scrivere un’opera di verità: credo che questa sia una delle differenze fondamentali tra l’approccio storico italiano e quello britannico. Sebbene siano passati ormai settant’anni da quei tragici eventi, gli italiani continuano ad avvolgerli con un manto di emotività. I termini ‘comunista’, ‘partigiano’, ‘fascista’ e i sentimenti che evocano sono ancora ben radicati nella memoria individuale e collettiva del paese, fattore che ancora collega il passato al presente tanto che, come già sottolineato dallo storico Jay Winter, il passato diviene un uso polemico del passato per ridefinire il presente”.
Nicolò Giraldi
09 - Il Giornale 31/12/12 Tratti italiani: Nino Benvenuti:
Il campione per sempre che vive ancora per la sua boxe
Tratti italiani
Riccardo Signori
I personaggi e i fatti che raccontano la storia del nostro Paese in una serie di immagini d`autore
Il lungo fremito che percorse quella notte d`Italia ogni tanto par di sentirlo ancora. «Nino-Nino» divenne un suono, un tam tam, un urlo non stridulo come quello di una Sofia Loren su un palcoscenico americano, ma una acclamazione liberatoria e gioiosa, un coro da stadio che, per tanti anni, ci ha accompagnato e non lascerà più il no stro teatro della memoria.
Teatro della memoria per cinquantenni e dintorni, ma oggi, come allora, se dici Benvenuti basta la parola. Benvenuti-Griffith è stato il nostro, detto come Italia e italiani, autentico, inviolabile forse inarrivabile sogno in black and white, quel bianco e nero che resiste allo scolorire della vita e dei ricordi. Il nero campione, il bianco sfidante, speranza di un mondo che cercava non la sopraffazione, come ai tempi delle sfide fra Joe Louis, l`americano buono, e Max Schmeling il tedesco "mandato" da Hitler, ma l` alternanza sportiva e il business provocato dal fascino del campione dalla pelle bianca.
Oggi Benvenuti non è più il ragazzo capelli a spazzola, braccia lunghe, viso magro e sagomato delle Olimpiadi di Roma o neppure quel magnifico belloccio dai muscoli lineari, guizzanti e il sinistro stordente, corazza da attore, grande orgoglio e intollerante presunzione daprimadonna, andato a conquistarsi il titolo mondiale dei pesi medi nel Madison Square Garden di NewYork, il tempio della boxe per eccellenza. Oggi è un signore di quasi75 anni che si è riconciliato con qualche errore commesso nella vita affettiva, che ti parla di boxe con passione, che ha vissuto lavita, voce rauca inconfondibile, forse marcata un po` dal tempo, ma conserva appeal dell`uomo cheaffascina, rimane fotografia dell` atleta che non invecchia mai, quasigli occhirifiutassero altra immagine che non sia quella con i guantoni al pugno, il torso nudo ed elegante, i capelli con larigalaterale mai sconciata dalla battaglia o dalla fatica. Indimenticabile: che divida o unisca. E rimane nell` aria, a distanza di 45 anni, la domanda che "The Ring", la più autorevole rivista pugilistica del mondo, lanciò in copertina. Si vede la foto di Nino in guardia e l`interrogativo: il più grande pugile italiano di sempre?
Nino vinse e perse, in alternanza, tre incontri con Griffith, incrociò memorabili e feroci lotte pugilistiche con Sandro Mazzinghi, quello dell`altra Italia. Dove Nino era Coppi, l`altro Bartali, uno era Mazzola, l`altro Rivera. Finì in croce sui pugni di Carlos Monzon, uno davvero più grande di lui. Ma forse qualche indizio aiuta la risp osta. Nino fece svegliare tutta Italia alle quattro del mattino, 18 milioni di persone seguirono alla radio la voce trepidante di Paolo Valenti, il servizio sveglia di Milano ricevette cinquemila prenotazioni, la Rai negò l`incontro in diretta con scusa («Non possiamo turbare il ciclo lavorativo degli italiani») da paese stalinista.
Ma l`Italia si svegliò, scoprì ilvalore di notte magica. Ricordo di cuore, tifo, costume italiano. Noi tutti dietro un profugo istriano, adottato a Trieste. Quella notte, 17 aprile 1967, Nino non sconfisse l`America. Si prese l`Italia. Fra sogni e realtà, campione per sempre. Ecco la risposta alla domanda americana.
Nino Benvenuti, il bello del ring Signore dei giochi di Roma `60 e campione del mondo dei medi
Nino Benvenuti (Giovanni, all`anagrafe), nacque a Isola d`Istria il 26 aprile 1938. Da tutti è conosciuto come uno dei più importanti e forti pugili italiani di tutti i tempi. Campione olimpico nel 1960, campione mondiale dei Pesi medi tra il 1967 è stato anche uno tra gli atleti più amati dal pubblico italiano. Nel gennaio 1967 Benvenuti vola in America, dove lo aspetta il campione mondiale dei pesi medi Emile Griffith. L`incontro, il primo, si tiene il 17 aprile e vede Benvenuti trionfare, aggiudicandosi così le cinture WBC e WBA di campione del mondo dei pesi medi, primo italiano a conquistare questi allori. Sul ring, appena dopo il verdetto, Emile Griffith gli stringe la mano come segno di rispetto. Il rientro in Italia viene vissuto in maniera entusiastica: a Trieste riceve l`omaggio della sua città che scende interamente in piazza per festeggiare il nuovo Campione mondiale
10 - L'Arena di Pola 19/12/12 Dagli imperialismi contrapposti alla Grande guerra
Dagli imperialismi contrapposti alla Grande guerra
Ha avuto luogo dal 22 al 24 novembre il 1° Festival di Storia e Cultura Adria-Danubia, organizzato dall’Associazione culturale italoungherese “Pier Paolo Vergerio” e dalla “Sodalitas” adriatico-danubiana in collaborazione con l’Università di Oradea (Romania) e il Consolato onorario d’Ungheria per il Friuli Venezia Giulia. La principale iniziativa è stata il convegno internazionale di studi La via della Guerra. Italia e mondo adriatico-danubiano alla vigilia della Grande Guerra, tenutosi presso la Biblioteca statale di Trieste il 22 e la mattina del 23.
Introducendo i lavori Adriano Papo ha evidenziato come la guerra franco-prussiana del 1870 sconvolse gli equilibri europei facendo dell’Impero tedesco la prima potenza continentale, che lasciò le altre sfogare il proprio espansionismo lontano. L’involuzione del movimento liberale portò al nazionalismo e all’imperialismo, che sul piano culturale presero la forma del decadentismo e poi del futurismo. In contrapposizione al mito della scienza, della tecnica e del progresso presero piede l’irrazionalismo, il nichilismo e l’anarchismo.
Gianluca Pastori ha spiegato che la Prima guerra mondiale fu il momento culminante di un processo di riallineamento geopolitico cominciato con la crisi greca del 1821 e continuato con l’estromissione ottomana dai Balcani. Lo spazio così creatosi venne suddiviso in due sfere d’influenza: austro-ungarica e russa. La Russia, estraniatasi dall’Europa nel 1856, vi rientrò con la guerra contro l’Austria-Ungheria del 1877-78. Il Congresso di Berlino (1878) modificò le clausole della pace di Santo Stefano grazie all’inedita convergenza britannico-tedesca. Il potere si distribuì tra un numero crescente di Stati. La pax germanica non eliminò le guerre, ma a farle furono solo i soggetti minori “autorizzati” dai loro rispettivi referenti internazionali, un po’ come nella Guerra fredda. Il sistema di Berlino si dimostrò molto stabile e capace di gestire le crisi fino al 1890 (caduta di Bismarck). Dal 1908 un crescendo di tensioni e guerre modificò profondamente gli assetti balcanico-mediterranei portando al crollo del sistema. Ma ancora nell’estate 1914 le varie cancellerie erano convinte che la nuova guerra sarebbe stata breve, circoscritta e risolvibile al pari delle altre mediante conferenze internazionali.
Tibor Szabó si è soffermato sul ruolo del futurismo italiano nella formazione dello spirito interventista e sui notevoli influssi che ebbe in Ungheria. In Italia prima della Grande guerra i futuristi furono molto popolari presso i lavoratori, durante il conflitto influirono sui soldati che leggevano i loro scritti nelle trincee, e in seguito divennero quasi tutti fascisti. Ma la fine delle ostilità fu anche la fine della grande illusione futurista che la guerra fosse la sola «igiene del mondo».
Antonio Sciacovelli ha illustrato i romanzi di Gyula Krúdy.
Kristjan Knez ha rilevato come gli sloveni si fossero schierati fin dal 1848 a difesa dell’Impero, visto dal 1866 quale baluardo del loro “territorio etnico”. Aspiravano a una Slovenia unita nel nesso asburgico comprendente Carniola, Litorale, Carinzia e Stiria. Alcuni intellettuali laici però aderirono allo jugoslavismo. Tra questi Karl Slanc, liberale con simpatie socialiste che 100 anni fa pubblicò a Gorizia il libro (mai tradotto in italiano) Gli jugoslavi d’Austria e il mare. Obiettivo degli slavi dell’Austria-Ungheria doveva essere quello di fare le sentinelle dell’Impero sull’Adriatico incorporando Trieste in quanto ricco porto-emporio e finestra aperta sul mondo, ma senza toglierla agli italiani. Questo progetto trialistico, ovvero di un terzo regno asburgico da affiancare ad Austria e Ungheria, collideva però con i progetti sia degli austro-italiani sia degli austro-tedeschi, della corte e dei vertici militari, i quali non potevano rinunciare né al porto commerciale di Trieste né al porto militare di Pola. Altri liberali e socialisti mirarono invece a una vera e propria conquista della città, mentre il liberale triestino Josip Wilfan si batté per i diritti culturali degli sloveni nell’ottica della convivenza con gli austro-italiani. Difficile fu l’intesa coi nazionalisti croati, che consideravano gli sloveni dei croati “alpestri” e interpretavano il progetto trialistico come una Grande Croazia. I nazionalisti croati dalmati Trumbić e Smodlaka, convertitisi dal 1903 allo jugoslavismo anti-asburgico, tentarono un compromesso nazionale con gli austro-italiani e guardarono al Regno d’Italia come potenziale alleato. Erano disposti a cedere Gorizia, Trieste e l’Istria occidentale, ipotesi però respinta dagli sloveni. In definitiva nessun accordo fu possibile e tanto gli sloveni quanto i croati combatterono nelle file imperiali contro l’Italia.
Marina Rossi ha ricordato come il numero dei lavoratori a Trieste fosse salito fra il 1890 e il 1910 da 15.000 a 40.000. Il regime del cottimo li sfibrava mettendoli spesso gli uni contro gli altri. In costante aumento fu anche la manodopera femminile. Impiegate, cassiere, sarte, cucitrici, ricamatrici, tappezziere, pastaie, operaie, calzolaie... guadagnavano il 50% degli uomini lavorando anche 9-10 ore al giorno senza riposo settimanale e spesso in nero. Tantissime erano le minorenni e ben poche le iscritte alla cassa ammalati, malgrado molte fossero infortunate o indisposte. I licenziamenti abusivi erano all’ordine del giorno. L’albonese Giuseppina Martinuzzi fece per trent’anni la maestra in Cittavecchia, intervenne a Pola nel 1898 al congresso fondativo della Sezione italiana adriatica del Partito operaio socialista in Austria e sul quotidiano “Il lavoratore” denunciò il degrado dell’ambiente proletario, le disparità salariali e l’obbligo del nubilato per le pubbliche dipendenti, evidenziando la subalternità economica e psicologica delle donne anche borghesi e battendosi per la tutela dei bambini, l’aborto legale, l’abolizione del matrimonio combinato e in generale l’emancipazione femminile. L’austro-marxismo era riformista e gradualista, puntava sul fattore educativo e si proponeva una riforma federalista dell’Impero.
Giovanni Cerino-Badone ha spiegato tecnicamente perché la Prima guerra mondiale, ben poco innovativa rispetto a quella franco-prussiana del 1870, fu combattuta in trincea.
Stefano Pilotto ha osservato che la politica estera italiana verso l’Europa centrorientale fu di basso profilo fin dal 1861, tanto che anche dopo il 1866 l’unità nazionale rimase incompiuta. L’impossessamento francese della Tunisia (1881) portò alla Triplice Alleanza (1882). Il primo rinnovo di questa nel 1887 mise in luce, con il principio dei compensi, un interesse italiano verso i Balcani. La sconfitta di Adua pose termine all’illusione che la Triplice fosse l’unico possibile ambito di manovra internazionale. Seguirono gli accordi con la Francia del 1896 e 1902 e quello con la Russia del 1909, che prepararono il terreno alle conquiste coloniali in Libia e Dodecaneso prefigurando il sistema di alleanze della Grande guerra.
Paolo Radivo ha spiegato che tra la pace di Santo Stefano (3 marzo 1878) e l’assassinio di Sarajevo (28 giugno 1914) i governi regnicoli furono assai prudenti verso gli italiani dell’Austria-Ungheria proclamando la non interferenza nelle vicende interne dell’Impero per paura di ritorsioni. Inizialmente non pretesero da Vienna contropartite per l’occupazione della Bosnia-Erzegovina e del Sangiaccato, ma dal 1882 adottarono la logica imperialista delle altre potenze europee iniziando l’espansione coloniale in Africa. Con la Triplice Alleanza rinunciarono sia all’acquisizione dei territori irredenti sia alla tutela dei diritti culturali degli austro-italiani che, disconosciuti dalla Nazione Madre, dovettero fare da sé. La repressione del movimento irredentista, giudicato eversivo perché repubblicano e ostile alla soggezione a Vienna, raggiunse l’acme fra il 1882 e il 1883 con Depretis. I rinnovi della Triplice stabilirono per ogni eventuale acquisizione territoriale nei Balcani, nell’Adriatico o nell’Egeo un «compenso reciproco», che però non implicava che l’Italia in cambio avrebbe avuto diritto a territori asburgici a maggioranza italofona. Dal 1890 la società Dante Alighieri sovvenzionò, anche grazie a fondi governativi occulti, le attività scolastiche e politiche dei liberal-nazionali in Trentino e nella Venezia Giulia. Altrettanto fece dal 1898 in Dalmazia. Dal 1904 la stessa Dante fu il tramite di una rete di patrioti che da quei territori trasmettevano a Roma preziose informazioni politico-militari. Solo nei casi più gravi, e sempre con estrema cautela, alcuni presidenti del Consiglio e ministri degli Esteri del Regno d’Italia intervennero a favore dei diritti culturali negati degli austro-italiani.
Gianfranco Hofer ha rilevato come la riforma del 1868 in Austria avesse affidato ai Comuni la gestione delle scuole materne ed elementari, determinando la fine della politica scolastica di germanizzazione e l’inizio di quella degli opposti nazionalismi. Il Comune di Trieste, estromessi i maestri austro-tedeschi, negò sempre sia l’istituzione di scuole comunali slovene sia il finanziamento di quelle private, la prima delle quali sorse nel 1887 ad opera della società Cirillo e Metodio con sovvenzioni statali. La scuola secondari a italiana si caratterizzò per la sua impronta laica oltre che nazionale.
Lorenzo Salimbeni ha parlato dell’atavico conflitto tra serbi e albanesi in Kosovo. Nel 1690 si registrò il primo esodo serbo, dovuto alla rappresaglia turca per l’insurrezione filo-austriaca. Gli albanesi, divenuti maggioritari, dimostrarono lealismo verso il potere e si integrarono perfettamente nelle strutture gerarchiche dell’Impero ottomano, tanto che appena dal 1878 svilupparono una coscienza nazionale in contrapposizione ai serbi, limitandosi però a rivendicare l’autonomia e mai l’indipendenza. Le guerre balcaniche sconvolsero il quadro portando alla spartizione della regione fra Serbia e Montenegro. Cominciò allora una serbizzazione forzata.
Adriano Papo ha preso in esame la politica di magiarizzazione compiuta nella parte ungherese dell’Impero specie tramite la scuola ai danni delle altre nazionalità. La Transleitania comprendeva un 35% di ungheresi, un 15% di rumeni, un 11% di tedeschi, un 10% di slovacchi e altri gruppi minori. Pulsioni irredentiste furono manifestate soprattutto dai rumeni in Transilvania specie dopo la nascita del Regno di Romania (1881). Fra gli slovacchi la corrente autonomista filo-ceca prevalse su quella filo-russa. I croati puntarono alla creazione del terzo regno asburgico con capitale Zagabria. Nel 1903 il colpo di stato anti-asburgico dei Karađorđević in Serbia rafforzò le tendenze jugoslaviste già perorate dal vescovo Strossmayer con il nome (poi proibito dalle autorità asburgiche) di illirismo. Nel 1905 i croati filo-serbi tentarono un’alleanza con gli indipendentisti magiari per l’unificazione della Croazia-Slavonia, della Bosnia-Erzegovina e della Dalmazia sotto la corona di Santo Stefano, ma nel 1906 Ferenc Kossuth, giunto al governo, si rimangiò le promesse di autonomia fatte. Gli sloveni furono fautori del trialismo per resistere a ungheresi, serbi e italiani. I sassoni della Transilvania svilupparono una coscienza nazionale tedesca nelle città, ma non furono molto considerati dalla Germania, mentre gli svevi non avanzarono mai rivendicazioni.
Balázs Barták ha spiegato come i poeti ungheresi abbiano cantato la loro nazione. Alessandro Rosselli ha trattato della preparazione militare italiana alla Prima guerra mondiale. Roberto Coaloa ha illustrato i piani di “guerra preventiva” contro l’Italia dell’erede al trono Francesco Ferdinando e del feldmaresciallo Conrad von Hötzendorf, sempre bocciati da Francesco Giuseppe. Fulvio Senardi ha parlato di Trieste come città contesa da più parti alle soglie del conflitto. Infine Lorenzo Tommasini ha ricostruito il percorso di Scipio Slataper dall’irredentismo culturale all’interventismo militante.
Nel pomeriggio di venerdì, all’Antico Caffè San Marco, sono state lette poesie e passi di autori ungheresi, eseguite danze ungheresi e suonati brani al pianoforte.
La mattina di sabato 24, alla Casa della Pietra di Aurisina, si è svolta una tavola rotonda sul tema Imperialismi e irredentismi contrapposti alla vigilia della Grande Guerra.
Alessandro Rosselli ha sostenuto che la Triplice Alleanza e la Triplice Intesa erano ambigue perché al contempo difensive e offensive. Bismarck attuò una politica di aggressioni limitate. Dopo di lui la Germania fu sempre più imperialista e aggressiva, fino ad includere anche Austria-Ungheria e Turchia fra gli obiettivi della Grande guerra. La Triplice era un’alleanza ineguale fondata sull’asse Berlino-Vienna, mentre Roma e dal 1883 Bucarest costituivano i “parenti poveri”.
Stefano Pilotto ha ricordato come l’irredentismo nascesse già nel 1866 dopo la III Guerra d’indipendenza per il mancato compimento dell’unità nazionale, benché il termine entrasse in uso appena una decina di anni più tardi. La Triplice, cui invano tentò di opporsi Guglielmo Oberdan, fu una netta scelta di campo, che tuttavia nell’ottica di Crispi avrebbe dovuto lasciare l’Italia libera di espandersi in Africa. L’irredentismo, dopo una fase di declino, riemerse in particolare dal 1908.
Antonio Sciacovelli ha fatto presente che gli ungheresi dal 1867 attuarono un imperialismo culturale tramite l’imposizione della lingua e la magiarizzazione dei cognomi. La Transilvania e l’attuale Slovacchia produssero molta cultura e letteratura ungherese. A Fiume tra la fine dell’800 e gli inizi del ’900 si sviluppò una forte collaborazione italo-magiara specie nella traduzione e nella lessicografia: il primo dizionario italiano-ungherese vide la luce nella città quarnerina.
Paolo Radivo ha evidenziato come nell’Adriatico orientale gli anni antecedenti alla Grande guerra furono un crescendo di tensioni tra le nazionalità. Ognuna, in un delirio etnocentrico, negava all’altra ciò che rivendicava per sé. Così, se a Gorizia, Trieste e Fiume i liberal-nazionali italiani impedirono la costituzione di asili e scuole comunali slave, in Dalmazia dopo il 1866 i nazionalisti croati, impadronitisi di tutti i Comuni salvo Zara, trasformarono le scuole pubbliche italiane in croate. Una grande occasione si presentò fra il 1903 e il 1906 con le proposte di compromesso tra dalmati croato-jugoslavisti, serbi e italiani, per breve tempo uniti nella difesa contro un comune nemico: la germanizzazione. Fallita la pacificazione, la riforma elettorale dell’agosto 1906 negò agli zaratini di esprimere un seggio al Consiglio dell’Impero e un’ordinanza del 1909 relegò l’italiano a lingua secondaria nell’amministrazione statale dalmata. La politica filo-asburgica e del Regno d’Italia durante le guerre balcaniche rese poi gli austro-italiani invisi non solo ai croati ma anche ai serbi.
Infine Diego Redivo ha presentato il suo libro Lo sviluppo della coscienza nazionale nella Venezia Giulia e Roberto Coaloa Carlo d’Asburgo, l’ultimo imperatore.
Paolo Radivo
11 – La Voce del Popolo 28/12/12 Cultura - Ricchezza di approcci per il polese Endrigo
Il CD hommage corale dei musicisti istro-quarnerini
Ricchezza di approcci per il polese Endrigo
POLA | È il frutto di una risposta corale da parte di tutti i musicisti di spicco della regione Istria e del Quarnero il CD “1947 hommage à Sergio Endrigo”, l’interessante progetto discografico realizzato con il contributo della Città di Pola, della Regione Istriana, dell’Unione Italiana, prodotto dalla casa discografica “Menart” di Zagabria.
Il fatto che i più bei nomi della musica leggera croata (dei più diversi generi), e in particolare dell’Istro-quarnerino, abbiamo aderito a tale iniziativa è indicativo di quale popolarità, simpatia, considerazione e ammirazione goda questo personaggio di cantautore fuori del comune; un cantautore polese, italiano “di frontiera”, che nel corso della sua fertile attività ha sempre espresso con semplicità e autenticità il grande mondo che si portava dentro: le nostalgie, gli amori, gli ideali, la speranza di un mondo migliore, le disillusioni, le ferite dell’esule e le sue lacerazioni, cantate sempre in quella sua maniera sommessa, discreta, e tanto vera. Tanto vera da andare diritto al cuore della gente.
Restituire lo spirito del cantautore
Il doppio CD contiene ben 30 canzoni di Endrigo ed altrettanti interpreti. Ora, questa vasta adesione sottintende pure una grande eterogeneità di approcci alla canzone stessa, una rivisitazione di Endrigo, in particolare in riferimento agli arrangiamenti che a seconda del tipo di complesso o cantante risultano di volta in volta di carattere vagamente etno, rockettaro, con accenni di tipo heavy metal, oppure restituzioni molto intime e trasparenti.
Da ciò ne consegue una grande varietà dei timbri, di modulazioni coloristiche dagli effetti più vari, ottenuti con il sintetizzatore oppure con la chitarra classica, con gli impasti delle voci corali, con il tamburello e/o i flautini, la fisarmonica a bocca, le percussioni e quant’altro. E ciò sicuramente rappresenta un motivo di curiosità e di interesse. Poi resta da vedere in che misura si riesca a restituire lo spirito di Endrigo cantautore.
Esperimento interessante
Ad ogni modo si tratta certamente di un “esperimento” interessante valido, che dimostra ricchezza d’idee e di riletture legate ad un grande autore, un classico, il quale continua ad ispirare i protagonisti più diversi della variegata musica leggera, in questo caso nella sua terra d’origine. E così abbiamo un sofisticato Arsen Dedić, che nel suo personalissimo stile interpreta, in croato, “Mani bucate“/Rasipne ruke”; abbiamo Tamara Obrovac e il “Transhistria ensemble” in “Io che amo solo te”, con vaghi sentori “istri” e fantasia improvvisativa (fisarmonica a bocca). Indovinata pure la rilettura di Franko Krajcar e dell’“Indivia band”, e quella delicata da Tatiana e Mauro Giorgi in “Dimmi la verità”.
Autentici maestri e menestrelli
Un autentico maestro si dimostra Bruno Krajcar in “Trieste”, con il solo sostegno del pianoforte, in un’interpretazione molto vissuta e affascinante. Poeta e “menestrello” si rivela Bruno Načinović, che con la sua inseparabile chitarra offre un Endrigo sentimentale e sciolto ne “Il dolce paese”. Molto godibile risulta l’arrangiamento dell’“Arca di Noè”, con le belle voci maschili e quella solista di Alessandro Ghersin della Società artistico culturale “Lino Mariani” della Comunità degli Italiani Pola, dirette da Edi Svich. Altrettanto felice e sul solco della tradizione l’esecuzione dell’Orchestra di fisarmoniche “Stanko Mihovilić”, della SAC “Istra”, e dell’Orchestra di fisarmoniche dell’Università “Juraj Dobrila” di Pola, con “Il treno viene dal sud”.
Rilettura dei brani più canticchiati
Sembra quasi un madrigale del Rinascimento la rilettura in chiave corale di “Lontano dagli occhi”, del coro femminile “Teranke”, mentre rievocano la sonata barocca il violoncello e il flauto in “Questo amore per sempre”, con Matija Ferlin/Sandro Peročević/ Nataša Dragun. Fresca e carina l’esecuzione della filastrocca “Ci vuole un fiore” da parte del coro di voci bianche “Zaro”, diretto da Linda Milani. “Coloratissimo” e concitato “Il papagallo” con “Cigo man band” in versione etno. Ben fatta pure “La ballata dell’ex”, con Jadranka Đokić e la voce recitante di Milan Rakovac.
La ballata dell’esodo
La canzone “1947”, da cui il CD prende il titolo, si riferisce all’anno in cui Sergio Endrigo, allora quattordicenne, lasciò da esule la sua natia Pola, come fecero tanti connazionali. L’immagine che ricorre spesso è quella dell’imbarco sul piroscafo “Toscana”. Ora, questa sua malinconica “ballata dell’esodo” si avvale della voce “lirica”, come usava al tempo, del tenore Alessandro Ghersin, che, accompagnata da un lamentoso e rustico violino (Dario Marušić), riempie il canto di un infinito senso di desolata incertezza.
Stile e intensità unici, duraturi
Decisamente rockettaro (anche troppo) “Aria di neve”, con i “Popeye”. Validissimi interpreti sono Livio Morosin (“Elisa Elisa”), “East rodeo” (“La prima compagnia”), “The Cweger” (“La prima compagnia”); Magdalena e Helena Vodopija, Massimo (“Canzone per te”), Franka Strmotić-Ivančić (“Trasloco”), Nola (“Adesso si”), “Gustafi” (“Il primo bicchiere di vino”), Branko Sterpin (“back home someday”), Kristina Jurman Ferlin/Anđela Jeličić (“Te lo leggo negli occhi”), Dogma/ Anelidi (“Lettera da Cuba”), Deboto (“Dove credi di andare”). Chicca finale con “Kud ovaj brod plovi” (Juras-Arnautalić-Enriqez) interpretata dallo stesso Sergio Endrigo – al Festival di Spalato nel 1970 –, con quella intensità e stile inconfondibili che lo rendono unico e destinato a durare nel tempo.
Patrizia Venucci Merdžo
1947 di Sergio Endrigo
Da quella volta
non l'ho rivista più,
cosa sarà
della mia città.
Ho visto il mondo
e mi domando se
sarei lo stesso
se fossi ancora là.
Non so perché
stasera penso a te,
strada fiorita
della gioventù.
Come vorrei
essere un albero, che sa
dove nasce
e dove morirà.
È troppo tardi
per ritornare ormai,
nessuno più
mi riconoscerà.
La sera è un sogno
che non si avvera mai,
essere un altro
e, invece, sono io.
Da quella volta
non ti ho trovato più,
strada fiorita
della gioventù.
Come vorrei
essere un albero, che sa
dove nasce
e dove morirà.
Come vorrei
essere un albero, che sa
dove nasce
e dove morirà!
12 - Il Piccolo 23/12/12 Trieste e il Friuli, splendido set per oltre 200 film e fiction
Trieste e il Friuli, splendido set per oltre 200 film e fiction
Carlo Gaberscek ha raccolto in un volume tutte le pellicole girate in regione ma anche in Slovenia e Istria: da “Senilità” alle “Cronache di Narnja”
di Paolo Lughi
Conosciuto come il massimo esperto di set e location del cinema western, su cui ha prodotto numerosi, documentatissimi volumi, l’udinese Carlo Gaberscek ha ora applicato la sua passione e il suo metodo di ricerca al Friuli-Venezia Giulia e dintorni. Dal Far West al Nord Est, da una terra di frontiera a un’altra, Gaberscek ha appena pubblicato “I luoghi del cinema. Set e location del cinema di fiction in Friuli, Trieste, Slovenia e Istria” (pagg. 262), edito dal Cec di Udine, in collaborazione con l’Associazione Anno Uno–Festival I Mille Occhi di Trieste. Come è nata questa sua nuova pubblicazione? «E’ stato un work in progress. Vi ho racchiuso lo studio sulle location cinematografiche delle nostre zone che sto portando avanti da vent’anni attraverso un centinaio di articoli, proseguendo il lavoro del libro “Il Friuli e il cinema” realizzato nel ’96 con Livio Jacob. “I luoghi del cinema” nasce anche dalla collaborazione con la rivista friulana “Segnâi di lûs”, l’unica di cinema rimasta in Regione, della cui collana il volume fa parte. Esperienze che sono confluite in questo libro, al quale ho lavorato specificatamente per un anno. E’ il primo repertorio completo dei lungometraggi di finzione girati in Regione per il cinema e la tv, con l’indicazione verificata di tutte le location utilizzate. E’ una realtà in grande sviluppo, grazie anche alla Film Commission. Se dagli anni ‘40 ai ‘90 sono state girate qui 100 opere di fiction per il grande e il piccolo schermo, dal 2000 a oggi ne sono state realizzate 110. Ulteriore novità, il libro elenca le coproduzioni vicine di Slovenia ed ex Jugoslavia». Come è diventato un libro “di frontiera”, sui film girati quindi anche in Istria e Dalmazia? «Una curiosità naturale. Documentandomi mi imbattevo in titoli importanti realizzati non in Italia ma a breve distanza, delle cui riprese non si sapeva nulla. Ad esempio “Le cronache di Narnia. Il Principe Caspian” è stato girato nel 2008 sull’Isonzo, 3 km a Ovest di Plezzo. Mi sono accorto che, nonostante la nuova Europa, i confini resistono ed era giusto abbatterli almeno per queste conoscenze. Così il libro è in tre lingue, italiano, friulano e sloveno, e si rivolge ai cinefili e ai sempre più numerosi “cineturisti”». Da cosa deriva la passione per le location? «E’ come visitare i luoghi dell’Iliade o dell’Odissea. I posti dei film cambiano identità, vengono ricreati dalle storie che li raccontano, e gli spettatori cercano ciò che hanno visto sullo schermo». E quali sono le caratteristiche delle storie filmate dalle nostre parti? «I film del Friuli-Venezia Giulia sono ancorati al contesto storico. Ad esempio la guerra fa da sfondo fin dai primi lungometraggi reperibili, da “Luciano Serra, pilota” del ’38, ad “Alfa Tau!” e “Marinai senza stelle” di De Robertis. Ma pensiamo anche ad “Addio alle armi”, “La grande guerra” o “Porzûs”. Il cinema è vicino alla realtà storica o alla cronaca anche in “Maria Zef” (1981), in lingua friulana, o nella “Bella addormentata” di Bellocchio, tutto girato a Udine. Oggi i film ambientati in regione testimoniano anche il suo ruolo di crocevia per vicende di profughi dell’Est, come “Vesna va veloce” o “La sconosciuta”. Sono pochi i film di genere, come quelli spionistici sulla Trieste postbellica (“Corriere diplomatico”) o il recente giallo “La ragazza del lago”, mai lontani però dalla storia o dalla cronaca». E le coproduzioni d’oltreconfine cosa raccontano? «Sono caratterizzate invece da un esotismo quasi esagerato, ben prima delle “Cronache di Narnia”. Vicino a Rovigno, nel Canale di Leme (che sembra un fiordo) sono stati girati negli anni ’60 due film sui vichinghi: l’italiano “Erik il vichingo” con Giuliano Gemma e il britannico “Le lunghe navi”. Ci sono poi i western di produzione italo-tedesca. C’è un film diretto e interpretato da Jackie Chan nell’87, “Armour of God”, che è stato girato a Montona, borgo medioevale istriano con mura e torri trecentesche ben conservate. L’ex Jugoslavia era l’unico Paese dell’Est ad ospitare coproduzioni occidentali, e grazie al cinema ha cominciato ad aprirsi, come accadeva alla Spagna franchista con i western. Anche l’anfiteatro romano di Pola veniva usato per i “pepla” anni ’60 come “Le gladiatrici” di Antonio Leonviola. Questo film (presto in dvd) è stato girato anche a Trieste alla Fiera di Montebello, utilizzata come teatro di posa dal produttore torinese Bruno Ceria, nell’unico tentativo che rimane di creare degli studi cinematografici in Regione». E quale ruolo ha Trieste fra i set della Regione? «E’ quello dominante in assoluto. Dal 1943 al 2012 vi sono stati realizzati circa 120 film di fiction e serie televisive. Da “Senilità” (’62) in poi la città ha visto impennarsi la valorizzazione della sua cinegenia, anche per lo sfruttamento per il cinema e la tv della letteratura che qui ha origine. Di recente in tv sono stati trasmessi in una sola settimana ben tre film girati a Trieste, tra cui ‘Sposami’ di Umberto Marino. Soprattutto la tv è molto generosa nel mostrare i luoghi caratteristici della città, inserendoli nel piano d’ambientazione. Il cinema d’autore, invece, è più reticente, indugia maggiormente sulla sua indefinibile atmosfera. Nella “Sconosciuta” di Tornatore, ad esempio, non si vede mai il mare».
13 – L’Arena di Pola 19/12/12 Libro - La donna che uccise il generale
La donna che uccise il generale
Edito da Ibiskos Editrice Risolo, è da poco uscito il volume La donna che uccise il generale – Pola, 10 febbraio 1947 (€ 12) ad opera di Carla Carloni Mocavero.
Il libro è incentrato sulla figura di Maria Pasquinelli che nel giorno, per noi funesto, in cui a Parigi veniva sancito il passaggio dall’Italia alla Jugoslavia di gran parte della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, uccise a Pola il generale inglese Robin W. M. de Winton. Non si tratta di un romanzo e, nemmeno, di una raccolta di documenti (di cui, peraltro, contiene numerose parziali trascrizioni) bensì di una rivisitazione di fatti, condotta a distanza di tempo ed in situazioni contingenti molto mutate, dall’autrice per arrivare – come sostiene a conclusione della prefazione Cristina Benussi – non alla ricostruzione di un’impossibile oggettività storica ma di un personaggio problematico ed affascinante da sempre contrario a farsi ingabbiare in verità di comodo; una sorta di “mancata eroina”, vuoi per non essere rimasta “vittima” del suo stesso gesto (come forse da lei voluto e sperato), vuoi per l’incongruità del crimine compiuto e l’inconsistenza delle sue conseguenze.
Come precisato dalla stessa autrice, il libro non è il frutto di un’intervista con la Pasquinelli, ormai quasi centenaria e come sempre gelosa della sua privacy, bensì di un approfondito esame di tutto ciò che al riguardo sinora è stato scritto e reso di pubblico dominio: testimonianze, atti processuali, articoli di giornale, lettere private… Lo si potrebbe definire “una operazione di memoria” che contempera l’esigenza di non dimenticare, per non commettere gli errori del passato, e la necessità dell’oblio, per superare conflitti e delusioni tuttora in essere.
Il libro si articola in 10 capitoli ognuno dei quali è come il tassello di un puzzle di cui l’autrice si serve per comporre il quadro complessivo, storico ed umano, che vuole proporre al lettore. Così:
- il I capitolo (La donna che uccise il generale), partendo dalla considerazione «Ma come si fa a riallacciare i rapporti, a ricostruire una convivenza, se non si conoscono le persone con le quali ci si incontra, le vicende che ci hanno preceduto? Come si fa a costruire un futuro senza passato?», serve a fare una sintesi delle vicende storiche che hanno interessato Pola (in particolare negli anni ’43-’47) sino ai giorni dell’esodo, evidenziandone, ad un certo punto, l’italianità e sottolineando il fatto che in quei tragici giorni del ’47 «…nessuno proteggeva gli italiani dall’ira, dalle rivendicazioni, dagli odi degli occupanti e la pace era molto incerta». Vi si trovano, come anche in tante altre parti del libro, numerose citazioni della nostra “Arena”;
- il II capitolo (10 febbraio 1947) fa rivivere i momenti dell’attentato e conoscere più da vicino la vittima, giovane e brillante generale inglese, sposato con una bella donna e padre di un bambino di soli 3 mesi. Fa anche intuire quale doveva essere lo stato d’animo della Pasquinelli nei momenti immediatamente precedenti al suo atto criminoso; lo fa attraverso le testimonianze di personaggi, a noi ben noti, che proprio quella mattina incontrano Maria: Guido Miglia, che in quel giorno sta abbandonando la città e l’“Arena di Pola” da lui fondata e diretta sino a quel momento, e l’architetto Gino Pavan a cui è legata da rapporti d’amicizia, avendone seguiti i lavori di restauro del Tempio d’Augusto, e che in precedenza aveva consigliato di non farsi vedere troppo spesso assieme a lei. Perché? Un primo sospetto che Maria stesse da tempo tramando qualcosa;
- il III capitolo (Funerale di De Winton e coprifuoco a Pola), nel rappresentare le preoccupazioni alleate per le possibili ripercussioni dell’attentato, descrive l’atmosfera di Pola nei giorni immediatamente successivi: «I polesani italiani non trovano nessuno che comprenda i loro sentimenti. Il governo di Roma è assente, gli slavi sono apertamente nemici in attesa di entrare in città per occupare le loro case, gli Alleati freddi ed estremamente guardinghi. A questi, specialmente agli inglesi, gli abitanti di Pola imputano di non avere mantenuto le promesse e di averli abbandonati». Vi viene messa in dubbio la presenza a Pola in quei giorni di Indro Montanelli (suo lo scoop giornalistico del ritrovamento in tasca della Pasquinelli della confessione-proclama con cui dice di aver ucciso De Winton per protesta, perché rappresentante dei Quattro grandi che hanno abbandonato Pola e l’Istria lasciandole senza scampo, e per richiamare l’attenzione del mondo sul dramma degli italiani dell’Istria. Troviamo anche qui personaggi che ci sono familiari: Corrado Belci, che proprio quel giorno deve fare uscire il primo numero dell’“Arena” di sua gestione, e Danilo Colombo, che su incarico degli alleati gira per la città annunciando il coprifuoco;
- il IV capitolo (Detenzione a Trieste e diario di Spalato)permette di conoscere meglio Maria attraverso il racconto di alcune sue vicissitudini. Ampio spazio vi viene dedicato alle traumatiche esperienze da lei vissute durante il suo impegno di insegante a Spalato negli anni ’41-’43. Qui dopo l’8 settembre assiste all’occupazione della città da parte dei titini, alla persecuzione ed uccisione di parecchi italiani del corpo insegnanti, viene essa stessa imprigionata e subisce un tentativo di stupro, si impegna nella riesumazione dei cadaveri dei propri colleghi dopo il ritorno dei tedeschi ed alla fine, minacciata di morte, riesce a fuggire dalla città. Tutto questo la rende consapevole della tragedia che sta per abbattersi sulle nostre terre e la convince della «… necessità di realizzare un unico blocco di tutte le forze italiane della regione, al di sopra dei partiti e delle divisioni ideologiche, per difendere i confini e la popolazione nazionale, cosa successa in tutta Italia ma non potuta realizzare nella Venezia Giulia, anche per l’atteggiamento filo-slavo tenuto in un primo momento dal partito comunista». Diventerà, nei mesi successivi, la sua principale ragione di vita;
- il V capitolo (Il processo) consente di completare, attraverso le sue dichiarazioni nel corso del processo, iniziato il 14 marzo ’47 a Trieste, la conoscenza di Maria: la sua vita e personalità, il suo amore per l’Italia e per l’Istria, la sua propensione al sacrificio personale, il suo riconoscersi colpevole e dichiararsi unica responsabile del crimine, la sua determinazione di non voler chiedere la grazia. Ci fa comprendere l’impegno della Corte e del suo Presidente, preoccupati dalle possibili ripercussioni nei rapporti con l’Italia, nel voler assicurare all’imputata un processo “giusto ed imparziale” ed un verdetto senza “ombre di dubbio”; fa sentire il grande impegno, umano e forense, messo in essere dall’avvocato difensore, Luigi Giannini, ma anche la volontà del prosecutor, ufficiale inglese, di giungere ad una condanna esemplare che sia di “consolazione” per i militari inglesi che si sono visti uccidere sotto gli occhi il proprio Comandante a guerra finita e di far apparire Maria «Eroina no, ma assassina che nulla guadagnò e poteva guadagnare alla sua causa. Il suo gesto non ebbe nessuna utilità, fu inutile, ogni decisione era ormai avvenuta. Voleva uccidere e uccise»;
- il VI capitolo (Ultimi interventi dell’accusa e della difesa - Sentenza di morte) dimostra come l’avvocato Giannini, pur riconoscendo la colpa di Maria, cerchi in tutti i modi di attenuarne il livello di responsabilità. La sua arringa finale, piena di pathos, volta a fare apparire Maria non come una criminale bensì come una vittima, a pari del generale, delle circostanze e ad escludere il suo coinvolgimento in più ampi disegni criminosi, si conclude con la richiesta del minimo della pena «Perché ella ha agito in condizioni oggettive e soggettive tali da renderla meritevole di tutte le mitigazioni; i suoi precedenti morali e giuridici sono ottimi; gli psichiatri hanno accertato che esiste uno stato tale nella Pasquinelli da diminuirne la responsabilità». Diametralmente opposta la conclusione del prosecutor: «Ritengo che la Pasquinelli non possa beneficiare di nessuna attenuante e che debba essere punita con la morte». L’11 aprile ’47 il Presidente della Corte chiama sul pretorio l’accusata e pronuncia la sentenza: «Questa Corte vi ha condannata a morte. La sentenza avrà esecuzione nel modo che verrà stabilito dalle autorità competenti. Avete tempo 30 giorni da oggi per presentare il ricorso in appello». Risponde la Pasquinelli: «Ringrazio i giudici della cortesia usatami. Ma mi rifiuto sin d’ora di presentare domanda di grazia agli oppressori della mia terra»;
- il VII capitolo (La revisione) illustra, soprattutto, la grande mobilitazione che ci fu in Italia, da parte della Chiesa (come testimoniato da Mons. Malnati, poi segretario del Vescovo di Trieste Santin), del mondo politico, della stampa e, più in generale, dell’opinione pubblica per giungere ad una mitigazione della pena; mette, altresì, in evidenza come gli stessi Alleati ne avvertissero la necessità, non per motivi di giustizia bensì di opportunità politica. Il dibattito, sia in sede giudiziale che politico-diplomatica, è serrato ma alla fine, il 21 maggio ’47, la scarna sentenza del processo di revisione, pur confermando la giustezza della pena di morte, così si conclude: «… Tuttavia avendo piena considerazione del fatto e tenendo conto che la pena di morte era stata abolita in Italia sotto la legge prefascista e prendendo in dovuta considerazione un appello rivolto dal Capo dello Stato Italiano, Presidente on. De Nicola, trasmesso attraverso il Ministro degli Esteri Sforza, il gen. Lee ha deciso di commutare la sentenza nell’ergastolo e nei lavori forzati a vita»;
- l’VIII capitolo (Il processo Borghese), pur senza portare ad alcuna evidenza, lascia supporre il coinvolgimento di Maria in qualcosa di più grande alla luce di quella che, nelle pagine precedenti, è risultata essere per lei quasi un’ossessione: la difesa dall’attacco slavo da parte di “tutti gli italiani” delle nostre terre orientali. In sostanza la lettura di questo capitolo, mettendo in luce attraverso gli atti del processo al Principe Borghese, già comandante della X MAS, ed al quale lei è chiamata ad intervenire quale testimone il 15 luglio ’47, serve a rendere legittima la domanda, e quindi ad insinuare il dubbio, di come sia possibile che, stante la sua frequentazione di personaggi di grande rilievo nella lotta politica di allora ed il suo attivismo in tale ambito, il suo gesto sia stato un episodio isolato, deciso e portato ad esecuzione solamente da lei. Vi si legge, altresì, che l’eccidio alle Malghe Porzûs attuato dai comunisti italiani filo-titini sia in qualche modo legato proprio al tentativo di Maria di far operare assieme, in funzione anti-titina, fascisti e partigiani “verdi”. In tale ambito la Pasquinelli dichiara: «Non ho mai appartenuto a nessuna formazione, né militare né partigiana. Se ho avuto contatti con esse, è solo per il mio amore per la Venezia Giulia». Sarà questa l’ultima apparizione pubblica di Maria, che trascorrerà i successivi anni nelle prigioni di Perugia, Venezia e Firenze;
- il IX capitolo (La grazia) evidenzia come la Pasquinelli non sia mai stata dimenticata e che, soprattutto a partire dal 1956, diversi siano stati gli interventi per farle ottenere la grazia. In effetti, nel maggio 1964 sarà Maria stessa a richiederla rivolgendosi al Capo dello Stato: «Signor Presidente, le chiedo la grazia. Il mutamento della mia volontà rispetto alla clemenza è stato motivato esclusivamente da un motivo interiore che non posso specificare perché la sua realizzazione intima esige il silenzio. Invoco l’aiuto divino per il suo alto e difficile compito». La grazia le sarà concessa nel settembre dello stesso anno dal Presidente supplente della Repubblica, senatore Cesare Merzagora. All’uscita dal carcere, nell’intervista rilasciata a Fulvio Apollonio, dichiarerà: «Ho amato gli Istriani di amore sovrumano» e di questo gli Istriani l’hanno sempre ricambiata avendola considerata e tuttora considerandola “un fiore, uscito dal pantano italiano”. Successivamente la Pasquinelli si ritirerà in convento o presso privati, estraniandosi completamente dalla vita pubblica;
- il X capitolo (Gli alleati sapevano), evidenziando il fatto che gli Alleati erano stati per tempo allarmati che qualcosa di grave sarebbe potuto succedere a Pola in quel funesto 10 febbraio 1947, lascia intendere che gli stessi, pur sapendolo, non fecero assolutamente nulla per impedirlo probabilmente perché ritenevano di poter trarre dall’incidente un qualche utile. Dimostrazione evidente che in politica, in diplomazia, nella storia nulla deve e può essere dato per certo e per scontato.
Per concludere questa recensione è opportuno proporre la considerazione finale dell’autrice.
«Certo è che i tragici avvenimenti che accompagnarono l’ultima guerra mondiale rimangono al centro della memoria degli italiani e degli europei e incidono profondamente nel processo di formazione della loro identità. Per oltre sessanta anni, la guerra, praticamente dal 1946 a oggi, ha costituito un terreno di scontro nel quale si sono impegnate ideologie particolarmente permeanti, tese più a strumentalizzare che a capire. Tenere chiuse tali memorie vuol dire condizionare la politica e la società del nostro tempo e di quello futuro. È necessario trovare nuovi mezzi, nuovi strumenti per indagare le follie del ’900; forse la vicenda Pasquinelli, nel suo piccolo, può fornirci un elemento non trascurabile; forse, senza saperlo, è questa la molla che mi ha spinto in questa ricerca. Per capire, cercare di capire, riuscire almeno a immaginare».
Silvio Mazzaroli
14 - Il Gazzettino 06/12/12 La Ricerca - Il Leone, le 7000 facce di Venezia, presentata l'opera di Alberto Rizzi sull’emblema marciano e il suo ruolo nella storia della Serenissima
LA RICERCA Presentata l'opera di Alberto Rizzi sull’emblema marciano e il suo ruolo nella storia della Serenissima
Il Leone, le 7000 facce di Venezia
Sergio Frigo
Che il Leone di San Marco sia un brand globale, lo si sapeva: a onta delle sue ali piuttosto corte, nel corso dei secoli esso è volato infatti in tutto il mondo, e campeggia, scolpito nel marmo, dal "Veneto Club" di Melbourne, in Australia, a molti dei principali porti dell’America Latina e del Canada, per ricordare gli sbarchi dei nostri emigranti. Dalle nostre parti poi il Leone marciano si trova ormai praticamente dappertutto: nelle bandiere leghiste come nel fondo dei bicchieri-souvenir, nello stemma delle Generali e nel logo delle mini imprese edili di provincia.
Nei giorni scorsi è arrivata a compimento la temeraria impresa di catalogarli tutti (almeno quelli di interesse storicoartistico), avviata oltre vent’anni fa dallo storico dell’arte Alberto Rizzi: il risultato è una monumentale trilogia, i cui primi due volumi erano stati stampati da Arsenale 11 anni fa, ma che ora tornano per i tipi di Cier- re con un nuovo apparato iconografico, arricchiti da un terzo che raccoglie le segnalazioni sfuggite al primo censimento. La grande opera dal titolo "I leoni di San Marco" (costo 190 € il cofanetto, €60 il terzo volume), parzialmente finanziata (con 90mila euro) dalla Regione, è stata presentata ieri all’Ateneo Veneto, oltre che dall’autore, da Marino Zorzato, Franco Bonfante e Angelo Tabaro (per la Regione), e da Michele Gottardi e Beppe Gullino, che ha illustrato il ruolo decisivo che i veneziani vennero via via attribuendo al Leone, difensore dei cittadini e vero simbolo dell’autorità statale più del potere dogale.
Alberto Rizzi di Leoni nei suoi libri ne ha catalogati complessivamente circa 7000, classificandoli anche in base al loro aspetto: perchè di leoni ce ne sono di rampanti, di andanti, "in moeca" (come rinchiusi nella corazza di un granchio), con la spada o il vessillo; «ma ce ne sono anche con la faccia di uomo, di cane, di quattro tipi di scimmia. Ne ho contate 25 varietà», aggiunge l’autore, che a sua volta vive in una casa con l’affresco di un leone, in uno sperduto borgo bresciano dal nome evocativo, Alone. Rizzi, naturalmente, è una miniera di informazioni sul simbolo marciano: a partire dal fatto che l’accostamento fra il leone e l’evangelista avvenne solo nel 4. secolo, ad opera di San Girolamo, poiché prima esso aveva affiancato altri evangelisti.
Le scoperte più significative Rizzi le ha fatte in Istria, dove diverse ondate di "leontoclastia" (distruzione dei leoni in segno di rivolta contro Venezia) avevano rischiato in diverse riprese nel passato di far sparire delle opere importantissime. «Il mio lavoro non è finito - ha concluso lo studioso - Ora si deve organizzare a Venezia, magari a Palazzo Ducale, una grande mostra sul Leone marciano. E’ un omaggio doveroso di Venezia al suo simbolo più vivo».
15 - Il Piccolo 28/12/12 Lettere - Fino agli anni '70 sconsigliabile occuparsi dei nostri caduti A.U.
CIVILTA’ MITTELEUROPEA
Fino agli anni ’70 sconsigliabile occuparsi dei nostri caduti A.U.
Finalmente, grazie anche agli articoli di Paolo Rumiz, forse si riuscirà a realizzare pure qui da noi ciò che al di là del Timavo è ormai realtà:
ricordare e onorare i nostri padri che combatterono e morirono nell’esercito austro-ungarico. A Romans d’Isonzo, ad esempio, già da qualche anno una lapide riporta i nomi dei suoi 50 caduti a.u. tra i quali due miei zii e una recente pubblicazione riporta, paese per paese, tutti i caduti austro-ungarici del Goriziano. Bene quindi, la presa di posizione di Rumiz al quale voglio solo benevolmente rammentare che non è a partire dalle sue iniziative che si cerca di squarciare il muro di silenzio che per quasi un secolo ha coperto le vicende di questi nostri caduti. Ricordo le iniziative poste in essere sin dagli anni ’70 da Civiltà Mitteleuropea, le quasi 5.000 firme raccolta dall’Associazione culturale Mitteleuropea e consegnate al Comune di Trieste per la realizzazione di una lapide in ricordo dei nostri caduti, le cerimonie novembrine di Montuzza e di Prosecco, le croci della Mitteleuropa consegnate a Giassico a quanti combatterono per la parte “avversa” o ai loro discendenti, e poter continuare a lungo con l’elenco di iniziative che, a mio avviso, furono tutt’altro che puro folclore di chi “non sa”. Iniziative, queste, che tra l’altro all’epoca erano controcorrente e, in un ambiente come quello di Trieste, non giovavano certo alla reputazione e alla carriera dei suoi promotori. Concludo augurando a Rumiz di riuscire nel suo/nostro intento nella consapevolezza, però, di essere parte di una lunga schiera di persone, a iniziare da quelle che la sera del
18 dicembre 1977 si ritrovarono, su invito di Civiltà Mitteleuropea, in una nota birreria triestina. Ricordo ancora che a un certo punto si spensero le luci e, al lume delle candele, emozionati come dei cospiratori “osammo”, forse per la prima volta dal 1918 in un luogo pubblico a Trieste, intonare l’antico inno dell’imperatore, impegnandoci fin da allora affinché la storia dei nostri padri uscisse dall’oblio.
Enrico Mazzoli
16 - L'Eco di Bergamo 04/02/1947 Benvenuti !
L’ECO DI BERGAMO - martedì 4 febbraio 1947 – pag.1
Benvenuti !
Vi abbiamo aspettato ieri sera fin tardi. Qualcuno di noi non si avvicinava alla stazione; preferiva restare ad attendervi sul piazzale gocciolante di nebbia, non dovete meravigliarvi — voi così espansivi nel vostro bellissimo dialetto veneto, largo e pittoresco voi che guardate e stringete la mano con così scrosciante simpatia — di certe nostre superficiali scontrosità, di certe durezze di parole e di modi.
Attendavamo aldilà della distesa di neve gelata se qualche insolita animazione ci annunciasse il vostro arrivo nella sala illuminata.
Sareste usciti dalla porta — immaginavamo — a gruppi, le vostre famigliole, le donne, i vecchi, i bambini e vi avremmo riconosciuti dai fardelli, Dio mio da quelle vostre poche cose che erano ormai tutta la vostra casa lontana e che trascinavate con voi : vi avremmo visti cercare con ansia il volto della città sconosciuta, i visi dei pochi viandanti che scantonavano nelle strade ad ora tarda.
Vi avessimo potuto mostrare un bellissimo viale verde e uno scenario primaverile di città alta, qualcosa insomma che vi incantasse, e vi facesse dimenticare per un momento il vostro mare, l’anfiteatro, le splendide vostre pinete. Invece una terribile nebbia fredda un buio diguazzante nella neve gelata; niente che potesse subito confortarvi, che vi desse immediatamente il senso di una casa vostra, serena ed accogliente. Lo so come è triste: penso alla vostra via dei Sergi così stretta linda chiassosa, al clivo San Francesco e tutti quei clivi che si rincorrono, su e giù per Pola , ansanti da scoglio monumenti, da Punta Cristo, da Brioni, quante volte noi non polesani, ci siamo incantati ad amare la vostra bellissima Pola. Come era facile sentire l’Italia su quella punta di dita, in quel estremo lembo di nostra terra.
Non giungevate più ieri sera : il vostro calvario è fatto di treni che partono, purtroppo, e non giungono, di cammino verso cose sconosciute; è il calvario di un inverno che è tremendo per i poveri, per chi non ha più casa, per chi porta già un altro inverno nell’animo.
Siete giunti stamane quando la città dormiva nella nebbia e si era per forza diradato anche il gruppo degli amici venuti a salutarvi alla stazione.
Com’è stata per voi quest’alba? Oh, voi non ci direte delle impressioni sgradevoli, perchè è gentile e cortese il linguaggio dei polesani. Ma l’impressione prima fosse amara, non vogliate dubitare, Bergamo è città sincera: vi ha accolto con profondo affetto.
— Siete in casa vostra — è una umile parola, rovinata spesso dal complimento, spesso, — lo sappiamo —falsa sulle strade aride della terra, ma una parola che voi vi attendete e che noi vi diciamo con angosciosa sincerità.
Riaccendete perciò sereni i vostri focolari accanto ai nostri , fratelli ci vorremmo bene e divideremo in pace e tra fratelli il pane quotidiano e le comuni sofferenze.
Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
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