Rassegna stampa della mailing List Histria
a cura di Maria Rita Cosliani, Eufemia Giuliana Budicin e Stefano Bombardieri

N. 875 – 01 Giugno 2013
Sommario


258 - La Voce del Popolo 31/05/13 Cultura - ML Histria undicesima edizione: i vincitori (Barbara Rosi)
259 - L'Arena di Pola 18/05/13 Pola, esuli e rimasti di ieri, di oggi e di domani (Claudio Deghenghi)
260 – La Voce del Popolo 28/05/13 Via l'onorificenza a Tito
261 – Il Giornale 31/05/13 Il Pdl sfida la Serracchiani: revochi la medaglia a Tito
262 - La Voce del Popolo 20/05/13 Ora il governo Letta instauri rapporti istituzionali con la CNI (Ilaria Rocchi)
263 – L’Arena di Pola 24/05/13 Lavoro di squadra (Argeo Benco)
264 – L’Arena di Pola 18/05/13 Anche per me è giunto il momento di passare la mano (Silvio Mazzaroli)
265 - Difesa Adriatica Giugno 2013 - Intervista a Egidio Ivetic: L'Adriatico orientale, uno spazio di confine tra modelli di civiltà (Patrizia C. Hansen)
266 – La Voce del Popolo 31/05/13 Cultura - Nino Benvenuti, ricordi dell'Isola che non c'è più (ir)
267 – La Voce del Popolo 29/05/13 Cultura - Esuli e rimasti insieme impegnati a costruire l'Europa adriatica (Ilaria Rocchi)
268 - Corriere della Sera 25/05/13 Palatucci, tutte le ombre sulla vita dello «Schindler italiano» (Alessandra Farkas)
269 – La Voce del Popolo 18/05/13 Cultura - Verteneglio vuole rinascere serenissima (Ilaria Rocchi)
270 – CDM Arcipelago Adriatico 28/05/13 ANVGD: a Torino si ragiona sulla politica di d'Annunzio
271 - Il Piccolo 27/05/13 La grande migrazione dell'Istria pre-esodo, in un nuovo libro raccontati gli anni dal 1891 al 1943 quando ci furono forti flussi verso Trieste (p.r.)
272 - Il Piccolo 26/05/13 Pola: volo in idrovolante per l'ingresso nell'Ue (p.r.)
273 - Corriere della Sera 30/05/13 Lettere a Sergio Romano - Ex Jugoslavia - Rapporti con l'Italia (Antonio Fadda)

 

Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti :
http://www.arcipelagoadriatico.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.arenadipola.it/

 

258 - La Voce del Popolo 31/05/13 Cultura - ML Histria undicesima edizione: i vincitori
ML Histria undicesima edizione: i vincitori
Si terrà il 9 giugno a Valle, tra le mura dello splendido Castel Bembo, con inizio alle ore 10, la cerimonia della premiazione dell’undicesima edizione del Concorso Letterario della Mailing List Histria. Vi hanno partecipato 362 ragazzi – 189 delle elementari e 50 delle medie superiori italiane –, che hanno inviato complessivamente 240 elaborati, tra lavori individuali e di gruppo. Oltre ai dodici premi ufficiali assegnati dalla ML Histria e dall’Associazione Dalmati Italiani nel Mondo, diversi i riconoscimenti speciali, quelli attribuiti dall’Associazione per la Cultura Fiumana Istriana e Dalmata nel Lazio, dal Libero Comune di Pola in Esilio, dal Libero Comune di Fiume in Esilio, dall’Associazione Culturale Istriani-Fiumani-Dalmati del Piemonte, dal Comitato Provinciale Gorizia dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia, dal Coordinamento Adriatico, dal Centro di Documentazione Multimediale della Cultura Giuliana Istriana Fiumana Dalmata, dall’Associazione dei Dalmati Italiani nel Mondo, i premi Simpatia, cui si aggiungono i premi “Istria-Europa”. La commissione di valutazione era composta da Gianclaudio de Angelini (Roma, presidente), Maria Luisa Botteri (Monte Compatri, Roma), Giuliana Eufemia Budicin (Roma), Tiziana Dabović (Fiume), Adriana Ivanov Danieli (Padova), Sandro Manzin (Dignano), Mauro Mereghetti (Settimo Milanese, Milano), Claudia Milotti (Pola), Patrizia Pezzini (Rocca di Papa, Roma), Mirella Tribioli (Frascati, Roma), Walter Cnapich (segreteria dell’XI Concorso ML Histria, Torino), Maria Rita Cosliani, (segreteria dell’XI Concorso ML Histria, Gorizia), Axel Famiglini (fondatore della ML Histria, Cesenatico – Forlì, Cesena), Giorgio Varisco (Associazione dei Dalmati Italiani nel Mondo, Padova).
I vincitori nella sezione «A»
Ma veniamo ai nomi dei vincitori 2013. Nella sezione “A” – ML Histria, nella categoria delle scuole elementari – lavori singoli, si piazza al primo posto Elen Zukon Kolić, classe VIIIb della SEI “Giuseppina Martinuzzi” di Pola (insegnante Susanna Marsi Svitich); seconda Miriam Herceg, classe VIII della SE “Gelsi” di Fiume (insegnante: Ksenija Benvin Medanić); terza Anna Rosso, classe VII della “Vincenzo e Diego de Castro” di Pirano (insegnanti Marina Dessardo e Romina Križman). Tra i lavori di gruppo, invece, risultano primi classificati i “Fioi come noi” Alessio Benussi, Andrea Blažević, Leo Bogdanović Vlah, Nereo Cafolla, Davide Jozić, Gabriel Lleshdedaj, Toni Massarotto, Pashmina Marianna Pellizzer, Kristian Tanushi, Timi Validžić e Laura Verdnik, tutti della classe VII della “Bernardo Benussi” di Rovigno (insegnante Ambretta Medelin); seconda la comitiva “Asta e fileto” (Olivo Meriani Merlo, Ryan Vižintin e Lara Ponjavić della I, Lorenzo Persel della II e Rocco Smoković della III classe) della SEI “Edmondo De Amicis” di Buie (insegnante Katia Šterle Pincin); terzi “Star ben insieme agli altri”, ossia Paolo Castellicchio, Petra Ostović, Dean Suligoj Valli, Melani Cetina, Veronica Ravarotto, Mauro Belci, Dorotea Sellan, Lorenzo Zanghirella, Tara Sladaković, Andrea Delmonaco, Hana Hubanić, Diego Belci, Nandi Grunner Bajlo, Antonio Orešković, Fabian Pamić, Petra Kovačić, Nora Šijan, Ervina Škornjak, Rebeka Jankulovski, Daniel Katačić, Marko Cukon, Diego Sošić, Fabian Matošević, Mateo Knežević, tutti della I classe della “Giuseppina Martinuzzi” di Pola (insegnante Rosanna Biasiol Babić).
Nella categoria scuole medie superiori – lavori individuali, le vincitrici sono tutte coetanee, allieve della II classe: s’impone Matea Linić della SMSI di Fiume (insegnante Emili Marion Merle), seguita da Emi Forišek della SMSI di Rovigno (insegnante Maria Sciolis) e da Kris Dassena della Comunità degli Italiani “Dante Alighieri” di Isola (insegnante Giorgio Dudine); per i lavori di gruppo, invece, prime Federica Sinković e Marilena Sinković, classe III liceo generale della “Leonardo da Vinci” di Buie (insegnante Larisa Degobbis), secondi Ksenija Ivanović e Zoran Kašćelan, classe I del Ginnasio di Cattaro (insegnante Aleksandra Vuksanović), terze Mia Belci e Chiara Kalebić, classe I della “Dante Alighieri” di Pola (insegnante Annamaria Lizzul).
Associazioni di Istriani, Fiumani e Dalmati
Per la sezione “Dalmazia in Croazia”, i riconoscimenti vanno (nell’ordine “d’arrivo”) a Nikola Jerolimić, classe VIII, CI di Lussinpiccolo (insegnante Mirta Širola) e al “trio” Andrea Botica, Ivan Androja, Tomislav Harapin, classe IVa del Liceo Linguistico Informatico “Leonardo da Vinci” di Spalato (insegnante Jelena Boban); per “Dalmazia in Montenegro”, allori a a Gianluca Lamberto Pelonzi (insegnante Tatjana Daković) e Egzona Krasnići (insegnante Tatjana Stijepović), entrambi della classe IX della Scuola elementare “Narodni heroj Savo Ilić” di Cattaro, quindi a Daniela Zifra, classe IX della SE “Drago Milović” di Teodo (insegnante Milena Radović), Ivan Brkanović (primo premio), classe III del Ginnasio di Cattaro (insegnante Slavica Stupić), Vedrana Nikolić (secondo premio), classe III della SMS “Mladost” di Teodo (insegnante Tamara Božinović) e Stefana Franović, classe III del Ginnasio di Cattaro (insegnante Slavica Stupić).
L’Associazione per la Cultura fiumana, istriana e dalmata nel Lazio ha premiato Marco Blašković, della classe II Liceo Generale della SMSI di Rovigno (insegnante Maria Sciolis). Il Libero Comune di Pola in Esilio ha “promosso” Filippo Sebastiano Čikić, classe IV della SEI “Giuseppina Martinuzzi” di Pola (insegnante Loredana Franjul) e Adamandia Sofija Koželj Pashalidi, classe I della SMSI “Dante Alighieri” di Pola (insegnante Annamaria Lizzul). Il Libero Comune di Fiume in Esilio ha riconosciuto la bontà dei lavori di Lara Grozdanić, classe V della “San Nicolò” di Fiume (insegnante Sara Vrbaški) e Nina Rukavina, classe I ginnasio generale della SMSI di Fiume (insegnante Emili Marion Merle), mentre l’Associazione Culturale Istriani-Fiumani-Dalmati del Piemonte quello di Tara Bernè, Dorotea Cerin, Martin Popović, Erica Vošten e Luka Zonta della classe II della SEI “Bernardo Benussi”, Sezione Periferica di Valle (insegnante Miriana Pauletić); l’ANVGD – Comitato di Gorizia ha ricompensato lo sforzo letterario di Luka Bukša, classe V della “Gelsi” di Fiume (insegnante Ksenija Benvin Medanić), mentre il premio speciale “Istria-Europa” è andato a Sarah Pavich (classe II liceo generale, SMSI “Leonardo da Vinci” di Buie, insegnante Larisa Degobbis) e quello di “Coordinamento adriatico” a Federica Glišić Rota (classe III, SEI “Galileo Galilei”, Sezione Periferica di Bassania, insegnante Carmen Rota) e Chiara Bonetti (classe IV liceo generale, SMSI di Buie, insegnante Larisa Degobbis).
I riconoscimenti «speciali»
La Giuria ha inoltre ritenuto di dover dare una serie di riconoscimenti particolari a quanti hanno lodevolmente partecipato al concorso. E così il premio speciale “Simpatia” offerto dall’Associazione “Coordinamento Adriatico” va a Gaia Paljuh (classe V, SEI “Bernardo Benussi”, Sezione Periferica di Valle – Sezione del doposcuola, insegnante Alessandra Civitico), Giovanni Battista Uggeri Michelini (classe IV, SEI “Bernardo Benussi” di Rovigno, insegnante Romana Lordanić), Leo Bogdanović Vlah (classe VII, SEI “Bernardo Benussi” di Rovigno, insegnante Ambretta Medelin), Kim Vižintin (classe IX, SE “Dante Alighieri” di Isola, insegnanti Pia Ernestini – Paolo Pozzi). Il premio speciale offerto dal Centro di Documentazione Multimediale della Cultura Giuliana, Istriana, Fiumana e Dalmata spetta a: Marika Rovina (classe III, SEI “Edmondo De Amicis”, Sezione Periferica di Verteneglio, insegnante Fiorenza Lakošeljac), Marko Drandić (classe IVa, SEI “Giuseppina Martinuzzi” di Pola, insegnante Loredana Franjul), Chiara Anić (classe IV, SEI “Galileo Galilei” di Umago, insegnante Maura Miloš), Erika Bernardis (classe V, SEI “Galileo Galilei” di Umago, insegnante Elisa Piuca), Sky Spahić (classe V, SEI “Giuseppina Martinuzzi” di Pola, insegnante Ingrid Ukmar Lakoseljac), Alex Auber (classe V, Comunità degli Italiani Crevatini, insegnante Maria Pia Casagrande), Elizaveta Chernova (classe VI, SE “Belvedere” di Fiume, insegnante Roberto Nacinovich), Marco Cetina (classe VI, Scuola Elementare Dignano – Sezione italiana, insegnante Manuela Verk), Leila Mujanović (classe VII, SEI “Dante Alighieri” di Isola, insegnanti Pia Ernestini e Paolo Pozzi), Alex Zigante (classe III, Ginnasio “Antonio Sema” Portorose-Pirano, insegnante Dora Manzo), Sara Rahmonaj (classe IV, SMSI “Dante Alighieri” di Pola, insegnante Annamaria Lizzul) e i gruppi “Bilòto” (classe I – Enea Topani, Alex Flego, Leo Božić Sparagna, Gordana Denić; classe II – Jessica Štokovac, Martina Biloslavo, Tomas Fermo, Teo Sumić Sega; classe III – Paola Sertić, Martina Matijašić, Dominik Savić; classe IV – Carlos Šepić, Melissa Boccali, Antonia Pertić, Paolo Biloslavo, Iris Kljajić della SEI “Edmondo De Amicis”, Sezione Periferica di Momiano, insegnanti Marino Dussich e Morena Disiot Dussich), “Allomaar” (Irene Hrelja, Pietro Leonardelli, Noemi Matošević, Erik Šimunović, classe II, SEI “Giuseppina Martinuzzi”, Sezione Periferica di Gallesano, insegnante Ida Šarić), “Le trottole” (classe III – Staša Galvani, classe IV – Liam Cernaz, Rebeka Fischer, Timotej Glavina, Noemi Momtrone Poberaj, Cristian Ponis, Emili Pucer della SEI “Pier Paolo Vergerio il Vecchio” di Capodistria, insegnante Nicoletta Casagrande) “Jelk” (Enia Jurišević, Kevin Cadenaro, Jovana Podunavac, Lorena Vorfi, classe IV della SEI di Cittanova, insegnante Paolo Lodovico Damuggia), “Shoes boys” (Matteo Duniš, Daniel Veznaver, classe VI, SEI “Vincenzo e Diego de Castro”, Sezione di Sicciole, insegnante Lara Sorgo), “Leonardo da Vinci” (Antun Eržen, Stjepan Eržen, classe VII, SE “Gelsi” di Fiume, insegnante Ksenija Benvin Medanić).
Il premio speciale offerto dall’Associazione dei Dalmati Italiani nel Mondo è stato attribito a Ivana Pepđonović (classe IX b, SE “Srbija” di Antivari, insegnante Jadranka Ostojić), Petra Radulović (classe IX 2, SE “Njegoš” di Cattaro, insegnante Tatjana Stijepović), Nikola Petrović (classe IX 3, SE “Njegoš” di Cattaro, insegnante Tatjana Stijepović), Ksenija Racković (classe IX, SE “Narodni heroj Savo Ilić” di Cattaro, insegnante Tatjana Daković), Matija Sindik (classe IX 2, SE “Drago Milović” di Teodo, insegnante Milena Radović), Nadja Samardzić (classe I - 2, Ginnasio di Cattaro, insegnante Aleksandra Vuksanović), Jelena Ljubojević (classe I, Scuola Media Superiore “Mladost” di Teodo, insegnante Tamara Božinović), Sanja Matković (classe II, SMS “Mladost” di Teodo, insegnante Tamara Božinović) e Miljan Krivokapić – Luka Baltić (classe II - 1, Ginnasio di Cattaro, insegnante Slavica Stupić).
I “titolari” dei premi di parecipazione, offerti dall’Associazione dei Dalmati Italiani nel Mondo, sono Dražen Bošnjak e Ivan Novaković (entrambi della classe II elementare, Centro di Ricerche Culturali Dalmate di Spalato, insegnante Mara Agostini), mentre il premio “Simpatia” dedicato ai piccolissimi, tutti allievi della prima classe, va a: Erika Vižintin ed Elian Conti (SEI “Galileo Galilei”, Sezione Periferica di Bassania, insegnante Loretta Giraldi Penco), quindi a Filip Tromba, Matej Gršković e Korina Višković (tutti della SEI, “Giuseppina Martinuzzi”, Sezione Periferica di Sissano, insegnante Barbara Brussich Markulinčić), al gruppo formato da Anna Mesaroš, Francesco Lakošeljac, Nicola Paljuh, Samuel Vekić, Thomas Vežnaver, Lara Villanovich, Gabriel Tolj, Rafael Sinožić (SEI “Galileo Galilei” di Umago, insegnante Svjetlana Pernić Ćetojević) e Barbara Župa, Marko Molk e Rina Bojanić della scuola materna/Centro di Ricerche Culturali Dalmate di Spalato (insegnante Mara Agostini).
Tre le tracce per ogni categoria, tra i titoli proposti rileviamo “I nostri veci ne conta”, “Dalla finestra della mia camera vedo...”, “Ho ritrovato un giocattolo di quando ero piccolo piccolo e...”, “La gita scolastica che ti ha insegnato di più”, “Forse, chissà, dicono… Ufo, marziani, folletti, Yeti e quant’altro”, “Ho letto un libro che ha lasciato un profondo segno in me”, e poi riflessioni su alcuni versi di Umberto Saba, sulle news da mettere in prima pagina e sul campione sportivo preferito tra i nostri grandi, come Abbà, Andretti, Benvenuti, de Manincor, Pamich, Straulino, Cernogoraz.
Barbara Rosi
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259 - L'Arena di Pola 18/05/13 Pola, esuli e rimasti di ieri, di oggi e di domani
Pola, esuli e rimasti di ieri, di oggi e di domani

L’interessante articolo che segue, scritto dal dott. Claudio Deghenghi papà della giornalista Daria Deghenghi che ci è stata vicina, dalle pagine della “Voce del Popolo”, in occasione dei nostri due precedenti Raduni “polesani” e di alcune celebrazioni per le Vittime di Vergarolla giunge veramente “a puntino” alla fine del mio mandato di Direttore. Esso è una risposta ai miei tanti inviti alla “ricucitura”, rivolti ai “corpi separati” della nostra originaria comunità polese, proponendo, in particolare, a noi esuli “una confessione sulla tragedia dell’esodo” come egli stesso l’ha definita sottoponendola alla nostra attenzione nell’ottica di chi scelse di rimanere. Lo fa in maniera assolutamente sincera, onesta e senza reticenze. La nostra “Arena” non aveva mai pubblicato un articolo simile e, pertanto, questo scritto sopperisce ad una lacuna che non ha più ragione di esistere. Qualcosa di quanto vi è scritto potrà anche dare fastidio e non tutto risulterà per noi condivisibile ma il suo è indubbiamente il modo corretto di “mettere le carte in tavola” per avviare un confronto ed un dialogo che si vuole risulti costruttivo. Personalmente l’ho molto apprezzato perché viene da una figura non dirigenziale; un particolare, questo, che ritengo oltremodo significativo, convinto come sono che i cambiamenti veri e duraturi sono quelli che scaturiscono dalla volontà della gente comune e non quelli imposti dai vertici politici ed istituzionali.
Nel mio articolo di commiato ho parlato della mia scelta di “coltivare il seme del ritorno”; ebbene, considero questo articolo come uno dei primi “frutti” da riporre nel mio paniere dei raccolti.

***
Cari polesani italiani, esuli e rimasti, non vi pare che abbiamo esagerato un po’ ad aspettare che passassero ben 64 anni da quel lontano 1947, allorché ci siamo divisi e sparpagliati per il mondo, per organizzare un nostro primo incontro ufficiale di massa nella nostra città natale? E non vi pare perciò che sia il caso di fare finalmente i conti apertamente fra di noi, da veri fratelli e sorelle, senza alcun danno per la nostra comunità polesana, conti per tutto ciò che ci differenzia, anche ideologicamente, e che ancora ci divide e separa? “Sì, sì, era ora!” – viene da dire. E allora procediamo.

Era di giugno del 2011, esattamente due anni fa, allorché i rimasti e gli esuli di Pola si incontrarono ufficialmente per la prima volta collettivamente dopo il 1947 nella loro città natale. Fu merito riconosciuto da tutti alle dirigenze delle loro rispettive comunità. Il Salone degli spettacoli e delle feste della Comunità degli Italiani in via Carrara 1 a Pola fu letteralmente gremito degli uni e degli altri, come sempre a folla compatta. Forse 400 persone, comprese tutte quelle in piedi. E quando il presidente della Comunità degli Italiani, sig. Fabrizio Radin, alla fine del suo discorso di indirizzo di saluto agli esuli presenti in sala disse: “Bentornati a casa!”, nel Salone delle feste si levò un sospiro di sollievo generale, i più sensibili degli uni e degli altri, la stragrande maggioranza, rimasero profondamente scossi, dai loro occhi discesero liberatorie le lagrime salutari della gioia comune, mentre i più refrattari o schivi o eccessivamente duri furono anch’essi rimescolati per aver scoperto inaspettatamente un mondo comune che pareva scomparso per sempre, e di cui neanche sospettavano la possibile rinascita.

Esuli e rimasti, dunque, si sono ritrovati fratelli e sorelle in un mondo che potevano ancora riconquistare insieme, benché solo in un futuro prossimo e speriamo anche lontano. Nei giorni seguenti, poi, ulteriori fatti e avvenimenti vissuti insieme trasformarono questo incontro tra polesani vicini e lontani in un vero e proprio evento della storia della città di Pola del XXI secolo. Per festeggiarlo e ricordarlo degnamente questo evento nel tempo è proprio il caso di suggerire ai polesani tutti di intervenire ufficialmente, anche privatamente, presso l’Assemblea cittadina di Pola affinché quest’ultima e la sua amministrazione comunale concedano, e quindi concedessero nel tempo avvenire, la cittadinanza onoraria della Città di Pola a tutti gli esuli polesani e ai loro discendenti diretti, figli nipoti e pronipoti, in modo che il loro sentirsi a casa sia non soltanto momentaneo e virtuale, ma reale ed effettivo, e quindi costante e continuo. Così realizzeremmo sia i nostri principi di umanismo e di comunitarismo nuovi, sia uno sviluppo ulteriore del turismo dall’Italia e oltre in Istria.
Da oggi in poi, dunque, siamo in trepidante attesa di consigli, di suggerimenti e di proposte nuove da ogni parte del mondo per ricomporre le comunità italiche pacifiche operose e democratiche dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, come già fu nei secoli passati.
Nel frattempo continueremo a considerare separatamente in questa e altre sedi, in modo autentico e affatto nuovo, il cammino percorso dagli esuli e dai rimasti stessi durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Ma ora alle seguenti nuove condizioni generali: 1) il riconoscimento totale e incondizionato delle vicende umane individuali e collettive degli uni e degli altri, comprese le ideologie politiche che hanno concorso a determinarle – fascismo e comunismo, irredentismo e patriottismo, religione cattolica e religione civile atea, ecc. ecc. – che gli individui, accettandole e lottando per esse ideologie onestamente da esseri umani, non potevano intuire fino in fondo nel tempo e sapere il bene e il male che stavano facendo e hanno fatto (tranne i crimini contro l’umanità che non si perdonano mai), soprattutto se vi erano costretti dai regimi politici o dalle stesse condizioni generali dei tempi; 2) i tempi duri che viviamo ai giorni nostri, colossale crisi finanziaria e spaventosa depressione economica che colpiscono soprattutto le giovani generazioni di tutto il mondo occidentale, anche nostre, ma non solo, ci obbligano a ricercare nuovamente le connessioni reali e i nessi logici esatti tra passato, presente e futuro in una nuova visione organica della realtà, una nuova loro sintesi tra cronaca e storia ancora una volta per un nuovo mondo a misura d’uomo, per una vita nuova per tutti, come già fu all’epoca dell’illuminismo e della Rivoluzione Francese del 1789, all’epoca della Prima Internazionale e della Comune di Parigi del 1871, all’epoca della Prima guerra mondiale e della Rivoluzione d’Ottobre in Russia del 1917, e infine all’epoca della Grande depressione economica del 1929, della Seconda guerra mondiale e della Resistenza Europea contro il nazifascismo del 1939/1945, allorché i padri costituenti di tutt’Europa scrissero le loro nuove costituzioni per i paesi democratici sorti dopo la vittoria europea finale, anche se non definitiva, sul nazifascismo germanico, italiano, sloveno, croato, serbo ed europeo.

E allora, che significa l’affermazione “fare i conti fra di noi”? Probabilmente mettere in mostra, in rassegna le condotte degli uni e degli altri negli stessi frangenti storici, ma anche in situazioni diverse e uniche, da esuli e da rimasti, al fine di sollecitare pubblicamente comuni giudizi di valore sulle responsabilità comuni, come sulle responsabilità solo dell’una o solo dell’altra parte in causa. E responsabilità in relazione a che cosa? Prima di tutto rispetto alla Città di Pola e alla sua cittadinanza, certamente, eppoi senz’altro rispetto alla nostra italianità e all’italianità del territorio, ma anche rispetto ai nostri discendenti, diamine. E qui incominciano le dolenti note che interessano e coinvolgono città e territorio, cittadinanza e popolazione esule e rimasta fin dal lontano 1945 in poi, la crisi ultima del 1947 e l’esodo, e tutte le tragedie individuali e collettive vissute da tutti noi fino ai nostri giorni sia in Istria a Fiume e in Dalmazia che in giro per il mondo, a cominciare dall’Italia matrigna. Questa nostra prima parte delle nostre confessioni si fermerà proprio al 1947, all’esodo. E qui di colpe ne abbiamo avute molte proprio tutti, o meglio tutte le generazioni adulte del tempo, sia di quelli destinati a diventare esuli, sia di quelli destinati a essere chiamati “i rimasti”. La colpa comune principale di tutti i nostri avi, futuri esuli e rimasti, è stata comunque quella di aver accettato e alimentato fortemente lo scontro feroce e aperto tra il nazionalismo jugoslavo e il nazionalismo italiano, e di essersi così divisi sul fronte politico e umano (cosa che si continua a fare ancora oggi), invece di salvare l’unità della cittadinanza mediante l’uso, allora, dell’unico possibile strumento comune, assolutamente neutro, del plebiscito, e quindi quello della pace sociale generale. Qualcuno della parte italiana pro Italia ha sposato proprio questa miracolosa soluzione del plebiscito già allora – il grande e compianto concittadino polesano prof. Guido Miglia con la sua “Arena di Pola” – ma il Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947 consegnava alla Jugoslavia immediatamente anche Pola. E l’esodo era già in atto.

Ora, di tutte quelle generazioni degli avi nostri del 1947, in parte responsabili dei drammi da noi vissuti nel XX secolo, sono rimasti in vita solo poche persone a noi care, che ora appartengono tutte al rango sociale dei “bisnonni”. Noi, i “nonni” di oggi, all’epoca dell’esodo eravamo o bambini o al massimo adolescenti, per cui sulla questione dell’esodo, sì o no, nessuno ci ha mai detto o chiesto alcunché, e non solo su questa questione, bensì su nessun’altra questione al mondo, come solitamente i genitori hanno sempre stupidamente fatto e probabilmente continuano a fare anche ai giorni nostri. Comunque sono ormai pochi i bisnonni ancora in vita che noi potremmo intervistare per sentire da loro in persona cosa ne pensano della questione delle responsabilità storiche dei nostri drammi, per cui spetta proprio a noi, ai nonni, già ottuagenari o giù di lì, di farne le veci e di parlare in loro nome. Ed io, che quest’anno compierò proprio 80 anni, parlerò in questa sede riferendomi principalmente ai “rimasti”. Io vissi a Pola ben 55 anni da rimasto, e altri 25 a Torino da esule, per cui ritengo di avere certamente i titoli per tentare la via della moderazione e della conciliazione, onde disacerbare gli spiriti dei polesani esuli e rimasti in vista della ricomposizione della nostra comunità polesana degli anni avvenire, semmai avverrà.

I miei genitori, che oggi sarebbero bisnonni se fossero ancora in vita, e noi figli con essi, eravamo allora esseri umani che occupavano l’ultimo gradino della scala sociale degli uomini, notoriamente fissata in base alla proprietà del patrimonio famigliare, alle cariche pubbliche occupate dai genitori in società, e insomma al loro benessere generale e alla loro condizione sociale di cittadini. La loro generazione era quella della classe operaia del tempo, classe di lavoratori dipendenti nullatenenti, o al massimo di piccoli artigiani e di lavoratori in proprio di minimo cabotaggio. Queste famiglie erano doppiamente numerose: come moltitudine e per il numero dei figli. I miei genitori, per esempio, ebbero 16 figli, di cui 6 morirono in tenera età a causa di malattie infantili allora incurabili. Per cui al momento in cui hanno dovuto decidere se partire o restare (1947) essi avevano 10 figli da sfamare e crescere sani. Solo il più vecchio era maggiorenne, lavorava come apprendista fornaio, ed era tornato dal bosco dove fece il partigiano nelle file del Battaglione italiano “Pino Budicin” per liberare il paese e l’Europa dal nazifascismo. Insomma, per evitare ai figli e a se stessi tutte le miserie, le disgrazie, le sciagure, le umiliazioni e i dolori dell’esilio, i miei genitori (bisnonni) decisero di rimanere. Se poi aggiungete il fatto che in seguito alla partenza in massa degli italiani da Pola la nostra famiglia poté abbandonare l’umile e infimo appartamento di un casamento fuori città (le gloriose “baracche”) per un grande e lussuoso appartamento vuoto in un palazzo qualsiasi in centro città, dove finalmente i genitori e i figli non dormivano più insieme stretti come sardine tutti in una sola stanza, bensì ora in quattro spaziose ariose luminose e comode stanze divise per di più tra maschi e femmine; beh, allora capirete che rimanere per noi significava migliorare già decisamente le condizioni generali della nostra esistenza, mentre andare alla cieca in giro per il mondo a quelle condizioni era da pazzi da legare.

Ovviamente per noi le cose dello spirito nazionale contavano meno di quelle materiali locali. Anzi, erano proprio le cose materiali tutte che informavano, prima di tutto il resto, lo spirito intero degli appartenenti alla nostra classe operaia. E questo fu del resto pure il destino di una grande parte degli appartenenti proprio alla stessa classe lavoratrice di nullatenenti rimasta in città, e non solo italiana. Le famiglie polesane proprietarie di alloggi o di case o di casette con o senza orto o giardino, invece, hanno dovuto soffrire tutte le pene dell’inferno prima di poter decidere se partire o restare. La stragrande maggioranza tra loro trovò il coraggio di abbandonare tutto e di partire (e dire che sono ancora vergognosamente in attesa di un congruo indennizzo è dir poco), mentre un’altra parte chissà quanto consistente di questa stessa classe lavoratrice dipendente, ma più testarda e con i piedi per terra, rimase ad affrontare il destino comune dei rimasti, costi quel che costi. Naturalmente, la classe media, quella dei liberi professionisti, degli insegnanti, dei medici, degli impiegati di banca e di quelli statali, dei piccoli dirigenti, come quella altolocata degli imprenditori, dei commercianti, dei banchieri, degli amministratori delle municipalizzate e della città, ecc. ecc., acculturate fino agli studi universitari o al minimo fino agli studi medio superiori, detentori cioè di visioni del mondo sufficientemente ampie e più o meno radicate nell’essere della loro stessa classe sociale, se ne andarono quasi tutti.

Invece, quelli che di queste classi sociali medie ed alte rimasero in città furono quasi tutti intellettuali organici, rivoluzionari veri e propri, socialisti o comunisti, dei quali molti di essi nelle scuole elementari e medie inferiori e superiori educarono la mia e le successive generazioni dei rimasti ai valori universali ed eterni dell’umanità autentica, che allora noi idealmente chiamavamo marxismo, e impropriamente o comunismo o socialismo, comunque valori autentici che in molti di noi albergano ancora, ora forse un po’ più timidamente e debolmente, ma che costituiscono ancora il sistema filosofico, economico, politico e sociale quale fondamento della nostra stessa identità attuale e della coscienza sociale e di classe sociale che ci mantengono in vita, di cui perciò non potremmo più farne assolutamente a meno.

Per tutte queste ragioni noi nonni siamo grati ai nostri genitori bisnonni di essere rimasti, poiché abbiamo avuto l’opportunità, comunque, di diventare uomini nel vero e nel pieno senso del termine, capaci e decisi a difendere, pur nelle avverse condizioni del nazionalismo jugoslavo, la nostra identità italica e l’italianità del nostro territorio, anche se ristretto ai ghetti da noi abitati; eppoi perché abbiamo avuto pure l’opportunità di tramandare in qualche modo ai nostri discendenti naturali quella stessa nostra italianità personale, collettiva e territoriale, con orgoglio e con la nostra stessa dignità di esseri umani. Ora su questa nostra presenza precaria a Pola in Istria a Fiume e in Dalmazia e su questi sentimenti nostri ognuno dal suo punto di vista può anche dare a posteriori tutti i giudizi di valore che vuole, più o meno veri, forti, fondati, autentici o affatto miseri. Essi comunque non si possono annullare o negare in toto, poiché sono il risultato di una condizione umana e sociale particolare e specifica e di una vita consumata e difesa con i denti, che è quella della Comunità Nazionale Italiana dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, almeno finché l’ultimo di noi e dei nostri discendenti saranno ancora in vita. Ma le generazioni dei nostri figli e nipoti, esuli e rimasti, diano perciò pure loro come i loro padri e nonni un loro giudizio sul proprio destino. Vedremo così se tutto questo nostro discorso ha comunque un senso, e quale senso.

A questo punto del racconto e della storia del confine orientale italiano entro la storia europea (1947) si può dunque incominciare a fare un primo bilancio iniziale delle responsabilità storiche, ora per i soli fatti dell’esodo avvenuti fino a questo momento storico di questo maledetto 1947. Come sempre accadde e accade nella storia del genere umano, non sono giammai i popoli ma i loro governanti statali a causare disordine, guerre, catastrofi generali per tutte le ragioni di questo mondo, e noi a seguirli e a produrre fatti e misfatti, convinti di essere sempre dalla parte dei giusti, mentre la storia beffarda ci considera popolo bue. Così pure nelle regioni del confine orientale italiano furono proprio i governi jugoslavo e italiano a determinare principalmente sul territorio il corso tragico degli avvenimenti, cioè l’esodo. Anzi tutti e due i governi hanno categoricamente e testardamente rifiutato di riconoscere alle genti del nostro confine orientale il diritto di esprimersi in prima persona sulle patrie contestate mediante un semplice e normale plebiscito.

I perdenti avrebbero riconosciuto la sconfitta, ma i vittoriosi non sarebbero stati condannati fino all’eternità a figurare come conquistatori e usurpatori di territori e di beni altrui, come accadde e accade ancora agli slavi, e la pace fra italiani e slavi sarebbe stata una realtà, ieri oggi e anche domani, mentre oggi è ancora solo un sogno da realizzare. Ma la responsabilità prima e massima, comunque, ricadde e ricade ancora sul governo jugoslavo del Maresciallo Tito. Tito, Kardelj e Gilas idearono e realizzarono insieme già a partire da Zara (1944) e da Trieste (1945), e quindi in tutta l’Istria a Fiume e in Dalmazia (1943/1947) come a Pola (1945/1947) un mostruoso, crudele, feroce e orribile terrorismo di stato, di lagrime e di sangue, di cui le foibe sono solo una parte, comunque perfido, strisciante e assolutamente segreto, al fine di costringere la componente italiana della popolazione regionale a lasciare volontariamente il territorio conteso, cosa che è puntualmente avvenuta proprio come secondo i piani jugoslavi. Questo fu più tardi per noi, rimasti, comunque ignari del tutto non dei fatti in quanto tali, ma delle responsabilità alte di essi, un clamoroso e sempre tardivo a sapersi alto tradimento degli ideali del comunismo mondiale e dell’internazionalismo proletario da parte degli stessi massimi dirigenti del risorgimento e della rivoluzione comunista jugoslava.

L’ulteriore misera responsabilità storica del governo italiano, poi, dei politici italiani poco seri e dei mass media nazionali italiani fu comunque l’aver fatto esattamente il gioco del nazionalismo jugoslavo: essi hanno cioè stupidamente esortato i polesani a lasciare in massa la loro città natale senza pensare affatto alle disastrose conseguenze di una cosiffatta condotta collettiva per il territorio abbandonato, per gli stessi esuli, per gli italiani rimasti, come per la futura pace tra i popoli italiano e jugoslavi. Le ragioni di questa storica posizione nazionale italiana fallimentare, ormai, non contano più. Infine, la responsabilità effettiva degli esodati fu l’aver seguito ed eseguito tristemente e loro malgrado i suggerimenti, i consigli e la volontà dei governanti, dei politici e dei giornalisti più influenti della sola destra italiana (perché la sinistra era su posizioni favorevoli alla Jugoslavia, discutibilissime anch’esse) a lasciare senz’altro la città natale.

C’è però pure una responsabilità storica gravissima che pesa sui rimasti, o meglio sulla parte politicamente più esposta in favore della soluzione jugoslava della questione confinaria: quella di aver accettato, condiviso e realizzato parte del terrorismo di stato messo in atto contro gli stessi italiani giuliani, fiumani e dalmati su tutto il territorio del confine orientale italiano, e quindi anche a Pola. Noi, nonni, da adolescenti e da giovani li abbiamo visti operare e conosciuti di persona questi miseri, riprovevoli e indegni rivoluzionari sedicenti comunisti che anteponevano ipotetici interessi di classe sociale e interessi personali di facile carriera in società ai loro stessi interessi nazionali, il comunismo al patriottismo, invece di coniugarli sempre insieme a favore di tutte le genti del proprio territorio e del mondo intero. Di questi miserabili poi la storia stessa se ne fece beffa piena e affatto inconsolabile per tutta l’eternità, poiché essi alla fine sono rimasti e senza comunismo e senza patria, morendo nella doppia solitudine dell’universo, quella umana e quella italiana. Alcuni di essi infatti morirono suicidi, nonostante avessero fatto gran carriera locale vita natural durante.

Il risultato finale di tutta questa immane tragedia istriana, fiumana e dalmata furono la separazione finale e l’isolamento quasi totale nello spazio e nel tempo tra esuli e rimasti polesani anche a causa della Cortina di ferro elevata subito dopo tra l’Occidente liberista e l’Oriente comunista che si trasformò ben presto in guerra fredda e calda tra i due mondi nuovamente divisi, contrapposti e nemici. Fu proprio questa reciproca lontananza nello spazio e nel tempo a generare una profonda e del tutto normale differenziazione fra le rispettive generazioni degli esuli e dei rimasti rispetto alle loro rispettive vicende di vita come alle loro rispettive mentalità, differenziazione che a sua volta generò e genera ancora reciproca profondissima incomprensione che ancora dura e continua a dividerci. E tutti insieme continuiamo così a pagare il fio di una colpa che proprio in questo caso non è più solo nostra, ma anche del mondo intero e dei tempi barbari in cui viviamo.

C’è però la possibilità di intravedere per tutti noi una consolazione comune importantissima: che soltanto mediante visite reciproche più frequenti tra esuli e rimasti, e solo intensificando i reciproci rapporti sociali tra di essi fino a farli diventare quasi quotidiani potremo trasformare il detto popolare “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” nel suo felice opposto affatto nuovo “vicino agli occhi, vicino al cuore”. Tanto più che l’entrata della Croazia nell’Unione europea aprirà certamente per noi tutti delle prospettive e scenari finora davvero inattesi e insperati, cioè di un mare Adriatico che ridiventa europeo nel pieno significato del termine, come nei secoli passati, con le due sponde, orientale e occidentale, che ridiventeranno meta transitoria ma anche fissa di uomini e donne liberi di spostarsi chi di qua e chi di la, per cui c’è da poter sperare veramente e vivamente che la comunità italiana della sponda orientale adriatica e quella croata della sponda occidentale adriatica rivivranno giorni e anni più felici per tutti, esuli e rimasti inclusi.

Claudio Deghenghi

 

260 – La Voce del Popolo 28/05/13 Via l'onorificenza a Tito
Via l’onorificenza a Tito
ROMA | L’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia ha presentato istanza al presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano, al presidente del Consiglio, Enrico Letta, e all’Ufficio Cerimoniale del Quirinale per la revoca dell’onorificenza a suo tempo concessa al maresciallo Tito, allora presidente della Jugoslavia. Nell’istanza, sottoscritta da Antonio Ballarin in qualità di presidente pro-tempore dell’ANVGD si ricorda che il 2 ottobre 1969, l’allora presidente della Repubblica italiana, Giuseppe Saragat, conferì al maresciallo Tito l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Onorificenza massima (decorazione di 1a classe ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 2001, n. 173 pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 113 del 17 maggio 2001) del più alto fra gli ordini al merito della Repubblica Italiana.
Evidentemente, si rileva nell’istanza, il conferimento di tale onorificenza va valutato “contestualizzandola al tempo nella quale è stata conferita. Un momento dove l’indagine storica non aveva ancora portato alla luce, in tutta la loro oggigiorno indiscutibile gravità, i crimini di cui si era macchiato Tito. Un errore, figlio di quel tempo, che oggi può essere cancellato dal provvedimento di ritiro che, con la presente istanza, viene richiesto in nome di tutte le vittime delle imperdonabili atrocità commesse sulla base delle direttive politiche impartite personalmente dal Cavaliere di Gran Croce Tito”.
La richiesta di revoca dell’onorifenza, secondo Ballarin, non può essere ostacolata dalla circostanza della intervenuta morte del maresciallo Tito. Pertanto il presidente dell’ANVGD esprime l’auspicio che i vertici dello Stato vogliano accogliere l’istanza, revocando con apposito provvedimento l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana conferita a Tito.

 

261 – Il Giornale 31/05/13 Il Pdl sfida la Serracchiani: revochi la medaglia a Tito
Il Pdl sfida la Serracchiani: revochi la medaglia a Tito
Il guanto della sfida l'ha ricevuto sulla sua scrivania, firmato Pdl. «La Regione Friuli Venezia Giulia si faccia parte attiva presso il capo dello Stato per sollecitare la revoca dell'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al merito della Repubblica conferita a Tito». Cosa farà adesso Debora Serracchiani (nella foto), da poche settimane governatore? Ad agitare l'ombra del dittatore jugoslavo che sterminò gli italiani di Venezia Giulia, Quarnaro e Dalmazia quando quei territori furono invasi il 1 maggio 1945 è stato il vicepresidente azzurro in Consiglio regionale, Rodolfo Ziberna: «Tito è responsabile di quel genocidio chiamato foibe, quel riconoscimento è indecoroso».

 

262 - La Voce del Popolo 20/05/13 Ora il governo Letta instauri rapporti istituzionali con la CNI
Ora il governo Letta instauri rapporti istituzionali con la CNI
Ora che, dopo un inizio difficile, è stato finalmente avviato il nuovo governo italiano, è giunto il momento per chiedere che la squadra del premier Enrico Letta avvii anche i rapporti istituzionali con la Comunità nazionale italiana in Croazia e Slovenia. È quanto chiede l’Unione Italiana, per bocca del presidente della Giunta esecutiva Maurizio Tremul, incoraggiato anche dai proficui incontri avuti di recente a Lubiana, a margine della Conferenza dei Presidenti di Parlamento dell’Iniziativa Adriatico-Ionica, tenutasi non più di una settimana fa presso a Brdo presso Kranj.
In quest’occasione, su iniziativa dell’ambasciatore italiano nella capitale slovena, Rossella Franchini Sherifis, i rappresentanti dell’UI hanno avuto dei colloqui con il vicepresidente della Camera dei deputati del Parlamento italiano, Luigi Di Maio, e con Valeria Galardini, capo della Delegazione parlamentare italiana alle Associazioni internazionali. Ritornato a Roma, Di Maio ne ha riferito alla presidente Laura Boldrini, segnalando tra l’altro la richiesta del presidente Tremul di far incontrare una rappresentanza UI con i presidenti delle Commissioni Esteri, Cultura e politiche dell’Unione europea della Camera.
L’UI si ritiene, dunque, soddisfatta per gli esiti degli scambi molto construttivi, concreti, avuti con Di Maio – è la prima volta, del resto, che conosce ufficialmente un esponente del Movimento 5 Stelle – e con i componenti la delegazione parlamentare italiana, presso la residenza dell’ambasciatore Franchini Sherifis, come emerge dall’informazione discussa in sede di Giunta esecutiva dell’UI, venerdì scorso a Visignano. Ne ha riferito il segretario generale dell’Ufficio dell’Assemblea e della Giunta esecutiva dell’UI, Christiana Babić, presente all’appuntamento insieme con Tremul, l’ambasciatore, Di Maio, Galardini, ma anche il ministro degli Sloveni all’estero nel Governo della Repubblica di Slovenia, la connazionale Tina Komel.
Nel corso dell’incontro, Tremul ha illustrato a Maio la realtà della Comunità nazionale italiana residente in Croazia e Slovenia, soffermandosi in particolare sulla rete istituzionale e associativa, della quale fanno parte le Comunità degli Italiani operanti sul territorio, le scuole e gli asili in lingua italiana, le realtà mediatiche e di ricerca (Casa editrice EDIT di Fiume, RTV Capodistria, Centro di Ricerche Storiche di Rovigno), nonché il Dramma Italiano. Tremul ha sottolineato che la CNI rappresenta un’eccellenza sul territorio e che da lunghi decenni contribuisce e dà forma alle attività realizzate dalla minoranza italiana in Croazia e Slovenia.
Il vicepresidente Di Maio ha definito la CNI “una realtà molto interessante, che si presenta con numeri importanti e che è molto attiva sul territorio” e si è compiaciuto per il fatto di aver avuto la possibilità di conoscerla direttamente. Christiana Babić ha sottolineato che l’iniziativa per questo incontro è stata dell’ambasciatore Franchini Sherifis, che anche in quest’occasione ha dimostrato una straordinaria sensibilità nei confronti della CNI e la volontà di metterla in contatto con le istituzioni italiane, come pure di coinvolgere lo Stato sloveno e la minoranza slovena in Italia (nella medesima sede ci sono stati contatti con la senatrice Tamara Blažina e Livio Semolič, dell’Skgz-Unione culturale economica slovena).
Mandolinistiche per la Croazia nell’UE
Per la prima volta dopo tanti anni, anzi decenni, si esibiranno insieme in un grande concerto le tre orchestre mandolinistiche che operano nell’ambito delle Comunità degli Italiani di Capodistria, Pola e Fiume. Un evento speciale per un’occasione eccezionale: l’ingresso della Croazia nell’Unione europea. L’iniziativa è stata appovata dalla Giunta esecutiva, che ha deciso di sostenerla finanziariamente. Sarà, dunque, un’altra manifestazione, che coinvolgerà la CNI nelle celebrazioni di questo importante passo che attende il Paese il 1.mo luglio.
È stata la Comunità degli Italiani “Santorio Santorio” di Capodistria a farsi portavoce da un’idea che nasce dalla richiesta congiunta delle tre sezioni mandolinistiche operanti presso i sodalizi capodistriano, fiumano e polese, che hanno pensato “di suggellare con un evento di carattere culturale altamente simbolico il superamento nell’ottica della comune Casa Europea del confine croato-sloveno, che per decenni ha di fatto costituito una reale limitazione nel rapporto di collaborazione tra le Comunità degli Italiani nel loro territorio di insediamento storico in Croazia e Slovenia”, come rilevato da Mario Steffè. La data proposta per l’esecuzione del concerto – che si realizzerà con il finanziamento dell’UI e del Consiglio per le Minoranze nazionali della Repubblica di Croazia – è domenica 30 giugno 2013 (o in alternativa sabato 29 giugno), in una località immediatamente a ridosso del confine tra i due stati (la Sala della Casa di cultura di Umago o in alternativa il Teatro di Buie).
Borse di studio
Assegnate le due borse di studio post laurea previste per l’anno accademico 2012/2013, elargite dall’Unione Italiana nell’ambito della collaborazione con l’Università Popolare di Trieste, e precisamente a Marieta Di Gallo di Kutina (per il perfezionamento alla Facoltà di Scienze motorie e Sportive dell’Università di Zagabria) e Lea Lozančić di Umago (per il master specialistico presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Ateneo zagabrese). È stata approvata la conversione da vincolata a libera per quanto riguarda la borsa di studio data a Francesca Bulian di Fiume, in quanto il corso in Scienze geologiche da lei iscritto presso l’Università di Bologna non soddisfa il vincolo per la materia Geografia richiesto dalla Scuola elementare “Belvedere”.
Il titolare del Settore Organizzazione, Sviluppo e Quadri, Daniele Suman, ha precisato che l’alto punteggio ottenuto dalla candidata al bando per borse vincolate (960 punti) in nessun modo potrebbe danneggiare alcun candidato per le borse libere. È stata inoltre nominata la Commissione per il conferimento dei riconoscimenti del Premio “Antonio Pellizzer” per gli educatori e i docenti delle istituzioni prescolari e scolastiche della Comunità nazionale italiana. Ne fanno parte, in qualità di membri, il consulente pedagogico superiore per la Lingua italiana dell’Agenzia per la formazione della Repubblica di Croazia, Maria Bradanović, e il preside della Scuola elementare “Dante Alighieri” di Isola, Simona Angelini, nonché, per funzione, il titolare del Settore Educazione e Istruzione, Norma Zani, in qualità di presidente della Commissione. Il conferimento dei riconoscimenti verrà effettuato, come da tradizione, nell’ambito della cerimonia solenne della premiazione del concorso “Istria Nobilissima” 2013.
Visignano, sede funzionale e luminosa
La 40.esima riunione della Giunta esecutiva è stata l’occasione per presentare ai vari rappresentanti dell’UI e alla stampa la nuova sede della Comunità degli Italiani di Visignano, all’entrata della località. Il presidente del sodalizio, Erminio Frleta, ha fatto gli onori di casa, illustrando i vari vani e le attività che vi si svolgeranno. I lavori sono stati portati a termine da poco, realizzati dalla ditta “Vladimir Gortan”, mentre il progetto è dell’URBIS 72 di Pola. Manca ancora davvero poco che il tutto sia completato (nel frattempo è giunta una parte degli arredi e delle attrezzature) per procedere con la cerimonia solenne dell’inaugurazione, probabilmente verso la fine di giugno.
Sarà, dunque, il terzo taglio del nastro simbolico, che avrà luogo nel giro di poche settimane, per quanto riguarda la vita e l’attività di una Comunità degli Italiani. Agli inizi del mese è stato infatti inaugurato il palazzo ristrutturato di Cherso, il 25 sarà la volta di Orsera e il mese prossimo festeggeranno i visignanesi. La questione della “casa” dei connazionali di questo paese dell’Istria occidentale si era dilungata negli anni, erano state fatte diverse ipotesi, come quella dell’acquisto di un palazzo storico, operazione piuttosto onerosa. Alla fine si è optato per la costruzione di un nuovo edificio e nell’autunno 2011, per il tramite di UI e UPT, il ministero degli Affari esteri italiano ha assicurato per l’intervento un finanziamento di 600 mila euro. Il Comune ha ceduto in possesso, per un periodo di 99 anni, l’area su cui erigere lo stabile. Ne è scaturita una sede spaziosa, in cui domina il color bianco e la luminosità, con ampie vetrate e interessanti giochi di luci, funzionale, fatta su misura per le esigenze della CI. Ospiterà, è stato anticipato, la prossima seduta dell’Assemblea UI.
Ilaria Rocchi

 

263 – L’Arena di Pola 24/05/13 Lavoro di squadra
Lavoro di squadra

Mi sono spesso chiesto in quest’ultimo decennio come si possa definire il nostro impegno. In questi ultimi anni si ricorre spesso alla locuzione “lavoro di squadra” per descrivere e caratterizzare l’azione ed il comportamento di gruppi organizzati di persone destinate a svolgere una particolare attività o investiti di una qualche mansione. E’ quello che, più o meno consciamente, abbiamo fatto per oltre un decennio – in particolare, nell’ultimo quadriennio di mia presidenza – nella nostra Associazione.

Nella prima riunione del neo eletto Consiglio Comunale (Torino il 24 maggio 2009), era stata ribadita all’unanimità la volontà di continuare la linea programmatica seguita dal precedente Consiglio. Facemmo, così, le prime importanti scelte e ci demmo degli obbiettivi come il riavvicinamento alle Comunità Italiane presenti in Istria e nella nostra città natale, il rilancio del nostro Giornale, il rendere più partecipata ed ufficiale la commemorazione delle vittime di Vergarolla, il pellegrinaggio sulle foibe… che originalmente sembravano ambiziosi e di difficile realizzazione. Impostatili, li abbiamo affrontati con decisione ed oggi, con soddisfazione, possiamo affermare di averli in buona misura centrati. Questi i temi più importanti affrontati nel corso della nostra attività, ma ce ne sono stati anche degli altri e di tutti, con gli incisivi editoriali del nostro Direttore e con le precise relazioni di Paolo Radivo, vi è stata data puntuale e dettagliata informazione sulle pagine della nostra “Arena”.

In verità il mio impegno, a difesa dell’identità nazionale della nostra terra natale, è di gran lunga più datato; direi che, in un modo o nell’altro, l’ho sempre assicurato sin dai tempi della mia giovinezza. Già a Pola, infatti, da ragazzo, collaborando con gli studenti più anziani, mi ero dato da fare nella diffusione dei manifestini pro Italia nel periodo titino; poi a Milano, nei tempi del Liceo, vendendo in classe l’“Arena di Pola” e venendo perciò simpaticamente battezzato dai miei compagni “il nostro irredentista”. Seguì poi un lungo intervallo dedicato alla mia famiglia e ai miei impegni professionali, ma anche in quei frangenti non ho mai dimenticando le mie origini, il nostro mare e la nostra Città. Ho portato i miei figli a conoscerli; ho insegnato loro a nuotare al “Bianco”, in Val Ovina e a Stoia; li ho portati a vedere dove io stesso avevo imparato a nuotare, in val Maggiore, sotto Punta Cristo, in un piccolo canale tra due piastroni. Che emozione ritrovare quel posto, lungo alcuni metri e largo non più di 30 cm, dove, entrandovi da bambino, l’acqua mi arrivava al mento e, da adulto, a mala pena mi bagnava le ginocchia! Hanno imparato ad amarli ed ancora attualmente mi accompagnano volentieri, insieme ai miei nipoti, a bordeggiare in barca a vela lungo le coste istriane e dalmate.

Anche professionalmente la mia vita mi ha portato ad impegnarmi nella mia terra d’origine. È successo negli anni ’67-’68, allorché da Chairman del Comitato per l’ammissione di società nazionali nella Società Internazionale per la Protezione dalle Radiazioni - IRPA, favorii l’adesione dell’allora Jugoslavia al sodalizio e poi, nell’85, allorché a Pola, presso l’Hotel “Brioni”, presiedetti il primo Congresso Italo-Jugoslavo di radioprotezione. Nell’occasione, i colleghi jugoslavi si meravigliarono che io fossi nato a Pola ed io scoprii che loro non sapevano nulla sul nostro esodo; fu così che per la prima volta feci una dettagliata “conferenza”, in inglese, sul come si giunse all’esodo e sul perché delle nostre scelte; naturalmente dovetti fare loro anche da guida turistica nella nostra Città. Fu un’ottima occasione di dialogo e con alcuni di essi instaurai un ottimo rapporto di collaborazione scientifica ed amicizia che dura tuttora.
Al mio ultimo impegno sono approdato – dopo oltre 30 anni di attività nell’ambito delle nostre Associazioni, prima come consigliere, poi come vicepresidente e presidente del Comitato Provinciale dell’ANVGD di Varese – nella seconda metà degli anni ’90, coinvolto dall’allora compianto sindaco Nando Gissi nella gestione e nelle iniziative del Libero Comune di Pola in Esilio. Il resto è storia recente e Voi tutti la conoscete per averla vissuta insieme a me.
Che cosa mi ha dato questa esperienza? Non è facile fare un consuntivo di un’intera vita vissuta in simbiosi con le Associazioni degli Esuli e, forse, non lo voglio nemmeno fare perché, così mi piace pensarlo, di questo mondo mi sento di fare ancora parte attiva. Di certo, importantissimi sono stati i rapporti umani instaurati con tante persone. Molti di coloro che ho incontrati negli ambienti degli esuli istriani, giuliani e dalmati sono diventati amici miei e della mia famiglia, frequentati anche al di fuori delle nostre attività associative. Molti, purtroppo, ci hanno prematuramente lasciato, ma di tutti, collaboratori, amici, conoscenti, conservo un ricordo, affettuoso e riconoscente, dei tanti momenti trascorsi insieme discutendo, qualche volta anche animatamente, dei nostri tanti problemi, degli ideali che ci hanno ispirato e che ancora ci animano, dei possibili programmi (ahinoi, non sempre realizzabili) da attuare. Tutti hanno contribuito ad arricchire ed a dare un senso alla mia vita.

L’argomento che più di altri mi ha impegnato e ha dato un senso positivo al mio mandato è certamente lo sviluppo dei rapporti e alla collaborazione con varie organizzazioni delle Comunità degli Italiani locali, in ciò aiutato dal consenso e dall’appoggio delle Autorità diplomatiche italiane di Fiume e Zagabria. Per la prima volta il Console Generale d’Italia a Fiume ci ha accompagnato in quello che può essere considerato il risultato più interessante e di maggior risonanza del quadriennio, l’omaggio alle vittime degli opposti estremismi, organizzato in collaborazione con l’Unione Italiana lo scorso anno e inserito anche nel programma 2013. La presenza ufficiale del Console Generale d’Italia al pellegrinaggio alla Foiba di Terli e la presenza costante dei rappresentanti della nostra Diplomazia in Croazia alle altre manifestazioni organizzate dalla nostra Associazione nel corso dell’anno deve essere considerato come un passo importante verso l’obbiettivo che da tempo ci siamo posti, ovvero l’individuazione delle foibe e delle povere vittime che ancora vi giacciono. Anche la giornata di Studio in memoria del prof. Mirabella Roberti ha destato molto interesse, e ci sta portando ad un altro importante risultato: la pubblicazione degli Atti, in versione bilingue, sarà fatta in collaborazione con il Museo archeologico di Pola, con il quale si è instaurato un ottimo rapporto, dal quale ci aspettiamo ulteriori positivi riscontri in un prossimo futuro. Oggi molte altre Associazioni di Esuli intendono seguire il nostro esempio, ci sono vicine e sostengono le nostre scelte. Abbiamo aperto con successo una strada che sembrava impervia, ai prossimi Consigli il compito di consolidarla e renderla sempre più percorribile.
Tra pochi giorni avrà termine il mio mandato quadriennale; è stato un periodo bello e ricco di soddisfazioni, condiviso con tutti i membri del Consiglio Comunale. Come detto all’inizio, siamo stati una bella squadra ed il merito è di tutti. In particolare, desidero ringraziare di cuore e con affetto: il Direttore Silvio Mazzaroli, senza il cui aiuto ed esperienza non avrei potuto affrontare convenientemente le varie attività gestionali, quelle legate alla realizzazione dei progetti culturali ed i contatti con l’Unione Italiana e le Autorità locali; Paolo Radivo, oltre che per il suo faticoso impegno giornalistico, per la Sua costante e importante collaborazione storico-scientifica, molto apprezzata anche fuori dal nostro stretto ambito, cito, non a caso, il suo splendido lavoro con il Ministero dell’Istruzione; la Famiglia Palermo, Graziella per la preziosa e attenta gestione economica, Salvatore per la tenuta a giorno dell’anagrafe dei soci, ed entrambi per il loro preziosissimo impegno nell’organizzare i nostri Raduni. Se anche quest’ultimo, e non ne dubito, sarà un successo, gran parte del merito sarà loro. E ancora un grazie a Maria Rita Cosliani per come è riuscita a mettere in esercizio il nostro sito web e per la cura assidua che dedica al suo quotidiano aggiornamento; a Lucio Sidari per la sua costante attenzione ai vari problemi che giornalmente si presentano, per aver rappresentato il LCPE in tante occasioni e per il suo impegno nella diffusione della nostra storia; a Piero Tarticchio per la sua collaborazione all’“Arena di Pola” ed i suoi molteplici interventi per il Giorno del Ricordo. Grazie anche a Lucia Bellaspiga per la continua attenzione che presta agli eventi che ci riguardano e per i suoi articoli sul quotidiano “Avvenire” che ci danno un’importantissima visibilità a livello nazionale, ed a Roberto Giorgini per quanto riesce a fare per l’“Ultima Mularia”, alla quale mi onoro di appartenere.

Direi, per concludere, che con la nostra azione qualche traguardo l’abbiamo raggiunto e che abbiamo messe la basi per il conseguimento di altri da parte del nuovo Consiglio, sperabilmente con piena soddisfazione di tutti i soci. Io sarò sempre a disposizione del Consiglio e del LCPE per qualsiasi supporto e sostegno finalizzato a realizzare particolari progetti.

Siamo ormai alle porte del nostro 57° Raduno per il quale abbiamo cercato di mettere a punto un programma articolato e, a nostro parere, interessante; spero, pertanto, di vederVi numerosi a Pola e rivolgo a tutti l’invito a far conoscere la nostra città a qualche giovane nipote o famiglia di amici.

Tanti cordiali saluti a tutti, arrivederci

Argeo Benco
Sindaco del Libero Comune di Pola in Esilio

 

264 – L’Arena di Pola 18/05/13 Anche per me è giunto il momento di passare la mano
Anche per me è giunto il momento di passare la mano
Carissimi lettori,
in data 7 marzo 2013 ho ricevuto la lettera che segue.
"L’Ultima Mularia de Pola" chiede, con fiducia e speranza, al suo insostituibile Direttore del giornale "L’Arena di Pola" di continuare nel suo incarico che è diventato un percorso, sì difficile, ma infinitamente importante dove egli ha saputo accogliere e fare suo il significato di una frase: "NON AVERE PAURA DI AVERE CORAGGIO"; il coraggio di ascoltare, di capire, di confrontarsi, di rispettare e farsi rispettare, di difenderci e di volere ciò che ci è dovuto.
E noi, la Mularia, crediamo e condividiamo l’importanza di questa affermazione e perciò vogliamo seguire questo percorso guidati dal coraggio e dalla perseveranza di quel "muleto polesan" che, malgrado tutto, tanti anni fa ha saputo realizzare il suo sogno di frequentare l’Accademia Militare di Modena per diventare un Soldato e poi un Alpino. Anche il nostro è un sogno, un sogno "polesan" che con il coraggio e la fede diventerà realtà.
Già riuscire a realizzare i nostri incontri annuali nella nostra Città, poter cantare il "Va pensiero" tutti assieme con i nostri fratelli rimasti, nel nostro Duomo, e soprattutto riuscire a non sentirci TURISTI ma figli di quella terra, di quelle pietre, di quel mare… tutto ciò non è un sogno realizzato? Non è una vittoria? E veder sventolare il Tricolore su alcuni edifici non è un segnale incoraggiante?
Sì, Direttore, il percorso del coraggio è faticoso, spesso deludente, ma cosa le dice il cuore se, durante una gita scolastica a Pola, una ragazza di 15 anni, trovandosi in Piazza Foro e guardandosi intorno, meravigliata, esclama: «Ma qui non siamo in Piazza S. Marco; non siamo a Schönbrunn, qui siamo a Roma!»… e poco più in là, in via Sergia, un "muleto" del posto che vende gelati chiede in dialetto "polesan" ad una signora: «Ghe dago anche un cuciarin?».
Caro Direttore, Lei ci ha insegnato a lottare e credere in questa realtà: che in futuro i nostri figli, nipoti e pronipoti, camminando per la nostra Città, sentano parlare il nostro dialetto, leggano i nomi delle vie anche in italiano, salutino con commozione il nostro Tricolore sul Municipio.
È per questo che le chiediamo di restare con noi.
Con stima ed affetto
"L’Ultima Mularia de Pola" (seguono 87 firme)


L’ho tenuta in bella evidenza e la utilizzo ora perché mi offre non pochi spunti per questo mio intervento di commiato da tutti Voi. In primo luogo essa rappresenta una delle più belle soddisfazioni che i 10 lunghi e coinvolgenti anni passati alla direzione dell’"Arena di Pola", che includono altresì i 6 alla guida del LCPE in qualità di Sindaco, mi hanno riservato. Un grazie di cuore, quindi, a chi l’ha promossa ed a quanti l’hanno sottoscritta. Il motivo "aggiunto" per cui ve ne rendo partecipi è che il suo contenuto fa ben capire, a scanso di eventuali malevole interpretazioni, che la mia decisione di "passare la mano", di cui tanti – non tutti – erano al corrente da ben più di un anno (ancorché avessi sempre detto che avrei onorato sino in fondo il mio mandato in scadenza il prossimo giugno), non è dovuta al fatto che mi sia sentito in qualche modo delegittimato, per qualche critica piovutami addosso nell’adempimento dell’incarico di Direttore bensì unicamente a stanchezza, ad una certa caduta d’entusiasmo (senza il quale so di non lavorare bene) per il prolungarsi dell’impegno ed al non voler essere troppo "invasivo", e quindi condizionante, con il mio personale modo di pensare ed agire.
Credo risulti evidente che quest’ultima ragione ha a che fare con quanto caratterizza più di ogni altra cosa l’attuale impegno della nostra Associazione, ovvero la "ricucitura" tra esuli e residenti, da me patrocinato ed avviato in tempi relativamente recenti e che qualcuno, non condividendolo in toto od in parte, ha interpretato come una discutibile ed insensata "virata" da parte mia. Le cose non stanno così! La "ricucitura" era nelle mie intenzioni sin da quando sono stato eletto Sindaco (vedasi "Arena" di luglio 2002) e l’autorizzazione ad operare in tal senso, concessami dall’Assemblea generale che aveva determinato la mia nomina, era stata da me posta come pregiudiziale per l’accettazione dell’incarico; dunque, nessuna virata, nessun "tradimento" ma solo coerenza e continuità d’intenti. Un modo di vedere le cose, il mio, in larga misura indottomi dalle passate esperienze professionali nella ex Jugoslavia prima ed in Kosovo poi – in contesti ambientali e politici non molto dissimili da quelli che hanno visto il dipanarsi delle nostre vicende – che mi hanno fatto toccare con mano con quanta facilità la gente comune viene strumentalizzata dalla propaganda ideologica e dagli sporchi giochi della politica diventando, suo malgrado, allo stesso tempo artefice e vittima di immani tragedie. È un qualcosa che dovrebbe indurre tutti a mettere da parte criminalizzazioni preconcette ed a cercare, invece, di capire e superare le divisioni del passato. Ci sarebbe, pertanto, caso mai da chiedersi perché abbia aspettato tanto per impegnarmi in tal senso con la forza e determinazione di questi ultimi anni. La risposta è semplice: prima, ancorché convinto che fosse giusto ed opportuno farlo, i tempi non mi sembravano maturi.
Tuttavia, non ho difficoltà a comprendere le ragioni di chi ancora dissente da questo intendimento; mi è sempre stato, però, di conforto e sprone nel mio agire il saperlo condiviso dall’intero Consiglio e da tanti Soci di cui l’"Ultima mularia" – cui fa capo circa il 10% degli iscritti – rappresenta la componente più partecipe della nostra vita associativa, oltreché essere forse oggi la più qualificata, per quanto vissuto in passato e per la capacità di interpretare e vivere il presente, ad esprimere un giudizio in merito. Pertanto, nel ringraziare il Sindaco Argeo Benco e gli attuali Consiglieri per avermi sostenuto nel corso di quest’ultimo quadriennio, auspico che l’attuale indirizzo sia mantenuto anche da quanti subentreranno all’attuale Direttivo, nella speranza che il sogno di tutti – il poter tornare nei propri luoghi d’origine – possa un domani trasformarsi in una piacevole realtà per tanti o, quantomeno, per quanti vorranno e sapranno trarne godimento. Un grazie particolare all’"Ultima mularia" anche per avermi accolto, ancorché "picio" al loro confronto, nella loro ristretta ed affiatata comunità.
Quella suddetta non è stata, comunque, la sola soddisfazione; un’altra, anch’essa assai appagante, me l’ha data l’essere stato capace, ancorché assolutamente a digiuno di esperienze giornalistiche, di mantenere viva e vitale la nostra "Arena". Di questo il merito non è stato certamente solo mio bensì di tutti coloro che, chi più chi meno, vi hanno collaborato a partire da Piero Tarticchio (da cui l’ho ricevuta in "eredità" e che spero vorrà tornare ad essere presente con l’intensità di una volta) con le sue pagine artistico-culturali, per finire a Paolo Radivo, con i suoi approfondimenti storici, i precisi e puntuali rendiconti, le copiose e sempre interessanti note informative e d’attualità, le recensioni, ecc.. A lui, che ringrazio per essere sempre stato con convinzione e coraggio al mio fianco mettendoci in ogni occasione la faccia, riconosco anche un altro grandissimo merito: l’aver dato al nostro giornale, soprattutto per via informatica, un’ampia diffusione al di fuori del nostro tradizionale bacino d’utenza, inviandolo a politici, giornalisti, studiosi, letterati ed amici più o meno occasionali, divenuti poi fedeli lettori, e che sempre più numerosi ci hanno manifestato apprezzamento per il nostro lavoro. È stato così possibile sopperire al calo, per insopprimibili ragioni anagrafiche, dei soci/lettori e rendere il nostro mensile un efficace strumento di diffusione delle nostre tematiche e, soprattutto, di trasmissione del nostro sentire. L’abbiamo fatto grazie anche a Maria Rita Cosliani che ha messo il giornale "in rete" senza costi aggiuntivi e questo, in un momento di crisi, è un aspetto tutt’altro che trascurabile. Un grazie riconoscente anche ai tanti che, per ragioni di spazio, non ho citati.
Quanto precede mi autorizza a dire che "L’Arena", sempre al centro delle mie attenzioni, è una testata che riscuote non poco successo e che siano in particolare gli altri ad affermarlo è per quanti vi operano e vi collaborano motivo di orgoglio. Se le cose stanno così lo si deve soprattutto alle funzioni che oggi, come ieri, è capace di svolgere. Ma quali sono queste funzioni? Direi che quelle ordinarie, come per ogni giornale che si rispetti, sono quelle informativa, educativa, culturale e ricreativa che caratterizzano alcune sue pagine; quelle più specifiche riguardano invece la tutela, spesso ahinoi andata disattesa, dei nostri interessi e dei nostri diritti esercitata attraverso una critica puntuale, motivata ma "non urlata" perché improntata al buon senso ed alla buona educazione, nonché il fare "memoria", non disgiunto dalla ricerca e dall’affermazione della verità anche nel rispetto dell’altro.
Direi, però, che la sua funzione precipua è un’altra e per definirla mi rifaccio alle parole di uno dei suoi fondatori, Corrado Belci, che in un suo articolo, apparso sul giornale in data 10 novembre 1948, scrisse che "L’Arena" è «come un filo che unisce una comunità, infranta e frazionata»; un filo, aggiungo, di cui la nostra gente ha ancora estremo bisogno sia per continuare a sentirsi "comunità" sia per quella "ricucitura" di cui da tempo vado parlando e sulla quale si sono ormai "allineate" tutte le Associazioni della diaspora, con un’unica eccezione che non fa che confermare la validità del proposito. E c’è ancora un’altra funzione ed anche per questa ricorro al succitato Belci che, nel medesimo articolo, definisce il nostro giornale come «…il libro sul quale forse un tempo chi si interesserà della storia della nostra Terra andrà a leggere dov’è andata la nostra gente, quale lingua spirituale parlava, quali ne siano state le ultime tracce»; il libro, aggiungo, dove si andrà a leggere quanto grande è stato l’amore delle genti istriane per la propria Terra e quali sono stati i buoni propositi e gli aneliti che hanno animato gli esuli ̶ pochi ormai quelli di prima generazione ̶ ed i loro discendenti per «continuare l’opera di difesa dell’italianità delle nostre Terre per illuminare ancora quelli che ne sono all’oscuro». Anche quest’ultime in grassetto sono parole sue; a qualcuno potranno apparire retoriche, sono invece di grandissima attualità, conservano immutato il loro valore e non possono non sorprendere, a distanza di così tanti anni ed in una situazione profondamente diversa, per l’uniformità di linguaggio con quello che oggi anch’io vado ripetendo. Il bello è che queste parole mi erano del tutto sconosciute e che le ho lette solo in questi ultimi giorni in sede di rilettura della bozza dell’ultimo volume di "Pagine scelte" (quelle relative agli anni 1948-1960) dell’"Arena" di cui prossimamente Vi faremo omaggio. Forse, però, non c’è di che sorprendersi perché, probabilmente, è questo il modo di pensare e di agire che abbiamo un po’ tutti nel nostro DNA.
C’è, tuttavia, ancora un motivo per cui mi sento estremamente appagato per il lavoro, di Sindaco e Direttore, che mi ha completamente assorbito in questi ultimi 10 anni. Prima, lo confesso, oltre a sentirmi "orgogliosamente italiano" mi ero sentito, in particolare, "triestino". A Trieste, infatti, oltre ad esserci nato, erano legati tutti i miei ricordi di gioventù e quantunque me ne fossi allontanato a vent’anni essa ha sempre continuato a rappresentare per me quel che si dice "casa". Di Pola, pur essendoci vissuto grosso modo 15 mesi in tenerissima età prima dell’esodo, non conservavo che pochissimi ricordi, perlopiù indotti dai racconti sentiti in famiglia. Ebbene sì, non la conoscevo, come non conoscevo l’Istria; appartenevano entrambe ad un mondo che mi era estraneo, quasi inesistente perché scientemente cancellato, e nel quale, per ragioni professionali, ho messo piede per la prima volta solo nel 1989. Devo, pertanto, al suddetto impegno se ho "ritrovato" le mie origini e se oggi a chi mi chiede di dove sono rispondo con convinzione: «Son nato a Trieste ma son istrian».
Dopo le primissime visite, per ragioni di lavoro, il mio è stato un ritorno "dell’anima", fortemente voluto alla ricerca di un’identità perduta e che ho cercato di affrontare (mi rendo perfettamente conto che per altri possa riuscire assai più difficoltoso) senza pregiudizi alla scoperta di una realtà che ad ogni tornata sentivo sempre più mia; l’aria, i colori, gli odori, i sapori… il mare (dove, per inciso, piccolissimo ero stato "lasciato cadere" imparando d’istinto a nuotare) erano quelli "di casa", come mai lo erano stati i tanti luoghi frequentati in quarant’anni di vita professionale. Se ciò è potuto succedere è perché, evidentemente, c’era un legame subconscio ma anche perché, grazie alla frequente ospitalità offerta a mia moglie ed a me dagli amici Salvatore e Graziella nella loro bella casa di Valbandon, ho potuto vivere quella realtà direi quasi da "residente" e godere ̶ sì godere e nessuno se ne abbia a male ̶ di quel mondo dal di dentro, frequentando quotidianamente gente del luogo, connazionali e non, quasi sempre parlando nel nostro dialetto e solo in rare circostanze avvalendomi del poco serbo-croato imparato nel corso del mio soggiorno lavorativo a Belgrado. Sì, come accennato nell’iniziale lettera, non solo ho goduto delle tante "pietre" che in ogni dove parlano italiano ma anche della gente del posto che, in città come in campagna, essendomi rivolto a lei da "polesan", con educazione e rispetto, mi ha sempre corrisposto con cortesia e simpatia, inclusa l’anziana coppia (italiana lei, bosniaco lui) che oggi abita quella che è stata "casa mia". Ai coniugi Palermo, pertanto, non solo per la loro amicizia ed il fattivo aiuto datomi in tutti questi anni (di cui anche tantissimi altri hanno beneficiato), ma anche per questa preziosissima opportunità offertami, il ringraziamento più sentito e sincero. Auguro anche a tutti Voi di riuscire, se non da subito in un domani prossimo, a godere del Vostro ritorno nei luoghi d’origine. Il riuscirci è solo una questione di volontà!
Erano essenzialmente queste le cose che, accomiatandomi da Voi, sentivo di dovervi dire e mi accorgo di essermi preso più spazio di quanto sia solito fare; una cosa ancora ve la voglio però dire.
Tantissimo tempo fa J. F. Kennedy disse una frase che mi è sempre rimasta ben presente: «Non chiederti cosa il Paese ha fatto per te, chiediti piuttosto cosa puoi tu fare per il tuo Paese». Parafrasandola leggermente, mi sono frequentemente chiesto cosa di significativo ed importante potevo fare per la mia, per la nostra, gente, e la risposta che mi sono dato alla fine è stata "coltivare il seme del ritorno". E questo ho cercato di fare. Qualcosa, molto meno di quanto avrei voluto, ho anche raccolto ma, al momento, mi accontento di aver seminato, e sarò un domani, che spero non troppo lontano, felicissimo se saranno altri a raccogliere; vorrà dire che ho seminato bene. Di contro, sarò assai dispiaciuto se vedrò vanificato il mio impegno di tutti questi anni. A tale riguardo, rappresento che per fare qualcosa non è assolutamente necessario essere investito di una carica o svolgere uno specifico ruolo; è sufficiente avere delle idee, credere in qualcosa ed avere la volontà di darsi da fare per realizzarle. Personalmente continuerò a fare quanto sin qui ho fatto come semplice "socio attivo", collaborando se richiesto o agendo autonomamente per il raggiungimento degli scopi e degli obiettivi in cui credo come Italiano, come Istriano e come Polesano.
Lo potete fare anche Voi!
Un cordialissimo saluto a Tutti che non è un addio bensì un arrivederci.
Silvio Mazzaroli

 

265 - Difesa Adriatica Giugno 2013 - Intervista a Egidio Ivetic: L'Adriatico orientale, uno spazio di confine tra modelli di civiltà
L’Adriatico orientale, uno spazio di confine tra modelli di civiltà
Intervista a Egidio Ivetic*
Lei è nato a Pola ed in­segna Storia dell’Europa Orientale nell’Università di Padova. Ha al Suo atti­vo numerose pubblicazioni e saggi sull’Istria veneziana, sulla formazione degli Stati nell’area adriatica e balcani­ca e sul controverso Novecen­to nella Venezia Giulia. Da dove ha inizio, a Suo parere, la storia moderna di quei ter­ritori?
Nell’Adriatico orien­tale, nel caso dell’Istria e della Dalmazia, il Quattrocento rappresenta una fase di svolta rispetto ai secoli medievali. Venezia controllava quasi tutta la co­sta fino all’Albania; Venezia ha definito in modo indelebi­le il volto urbano del litorale. Le cittadine che ammiriamo e che sono così mediterranee nell’aspetto hanno svilup­pato questo volto nei secoli XV-XVIII. La storia moder­na dell’Adriatico orientale è soprattutto la storia del limes veneziano, e poi della repubblica di Ragusa, de­gli sbocchi marittimi degli Asburgo e di quelli ottomani (quest’ultimi coincidevano con l’Albania). Le dinamiche politiche riguardavano due vicinati tutt’altro che semplici: Venezia e gli Asburgo, che dal 1527-40 aggiunsero tra i propri domini la corona di Santo Stefano di Ungheria e Croazia, nonché Venezia e gli ottomani. L’Adriatico in generale e l’Adriatico orien­tale in particolare hanno co­stituito più che mai uno spa­zio di confine, di confluenza tra modelli di civiltà del Mediterraneo e d’Europa. In esso, alle linee divisorie, alla faglia tra Romania/Ita­lia e Slavia, tra confessioni e religioni si è sommato per secoli il confine “duro” tra i domini di Venezia e l’impero degli Asburgo e l’impero ot­tomano.
L’Istria moderna, una regione di confine si intitola un Suo volume del 2010 de­dicato al periodo 1500-1797: quanto e come «di confine» era l’Istria in quei secoli di gran lunga anteriori alla na­scita dei nazionalismi?
Si tende a dimenticare che Trieste e l’Istria interna, la contea di Pisino, furono parti della Confederazione germanica tra il 1815 e il 1866. Anche se c’erano po­chi tedeschi nella regione, questi territori rientravano nell’immaginario nazionale tedesco. Alla prima assem­blea nazionale tedesca di Francoforte, nel marzo del 1848, si tracciò la geogra­fia della nascente Germania e l’Istria vi era inclusa. Ciò era dovuto al lungo dominio degli Asburgo: dal 1376 al 1918. L’Istria moderna, nei secoli XV-XVIII, fu terra di confine, divisa tra Venezia e gli Asburgo. Al suo inter­no, in ogni suo luogo, c’era la divisione tra città o bor­go istro-veneto e contado in maggioranza slavo (eccetto nella fascia marittima), di­remmo oggi croato o slove­no. Sembra una situazione complessa; in verità, l’Istria veneta aveva un aspetto non dissimile da altre regioni ita­liane. L’unica connotazione differente: nel contado si in­contrava una lingua diversa rispetto alla città di riferi­mento.
La questione delle et­nie in Istria nei secoli XVI- XVIII, è un altro Suo saggio apparso nel 2009 nella col­lana degli Atti del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno: dunque la distinzione fra gruppi nazionali affonda le radici in secoli così remoti?
Non si può parlare di na­zioni o nazionalità prima del 1848-60. Questo vale per tutte le regioni d’Europa, non da meno per l’Istria. Il termine etnia è fuorviante; l’antropologia culturale ri­fugge da qualsiasi “etniciz- zazione”. Etnia è un termine subdolo, lo si usa spesso per sottointedere razza. La sto­riografia più aggiornata evi­ta i termini nazione ed etnia quando si riferisce all’Euro­pa precedente al 1800-1850. “La questione delle etnie in Istria” è un mio titolo provo­catorio. Ci sono almeno sei- sette decenni di tradizione storiografica europea, occi­dentale, che parla di ancien régime, come di un mondo con regole proprie, con con­cetti e visioni proprie, un mondo che era sparito gra­dualmente nel corso dell’Ot­tocento. Nell’età moderna meglio parlare di comunità, che potevano distinguersi per lingua e diversità d’iden­tificazione come gruppo. La società era frastagliata, non c’era l’omologazione nazio­nale. Questa dimensione frastagliata permetteva ad una regione mista in senso linguistico, istituzionale (co­muni e feudi) e sociale come l’Istria, una regione di confine, di non avere conflitti tra comunità diverse. Anche per­ché le relazioni tra le comu­nità diverse rientravano nella prassi abituale del rapporto città/campagna e la cultura, che era una cultura religio­sa, cattolica, post tridentina, incentrata sulla vita di par­rocchia e di confraternita, era trasversale alle comunità italofonone e slavofone.
Un Suo ulteriore studio ha avuto per oggetto cattolici e ortodossi nell’Adriatico ve­neziano: l’elemento religioso ha inciso significativamente nell’evoluzione storica e poli­tica dell’area?
Sì, io stesso avevo mini­mizzato inizialmente l’im­portanza dell’appartenenza religiosa come base per ul­teriori sviluppi, nel corso dell’Ottocento, in senso na­zionale. Nella Dalmazia set­tecentesca il contrasto tra il clero cattolico, guidato da vescovi per molti aspetti eccezionali come Vincenzo Zmajevich, e la popolazione ortodossa serba creò i pre­supposti per una forte divari­cazione tra comunità che par­lavano la stessa lingua, che avevano le medesime usanze, gli stessi modelli sociali. Il cattolicesimo divenne la base per la croatizzazione in senso nazionale dal 1860 in poi; lo stesso vale per l’ortodossia, che alimentò la serbizzazione già dal primo Ottocento. Il dualismo morlacchi/cittadini o isolani (boduli) dei secoli medievali e moderni lasciò il campo alle identificazioni in senso nazionale. Fu la spac­catura culturale della Dalma­zia.
Oltre all’Istria, Lei ha dedicato molti saggi alla Dal­mazia: quali le più significa­tive differenze storiche tra le due entità territoriali?
L’Istria fu ed è una terra di confine tra il Mediterraneo e l’Europa centrale. A lungo le due dimensioni sono state rappresentate da Venezia e dagli Asburgo, dall’Istria fon­data sui comuni e dall’Istria feudale, piuttosto germanica. Con in mezzo, trasversale, il dualismo linguistico. La Dalmazia è una straordina­ria regione del Mediterraneo, che riassume in sé molte con­notazioni di questo mare. In Dalmazia i confini furono tra civiltà, tra cristianesimo e islam, tra cattolici e orto­dossi. La compresenza e con­vivenza tra lingue diverse, tra il veneto lingua franca, l’ita­liano (il toscano) di Ragusa e lo schiavonesco di gran parte del popolo della costa o dei morlacchi delle montagne era qualcosa di scontato e co­munque secondario rispetto alla dimensione da limes vis­suta nei confronti del Turco confinante. Queste le conno­tazioni di fondo.
Quando poi arriviamo all’età delle nazioni, con la vita politica locale e le elezio­ni amministrative dal 1860 in poi, l’Istria si è divisa tra la parte nettamente italiana, cioè la costa settentrionale e occidentale, la parte croata, centro-orientale, una mini­ma parte slovena (il contado di Capodistria e il Carso), e una zona intermedia, mista linguisticamente, dove fu accanita la lotta politica per conquistare consensi e terre­no nazionale. La nazionaliz­zazione delle masse portò a una frattura infra-regionale. Una frattura che ebbe esiti drammatici dal 1918 in poi. In Dalmazia, verso il 1860, la popolazione italofona era invece una minoranza: circa 400 abitanti su un totale di oltre 400.000. Tuttavia, i ceti dirigenti dalmati, nel­la totalità, erano italofoni e italiani di cultura. Dal 1860 al 1880 si assiste alla divisio­ne in seno alle élites tra au­tonomisti e narodnjaci, poi tra italiani, croati e serbi. Un processo che ebbe vari moti­vi; le scelte nazionali non di rado seguirono l’opportuni­smo politico-amministrati­vo, per conservare privilegi. L’italianità che scaturì in sif­fatta Dalmazia fu un’italia­nità che visse se stessa come sotto assedio slavo. Questa percezione di minaccia e di contrapposizione verso l’al­tro si diffuse nell’Istria italia­na dopo il 1880. La storia di queste due regioni è diversa, ma gli esiti, per la compo­nente italiana, alla fine furo­no medesimi.
Lei ha partecipato in veste di relatore al secondo Semi­nario nazionale sul confine orientale promosso a Roma nel 2011 dal Miur e dalle associa­zioni giuliano-dalmate e, nel 2012 al Seminario regionale di formazione promosso dal Miur, dall’Ufficio Scolastico del Veneto, dall’Ufficio Sco­lastico territoriale di Padova e dall’ANVGD: in entrambe le occasioni ha incentrato i Suoi interventi sulla geografia qua­le lente per «leggere la storia»: non sembra che nei program­mi ministeriali per le scuole la geografia sia più da tempo una disciplina fondamentale...
Non è esagerato dire che la cultura nazionale italia­na (per non dire la nazione italiana) tutt’oggi manca di un senso geografico, di una percezione di se stessa nello spazio europeo, mediterra­neo e mondiale (o globale). Non essendoci una geografia non c’è la percezione dei confini, dei limiti d’Italia nel tempo, nella sua storia. Tutto questo penalizza gli italiani delle terre di confine, come sono l’Istria e la Dalmazia. Come spiegare la complessità della Dalmazia, che è anche italiana in senso culturale, a chi non conosce la geografia dell’Europa sud-orientale, non conosce le connotazioni di fondo del Mediterraneo, le geografie linguistiche, cultu­rali, confessionali.
Se poi compariamo le culture nazionali in seno all’Europa osserveremo che esse in maggioranza si fon­dano sull’autopercezione in relazione a qualcosa d’altro; questo altro sono i popoli vicini, le civiltà confinanti, le situazioni macroregiona­li (per esempio nei Balcani, nel Baltico) e l’Europa stessa. E poi c’è il rapporto con la memoria del passato, magari dell’impero, magari su scala globale (nel caso britannico, russo, spagnolo, francese) o quanto meno europea (nel caso tedesco). Nel caso italia­no, e basta leggere il magni­fico libro “La Grande Italia” di Emilio Gentile, si nota la mancanza di questo confron­to con il mondo non italiano; si osserva invece il ripiega­mento sulle proprie divisioni interne, regionali o ideologi­che, o di fazione, sull’eterno problema del fare o trasfor­mare gli italiani, soprattutto in senso etico. Non ci sono geografie, non c’è una rifles­sione sul chi si è in mezzo agli altri.
Non so se le cose cambieranno.
Per decenni l’Italia ha trascurato - per varie e com­plesse ragioni - la memoria dei suoi territori orientali, come fossero trascurabili ap­pendici periferiche. Un errore soltanto ideologico o sintomo anche di una colpevole igno­ranza storica?
Mi pare soprattutto una questione di identità nazio­nale. Si tende a dimenticare, perché non c’è un disegno ge­nerale, non c’è una visione di chi si è e dove si vuole andare. Tuttavia, c’è da dire che pure in Germania, fino ad anni recenti, si è rimosso il ricor­do del drammatico esodo dei tedeschi orientali: ben nove milioni di persone costrette a “rientrare” in una Germa­nia che non era la loro patria. Persone trattate con estrema freddezza dagli altri tedeschi. Di recente, anche nella letteratura si cerca di elabo­rare questo trauma. Si tratta sempre di trauma vissuto da chi ha dovuto pagare sulla propria pelle il costo delle ambizioni sbagliate di facili e improbabili nazionalismi, di nazismi e di fascismi. Le vittime dell’esodo sono la testimonianza diretta di una storia sbagliata, che si accan­tona quando si passa alla fase successiva, quando di deve ri­costruire da capo la nazione e lo Stato.
A 65 anni dall’esodo della popolazione italiana, avviato finalmente un nuovo percor­so di conoscenza grazie anche alla legge istitutiva del Gior­no del Ricordo, quale punto è arrivata oggi, a Suo avviso, la storiografia italiana sull’argomento?
In questi ultimi anni ci sono molti validissimi studi. Importante che se ne parli. Più che altro, che si accetti l’Istria e la Dalmazia come parti della storia italiana, senza perdere di vista, o mini­mizzare, la loro appartenenza ad altre storie nazionali. Si tratta di regioni-condominio, in cui confluiscono o si spec­chiano diverse vicende, tra cui pure quelle italiane. Nul­la di eccezionale nell’ambito europeo.
E dalla storiografia inter­nazionale giungono segnali di interesse?
La storiografia tedesca dà prova di grande capacità (ha grosse risorse) in fatto di
ricerche e di studi e contri­buisce a collocare le vicende adriatiche in una dimensione europea. L’autoreferenzialità che spesso accomuna la sto­riografia italiana non aiuta in tal senso. Credo che la storia dell’Adriatico orientale, data la sua complessità come luo­go dai molteplici confini, tro­verà una sua giusta colloca­zione tematica e narrativa in una futura storia e storiogra­fia sovranazionale europea.
Quale ricordo Lei imma­gina da qui a 50 anni?
Viviamo in un’epoca di estrema incertezza, per via della complessiva accellera- zione di dinamiche fonda­mentali per l’umanità, dina­miche senza precedenti nella storia. Difficile immaginare qualcosa. Amo il Mediterra­neo, per il suo essere e il suo passato. Spero ci sia ancora; magari con me che lo con­templo.
Patrizia C. Hansen
*Egidio Ivetic (Pola 1965), insegna Storia dell’Europa Orientale nella Facoltà di Let­tere e Filosofia nell’Universi­tà degli Studi di Padova dal 1999. Membro del Comitato di consulenza del Rettore per le relazioni internazionali. Referente rapporti con i Pa­esi di area balcanica e slava. Le sue ricerche riguardano la storia regionale di fron­tiera tra contesto adriatico/ mediterraneo ed Europa cen­trale e sud-orientale nel caso dell’Istria; l’Adriatico orien­tale/Balcani occidentali in quanto confine tra civiltà; i domini adriatici di Venezia; italianità e slavità dell’Adria­tico orientale tra età moderna e contemporanea; le guerre balcaniche del 1912-1913; le origini e lo sviluppo storico dell’idea jugoslava e dell’ide­ologia jugoslavista; l’identità nazionale croata.
Sin dal 1990 è impegnato nella promozione della ricer­ca storica presso la comunità degli italiani rimasti in Istria, Fiume e Dalmazia, di cui è membro attivo, ed è collabo­ratore scientifico del Centro di ricerche storiche di Rovi- gno dell’Unione Italiana. È stato coordinatore (Universi­tà di Padova) nelle reti acca­demiche europee Cliohnet e Cliohworld della Commis­sione Europea, Direttorato Generale all’Educazione e alla Cultura, rispettivamente Socrates Programme 2005­ ed European Erasmus Thematic Network 2008­2011.
È socio corrispondente della Deputazione di Storia Patria per le Venezie e della Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, e so­cio della Società italiana per la Storia dell’Età Moderna, dell’Associazione italiana stu­di di Storia dell’Europa cen­trale e orientale, della Società Dalmata di Storia patria, del­la Società Istriana di archeo­logia e Storia Patria.
Ha ottenuto il Premio Roberto Cessi 2002 della Deputazione di Storia Patria per le Venezie e il Premio An­tonio e Ildebrando Tacconi 2011 per la cultura latino- veneto-italica in Dalmazia dell’Istituto Veneto di Scien­ze, Lettere ed Arti, Venezia.
Ha pubblicato, tra l’al­tro: La popolazione dell’Istria nell’età moderna. Lineamenti evolutivi, Trieste - Rovigno, Centro di ricerche storiche, Rovigno, 1997; Oltremare. L’Istria nell’ultimo dominio veneto, Venezia, Istituto Ve­neto di Scienze, Lettere ed Arti, 2000; L’Istria. moder­na 1500-1797. Una regione confine, Sommacampagna 2010 (Verona), Cierre Edizioni,2; Jugoslavia sognata. Lo jugoslavismo delle origini, Milano, FrancoAngeli, 2012. Ha curato l’edizione critica di Niccolò Tommaseo, Iskrice, in N. Tommaseo, Scintille, a cura di Francesco Bruni, con la collaborazione di Egidio Ivetic. Di imminente uscita il suo nuovo saggio Adriati­co orientale. Terre di confine e limiti d’Italia (1300-1900), Viella Editore, Roma.

 

266 – La Voce del Popolo 31/05/13 Cultura - Nino Benvenuti, ricordi dell'Isola che non c'è più
Nino Benvenuti, ricordi dell’Isola che non c’è più
A 75 anni compiuti, l’istriano Nino Benvenuti, campione olimpico nel 1960, campione mondiale dei Pesi medi tra il 1967 e il 1970, uno dei migliori pugili italiani e uno tra gli atleti più amati dal pubblico italiano (oggi commentatore sportivo), si racconta in “L’Isola che non c’è”, libro appena pubblicato da Libreria Sportiva Eraclea (Roma), scritto a quattro mani con Mauro Grimaldi. È la storia più nascosta di Nino Benvenuti, che torna ai primi anni della sua vita, segnati dal dramma della guerra e dal triste destino del suo paese, Isola, da cui lui e la sua famiglia fuggirono incalzati dalle truppe di Tito.
“Molti sapevano – dice oggi Benvenuti – e non hanno fatto niente. Se non indignarsi quando ormai non serviva più”. La narrazione si ferma al giorno glorioso della conquista dell’oro olimpico, nel 1960 a Roma.
Giovanni Benvenuti detto Nino, nasce a Isola il 26 aprile 1938 (in un’autobiografia precisa che i suoi antenati sembra fossero provenuti da Caorle, paese nei pressi di Venezia basato allora sull’economia ittica). La sua la carriera pugilistica comincia a tredici anni, in una piccola palestra che frequentò per quattordici anni, spinto dalla passione che il suo stesso padre in gioventù aveva riversato in questo sport.
Poi l’esodo.
In un’intervista rilasciata a Désirée Ragazzi (“Secolo d’Italia”) lo scorso anno, Benvenuti aveva così rievocato quei i tormentati giorni: “Prima fu arrestato mio fratello, poi la mia famiglia fu cacciata da un giorno all’altro da casa. Sono stato fortunato perché mio padre lavorava a Trieste, affittò una stanza e ricominciò per tutti noi una nuova vita. Non fu però semplice...”.
Una ferita mai rimarginata: lui aveva all’epoca otto anni e gli è sempre rimasta dentro l’angoscia. Oltre a suo fratello Eliano, di sedici anni, liberato dopo sette mesi di duro carcere, anche altri suoi amici verranno presi dall’Ozna. “Ricordo i loro soprannomi: Mario Gobbo, Mimmo Arrigoni, Dino Ragno, Attilio Furia, Gino Dandri, Gino Tuboli. Furono tutti arrestati perché erano considerati dalla parte opposta. I titini pensavano che fossero fascisti, ma noi eravamo ‘solo’” italiani”.
Ricordi molto tristi, che hanno segnato in maniera indelebile anche la storia di Isola.
Ma non c’è rancore, nelle parole di Benvenuti “Il dramma delle foibe e l’esodo vanno ricordati, ma non con astio e rancore. Non dobbiamo ricordare quei drammatici giorni fomentando l’odio: le guerre sono sempre terribili, ma l’odio che possono generare è ancora più grave. Ricordare va bene, ma solo per evitare che in futuro non vengano più commessi gli stessi errori”.
Dopo l’esodo Nino Benvenuti è ritornato spesso in Istria, e continua a tornarci qua e là per portare i fiori sulla tomba dei suoi cari.
Ma quella che trova ormai è un’altra Isola, molto diversa da quella in cui era cresciuto da bambino ed erano vissuti i suoi antenati. Il titolo del libro, pertanto, rimanda al luogo immaginario di Peter Pan, nel quale solo i bambini possono accedervi, grazie alla loro immaginazione, ma anche a quello cantato da Edoardo Bennato, a un paese che chi ce l’ha dentro nel cuore non smette di cercarlo... Un’isola di pace, priva di volenza e odio: “E ti prendono in giro/se continui a cercarla/ma non darti per vinto perché/chi ci ha già rinunciato/e ti ride alle spalle/forse è ancora più pazzo di te”.
E Benvenuti, da campione di razza qual è sempre stato, non ha gettato la spugna: è salito sul ring della scrittura per vincere un altro match. (ir)

 

267 – La Voce del Popolo 29/05/13 Cultura - Esuli e rimasti insieme impegnati a costruire l'Europa adriatica
Esuli e rimasti insieme impegnati a costruire l’Europa adriatica
Un commovente ricordo del compianto Roberto Starec e un’occasione per riflettere su come riprendere un rapporto di collaborazione avviato quasi vent’anni fa dal Centro di Ricerche storiche di Rovigno e dall’Istituto regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata di Trieste, ma poi non sviluppato, non sfociato in ulteriori iniziative comuni. Si era cominciato con la coedizione di un volume (il “Dizionario storico fraseologico del dialetto di Capodistria” del 1995, di Giulio Manzini e Luciano Rocchi) e si riparte simbolicamente con un altro libro, o meglio con la copresentazione dell’opera postuma di un autore scomparso prematuramente nel maggio di un anno fa, che ha lavorato con e per conto di entrambi gli istituti.
Evento dai molteplici significati
Grande partecipazione di pubblico al Civico Museo della Civiltà istriana, fiumana e dalmata, per la corposa monografia “Pietra su pietra. L’architettura tradizionale in Istria” (n. 34 della Collana degli Atti del CRS, 2012), di Roberto Starec; in sala pure la vedova Silva e la figlioletta Flora, tanti amici e compagni di studi e di lavoro. “Lui sarebbe contento di vedere tanta gente qua per lui a pensarlo in questo momento”, ha detto la vedova, salutando l’iniziativa della pubblicazione di un DVD da parte dell’IRCI che darà modo a sua figlia di sentire la voce del padre.
A illustrare la pubblicazione a Trieste, a distanza di sei mesi dalla serata di promozione in Istria, a Pisino, sono stati il direttore del CRS, Giovanni Radossi, lo storico Rino Cigui e Gian Paolo Gri, antropologo e studioso di storia e cultura friulana. Alla presidente dell’IRCI, Chiara Vigini, il compito di aprire l’incontro.
Il suo intervento ha teso a rilevare la molteplice importanza della serata, intesa dagli organizzatori sia come un dovuto omaggio a Starec sia come un’occasione per riprendere e concretizzare il dialogo tra l’IRCI e il CRS e, più in generale, tra le associazioni degli esuli e quelle dei rimasti, al fine di (ri)creare un’unica famiglia. Soprattutto ora che, con il prossimo ingresso della Croazia nell’Unione europea, si sta per abbattere l’ultimo “muro” che ancora divide il territorio istriano.
Una colonna, uno studioso affidabile
Di Roberto Starec ha parlato come di una “colonna” sulla quale contava di appoggiarsi all’IRCI (ai cui vertici si è insediata circa un anno fa), di un amico e di uno studioso affidabile e sensibile, che si occupava delle testimonianze dell’Istria rurale, di quelle che all’apparenza sembrano “piccole cose”, ma che in effetti denotano una grande civiltà. E Starec lo aveva intuito e le aveva valorizzate.
Commosso, Piero Delbello, direttore dell’IRCI, amico di Starec, ha rievocato i trascorsi da studenti, l’essere stati allievi del professor Agri, la laurea nello stesso giorno (nel marzo ’98, sessione straordinaria dell’anno accademico ’86/’87), il contributo di Starec al lavoro dell’IRCI, fondamentale per la mostra sulla vita contadina allestita al Museo di via Torino... Il direttore dell’IRCI e vicepresidente dell’Università Popolare di Trieste ha accennato agli esordi della cooperazione IRCI-CRS, sempre supportata dall’UPT (in sala, tra il pubblico, pure il direttore generale Alessandro Rossit, e l’ex presidente dell’ente morale triestino, Luciano Lago), alla figura di Starec, che, in un certo senso ha fatto da trait d’union tra i due istituti.
“È impossibile pensare che non ci sia più, lui che è stato con noi fin dall’inizio”, ha concluso Delbello.
Giovanni Radossi si è soffermato sul valore di “Pietra su pietra”, saggio che ci regala il quadro di un’Istria in cui il patrimonio della cultura tradizionale, elaborato da generazioni di contadini, pescatori e artigiani nel corso di una vicenda secolare, è stato progressivamente intaccato e messo in crisi dalle trasformazioni socio-economiche prodotte dall’incalzare degli eventi politici che hanno trasformato il volto etnico e linguistico della regione. Esodo, modelli successivamente imposti, sviluppo tecnologico non sono tuttavia riusciti a cancellare l’eredità.
Tasselli di cultura italiana
“L’apporto culturale di questo volume può essere considerato marginale soltanto da un punto di vista geografico: esso è e rimane, invece, un aspetto specifico della più vasta cultura della nostra Nazione Madre. Noi siamo sempre più fortemente convinti che conoscere la nostra storia ci aiuti a meglio comprendere il mondo in cui operiamo e nel quale i nostri padri hanno affondato da epoche immemorabili le loro e le nostre radici”, ha concluso il direttore del Centro di Rovigno. Nel corso della serata Radossi ha parlato del suo “sogno” di creare due poli museali: uno a Rovigno, finalizzato alla diffusione in Istria delle conoscenze sull’esodo, l’altro a Trieste, con l’obiettivo di far capire all’Italia ciò che “noi siamo”.
Patrimonio da conservare e trasmettere
Rino Cigui, ricercatore del CRS, ha illustrato il volume di Starec, punto d’arrivo di un percorso iniziato negli anni Novanta. L’autore va a indagare quella che definisce “architettura tradizionale”, locuzione da lui preferita alle più riduttive “architettura rurale, contadina, spontanea, senza architetti, anonima, primitiva, popolare, vernacolare”. “Pietra su pietra” è il risultato di un lavoro sul campo durato una quindicina d’anni, “una ricognizione capillare del territorio istriano nel corso della quale Roberto Starec ha operato un vero e proprio censimento delle architetture tradizionali, comprendenti le case con gli elementi connessi, i rustici, fabbricati specifici come frantoi e mulini ad acqua, i ricoveri temporanei e le edicole devozionali”, ha spiegato Cigui. Il volume è corredato inoltre da un ricchissimo apparato iconografico, comprendente oltre 600 tra immagini, disegni e mappe catastali relative alle 298 località visitate dall’autore.
Gian Paolo Gri ha offerto invece una serie di commenti critici al volume, focalizzatosi su alcuni aspetti e questioni centrali. Il professore, che ha una profonda esperienza di ricerca etnografica, ha evidenziato la combinazione delle varie fonti e l’equilibrio adottato nell’impiego delle medesime, lo studio comparativo delle varie tradizioni presenti sul territorio, la ricerca di risposte (antropologiche) alla questione del rapporto fra tradizione e modernità.
“Ci vuole una politica coerente che assicuri più tutela e maggiore sostegno economico a interventi di qualità volti alla conservazione della tradizione”, ha detto Gri, sollecitando la trasmissione ai giovani dei nostri beni culturali immateriali e di quelli tangibili, di valori che ci derivano anche dalla conoscenza delle cosiddette tre A: abitazione, abbigliamento e alimentazione.
Occorre cambiare modo di agire
A proposito di nuove generazioni, Stelio Spadaro ha invitato a guardare al futuro: “Abbiamo una grossa responsabilità, come italiani di queste terre. Con l’ingresso della Croazia nell’Unione europea si apre un discorso che ci pone nuove sfide. Superando le divisioni del passato, ci dobbiamo porre come obiettivo la costruzione di un’Europa adriatica”.
Partendo dalla consapevolezza del loro ruolo fondamentale nella salvaguardia e conservazione del patrimonio di queste terre, Paolo Radivo ha invitato le associazioni degli esuli a impegnarsi su un fronte comune, mentre per Walter Macovaz, chiedendosi perché figli e nipoti “non ci seguano” sulle orme di questa grande tradizione e civiltà, ha concluso che sarebbe fondamentale cambiare “la nostra percezione e i nostri modi di agire”, arrivare nelle scuole, a tutti i ragazzi, a prescindere dalle loro origini, e non solo a quelli di “pura razza profuga”. Solo così avremo un domani.
Ilaria Rocchi

 

268 -Corriere della Sera 25/05/13 Palatucci, tutte le ombre sulla vita dello «Schindler italiano»
IL PRESUNTO EROE
Palatucci, tutte le ombre sulla vita dello «Schindler italiano»
Si dice abbia salvato oltre 5.000 ebrei in una regione dove non ve n’erano neanche la metà. Mito o truffa clamorosa?
Dal nostro corrispondente ALESSANDRA FARKAS
NEW YORK – La sua pagina su Wikipedia lo ricorda, in ben 10 lingue diverse, come «il commissario di pubblica sicurezza che salvò dalla deportazione migliaia di ebrei durante la Seconda guerra mondiale e fu per questo deportato egli stesso nel campo di concentramento di Dachau, dove morì». «Per le sue gesta, Giovanni Palatucci è Medaglia d'oro al merito civile, Giusto tra le nazioni per lo Yad Vashem (12 settembre 1990) e Servo di Dio per la Chiesa cattolica», precisa l’enciclopedia libera.
SCHINDLER ITALIANO O BUFALA? - Ma a dar retta al crescente coro di storici e ricercatori che da anni studiano il più celebrato tra i «giusti» italiani, il mito di Palatucci non sarebbe altro che una truffa clamorosa orchestrata da amici e parenti del presunto eroe che si dice abbia salvato oltre 5.000 ebrei in una regione dove non ve n’erano neanche la metà. L’ipotesi di un salvataggio di massa da parte di Palatucci era già stata categoricamente esclusa dal Ministero degli Interni in un memorandum del luglio 1952 e successivamente dalla commissione dell’Istituto dei Giusti di Yad Vashem nel 1990. In una tavola rotonda organizzata dal Centro Primo Levi alla Casa Italiana Zerilli Merimò di New York, l’ex direttore di Yad Vashem Mordecai Paldiel ha spiegato che sotto la sua supervisione, nel 1990 Palatucci fu riconosciuto «giusto fra le nazioni» per aver aiutato «una sola donna», Elena Aschkenasy, nel 1940, e che la commissione «non ha rinvenuto alcuna prova né testimonianza che avesse prestato assistenza al di là di questo caso».
PREMI, RICONOSCIMENTI E BIOGRAFIE - Eppure nel 1955 l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane gli conferisce una decorazione e nel 1995 lo Stato italiano la Medaglia d'oro al merito civile. Durante la cerimonia ecumenica Giubilare del 7 maggio 2000, papa Giovanni Paolo II lo annovera tra i martiri del XX Secolo. Nel 2004 si conclude la fase diocesana del processo di canonizzazione con la proclamazione a Servo di Dio dell’eroe morto a Dachau nel ’45, all’età di 35 anni. Ma chi ha condotto la ricerca storica sulla quale si sono basati questi riconoscimenti? Come nasce il mito del «Schindler italiano»? Le biografie ufficiali - di cui l’ultima, Giovanni Palatucci: un giusto e martire cristiano di Antonio De Simone e Michele Bianco con la prefazione del Cardinale Camillo Ruini - parlano di migliaia di ebrei da lui inviati nel campo di internamento di Campagna dove sarebbero stati protetti dal Vescovo Giuseppe Maria Palatucci, zio di Giovanni. Il famigerato campo che proprio il vescovo, nel 1953, definì un «luogo di villeggiatura». «Impossibile», replica Anna Pizzuti, curatrice del database degli ebrei stranieri internati in Italia (www.annapizzuti.it), «Quaranta in tutto sono i fiumani internati a Campagna. Un terzo del gruppo finì ad Auschwitz».
SOMMERSI E SALVATI - Le biografie ricordano poi gli 800 reduci ebrei che nel 1939 si sarebbero clandestinamente imbarcati sul battello greco Agia Zoni che salpò da Fiume il 17 marzo 1939 diretto in Palestina e sarebbe stato allestito personalmente dall’eroico commissario. Ma dal diario della guida del gruppo conservato a Yad Vashem e dai documenti della capitaneria di porto raccolti presso l’Archivio di Stato, si scopre che fu un’operazione dell’Agenzia Ebraica di Zurigo, avvenuta sotto lo stretto controllo dei superiori di Palatucci che non solo innescarono un penoso processo di estorsione ma fecero respingere al confine i più bisognosi dei rifugiati, gli apolidi e i fuoriusciti da Dachau.
DALLA REALTA’ AL MITO - Dagli archivi si scopre che Palatucci fu funzionario di pubblica sicurezza presso la Questura di Fiume dal 1937 al 1944, dove era addetto all’ufficio stranieri e si occupò dei censimenti dei cittadini ebrei sulla cui base la Prefettura applicava le leggi razziali. Proprio a Fiume i censimenti furono condotti con una capillarità ineguagliabile e le leggi applicate con un accanimento che provocò proteste internazionali e la reazione dello stesso Ministero degli Interni. Secondo la monografia di Silva Bon Le Comunità ebraiche della Provincia italiana del Carnaro Fiume e Abbazia (1924-1945) e i dati raccolti nel Libro della Memoria di Liliana Picciotto, durante la breve reggenza di Palatucci la percentuale di ebrei deportati da Fiume fu tra le più alte d’Italia. L’affresco familiare recentemente pubblicato da Silvia Cuttin Ci sarebbe bastatomostra con lucidità e accuratezza l’esperienza tragica degli ebrei fiumani.
FASCISTA ZELANTE E VOLENTEROSO - In Giovanni Palatucci, Una Giusta Memoria Marco Coslovich ricostruisce l’ambiguo profilo professionale di un vice commissario di polizia che appena trentenne giura fedeltà alla Repubblica di Salò. «Palatucci non fu mai questore di Fiume», rivela Coslovich, «ma vice commissario aggiunto sotto il controllo di superiori notoriamente antisemiti». Tutt’altro che in conflitto con essi, le carte mostrano che egli era considerato un funzionario modello. Definito «insostituibile» dal prefetto Testa, godeva appieno dei suoi favori. Tra aprile e inizio settembre 1944 fu reggente alle dirette dipendenze dei gerarchi di Salò Tullio Tamburini ed Eugenio Cerruti. Anche lo storico Michele Sarfatti nel programma tv La storia siamo noi dedicato a Palatucci, nel 2008 ha espresso dubbi sulla plausibilità di numeri sproporzionati rispetto a una comunità di poco più di un migliaio di persone che tra emigrazione e internamento era ridotta a poco più di 500 persone nell’ottobre del 1943.
EROE AD HOC PER L’ITALIA DEL DOPOGUERRA -Secondo lo storico veneziano Simon Levis Sullam l’affairePalatucci s’inserisce nella questione più vasta di come la persecuzione antiebraica nell’Italia Fascista e il ruolo degli italiani sono stati rappresentati nei 68 anni dalla fine della guerra. Spiega Sullam, co-curatore dell’ultima grande opera sulla Shoah in Italia edita dalla UTET (2012): «Il mito del bravo italiano ha costituito dopo la Seconda guerra mondiale una fonte di auto-assoluzione collettiva rispetto al sostegno offerto a politiche antisemite e razziste nel periodo 1937-1945, cui migliaia di italiani parteciparono direttamente». Coslovich sottolinea come più della metà del fascicolo personale di Palatucci riguarda gli sforzi compiuti dal padre Felice e dallo zio Vescovo per la riabilitazione completa del commissario rispetto all’epurazione, la concessione di una pensione di guerra che la legge accordava solo a vedove e orfani dei caduti (Palatucci era invece celibe) e il coinvolgimento del governo italiano nel designare il loro congiunto come «salvatore di ebrei».
LO ZIO VESCOVO - Tra il 1952 e il 1953, il Vescovo Giuseppe Maria Palatucci si avvale della collaborazione scritta di Rodolfo Grani, un ebreo fiumano di origine ungherese che aveva conosciuto durante il suo breve internamento a Campagna. Eppure lo storico Mauro Canali, esperto di storia del sistema di polizia fascista all’Università di Camerino, sostiene che nella copiosa fonte documentaria riguardante Grani non vi è segno che abbia mai incontrato Giovanni Palatucci. Aveva invece conosciuto Palatucci il Barone Niel Sachs de Gric, anch’egli ebreo fiumano di origine ungherese, avvocato della curia e rappresentante della Santa Sede per il Concordato con la Jugoslavia. Nel 1952 il vescovo gli invia un articolo da pubblicare sull’Osservatore Romano con «l’invito» a firmarlo al suo posto. I documenti attribuiti a Grani e Sachs, la cui autenticità è tutta da verificare e nessuno dei quali ricevette l’aiuto del commissario, sono all’origine dell’epica palatucciana. L’ultimo tassello della leggenda a cadere è quello relativo alle circostanze della sua morte. La motivazione dell’arresto firmata da Herbert Kappler e depositata all’Archivio Centrale dello Stato non lascia dubbi: Palatucci fu accusato di tradimento dai tedeschi per aver trasmesso al nemico (gli inglesi), documenti della Repubblica Sociale di Salò che chiedevano di trattare l’indipendenza di Fiume, non per aver protetto gli ebrei di quella città.
Alessandra Farkas

269 – La Voce del Popolo 18/05/13 Cultura - Verteneglio vuole rinascere serenissima
Verteneglio vuole rinascere serenissima
C’è, nella parte nord-occidentale della penisola istriana, una cittadina che rinasce serenissima. È Verteneglio. Sorta sulle rovine di un vecchio castello preistorico, terra di fughe e di approdi, di vicende alterne, oggi vuole (ri)vivere valorizzando le eccellenze che la contraddistinguono, come l’olio d’oliva e in primis il vino. La sua terra è fertile – “nera”, da cui appunto il nome con cui viene citata per la prima volta in un documento del 1234, “Ortoneglio” o “Hortus Niger” –, la sua gente è umile e tenace, operosa e positiva; in ogni caso decisa a resistere. La storia, in questo caso, fa da maestra, e la riappropriazione del passato, insieme con il recupero, oggi in atto, delle tradizioni rurali e delle antiche vestigia – dall’architettura al paesaggio – fa parte del percorso di sopravvivenza e rilancio del borgo.
Pertanto “Verteneglio e il suo territorio in epoca veneziana”, di Rino Cigui, opera pubblicata in versione bilingue italo-croata dal Comune di Verteneglio, grazie anche al contributo stanziato dalla Regione Veneto, al di là del suo valore storiografico intrinseco, è più di una monografia. È il prodotto di un attaccamento viscerale, sincero e profondo dell’autore nei confronti dei luoghi natii, che infonde e ispira rispetto, orgoglio e affetto verso questa fetta d’Istria, e fiducia nel futuro. Non a caso si parte con una citazione di Indro Montanelli: “I paesi che hanno l’amore e il rispetto per il loro passato sono difficili da sfasciare, perché contro questo tentativo vigila la coscienza di rappresentare una comunità chiaramente identificata nei propri caratteri e fermamente decisa a restarvi fedele”.
Dunque, il volume di Cigui racchiude, in circa 150 pagine, la memoria storica di Verteneglio e dintorni (non mancano, infatti, riferimenti ad altre cittadine della zona, tra cui Villanova), cui fa da supporto quella fotografica di Gianfranco Abrami, maestro dello scatto che con il suo obbiettivo ha immortalato un’infinità di angoli paesaggistici, culturali e architettonici, da Capodistria alle Bocche di Cattaro. Fresca di stampa – è stata presentata di recente nel neonascente Museo del Vino e dell’arte contadina di Verteneglio –, la monografia è il risultato di un lavoro pluriennale di ricerca, che ovviamente non si esaurisce qui, ma invece può costituire un prezioso punto di partenza e di riferimento per ulteriori indagini e approfondimenti.
Come ha ricordato il ricercatore e storico-demografo capodistriano Dean Krmac (Società umanistica “Histria”), ripercorrendo cronologicamente e tematicamente i contenuti del libro, ci troviamo di fronte alla terza opera su Verteneglio, dopo i saggi di Elio Predonzani (“Piccola storia di un piccolo paese. Verteneglio”, Trieste, 1968) e Niki Fachin (“Verteneglio e dintorni”, Verteneglio, 2001). Rispetto ai precedenti questo di Cigui prende in esame un periodo preciso, l’età della Serenissima, vale a dire dall’anno della dedizione definitiva di Cittanova (e Verteneglio si trovava in quel periodo sotto la sua giurisdizione ecclesiastica) nel 1270, alla caduta della Repubblica, nel 1797. Il “limite” temporale che Cigui si è imposto non gli ha impedito però di spaziare anche nei secoli precedenti – spiegando le origini, la cultura dei castellieri, la presenza romana, la sua importanza strategica quale punto di controllo territoriale, come emerge da recenti scoperte archeologiche –, e anzi di estendere il suo raggio anche alla geografia e geologia. Ne emerge un quadro preciso e abbastanza esaustivo, corroborato da documenti ritrovati negli archivi, in cui l’autore non manca di segnalare le zone d’ombra (storiograficamente parlando) e le divergenze d’interpretazione. A partire dalla stessa denominazione. C’è chi sostiene infatti che Verteneglio derivi da “hortus niger” (“... quivi la terra comincia a essere negra, essendo il resto del territorio di Cittanova terra rossa, ora dagli slavi che chiamano l’orto Verthe fu corrotto il vocabolo in Verteneglio ...”, come riporta nei “Commentari storico geografici della provincia dell’Istria” il vescovo emonienese Giacomo Filippo Tommasini), mentre altri l’accostano alla pronuncia dialettale slava di certi toponomi come Bercenigla e Mercenigla, di origine prelatina.
Nel XIII secolo anche Verteneglio passa sotto l’ala del Leone di San Marco; nel Cinquecento di affranca da Cittanova e al tempo della visita del Visitatore apostolico Valier, ottiene d’essere parrocchia autonoma dal capitolo cittanovese e la possibilità di eleggere un proprio pievano (parroco), e la scelta cade su uno zaratino, don Gian Giacomo de Rossi. Dettagliato e ben curato l’aspetto delle confraternite, delle istituzioni ecclesiastiche e delle chiese e poi quello demografico, interessanti e utili i cenni a Villanova; molto importante, con spiegazioni sulle conseguenze della peste del 1630-31. Cigui, grazie a un certosino lavoro negli archivi, è riuscito addirittura ad antedatare la prima comparsa – almeno quella documentata – del morbo di bubbonica al 1557. Strettamente connesso all’epidemia e alle altre patologie infettive è il problema della colonizzazione, intrapreso sia da Venezia sia dalla limitrofa Contea di Pisino, per ridare nuova linfa all’economia. Giusero genti slave dalla Dalmazia e dall’entroterra dalmata – con ceppi di rumeni – in fuga dalle invasioni ottomane e sudditi veneti, friulani.
Sfogliando le belle pagine in carta patinata, con illustrazioni a colori (di produzioni di documenti, fotografie, cartine e piantine), ben scritte e ricche di note, colpiscono alcuni elenchi e dati anagrafici: c’è la “Descrittione dell’anime che s’attrovano nella Villa di Verteniggio” in data 17 aprile 1596; c’è una specie di “censimento” del Settecento (1766, 1771, 1790), con il numero delle famiglie e delle “anime” (ragazzi under 14, uomini tra i 14 e i 60 anni, gli over 60, donne), dei preti, dei negozianti/bottegheri (nessuno), di artigiani, contadini, e poi degli armenti (bovini, vitelli, somarelli, cavalli, pecorini, caprini), delle macine da olio e torchi, delle mole e dei telai; c’è la radiografia delle confraternite; c’è l’elenco degli zuppani nominati dal 1548 al 1784; e un preziosissimo elenco in ordine alfabetico di tutte le famiglie di Verteneglio, desunto dai libri parrocchiali (XVI-XVIII secolo), con il riferimento all’anno in cui un cognome compare per la prima volta nella vita della cittadina. La presenza di una buona parte di questi nella Verteneglio attuale e la mescolanza delle origini è da una parte la prova di una straordinaria continuità, ma anche di un bilinguismo che si è formato nel corso dei secoli. Dal quale appunto trarre insegnamento nel plasmare l’oggi e il domani. Parafrasando l’intervento dello storico Gaetano Benčić, che ha parlato di Cigui e della sua opera in modo molto coinvolgente, quasi teatrale, la storia, dunque, serve, eccome.
Ilaria Rocchi

 

270 – CDM Arcipelago Adriatico 28/05/13 ANVGD: a Torino si ragiona sulla politica di d'Annunzio
All’incontro sarà presente il Presidente Nazionale dell’A.N.V.G.D., dott. Antonio Ballarin

Il centocinquantesimo anniversario della nascita di Gabriele D’Annunzio si presta a numerosi approfondimenti. Al di là degli aspetti militari, poetici e letterari, al gusto per l’eccentrico e per la comunicazione, un tema che è stato finora sostanzialmente trascurato è stato quello del suo rapporto con il problema del lavoro. Toccato tangenzialmente da quanti si sono occupati del D’Annunzio politico (De Felice e Ledeen, fra tutti), per mettere in rilievo la sua ampia versatilità politica, il tema del rapporto con il mondo del lavoro nasce tardi nel Vate, con la prima guerra mondiale. Prima è del tutto assente nella poetica dannunziana ed è persino assente nella sua, pur breve, attività parlamentare negli ultimi anni dell’ottocento, quando, invece, per lo meno le giornate milanesi del 1898, quelle di Bava Beccaris che spara sui milanesi, avrebbero potuto offrirgli spunti di riflessione.
Per trovare accenni alla questione del lavoro bisogna attendere l’ampio e terribile scenario della prima guerra mondiale, quando D’Annunzio si rende conto, attraverso la sua sensibilità più estetica che politica, che la guerra ha creato un nuovo soggetto politico, il soldato, che in genere è, nella vita civile, un lavoratore dell’officina o un lavoratore della terra o ancora un artigiano: sicuramente, nella stragrande maggioranza dei casi, è un soggetto fino a quel momento sostanzialmente estraneo alla politica. Di qui D’Annunzio comprende che il dopoguerra dovrà tenere conto di tale soggetto, così come esso è stato determinante nel conflitto e non solo in Italia. C’è un altro elemento che la guerra determina: la visione di uno Stato che si dovrà occupare del problema sociale. Per la vecchia Italia liberale questo era un problema secondario, convinta, com’essa era, che il mercato si sarebbe autoregolato. Invece la guerra pone lo Stato come nuovo soggetto e sarà uno stato che si dovrà occupare dei cittadini, della questione sociale, della povertà, della ricchezza, della previdenza sociale.
Sarà a Fiume, dopo l’arrivo di Alceste de Ambris al gabinetto del Comandante, che il Vate riuscirà a rendere chiaro il suo pensiero attraverso la Carta del Carnaro, un documento fondamentale per comprendere l’importanza del lavoro nel pensiero di D’Annunzio e in genere nell’Italia del dopoguerra.

 

271 - Il Piccolo 27/05/13 La grande migrazione dell'Istria pre-esodo, in un nuovo libro raccontati gli anni dal 1891 al 1943 quando ci furono forti flussi verso Trieste
La grande migrazione dell’Istria pre-esodo
In un nuovo libro raccontati gli anni dal 1891 al 1943 quando ci furono forti flussi verso Trieste
POLA È un libro interamente dedicato all’Istria. Ma, ed è una rarità, non parla delle delle lacerazioni dell’esodo, bensì di un periodo precedente, quello che va dal 1891 al 1943. Un periodo in cui sono stati avviati profondi sviluppi culturali sul territorio con sostanziali modifiche dei rapporti tra la regione e la città capoluogo: ci sono stati infatti grandi flussi migratori verso Trieste, avviata a diventare una grande città industriale e cambiare sul piano demografico e socioeconomico le realtà contermini, e tali flussi hanno impoverito l’Istria e limitato le sue notevoli potenzialità produttive. Il libro “Istria Europa-Economia e Storia di una regione periferica”, edito dal Circolo di Cultura Istroveneta Istria di Trieste, racconta dunque di questi cambiamenti. A presentarlo il vicepresidente del Circolo Fabio Scropetta visto che il presidente Livio Dorigo ha parlato in qualità di coautore. La più importante indicazione emersa dal volume è che l’Istria ha bisogno che gli stati che ora l’amministrano comincino a programmare la sua economia in modo concertato e armonioso, dopo troppi anni di divisioni causate da una sciagurata politica. Il secondo autore, Giulio Mellinato, ora ricercatore di Storia economica all’Università di Milano-Bicocca, ha detto che il volume intende proporre una visione diversa dell’Istria, meno legata ai sentimenti e alla ripetizione di alcuni stereotipi storiografici: «Abbiamo voluto proporre fonti nuove anche strane, come gli uffici fiscali o i censimenti, per aprire una prospettiva che dalla lettura del libro porti ad una consapevolezza nuova e diversa. Una visione della complessità attuale che - ha agiunto Mellinato - non è soltanto etnica e politica ma che riguarda anche l’economia e la distribuzione del reddito e del suo uso». Il terzo autore, Biagio Mannino, laureato in Scienze Politiche a Trieste, ha definito l’Istria lo specchio dell’Europa a fronte della sua pluralità di storia, di memorie, di lingue, di dialetti e anche di confini. (p.r.)

 

272 - Il Piccolo 26/05/13 Pola: volo in idrovolante per l'ingresso nell'Ue
Volo in idrovolante per l’ingresso nell’Ue

POLA. Nell’attesa che il progetto degli idrovolanti decolli, liberandosi dal pantano della palude burocratica croata, per il primo luglio si annuncia un’anteprima: l’atterraggio e il decollo di un idrovolante in porto per salutare l’ingresso della Croazia nell’Unione europea. A volere questo volo “sperimentale” e di buon auspicio sono la Regione Puglia e l’Autorità portuale di Brindisi, i partner leader del progetto “Adri-Seaplanes”, che con l’appoggio dell’Ue punta a introdurre collegamenti stabili tra i porti adriatici.

Oltre Pola, le rotte toccheranno Corfù, Valona, Bar e Brindisi, tutte raggiungibili entro un’ora di viaggio. Per il progetto l’Ue mette a disposizione 2,3 milioni di euro, di cui 213mila euro a Pola per la realizzazione di un pontone, una sala d’attesa con biglietteria e un campeggio. La pista di decollo e atterraggio sarà realizzata nel bacino di Vergarolla mentre l’imbarco e lo sbarco dei passeggeri avverrà nel mandracchio, tra Montegrande e Molo Fiume. Gli idrovolanti hanno una capienza di 19 passeggeri. Negli ultimi anni sono falliti i diversi tentativi di riattivare questo mezzo di trasporto in funzione sotto l’Italia, nel periodo tra le due guerre.

Il progetto puntava a iniziare i collegamenti regolari nella stagione turistica 2012, ma non è stato possibile e salterà anche quella 2013. Non sono state ancora realizzate infatti due infrastrutture indispensabili come il pontone e la sala d’attesa con la biglietteria. L’Autorità portuale di Pola pensa di affidare i lavori all’investitore tedesco Klaus Dieter Martin che dovrebbe costruire strutture simili anche a Ragusa, Lesina e Spalato. Soltanto più tardi si potrà bandire il concorso internazionale per l’assegnazione della concessione alla società che gestirà i collegamenti. Qualche indicazione dovrebbe emergere dalla conferenza dei partner del progetto in programma a Corfù. Tornando al volo sperimentale del primo luglio, Florijan Veneruzzo dell’Autorità portuale afferma di non essere del tutto convinto che si potrà fare, sempre per motivi di carattere burocratico. Il partner italiano, spiega Veneruzzo, ha chiesto il permesso all’Agenzia per l’aeronautica civile. Nel caso in cui Zagabria fornisse risposta positiva al massimo entro il 15 giugno si riuscirà ad avere un’idea sui possibili collegamenti.(p.r.)

 

273 - Corriere della Sera 30/05/13 Lettere a Sergio Romano - Ex Jugoslavia - Rapporti con l'Italia
EX JUGOSLAVIA Rapporti con l’Italia
Caro Romano, non sono riuscito ad avere notizie sulle attuali condizioni dei nostri compatrioti in quella che fu la Jugoslavia. Ho letto che nel 1971 gli italiani rimasti (dopo la riduzione dovuta alla pulizia etnica e agli infoibamenti del 1943 e del 1945) erano 22.000 e nel 1981 si erano ridotti a 15.000. Non pare però che fossero particolarmente maltrattati, e potevano contare sul quotidiano La voce del popolo, sul settimanale Panorama, sul centro studi storici di Rovigno, sul periodico culturale La Battana e su un teatro in lingua italiana a Fiume. Le loro condizioni sono variate?
Antonio Fadda
Esisteva anche un liceo ita­liano a Fiume, ma i dirigenti di queste istituzioni erano ge­neralmente persone scelte dal regime e quindi, dal punto di vista di Belgrado, affidabili.


Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia


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