La politica del Regno d’Italia verso gli italiani dell’Adriatico orientale
di Paolo Radivo
La politica del Regno d’Italia verso gli italiani dell’Adriatico orientale fu cauta, esitante, rinunciataria… fino a che lo scoppio della Prima guerra mondiale gli fornì l’occasione propizia per dirottare sull’Europa sud-orientale la politica di potenza avviata prima in Africa e poi anche nell’Egeo. L’unica parziale eccezione a tale prudente linea di condotta fu la guerra del 1866, quando si tentò di conquistare il Tirolo meridionale, il Litorale e la Dalmazia, ma in modo velleitario e perciò infruttuoso.
Gli ostacoli all’acquisizione dei territori italofoni dell’Impero asburgico furono, insieme alle sfavorevoli contingenze internazionali, il pervicace rifiuto austriaco e l’irresolutezza italiana.
Le autorità austriache consideravano come "Stati italiani" il Regno Lombardo-Veneto, ma non il Tirolo, il Litorale, Fiume e la Dalmazia, in quanto Province plurietniche, di cui solo Fiume era a maggioranza italofona, mentre il Tirolo (comprendente allora anche il Vorarlberg) era a maggioranza germanofona e il Litorale e la Dalmazia a maggioranza slava. E se fin dal 1848 avevano compreso che presto o tardi avrebbero potuto perdere il Lombardo-Veneto, così come i Ducati Parma e Modena e il Granducato di Toscana, rimasero invece sempre fermamente decise a tenersi strette Tirolo, Litorale, Fiume e Dalmazia, senza neppure mettere in conto l’eventualità di una loro spartizione in base al principio di nazionalità, essenzialmente democratico perché legato alla lingua e alla cultura degli abitanti di un territorio. L’Impero d’Austria si basava infatti sull’opposto principio dinastico-patrimoniale: era infatti l’insieme dei patrimoni della Casa d’Austria. Accettare il principio di nazionalità avrebbe significato scardinare il fondamento stesso di quello Stato.
In vista di un possibile ritiro da Venezia, già nel 1850 l’imperatore Francesco Giuseppe decise la creazione a Pola di un arsenale, che si cominciò a costruire nel 1856. La città divenne una piazzaforte anti-italiana e, dopo il 1859, il principale porto militare dell’Impero, dominato dalla Marina. Gli investimenti statali per il potenziamento di tale ruolo compresero anche la realizzazione della ferrovia che nel 1876 collegò Pola a Trieste, Fiume e al resto dell’Impero. Pola dunque non era cedibile.
Anche in previsione di sbarchi garibaldini, furono potenziate le difese costiere in Istria e Dalmazia.
Dopo il 1866 la perdita di Venezia incrementò gli investimenti pubblici e privati austriaci su Trieste e Fiume, sebbene in chiave economica. La successiva nascita dei cantieri di Monfalcone rese anche questa località cruciale, redditizia e dunque non pacificamente cedibile.
Dal 1906, con la realizzazione della Ferrovia Transalpina collegante Trieste a Praga via Gorizia, anche quest’ultima città divenne oggettivamente non negoziabile, se mai lo era stata.
La classe dirigente sabauda usò due pesi e due misure verso gli austro-italiani, distinguendo quelli del Regno Lombardo-Veneto rimasto in mani asburgiche dopo il 1859 da quelli delle altre Province dell’Impero: Tirolo, Litorale, Fiume e Dalmazia. I primi andavano annessi il più rapidamente possibile, i secondi avrebbero dovuto attendere che i tempi maturassero.
Gli italiani dell’Adriatico orientale, come pure i trentini, scontarono le incoerenze genetiche del Regno d’Italia, il "peccato originale" del processo unitario. Il Regno d’Italia sorse infatti non come uno Stato nuovo, ma come continuazione giuridica e ingrandimento territoriale del Regno di Sardegna, ovvero come lo Stato dinastico-patrimoniale di Casa Savoia, che si fregiò dell’etichetta nazionale per legittimare agli occhi del mondo l’indebita conquista degli altri Stati italiani e lo spodestamento dei relativi principi. Il Regno d’Italia era solo il nuovo nome del Regno di Sardegna, ingranditosi fino a inglobare buona parte della penisola.
Non a caso fu conservata la stessa capitale (Torino) per altri 4 anni, e la stessa bandiera (quella tricolore con lo scudo sabaudo), malgrado la Savoia fosse stata ceduta all’Impero Francese fra il marzo e il maggio 1860; non a caso fu mantenuta sia la numerazione dinastica per Vittorio Emanuele II sia la numerazione delle legislature parlamentari; e non a caso fu estesa d’imperio la normativa "sarda" ai territori annessi, cui si negò qualsiasi autonomia. I plebisciti – addomesticati – servirono a dare una parvenza democratica a tale operazione espansionistico-coloniale, che portà la dinastia sabauda e la sua classe dirigente nobiliare ed alto-borghese a dominare in modo centralista aree geografiche più che doppie rispetto a quelle originarie.
Che il Regno d’Italia fosse un compromesso tra principio dinastico effettivo e principio di nazionalità apparente è confermato anche dal fatto che Vittorio Emanuele II cedette all’Impero Francese, mediante plebisciti farsa, tanto il Ducato di Savoia (francofono) quanto la Contea di Nizza (perlopiù italofona), in cambio de nulla osta di Napoleone III all’acquisizione del Granducato di Toscana e delle Legazioni pontificie emiliano-romagnole, non previsti né dall’armistizio di Villafranca né dal Trattato di Zurigo. Il compromesso traspare nitidamente anche dalla formula «re per grazia di Dio e volontà della nazione», che Vittorio Emanuele II si fece votare dal Parlamento.
Compito di uno Stato che nazionale era solo di facciata non poteva dunque essere quello di liberare dal giogo straniero e riunire tutti gli italofoni.
Se il Regno d’Italia snobbò fino al 1914 i propri connazionali istriani, triestini, isontini, fiumani, trentini e dalmati, se la "madrepatria" rinunciò per ben 53 anni a liberare i suoi "figli" oppressi dal dominio straniero – salvo la discutibile eccezione del 1866 – è perché, da "matrigna", non li considerò pienamente tali, perché dubitò della propria forza militare e perché ritenne di avere sempre altre questioni più importanti di cui occuparsi: prima giudicò prioritario annettere quanto restava del Regno Lombardo-Veneto e dello Stato Pontificio, poi, temendo che un nuovo conflitto con l’Austria-Ungheria mettesse a repentaglio la sua stessa esistenza, si ritenne pago di quanto ottenuto fino al 1870 e preferì concentrarsi sui molti problemi interni. Infine si uniformò alla logica imperialista delle altre potenze europee puntando sull’espansione coloniale in Africa e sulla penetrazione economica nei Balcani, tanto più che dal 1882 la Triplice Alleanza congelò l’effettiva possibilità di ottenere in tempi brevi le terre "irredente", che finirono in coda alla lista delle acquisizioni auspicate, dietro Eritrea, Somalia, Etiopia, Libia e Dodecaneso, alla pari dell’Albania.
Gli accordi segreti di Plombières (21 luglio 1858) fra Cavour e Napoleone III prevedevano che il costituendo Regno dell’Alta Italia, destinato ai Savoia, avrebbe incluso il Lombardo-Veneto, i Ducati di Parma e Modena e la parte emiliana delle Legazioni pontificie. Il confine orientale avrebbe potuto essere tutt’al più spostato all’Isonzo, come per il Regno d’Italia di Napoleone I fra il 1810 e il 1813. In linea con Plombières, l’armistizio di Villafranca dell’11 luglio 1859 stabilì che la futura Confederazione Italiana avrebbe compreso, fra i territori asburgici abitati da italofoni, anche il Lombardo-Veneto, ma non il Litorale, il Tirolo, Fiume e la Dalmazia.
Pertanto la Seconda Guerra d’Indipendenza, concordata fra Torino e Parigi, non aveva l’obiettivo di conquistare i territori a Est dell’Isonzo e a Nord del Garda per assegnarli al futuro Regno dell’Alta Italia. Malgrado ciò, ai primi di luglio del 1859 la flotta franco-"sarda" occupò le isole di Lussino e Cherso con il sostegno o l’acquiescenza degli abitanti, ma vi rimase pochissimo a causa dell’armistizio.
La mancata istituzione della Confederazione Italiana sotto l’egida papale, causata dall’annessione dei Ducati di Parma e Modena, del Granducato di Toscana e delle Legazioni pontificie emiliano-romagnole al Regno di Sardegna, in contrasto sia con l’armistizio di Villafranca sia con la pace di Zurigo, impedì che anche le parti a maggioranza italofona del Tirolo, del Litorale, di Fiume e magari della Dalmazia potessero un giorno essere ammesse alla Confederazione Italiana su loro richiesta.
Il 30 ottobre 1860, ossia 9 giorni dopo i plebisciti nel Regno delle Due Sicilie e 4 giorni dopo che Garibaldi aveva consegnato a Vittorio Emanuele II i territori liberati, Cavour, presidente del Consiglio e ministro della Marina, ordinò di conservare il trattamento di favore per il Lloyd Triestino, in quanto «è utilissimo il mantenere buone ed attive corrispondenze con Trieste». «Non già – spiegò – che io pensi alla prossima annessione di quella città; ma perché conviene seminare onde i nostri figli possano raccogliere».
Il 28 dicembre 1860 lo stesso Cavour scrisse al commissario sabaudo per le Marche di non fare dichiarazioni che potessero dare ad intendere la volontà di conquistare «non solo il Veneto ma altresì Trieste coll’Istria e la Dalmazia». «Io – chiarì – non ignoro che nelle città lungo la costa v’hanno centri di popolazione italiana per razza ed aspirazioni. Ma nelle campagne gli abitanti sono di razza slava; e sarebbe inimicarsi gravemente i Croati, i Serbi, i Magiari e tutte le popolazioni germaniche il dimostrare di voler togliere a così vasta parte dell’Europa centrale ogni sbocco sul Mediterraneo. Ogni frase avventata in questo senso è un’arma terribile nelle mani dei nostri nemici, che ne approfittano per tentare di inimicarci l’Inghilterra stessa, la quale vedrebbe essa pure di mal occhio che l’Adriatico ridivenisse, com’era ai tempi della Repubblica Veneta, un lago italiano».
Quest’ultimo richiamo traduceva il rifiuto opposto dal Governo di Sua Maestà a sostenere ulteriori guerre italiane contro l’Austria, dopo che l’apporto della flotta britannica era stato decisivo per lo sbarco dei Mille in Sicilia e Calabria.
Parlando alla Camera il 25 e 27 marzo, Cavour pose come priorità per completare il processo unitario l’annessione di quanto rimaneva dello Stato Pontificio: «Senza Roma capitale d’Italia, l’Italia non si può costituire».
Nell’aprile 1861 non appoggiò la Dieta istriana del "Nessuno", né i patrioti trentini che avevano disertato le urne invocando autonomia dal Tirolo. Lasciò soli anche i fiumani, che con il loro massiccio astensionismo avevano espresso la volontà di staccarsi dal Banato di Croazia e Slavonia.
Lo stesso Cavour, nel discorso parlamentare del 21 maggio 1861 attaccò l’Austria per la sua politica nel Lombardo-Veneto e implicitamente lo rivendicò, senza però fare alcun cenno al Trentino, al Litorale, a Fiume e alla Dalmazia, che non riteneva realisticamente ottenibili in tempi medio-brevi. Non citò nemmeno la Dieta istriana, appena sospesa dal Governo asburgico per insubordinazione. Non assecondò dunque il secessionismo degli austro-italiani, ad eccezione di quelli del Lombardo-Veneto.
Il successore di Cavour, Bettino Ricasoli, trascurò di dissuadere i liberal-nazionali istriani dall’invitare gli elettori ad astenersi alle nuove consultazioni e gli eletti a dimettersi, con il risultato di una nuova Dieta filo-asburgica e clericale. Scelse Roma come priorità della politica di unificazione, ma senza esito.
Una guerra all’Austria per il Lombardo-Veneto divenne sempre meno plausibile tra il luglio 1861 e il dicembre 1865, quando buona parte dell’esercito italiano schierato sul Mincio fu progressivamente trasferita al Sud per reprimere brutalmente il cosiddetto "brigantaggio" e tenere a bada i temuti garibaldini. Tutto lo sforzo militare italiano era dunque concentrato nel domare una recalcitrante "colonia interna".
Dal marzo 1862 il nuovo premier Urbano Rattazzi mirò al Lombardo-Veneto, ma dalle parole non passò ai fatti. Anzi, il 14 maggio fece arrestate i volontari arruolati da Garibaldi nella Bergamasca.
Nel marzo 1863 il conte Francesco Arese effettuò una missione diplomatica a Parigi per esplorare la possibilità di uno scambio fra il Lombardo-Veneto all’Italia e l’Erzegovina all’Austria.
Nel luglio 1863 il ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta inviò segretamente il conte Pasolini a Londra e Parigi per un’alleanza tra Francia, Inghilterra, Italia, Austria e Svezia contro la Russia volta a ricostituire la Polonia. In cambio l’Italia avrebbe avuto il Lombardo-Veneto, l’Austria i principati danubiani.
In Trentino una rivolta popolare fu sventata nell’agosto 1864 con 40 arresti. Il Governo Minghetti prese le distanze. Del resto era tutto concentrato nelle trattative con la Francia sulla questione romana che portarono alla convenzione del 15 settembre.
Il 16 ottobre una cinquantina di patrioti democratici friulani in camicia rossa disarmarono le gendarmerie di Spilimbergo e Maniago con l’obiettivo di congiungersi agli insorti del Cadore. Impossibilitati, respinsero tre attacchi austriaci per poi ritirarsi. Altri 27 uomini sfidarono gli austriaci sulle montagne pordenonesi fino a novembre, mentre una terza formazione volontaria tentò da Brescia di venire in soccorso ai fratelli friulani, ma i carabinieri la arrestarono. Il titubante Regno d’Italia difendeva lo status quo onde evitare una guerra con l’Austria che riteneva di non poter affrontare, tanto più se le rivolte avevano una connotazione repubblicana.
Nel dicembre 1864 il nuovo presidente del Consiglio Alfonso Ferrero di La Marmora dichiarò alla Camera che gli ulteriori obiettivi nazionali italiani erano Roma e il Lombardo-Veneto, ponendo nello sconforto patrioti ed esuli trentini, istriani, fiumani e dalmati anelanti all’Italia.
Nell’autunno 1865 La Marmora non riuscì nel tentativo di acquistare il Lombardo-Veneto dall’Austria. Il conte Malaguzzi propose anche il matrimonio fra un’arciduchessa austriaca e il principe ereditario Umberto, ma Francesco Giuseppe rifiutò.
Il 31 dicembre 1865 La Marmora progettò l’annessione anche del Trentino, dell’Alto Adige e del Friuli isontino per esigenze strategico-militari. Tale cambio di rotta dipese dal fatto che, col 1° gennaio 1866, cessò lo stato d’emergenza al Sud e l’esercito cominciò ad essere nuovamente trasferito ai confini con l’Austria.
Il trattato di alleanza italo-prussiano dell’8 aprile 1866 stabilì l’intervento italiano a fianco della Prussia contro l’Austria e, in caso di vittoria, l’assegnazione del solo Lombardo-Veneto. D’altronde la Prussia non poteva promettere all’Italia il Tirolo meridionale, la Contea di Gorizia e Gradisca, il Comune-Provincia di Trieste e l’Istria anticamente austriaca (ossia l’ex Contea di Pisino con gli altri ex feudi) perché appartenenti alla Confederazione Germanica, che ambiva a egemonizzare.
Il 12 giugno 1866, iniziato l’attacco prussiano, l’Austria stipulò un accordo segreto con la Francia offrendo il Lombardo-Veneto a Napoleone III, il quale si impegnò alla neutralità e a fare il possibile perché l’Italia restasse neutrale o conducesse la guerra senza troppo impegno.
Il 20 giugno 1866 l’Italia dichiarò guerra all’Austria e Ricasoli subentrò a La Marmora. Il piano Bernhardi prevedeva di avanzare verso l’Isonzo e far sbarcare Garibaldi sulla costa orientale adriatica (vicino a Fiume), dove avrebbe dovuto partire un’insurrezione anti-austriaca su iniziativa italiana, che avrebbe avuto il suo epicentro in Ungheria e nelle terre a maggioranza serba e croata. A favore erano il re, Ricasoli, Visconti Venosta, Garibaldi e Cialdini. Ma il capo di stato maggiore La Marmora attaccò il Quadrilatero, litigò con Cialdini, e i due seguirono ognuno la sua strada annullando la superiorità numerica italiana. L’inettitudine dei comandi e la sfiducia verso la truppa portarono alle sconfitte di Custoza (24 giugno) e Lissa (20 luglio).
Il 5 luglio l’Austria, battuta dai prussiani a Sadowa, ritirò le truppe dal Veneto e ne annunciò la cessione alla Francia, ma l’esercito italiano oltrepassò il Mincio e il Po appena il 12 luglio. Il 14 luglio il consiglio di guerra ordinò a Cialdini di spingersi fin oltre l’Isonzo verso Vienna e a Garibaldi, una volta debellati gli austriaci in Trentino con l’aiuto del suo ex luogotenente Medici, di occupare Trieste e proseguire verso Fiume, la Croazia e l’Ungheria, per farle insorgere.
Ma Cialdini appena il 25 luglio sconfisse gli austriaci a Versa, presso Cormons. Il giorno successivo vennero firmati i preliminari di pace tra Austria e Prussia. Così, malgrado gli appelli di triestini e istriani, La Marmora impedì la sollevazione popolare già organizzata nelle alte Valli Giudicarie e, dopo l’armistizio di Cormons del 12 agosto, ritirò le truppe sia regolari che volontarie dai territori trentini e isontini conquistati. Cialdini, benché gli austriaci si stessero ritirando al di qua dell’Isonzo, non marciò su Gorizia.
I trentini appena liberati da Garibaldi e Medici colsero l’assurdità della situazione scrivendo a Vittorio Emanuele: «la diplomazia si pianta fra noi ed i nostri diritti» proprio «ora che l’Austria crolla da tutte le parti». Ma la paura dei governanti e militari italiani di perdere la guerra o comunque di compromettere sia gli equilibri europei sia la monarchia sabauda impedì a trentini, giuliani, dalmati e friulani isontini di essere redenti.
Vani furono nelle settimane seguenti i tentativi di ottenere per via negoziale dall’Austria il Trentino e la sponda destra dell’Isonzo. Il 23 agosto il Trattato di Praga sancì la cessione del solo Lombardo-Veneto alla Francia, con retrocessione all’Italia.
A Vienna Luigi Menabrea chiese prima importanti rettifiche confinarie nel Tirolo meridionale e Friuli orientale in cambio di grandi indennità, compensi finanziari e una nuova stagione di rapporti bilaterali, poi tutta la regione del Garda e l’Isonzo, che però gli austriaci consideravano fondamentali per la propria sicurezza e per mantenere l’Italia in una condizione di inferiorità tanto strategica quanto politica. Francia e Prussia non appoggiarono le richieste italiane.
L’insurrezione secessionista scoppiata a Palermo in settembre e faticosamente domata nel sangue rese il Governo italiano ancor più preoccupato della tenuta interna e dunque propenso ad accettare le condizioni di Vienna.
Il 25 settembre 1866 Giuseppe Mazzini lanciò un monito: «Accettando voi dunque, o Italiani, la pace che v’è minacciata, non solamente porreste un suggello di vergogna sulla fronte della Nazione, non solamente tradireste vilmente i vostri fratelli dell’Istria, del Friuli e del Trentino, non solamente tronchereste per lunghi anni ogni degno futuro all’Italia condannandovi ad essere potenza di terzo rango in Europa, non solamente perdereste ogni fiducia di Popoli, ogni influenza iniziatrice con essi; ma sospendereste voi stessi sulla vostra testa la spada di Damocle dell’invasione straniera». «La monarchia – aggiunse – non volle occupare Trieste» nonostante questa fosse, «e il Governo lo seppe, per oltre venti giorni vuota di ogni soldato e affidata a una guardia civica per tre quarti italiana!».
Con il trattato firmato a Vienna il 3 ottobre 1866 l’Austria riconobbe il Regno d’Italia e consentì a cedergli il Lombardo-Veneto previo plebiscito, che si tenne il 21 e 22 ottobre con esito scontato.
Vittorio Emanuele II dichiarò: «l’Italia è fatta, ma non è compiuta». Ma si riferiva essenzialmente a Roma, Viterbo e Frosinone... La Destra storica puntò sul consolidamento interno e su Roma. Fino al 1915 l’Italia non sfidò più Vienna, ed anzi cominciò un processo di riavvicinamento culminato nel 1882 con la Triplice Alleanza. Così il confine del 1866 perdurò fino al 1915.
Trieste fu ritenuta difficilmente acquisibile, vista l’importanza economica e strategica che aveva assunto per l’Impero asburgico una volta persa Venezia. L’Istria, poco considerata, era ancora più lontana di Gorizia e Trieste dal confine e non poteva quindi essere annessa senza queste; inoltre ospitava il principale porto militare dell’Impero. La Dalmazia, vista come troppo lontana e troppo slava, entrò nei progetti annessionistici governativi appena dal novembre 1914, ma solo in quanto necessaria per il dominio marittimo dell’Adriatico. Fiume invece non vi entrò proprio, scontando il suo essere l’unico porto dell’Ungheria.
Maggiore fu l’interesse sia per il Trentino che per l’Alto Adige, in quanto direttamente confinanti con il Regno d’Italia e pericolosamente vicini a Milano e a tutte le città venete e lombarde. Nell’Isontino il problema era quello di un confine svantaggioso sul piano militare nelle zone montano-collinari e assurdamente arzigogolato in pianura. Crebbe così il mito del "confine naturale" sulle Alpi Giulie e Carsiche, considerato specie dai vertici militari necessario per garantire la sicurezza del debole e timoroso Stato sabaudo da attacchi austriaci.
Durante la "Terza Guerra d’Indipendenza" la diffidenza dei vertici militari austriaci, dell’aristocrazia conservatrice e della famiglia imperiale verso gli austro-italiani si tramutò in ostilità, dando inizio a quell’offensiva politico-culturale che fino al 1918 recò gravi danni specie in Dalmazia, dove l’italianità era più debole e minacciata.
Il 12 novembre 1866, al Consiglio dei ministri, Francesco Giuseppe, convintosi dell’infedeltà degli italofoni verso la dinastia, ordinò di «opporsi in modo risolutivo all’influsso dell’elemento italiano ancora presente in alcune regioni e di mirare alla germanizzazione o slavizzazione – a seconda delle circostanze – delle zone in questione con tutte le energie e senza alcun riguardo, mediante un adeguato affidamento di incarichi a magistrati politici ed insegnanti, nonché attraverso l’influenza della stampa in Tirolo meridionale, Dalmazia e Litorale adriatico».
La nuova politica slavofila mirava anche ad accattivarsi le simpatie dei bosniaci sia cattolici che ortodossi, per indurli a sganciarsi dal giogo ottomano e a vedere negli austriaci i salvatori cristiani. La Dalmazia cominciò a essere considerata come base di penetrazione nei Balcani a spese dei turchi.
Gli austro-italiani vennero dunque a trovarsi in trappola, prigionieri-ostaggi del loro Stato domiciliare e senza il sostegno della madrepatria: una condizione paradossale.
Il Governo Belcredi impartì nel dicembre 1866 le prime direttive anti-italiane in materia scolastica per favorire apertamente gli slavi sperando di impiegarli come massa di manovra anti-irredentista, ma l’indebolimento politico dell’imperatore per la sconfitta bellica e l’arrivo al Governo dei liberali nel febbraio 1867 rinviarono di tre anni l’applicazione pratica della politica anti-italiana, tanto che nello stesso febbraio 1867 gli autonomisti dalmati prevalsero alle elezioni dietali e mandarono al Reichsrat 4 deputati su 5.
Tra la fine del 1866 e l’inizio del 1867 il ministro degli Esteri Visconti Venosta si accontentò di realizzare il primo Consolato generale d’Italia nell’Impero asburgico. Sorto a Trieste nel febbraio 1867, inizialmente ebbe giurisdizione su Litorale, Fiume, Dalmazia, Croazia, Carinzia e Carniola. Nel 1870 furono aperti i Vice-consolati (poi Consolati) di Gorizia e Fiume, e fra il 1867 e il 1876 le Agenzie consolari di Pirano, Parenzo, Rovigno, Lussinpiccolo, Zara (poi Vice-consolato, nel 1900 Consolato), Sebenico, Spalato e Ragusa.
Per non turbare i migliorati rapporti con Vienna, i vari Governi italiani reagirono in modo blando alle violente manifestazioni anti-italiane del novembre 1866 a Trieste e Pola, a quella del luglio 1868 a Trieste (con tre morti), del luglio 1869 a Sebenico, del giugno-luglio 1875 a Traù, del novembre 1903 a Innsbruck, dell’agosto-settembre 1906 a Fiume e Zara e del maggio 1914 a Trieste, nonché di fronte alle espulsioni di regnicoli, alle risse fra lavoratori italiani e croati, alle angherie ai pescatori italiani in Dalmazia, alle offese al tricolore...
Dall’aprile 1867 il nuovo Governo Rattazzi si concentrò sulla questione romana con un atteggiamento ambiguo verso i tentativi insurrezionali di Garibaldi. L’affermazione dei liberali nell’Impero, il compromesso con gli ungheresi che determinò la fine del secessionismo magiaro (tradizionale alleato italiano) e il nuovo riavvicinamento di Napoleone III a Vienna indussero la Destra storica a una maggiore collaborazione con questa per rafforzare la posizione dell’Italia. Intanto i vertici della Marina militare cominciarono ad aspirare a una base strategica nell’Adriatico orientale sulle coste austriache od ottomane, magari un porto o un territorio costiero in Albania per il controllo del canale d’Otranto.
Nel novembre 1867 il ministro degli Esteri Menabrea e l’ambasciatore italiano a Parigi Nigra proposero un trattato con Francia e Austria-Ungheria contro la Prussia che prevedeva la cessione del Trentino, del Friuli sud-orientale fino all’Isonzo, guadagni sul confine francese e Roma. Ma Napoleone III si oppose.
Risale al 1868 la legge Cairoli sul pareggiamento «nell’esercizio dei diritti civili e politici ai cittadini dello Stato» di «tutti gli Italiani delle provincie che non fanno ancor parte del Regno d’Italia»: un modo per non trattare da stranieri esuli ed emigrati da quelle terre.
Fra il 1868 e il 1869 il Governo Menabrea tentò un’alleanza nuovamente con Austria-Ungheria e Francia, ma stavolta contro la Russia per l’indipendenza della Polonia, chiedendo in cambio il Trentino, la destra Isonzo, un porto nell’Adriatico sud-orientale, Roma e rettifiche sul confine francese. A proposito di porti, il 29 gennaio 1869 specificò di volere Durazzo o Valona in caso di comune guerra vittoriosa e di ingrandimenti territoriali austro-ungarici.
Il crollo del Secondo Impero Francese, se consentì il 20 settembre 1870 l’occupazione di Roma, annessa poi con plebiscito, mise fuori gioco una delle due madrine del Risorgimento italiano. L’altra, l’Inghilterra, si disinteressò delle vicende europee. E il neonato Impero Tedesco, a guida prussiana, era così potente da non aver più bisogno dell’Italia. Si offuscò da allora sia l’idea di consorzio europeo sia quella mazziniana di solidarietà democratica tra le nazioni; si affermò invece l’imperialismo.
Visconti Venosta, ministro degli Esteri dal 13 maggio 1869 al 20 novembre 1876 e amico del vescovo croato Josip Strossmayer, dichiarò che lo scopo della politica estera italiana era di procurare al nostro paese l’agio, la pace e il tempo necessari a risolvere le questioni interne. Soddisfatto di quanto ottenuto, il Regno d’Italia si introvertì, si ripiegò su se stesso e non si azzardò a sfidare il nuovo assetto europeo dominato dalla Germania. Per la sua debolezza congenita, accettò il ruolo di ultima delle potenze europee.
Il 28 dicembre 1870 Visconti Venosta disse al ministro italiano a Londra che era dovere della classe dirigente italiana «non porre a repentaglio gl’immensi risultati ottenuti coll’affrontare delle crisi gravissime prima che il nostro edificio sia completamente assodato». La revisione dei confini era un obiettivo di lungo periodo. Bisognava creare una forte collaborazione con Vienna, assecondarne l’espansionismo in Germania o nei Balcani per ottenere pacificamente alcuni dei territori ambiti.
Minghetti, di Robilant e Nigra ritenevano l’Austria-Ungheria un fattore positivo e stabilizzante della politica europea, ostacolo alle mire russe e fonte di civilizzazione per i Balcani.
La firma nel 1872 della Lega dei Tre Imperatori (Austria-Ungheria, Germania e Russia) rafforzò Vienna isolando l’Italia, malvista anche da Germania e Francia.
Nel settembre 1873 l’elezione di un cattolico a presidente della Terza Repubblica francese provocò per reazione il primo viaggio di Vittorio Emanuele a Vienna e Berlino. Erano i prodromi della Triplice Alleanza.
Il 24 maggio 1874 il ministro degli Esteri austro-ungarico conte Andrassy inviò una nota a Visconti Venosta che in sintesi diceva: «La frontiera fra l’Italia e l’Austria Ungheria è fissata da ora in poi per sempre. L’Austria non può accettare nuovi cambiamenti territoriali neanche per via di negoziati amichevoli. Si tratta di una questione di principio. Il giorno in cui noi ammettessimo un cambiamento di frontiera fra regioni etnografiche, sorgerebbero subito simili domande da altre parti, e sarebbe quasi impossibile rifiutarle. Noi non possiamo dare all’Italia le popolazioni che parlano italiano, senza provocare un movimento centrifugo».
Visconti Venosta accettò tale impostazione, ribadì la volontà di buoni rapporti con Vienna e sconfessò gli articoli di stampa irredentisti. Si illuse che l’"inorientamento" asburgico potesse portare a compensi territoriali per l’Italia.
Dopo gli scontri tra operai regnicoli e slavi a Traù nel giugno-luglio 1875 e una sommossa contadina che aveva indotto i regnicoli a lasciare la Dalmazia, il 23 novembre 1875 Visconti Venosta alla Camera negò che gli incidenti fossero attribuibili ad ostilità nazionali. Il Governo giudicava «di dover rimanere affatto estraneo ad ogni questione relativa alle condizioni interne della Dalmazia od ai partiti che ivi possono esistere». L’ambasciatore a Vienna di Robilant chiese ai consoli italiani di rimanere estranei alle lotte politiche e sociali dell’Impero.
Sempre nel 1875 Guglielmo I visitò Milano.
L’arrivo il 25 marzo 1876 della Sinistra storica al Governo non mutò la politica italiana verso le terre irredente, malgrado si intensificassero le manifestazioni irredentiste per «Trento e Trieste».
In aprile Francesco Giuseppe visitò Venezia e insieme a Vittorio Emanuele II passò in rassegna le truppe italiane presso Vicenza.
Il 16 ottobre 1876, durante la guerra di Serbia e Montenegro contro l’Impero Ottomano, Andrassy dichiarò a Robilant che «nessun aumento territoriale della Monarchia, foss’anche quello dell’Oriente, giustificava pretese territoriali da parte dell’Italia e che l’Austria-Ungheria al primo segno di una politica annessionista non si sarebbe limitata a difendersi, ma sarebbe proceduta all’attacco, cioè avrebbe aggredito».
Nel settembre 1877 il presidente del Consiglio Agostino Depretis mandò Francesco Crispi a Berlino per proporre a Bismarck un’alleanza difensiva contro la Francia. La Germania avrebbe sollecitato Vienna a offrire all’Italia un «compenso sulle Alpi» (cioè il Trentino) se l’Austria avesse occupato la Bosnia-Erzegovina. Ma ormai Vienna e Berlino si erano stabilmente riconciliate e non se ne fece nulla. Bismarck contropropose l’occupazione italiana dell’Albania a compenso della Bosnia-Erzegovina. Si può discutere di compensi – disse –, ma fuori dal principio di nazionalità.
Lo sconvolgimento dell’assetto balcanico fra il 1875 e il 1878 lasciò l’Italia con le «mani nette» ma a bocca asciutta. Il Congresso di Berlino consentì l’occupazione austro-ungarica della Bosnia-Erzegovina e del Sangiaccato di Novi Pazar, indebolendo l’Italia in Adriatico e gli italofoni in Dalmazia. A nulla valsero le manifestazioni irredentiste di piazza.
Il ministro degli Esteri Luigi Corti scrisse al premier Benedetto Cairoli il 30 giugno 1878: «Ora l’Italia è fatta ed io mi lascio recidere questa mano piuttosto che lavorare a produrre un conflitto che potrebbe condurla nell’abisso». E infatti, dopo il Congresso di Berlino, vietò ai patrioti triestini di organizzare tumulti che avrebbero potuto determinare un conflitto con l’Austria-Ungheria. Il Circolo Garibaldi di Trieste rivelò in seguito: «Nel 1878, quando tutta l’Italia era agitata dai comizi popolari per Trieste e Trento, sarebbe bastata una nostra parola per rendere inevitabile la guerra fra l’Italia e l’Austria. Ma in quel momento ci si fece conoscere che l’Italia non era pronta, che essa correva il rischio di subire nuove jatture, e noi abbiamo frenato i palpiti del cuore ed abbiamo aspettato».
Nell’ottobre 1879, abbandonata la Lega fra i tre Imperatori, Germania e Austria-Ungheria firmarono in funzione anti-russa la Duplice Alleanza, che rafforzò Vienna, blindandola nuovamente sul fronte italiano.
Dopo l’occupazione francese della Tunisia nel maggio 1881 e la firma della seconda Lega dei Tre Imperatori nel giugno successivo, re Umberto I e il ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini, sentendosi accerchiati da ogni parte e privi della garanzia di un appoggio inglese in caso di conflitto per le terre "irredente", mirarono a un’alleanza organica con Austria-Ungheria e Germania. Tra il 21 e il 31 ottobre 1881 furono ricevuti a Vienna da Francesco Giuseppe. L’accordo segreto, stipulato il 20 maggio 1882 a Vienna, aveva lo scopo «di rafforzare il principio monarchico e di assicurare il mantenimento dell’ordine sociale e politico nei loro rispettivi Stati». Non previde tuttavia contropartite territoriali per l’Italia né garanzie per i diritti culturali degli austro-italiani.
Con la Triplice Alleanza Roma abdicò ancora più nettamente al principio di nazionalità e pose la pietra tombale sulle aspirazioni irredentiste, ripudiando centinaia di migliaia di connazionali. Per giunta contrastò ogni iniziativa che potesse dispiacere a Vienna, non fece nulla per salvare la vita a Guglielmo Oberdan e anzi represse con durezza sia i moti anti-asburgici suscitati dalla sua impiccagione, sia semplici commemorazioni private, raccolte di fondi, articoli di giornale, nonché manifesti e volantini in sua memoria, facendo inoltre processare due suoi "complici" e numerosi militanti irredentisti. Il Regno d’Italia, colpendo gli irredentisti come "eversori", sembrò trasformarsi da mezzo per realizzare l’unità nazionale in compiacente strumento al servizio di Vienna per impedirla.
Contestualmente il Governo di Roma, ritenendosi protetto da Austria-Ungheria e Germania nei confronti di (poco probabili) attacchi francesi, iniziò nel marzo 1882, con l’indiretto appoggio britannico, la sua avventura coloniale in Eritrea. L’avvio di una politica imperialista, violando il principio di nazionalità ai danni di altri popoli, fu una beffa verso gli "irredenti" e soprattutto verso gli esuli che in Italia avevano trovato scampo dalle persecuzioni asburgiche. I successivi rinnovi della Triplice Alleanza (1887, 1891, 1896, 1902, 1907, 1912) diedero all’Italia maggiori garanzie politico-militari, utili per la sua espansione in Africa e poi anche nell’Egeo, mai però un compenso nel Tirolo o nel Litorale.
Il Regno d’Italia, aspirando a diventare un piccolo impero in competizione con quelli maggiori e rinunciando così ad essere un vero Stato nazionale, considerò i territori asburgici abitati da italofoni alla stessa stregua di altri, valutandone l’eventuale acquisizione secondo i medesimi prosaici criteri di convenienza e opportunità. Appena dal 1896 impostò una politica balcanica concorrenziale a Vienna, accontentandosi tuttavia di una penetrazione economica in Montenegro, oltre che nell’Albania e nella Macedonia ottomane.
Dal 1890 i Governi italiani cominciarono a inviare nelle "terre irredente" – sottobanco tramite la società «Dante Alighieri» – finanziamenti a scuole private, giardini d’infanzia e convitti italiani, partiti liberal-nazionali, giornali e riviste, che migliorarono le condizioni materiali, culturali e politiche degli austro-italiani, ma che non bastarono a contrastare la potente offensiva nazionalista slavo-germanica, specie in Dalmazia. Ormai era tardi: il disinteresse era durato troppo a lungo. Così tutti i Comuni dalmati salvo Zara, nonché quelli di Pisino, Pinguente e Volosca, oltre alla Dieta dalmata, caddero in mani slave. I nazionalisti croati accusarono la «Dante» e gli autonomisti dalmati di essere strumento dell’imperialismo italiano e della snazionalizzazione degli slavi. Il Governo austriaco, al corrente del flusso di denaro da Roma, lasciò correre per evitare problemi con l’alleato.
Francesco Crispi, pur auspicando un più giusto trattamento degli austro-italiani, considerò l’irredentismo il più grave errore. Sciolse associazioni antiaustriache come il Comitato per Trento e Trieste e i Circoli «Oberdan», impedì la raccolta di fondi per la costruzione a Trieste di un monumento a Dante e il 14 settembre 1890 destituì il ministro delle Finanze Federico Seismit-Doda per non aver preso le distanze durante una riunione a Udine da discorsi inneggianti all’italianità della Dalmazia. Secondo Crispi una risposta alla questione adriatica andava cercata in un accordo con la Germania.
Dal 1893 la «Dante» finanziò le campagne elettorali dei liberali italiani del Litorale e del Tirolo contro i nazionalisti slavi e austriaci, ma anche contro i concorrenti cattolici e socialisti, e creò una rete di corrispondenti e informatori su questioni politiche e militari. In Dalmazia prese contatti nel 1896 e cominciò un finanziamento costante dal 1898.
Nel novembre 1893 Giuseppe Zanardelli, presidente del Consiglio incaricato, rinunciò dopo le proteste di Vienna per la sua intenzione di nominare ministro degli Esteri il generale Baratieri, trentino di nascita.
L’intervento di Crispi nel novembre 1894 presso l’imperatore tedesco affinché distogliesse il Governo austriaco dall’imposizione di tabelle bilingui sui tribunali dell’Istria o le pressioni del ministro degli Esteri Felice Canevaro nel gennaio 1899 su Vienna e Berlino contro la politica di slavizzazione nel Litorale e in Dalmazia furono pressoché gli unici interventi attuati fino ad allora dal Regno d’Italia a tutela dei diritti linguistici, scolastici e associativi dei propri connazionali residenti nell’alleata Austria-Ungheria.
Dopo l’accordo segreto di neutralità con Parigi (30 giugno 1902), Giovanni Giolitti, presidente del Consiglio dal 1903, spostò gran parte delle forze armate dalla frontiera francese a quella austriaca in previsione di una possibile guerra.
Il 6 ottobre 1908 l’Austria-Ungheria annetté arbitrariamente la Bosnia-Erzegovina. L’Italia ottenne quale compenso lo sgombero del Sangiaccato e la rinuncia alla polizia nelle acque montenegrine. Il ministro degli Esteri Tittoni insistette perché a Trieste fosse istituita una facoltà giuridica, ma senza esito.
Sempre nel 1908, alla prima rappresentazione a Roma del dramma irredentistico di d’Annunzio La Nave, presenziarono re Vittorio Emanuele e la consorte Elena di Montenegro, che al termine si congratularono con l’autore: un gesto emblematico.
Il 18 ottobre 1909 il console a Zara Majoni scrisse a Tittoni che i dirigenti del partito autonomo-italiano di Dalmazia si rammaricavano del mancato appoggio del Governo di Roma, «dal quale essi si reputerebbero troppo abbandonati, pur rendendosi conto della posizione delicatissima in cui esso si trova».
Antonio di San Giuliano, ministro degli Esteri dal marzo 1910 all’ottobre 1914, migliorò i rapporti con l’Austria-Ungheria sperando che ciò andasse a beneficio degli austro-italiani. Continuò con gli aiuti economici ai partiti liberalnazionali tramite la «Dante», ma proclamò il più assoluto disinteressamento dalle vicende interne dell’Impero.
Nel settembre 1913 il governatore di Trieste Hohenlohe destituì i regnicoli dagli incarichi nell’amministrazione comunale. Le richieste di San Giuliano e Giolitti affinché i decreti venissero revocati portarono a favorire l’acquisizione della cittadinanza da parte dei dipendenti comunali regnicoli evitandone il licenziamento.
Nell’aprile 1914, incontrando ad Abbazia il ministro degli Esteri asburgico Berchtold, San Giuliano chiese la fine della politica di slavizzazione. In giugno reclamò il Trentino e altre province italofone dell’impero quale compenso in caso di occupazione austro-ungarica dell’Albania settentrionale, di acquisto di territori montenegrini o di attacco alla Serbia. Vienna però era indisponibile.
In agosto, quando Austria-Ungheria e Germania sembravano vincenti, il governo Salandra rispose di no alla Russia, che gli chiedeva di entrare in guerra a fianco dell’Intesa offrendo come contropartita Trentino, Alto Adige, Venezia Giulia e parte della Dalmazia. Roma si mosse per sottrarre a Vienna parte delle "terre irredente" solo quando si convinse che le sue alleate della Triplice potevano davvero essere sconfitte dall’Intesa.
Nei primi mesi del 1915 la Germania premette sull’Austria-Ungheria per la cessione all’Italia del Trentino dopo la fine della guerra. All’Italia questo non bastava, ma Vienna era intransigente su Trieste, poiché la considerava il polmone dell’Impero. Il 2 aprile il Governo austro-ungarico fece sapere di essere disposto a cedere parte del Trentino.
L’11 aprile il Governo Salandra chiese, in cambio della neutralità, il Trentino con i confini del Regno Italico del 1810-13 (includenti Bolzano ma non Cortina), la conca di Tarvisio, la Contea di Gorizia e Gradisca, in Dalmazia le isole di Curzola, Lagosta, Lesina, Lissa, Pelagosa e gli isolotti vicini, nonché la creazione di uno Stato indipendente di Trieste con il suo territorio comunale, Aurisina e la circoscrizione giudiziaria di Capodistria e Pirano, che si incuneava all’interno dell’Istria settentrionale fino a Pinguente. Le richieste annessionistiche avevano ragioni principalmente militari, visto che gran parte di tali territori era a maggioranza slava, salvo il Trentino e la riva destra meridionale dell’Isonzo (con Cormons, Lucinico e Grado). Lo Stato indipendente mirava invece a sottrarre all’Austria il suo principale porto commerciale e una delle sue piazze finanziarie. Oltre a ciò Roma pretendeva il riconoscimento della sovranità su «Valona e la sua baia, compresa Saseno, con tanto territorio dell’entroterra quanto necessita alla sua difesa» e il completo disinteressamento austro-ungarico sull’Albania, per meglio controllare il passaggio dal Mare Ionio al Mare Adriatico.
Il 10 maggio Germania e Austria offrirono il Tirolo italiano, la riva occidentale dell’Isonzo di nazionalità italiana con Gradisca, la piena autonomia comunale e l’università italiana a Trieste, la zona di Valona, il disinteressamento austriaco per l’Albania, la salvaguardia degli interessi nazionali degli austro-italiani e l’esame benevolo di eventuali richieste italiane sull’insieme dei territori oggetto di negoziato e in particolare Gorizia e le isole. Ma il 26 aprile il Governo italiano aveva già segretamente firmato il Patto di Londra, che le prometteva molto di più, sia pure solo in caso di vittoria, non solo ai confini con l’Austria, ma anche in Albania, Anatolia e Africa, nonché il pieno riconoscimento della titolarità su Libia e Dodecaneso.
Dunque l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria per ottenere non solo Trentino, Alto Adige, Cortina, Isontino, Trieste, Istria e parte della Dalmazia, ma anche territori coloniali: segno che stava seguendo una logica espansionistica, ammantata di liberazione nazionale.
Il Regno d’Italia, fondato sui plebisciti, non li invocò per le terre "irredente". L’annessione sarebbe dovuta dipendere da un contratto di dare e avere (il Patto di Londra) firmato con le principali potenze imperialistiche mondiali (Gran Bretagna, Francia e Russia). Roma non rivendicava quei territori perché i rispettivi abitanti desiderassero farne parte: la loro volontà non contava. Che lì vivessero soprattutto o anche italiani fu solo un ottimo pretesto propagandistico per invocare il possesso di quelle province.
Il Governo Salandra non si preoccupò invece del fatto che la dichiarazione di guerra all’Austria rese gli austro-italiani sospetti di collusione col nemico, determinando la deportazione in massa di quelli dell’Istria meridionale non in armi e l’internamento selettivo di numerosi altri.
Paolo Radivo