MAILING LIST HISTRIA

RASSEGNA STAMPA SETTIMANALE

 a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri

N. 911 – 29 Marzo 2014
    
Sommario


151 -  Mailing List Histria Notizie 23/03/14 Verona - I vincitori della XII edizione del Premio intitolato dal Comitato veronese al Gen. Loris Tanzella
152 - La Voce del Popolo 24/03/14 Gorizia : Convegno - Beni abbandonati e ottica europea (Emanuela Masseria)
153 - Il Piccolo 21/03/14 Regione Istriana: Il Veneto partner privilegiato. E Flego incontra Zaia (p.r.)
154 - Il Piccolo 22/03/14 Trieste: Santin, ecco la statua: le vesti del vescovo sferzate dalla bora (Fabio Dorigo)
155 - La Voce del Popolo 15/03/14 Zara, porte aperte agli imprenditori (Krsto Babić)
156 - Varese News 20/03/14 Busto Arsizio: La signora Veronica Segon in Prodan compie 100 anni
157 - Il Piccolo 26/03/14 La Comunità degli italiani si rifà il look a Gallesano (p.r.)
158 - L'Indipendenza 28/03/14 Concorso sull'identità veneta, lo vince una scuola di Buje (Istria) (Luigi Possenti)
159 - Il Piccolo 16/03/14 Duemila gli esuli istriani che si rifugiarono a Grado
160 - La Voce in più Storia & Ricerca 01/03/14 Padova, Venezia e l'Istria appunti su legami secolari (Kristjan Knez)
161 - La Voce del Popolo 16/03/14 Jan Bernas Una sola «colpa», quella di essere italiani (Ilaria Rocchi)
162 -  La Voce di Romagna 25/03/2014 Maresciallo Antonio Farinatti , l'eroe dell'Istria


Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arenadipola.it/
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http://www.arcipelagoadriatico.it/



151 -  Mailing List Histria Notizie 23/03/14 Verona - I vincitori della XII edizione del Premio intitolato dal Comitato veronese al Gen. Loris Tanzella
Verona - I vincitori della XII edizione del Premio intitolato dal Comitato veronese al Gen. Loris Tanzella
Ecco l'elenco dei vincitori della XII edizione del Premio intitolato dal Comitato veronese al Gen. Loris Tanzella, e le relative motivazioni
 
Menzione d'Onore
Storia di Argo, di Maria Grazia Ciani
«Per aver dato espressione poetica, con tocchi essenziali, ma straordinariamente evocativi, al delicato rapporto degli esuli con il ricordo dei loro luoghi d'infanzia, alla loro dolorosa sospensione fra il desiderio di un ritorno e la consapevolezza della sua impossibilità».
 
Sezione Testimonianze
Primo Premio
In Istria prima dell'esodo. Autobiografia di un esule da Pola, di Lino Vivoda
«Dopo una copiosa produzione libraria sui temi dell'Adriatico orientale, l'autore presenta una testimonianza personale sulla vita in Istria prima dell'esodo. Nella prima parte infatti, parlando della sua famiglia e degli avi, fornisce un efficace affresco della quotidianità dell'epoca. Sempre con il consueto agile taglio giornalistico, ci fa conoscere pagine di storia e ci propone la lunga investigazione sull'immane tragedia di Vergarolla a Pola, nell'immediato dopoguerra. Il riferimento è ai documenti trovati presso il Servizio Segreto britannico di Londra. Con tali prove si è potuto risalire all'identità di alcuni attentatori e all'Intelligence jugoslavo come mandante. Questo atto terroristico contribuì al grande esodo della popolazione di Pola".
 
Sezione Testimonianze
Secondo Premio
L'esodo nei ricordi dei giuliano-dalmati di Padova. 1943-1954, di Francesca Fantini D'Onofrio, Italia Giacca Zaccariotto, Mario Grassi
"Il volume trae origine dalla preziosa memoria autobiografica dei protagonisti dell'esodo giuliano-dalmata di Padova, entrata a far parte del Patrimonio documentario dell'Archivio di Stato della città patavina. Il lavoro, corredato da una ricca documentazione fotografica risalente all'epoca degli eventi narrati, costituisce un apporto considerevole alla conoscenza del contesto storico in cui si consumò la tragedia che colpì le popolazioni del confine orientale".
 
Sezione Testimonianze
Menzione d'Onore
Ho trovato una fotografia della mia infanzia, di Luciana Rizzotti
 
Sezione Testimonianze
Menzione d'Onore
I miei ricordi di Dignano d'Istria, di Armando Delzotto
 
Sezione Testimonianze
Menzione d'Onore
Ricordo.Testimonianze dignanesi, di Maria Grazia Belci
 
Sezione Testimonianze
Menzioni d'Onore
Ieri e oggi. Testimonianze in dialetto polese, di Silvia Sizzi
 
Sezione Storia
Primo Premio
Storia della Congregazione delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù di Fiume, di Maria Gabriella Corva Fscg
«L'autrice, dopo aver trattato ampiamente la storia della città di Fiume, illustra l'origine della famiglia Cosulich e quindi presenta la figura di Madre Maria Crocifissa, fondatrice della Congregazione delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù. Le rilevanti opere religiose e sociali promosse subirono un'improvvisa battuta d'arresto con la II guerra mondiale. Quindi, l'abbandonare la città e la loro Casa Madre, per le sorelle della Congregazione non fu una libera scelta, ma un atto di obbedienza ad ordini superiori che comportò il trasferimento in territorio italiano. Tuttavia lasciarono nella loro terra d'origine numerose e significative opere a testimonianza del loro fervente apostolato»".
 
Sezione Storia
Secondo Premio
Istria, 1946: il plebiscito negato, di Paolo Radivo
"Dobbiamo mettere in luce l'impegnativo ed accurato lavoro svolto dall'autore nella ricerca archivistica e nella selezione di diverse fonti. Il materiale consultato è di grande interesse e porta alla conclusione che il plebiscito richiesto dalle popolazioni dell'Adriatico orientale in merito alla loro autodeterminazione, fu ostacolato e poi negato, nonostante i principi dell'ONU allora nascente, per opportunismi di politica nazionale ed internazionale".
 
Sezione Storia
Menzione d'Onore Speciale
Foibe, una tragedia annunciata. Il lungo addio italiano alla Venezia Giulia, di Vincenzo Maria de Luca
«La Giuria del Premio Letterario Nazionale "Gen. Loris Tanzella" ringrazia l'autore per l'assiduo ed appassionato lavoro di ricerca, di approfondimento e di divulgazione delle tematiche storiche del confine orientale e della tragedia delle foibe. Questa edizione dell'opera, di recente pubblicazione, riveduta ed ampliata rispetto alla prima, evidenzia l'accuratezza del ricercatore, la determinazione e il coraggio dello storico amante della verità».
 
Sezione Storia
Menzione d'Onore
La questione giuliana nei documentari cinematografici e Campioni giuliano-dalmati dello sport, diAlessandro Cuk
 
Sezione Poesia
Primo Premio
Raccolta di poesie, di Rita Mazzon
«Per l'intensità e la chiarezza con cui la sua poesia evoca lo smarrimento dell'esule, la perdita di identità e la ricerca angosciosa di capire il perché di una tragedia che continua ad interrogare la storia personale e nazionale degli italiani».
 
Sezione Poesia
Menzione d'Onore
La mia gente. La nostra storia, di Giorgio Tessarolo
 
Sezione Poesia
Menzione d'Onore
Riflessioni, di Anita Forlani
 
Sezione Poesia
Menzione d'Onore
Ahi, matrigna Italia, di Guerrino Kotlar
 
Sezione Poesia
Menzione d'Onore
Nostalgia, di Ettore Berni
 
Sezione Poesia
Attestato di partecipazione
I detriti necessarj, di Virgilio Atz
 
Sezione Narrativa
Primo Premio
Istria d'amore, di Ulderico Bernardi
«Istria: sulla battigia latina sono venute a spegnersi onde di trasmigrazioni millenarie. E' questa la matrice del variegato spirito istriano, che risente di molte e diverse vicende storiche, spesso violente e animose e che solo la Repubblica veneta ha saputo comporre per un millennio in una coinè di dialetti e di costumi. Ma l'Istria fa parte di una regione più vasta, con Aquileia, Venezia, Gorizia, Trieste, che ha quindi confini dall'Adda all'Adriatico».
«Nell'amplissimo e variegato orizzonte descritto dal Prof. Bernardi, spiccano la ricerca erudita e profonda dello storico, l'animo soave ed incantato dell'innamorato, il passo leggero del viandante (non del turista) che coglie e condivide tutte le sfaccettature dell'animo istriano. Il Prof. Bernardi non ha bisogno di presentazione: la sua opera parla per lui; ma qui ci è gradito premiarlo come fratello e amico delle nostre terre».
 
Sezione Narrativa
Secondo Premio
La batana FM 341 – Storia de pesca nel Quarnero, di Rodolfo Decleva
«Il lavoro, in dialetto fiumano, recupera la tradizione e il linguaggio dei pescatori del Quarnero, fornendo puntuali lezioni di tecnica della pesca con un linguaggio ricco di descrizioni minuziose e di precisazioni.
Pesca come risorsa, un tempo inesauribile, pesca come fonte di sopravvivenza e come baratto negli anni bui della guerra, pesca come legame indissolubile con un mare generoso, con la sua bellezza e le sue intemperie, rituale nella vita quotidiana della gente quarnerina. Anche i canti che accompagnavano la pesca sono riportati in questo curioso e interessante lavoro».
 
Sezione Narrativa
Menzione d'Onore
El roplan dei sogni di Roberto Stanich
 
Sezione Narrativa
Menzione d'Onore
Laura, di Tullio Binaghi
 
Sezione Linguistica
Primo Premio
Parlavimo e scrivevimo cussì in Casa Mocolo. Vocabolario del dialetto polesano-istriano, diRuggero Botterini
«In quest'opera è opportuno sottolineare la salvaguardia ed il recupero di un importante patrimonio culturale caratterizzante il territorio istriano ed in particolare la città di Pola. All'autore va un plauso particolare per la certosina ricerca dell'idioma istro-veneto, essenza di antichi valori culturali delle terre dell'Adriatico orientale».





152 - La Voce del Popolo 24/03/14 Gorizia : Convegno - Beni abbandonati e ottica europea

Beni abbandonati e ottica europea

Emanuela Masseria

GORIZIA | Doveva configurarsi come un convegno “tecnico”, per pochi addetti ai lavori, quello proposto nei giorni scorsi dall\'Anvgd nazionale a Gorizia sui beni abbandonati. In pratica è stato però un incontro piuttosto partecipato, che ha dato conto della magmatica e complessa situazione giuridica che attraversa il tema delle proprietà cedute nei territori che hanno più volte cambiato bandiera nel corso della storia. Tra gli ospiti che a vario titolo sono intervenuti si può però rintracciare una linea comune d’azione per l’immediato futuro: cominciare a lavorare per nuovi diritti e regole dentro a una cornice europea, pur nel rispetto e nelle interpretazioni dei Trattati e delle leggi nazionali.

Passi avanti e incertezze

Il convegno partiva dal caso dei beni nella Croazia entrata nell’UE, un Paese dove sembrano esserci stati notevoli passi avanti, pur in un clima di incertezza. La tavola rotonda, moderata dal professore emerito Giuseppe de Vergottini e da Davide Rossi, professore e avvocato, in questa sede ha affrontato, nelle pieghe del diritto comunitario, proprio la situazione di questa sostanziale impasse.

Piattaforma in Rete

Un secondo aspetto importante che si lega alla giornata è la realizzazione di una piattaforma Internet dove si potranno trovare e scaricare liberamente tutti i documenti utili a chi è interessato a questa materia. Anche la tavola rotonda è stata trasmessa in streaming, in diretta televisiva e prossimamente sarà visionabile in rete sul sito dell’Anvgd. Così ha sottolineato il vicepresidente nazionale dell’Associazione Venezia Giulia e Dalmazia, Rodolfo Ziberna, che ha parlato della possibilità di trovare anche i testi degli interventi del recente convegno, e, più in generale, molti documenti utili che riguardano una moltitudine di Paesi e situazioni, in considerazione dei tanti esuli che seguono la questione anche fuori dall’Italia e dal contesto europeo. L’obiettivo è, come sottolineato da Rossi, “rendere il portale un punto di arrivo ma anche punto di partenza per chi si occupa di queste questioni da vent’anni”.

Tutela e regole del potere

L’incontro, dopo i commenti introduttivi, ha visto la partecipazione in videoconferenza da Vienna di Ulrike Haider, figlia dell’ex governatore Jorg Haider e figura politica nascente nel contesto austriaco in vista delle prossime elezioni europee. Attualmente ricercatrice, la 37.enne Haider ha già collaborato con De Vergottini sul tema della tutela delle minoranze ed ha incentrato il suo intervento sulla situazione austriaca, guardando a dimensioni più teoriche e ampie. “Bisogna ripensare alla questione dei beni e degli esodi nei termini del diritto dell’Unione europea. Questo è un tema universale da trascendere, ma soprattutto da considerare sempre attuale e ancora da risolvere. Pensiamo, ad esempio, alla pulizia etnica nei Balcani negli anni ’90 o al Kosovo e, adesso, all’Ucraina. Questo è un tema che non potrà essere sradicato dalle regole del potere e da quelle degli Stati nazionali. I diritti delle minoranze – ha concluso – sono e restano una questione identitaria che si scontra con il potere. Non possiamo fare altro che chiedere chiarezza e tutele mirando a degli standard europei, che possano tener conto dei futuri allargamenti”.

Contatti tra gli Stati

Quello che Haider si è chiesta, alla fine, è: “Come proseguire?”. Alcuni chiarimenti sono poi stati avanzati da De Vergottini in merito alla notizia di una presa di contatto tra il presidente del Parlamento austriaco con quello croato sul tema dei beni abbandonati di soggetti austriaci. Ulrike ha riportato che il presidente del Consiglio austriaco ha in effetti avuto questo incontro dove è stata discussa una questione che “sta a cuore agli austriaci, ma manca l’ottica europea e delle possibili soluzioni”. Pare comunque che sia stato solo un contatto preliminare.

Diverse categorie d’intervento

Tornando invece alla questioni legate all’ex Jugoslavia, il prof. de Vergottini ha proseguito con il suo intervento dal titolo “La Commissione Leanza come base di partenza”, dove si è parlato di “un grosso pasticcio giuridico”. Nell’excursus del professore “una vicenda catastrofica andata avanti per anni” con la dissoluzione della Jugoslavia si è trasformata in un “un dibattito che dovrà riorientarsi nello stabilire diverse categorie di intervento, a seconda di cosa è stato effettivamente abbandonato”.

Nel corso della giornata sono poi intervenuti Paolo Sardos Albertini (La situazione dei beni abbandonati: un quadro generale), l’avv. Vipsania Andreicich (Le “eccezioni” ai Trattati), Anita Prelec (La giurisprudenza croata sui “Beni Abbandonati” ad un anno dall\'entrata nell\'U.E.) e Davide Lo Presti (La giurisprudenza della Corte dei Diritti dell\'Uomo in tema di espropriazione e nazionalizzazione).

Emanuela Masseria





153 - Il Piccolo 21/03/14 Regione Istriana: Il Veneto partner privilegiato. E Flego incontra Zaia
Il Veneto partner privilegiato. E Flego incontra Zaia

POLA Dei 320 progetti europei che l’Istria ha sinora realizzato, 88 sono stati portati a termine con partner italiani e, di questi, 19 con il Veneto.
Lo ha sottolineato il presidente della Regione Valter Flego durante la conferenza stampa al termine dell’incontro a Pola con il console generale d’Italia a Fiume Renato Cianfarani. «Questi numeri confermano il notevole peso dell’Italia nei nostri scambi economici e commerciali» ha aggiunto Flego spiegando d’aver discusso con il console dei prossimi bandi europei ai quali i partner italiani e croati intendono aderire congiuntamente. È dunque il Veneto la Regione partner privilegiata dell’Istria. Non a caso, proprio oggi, Flego si recherà a Venezia per un incontro con il governatore Luca Zaia teso a illustrare le peculiarità istriane ai potenziali investitori veneti. L’Istria, comunque, ha già sottolineato il ruolo della legge Beggiato per il recupero del patrimonio artistico e culturale lasciato dalla Serenissima. Legge, approvata nel 1994 in Veneto, che ha consentito di realizzare fino al 2011 101 progetti del valore complessivo di 2,5 milioni di euro. E non è finita. Dopo i dieci progetti portati a termine nel 2013 per 252.000 euro, quest’anno ne sono in cantiere cinque per 119.000 euro.
Dopo il Veneto, nella classifica delle regioni italiane più “vicine” in fatto di collaborazione europea, si piazza l’Emilia Romagna con 12 progetti.
Terzo il Friuli Venezia Giulia con 9 progetti. Cianfarani, intanto, sempre nel corso dell’incontro, ha definito eccezionali i rapporti in campo economico, commerciale e culturale con l’Italia: «L’Istria offre ulteriori possibilità di investimenti e in questo senso tentiamo insieme di individuare nuovi segmenti di cooperazione». Alla domanda se si sia parlato della Comunità nazionale italiana, Cianfarani ha risposto affermativamente:
«La Regione ha uno statuto eccellente - ha detto - che sancisce il bilinguismo e garantisce i diritti fondamentali a tutte le minoranze sul territorio». (p.r.)


154 - Il Piccolo 22/03/14 Trieste: Santin, ecco la statua: le vesti del vescovo sferzate dalla bora
Santin, ecco la statua: le vesti del vescovo sferzate dalla bora

L’Icmp ha firmato il contratto, lo scultore Bruno Lucchi mostra il bozzetto per il Molo IV: «Il vento l’idea vincente»

di Fabio Dorigo

L’idea della bora è stata quella vincente». Bruno Lucchi, scultore trentino (è nato a Levico Terme nel 1951, dove vive tuttora e lavora), è tranquillo. Il contratto per la realizzazione della statua di Monsignor Santin è stato firmato e spedito da Alfonso Maria Brigante, presidente dell’Istituto di cultura marittimo portuale (Icmp). Nel novembre scorso Lucchi si era aggiudicato per 79mila euro una gara a quattro per la statua che sarà collocata in testa al Molo IV a lato del Magazzino 1. Quattro erano le offerte ricevute dalla fondazione Icmp destinataria del finanziamento regionale da 110mila euro per realizzare, all’interno del Porto Vecchio, il monumento al vescovo “con gli speroni” originario di Rovigno che ha legato il suo nome al riscatto di Trieste. «Il presidente mi ha autorizzato a rendere pubbliche le immagini del bozzetto e mi ha comunicato che il mio punteggio era quattro volte superiore al secondo classificato» racconta con orgoglio Lucchi. Non c’è stata partita. Lo scultore di Levico Terme, che vanta al suo attivo più di 180 esposizioni personali e sculture disseminate in Italia (nessuna però in Friuli Venezia Giulia) e all’estero (molte a bordo delle navi di Costa Crociere), non ha dubbi sulla carta vincente della sua offerta. «L’iconografia più classica porterebbe più facilmente a pensare a una figura benedicente il mare, i suoi naviganti e i suoi abitanti, al fine di proteggerli dalle avversità meteorologiche che spesso colpiscono Trieste - racconta Lucchi - . La mia proposta è di realizzare una statua in bronzo di oltre tre metri che rappresenti Monsignor Santin in un atteggiamento un po’ desueto, per come siamo stati abituati a vedere rappresentato abitualmente un alto prelato». Niente di blasfemo, per carità. La Curia di Trieste può stare tranquilla, nonostante l’artista trentino sia particolarmente bravo a modellare ninfe, dee, nereidi, sirene dalle sembianze femminili. «Il Vescovo, dopo aver combattuto contro la povertà e la dittatura a difesa degli ebrei e di Pio XI - continua Lucchi - viene rappresentato in un momento del quotidiano e caratteristico della città: la lotta contro i problemi causati dalla bora. Benedice sì, ma in una situazione dove credo che a Trieste si ritrovi anche la gente normale in una giornata di bora».
Il vento gelido del nordest ha messo d’accordo tutta la commissione tanto da assegnare allo scultore trentino un punteggio quadruplo rispetto al secondo arrivato. Il bozzetto della statua di bronzo (che è alto 30 centimetri) mostra il vescovo Santin benedicente che si tiene il cappello e benedice la città in una giornata ventosa. Non si tratta di una scultura religiosa. «L’opera può ispirare non solo i praticanti cattolici, ma anche genti di culture diverse, avvicinandole a questo personaggio tanto amato dai triestini» racconta lo scultore che, nella sua ormai trentennale carriera, non ha mai rappresentato un vescovo, anche se non è nuovo a soggetti di carattere religioso. «Due anni fa a Brescia ho fatto due mostre per la settimana montiniana e ho interpretato il cardinal Montini (il futuro Paolo VI, ndr) a modo mio. Non si è trattato di una rappresentazione realistica» racconta l’artista. Nel caso del vescovo Santin la somiglianza ci sarà. «Il bozzetto non fa testo - racconta Lucchi -. Il problema è che non c’è molto materiale iconografico. Cercherò di farlo più somigliante possibile. Tenga conto che il volto sarà a un’altezza di sei metri e mezzo».
L’altezza è stato uno dei problemi della statua fin dall’inizio. Alla fine, grazie alle pressioni dell’artista e dell’architetto Antonella Caroli (direttore dell’Icmp) il piedistallo è stato quasi dimezzato: da 7 metri si è ridotto 4 metri. «Tre metri in meno», spiega lo scultore che avrebbe voluto una statua a dimensione più umana: «Per il mio spirito la scultura l’avrei messa a livello del terreno in modo che la gente la possa toccare. È importante colloquiare con l’opera. Le sculture su basamento diventano dei monumenti. Non sono vere sculture secondo me. Sono un’imposizione dall’alto al basso. E non credo che lo spirito del Santin fosse quello di guardare la gente dall’alto al basso». Il basamento, democratico o meno, ci sarà. E i tempi? «Ora che abbiamo le misure servirà un mese e mezzo per progettare il basamento e presentare il progetto definitivo - chiarisce Lucchi -. Dopo ci vorranno due o tre mesi di fonderia». Alla fine la statua di Santin sarà pronta ad affrontare davvero la bora del prossimo autunno.




155 - La Voce del Popolo 15/03/14 Zara, porte aperte agli imprenditori
Zara, porte aperte agli imprenditori

Krsto Babić


ZARA Bo�idar Kalmeta, classe 1958, è il sindaco di Zara, la città nella quale è nato e dalla quale è partito alla volta di Zagabria una prima volta per iscrivere la Facoltà di Agronomia. Conclusi gli studi è però ritornato nella sua città. Quello è stato tuttavia soltanto il primo dei suoi ritorni… La carriera politica lo ha infatti portato spesso a percorrere il tragitto tra la sua Zara e la capitale croata, un tragitto che soltanto negli ultimi anni scorre lungo un’arteria autostradale: quell’A1 la cui realizzazione ha seguito da vicino nel ruolo di ministro del Mare, del Traffico, dello Sviluppo e del Turismo, incarico che ha ricoperto per due mandati (2003-2011). Ma anche qui tutto parte da Zara, dove nel 1993 si candida al Consiglio comunale e dove viene eletto con il miglior risultato realizzato nella sua circoscrizione. A breve sarà nominato vicesindaco e già l’anno dopo è alla guida della sua città: è sindaco di Zara. Incarico che lascerà dopo essersi nettamente imposto alle elezioni parlamentari del 2003, e che è tornato a ricoprire dopo le ultimi elezioni locali e che lo hanno visto vincere alle elezioni dirette. Lo abbiamo incontrato per sentire quali sono i progetti in cantiere nella città che da molti è vista come un esempio di successo in termini di crescita e sviluppo. Ma trattandosi di Zara, città nella quale di recente dopo una lunga attesa è stato finalmente inaugurato un asilo italiano, non potevano mancare domande riferite al dialogo tra la Municipalità, la Comunità degli Italiani e gli esuli zaratini…

Negli ultimi 15 anni Zara ha registrato una straordinaria crescita sia economica, sia demografica. Qual è il segreto del vostro successo?

“Nel corso della storia, sia antica sia recente, Zara ha sempre saputo sfruttare appieno tutti i vantaggi della sua posizione geostrategica. Situata al centro delle vie di comunicazione nazionali e internazionali, Zara, anche in virtù del suo porto, ha sempre suscitato l’interesse di numerosi imprenditori. Negli ultimi 15 anni, soprattutto dopo la fine della guerra, Zara ha saputo creare tutti i presupposti indispensabili a garantire uno sviluppo veloce e organico della città. Grazie al completamento dell’Autostrada A1, alla ristrutturazione dell’aeroporto e all’avvio dei lavori di costruzione del nuovo porto, Zara ha saputo confermare nuovamente la sua importanza geostrategica.
Indubbiamente, la piena valorizzazione di Zara è impensabile senza un adeguato coinvolgimento del suo hinterland: il mare, le isole, l’entroterra agricolo, il Velebit... Si tratta di una realtà geografica che fa riferimento a Zara intesa come centro amministrativo di una regione più vasta, che si distingue per il costante rafforzamento del suo potenziale nei settori economico, municipale, sanitario, sociale e culturale.
Purtroppo, la crisi economica che investe tutti i settori ha prodotto effetti negativi anche sui programmi di sviluppo tesi a fare di Zara un centro urbano dotato di tutte le strutture che un centro europeo punta ad avere.”


Turismo, settore strategico

Zara è una delle più importanti mete turistiche dell’Adriatico. Oggettivamente, il benessere della città dipende in larga misura dall’andamento della stagione turistica. Cosa pensate di fare per consentirne il prolungamento?

“Per Zara il turismo è indubbiamente un settore strategico. Negli ultimi 10 anni il traffico turistico ha registrato risultati da record, tanto che le capacità ricettive esistenti ormai non bastano più a soddisfare la richiesta. Proprio per questo motivo stiamo pianificando e allestendo una serie di attività volte a consentire il prolungamento della stagione turistica attraverso lo sviluppo di forme selettive di turismo quali l’organizzazione di congressi o il turismo sanitario.
Grazie a un’attenta pianificazione del territorio siamo stati in grado di assicurare a ridosso del centro storico cittadino spazi destinati a ospitare nuove strutture alberghiere di fascia alta e di lusso. Inoltre, tutti gli anni ci adoperiamo al fine di migliorare e arricchire la nostra offerta turistica. Già oggi Zara è apprezzata dai turisti non soltanto per il suo patrimonio storico e culturale o per le bellezze naturali che contraddistinguono il territorio, ma anche per il suo essere una destinazione capace di garantire sempre di più un’esperienza unica, legata alle installazioni urbane, uniche nel loro genere.”

Arte e cultura

L’Organo marino e il Saluto al sole hanno lasciato senza fiato l’opinione pubblica croata e tantissimi ospiti stranieri. Avete in progetto di stupire la Croazia con nuove installazioni architettonico-artistiche?

“Per quanto ogni nuovo intervento architettonico nel centro storico susciti reazioni di vario tipo nell’opinione pubblica, la città di Zara, essendo una comunità aperta nella quale vivono e operano creativi e artisti di grande talento, sarà sempre pronta a esaminare nuovi progetti che saranno proposti all’attenzione della Municipalità. Con un po’ di fortuna anche eventuali interventi futuri potranno riscuotere lo stesso successo dell’Organo marino e del Saluto al sole.”

Il porto di Ga�enica è uno dei progetti economici più ambiziosi da realizzarsi in Dalmazia. Quali passi ha intrapreso la Città di Zara per agevolarne la realizzazione? Quando potrebbe diventare operativa quest’importante infrastruttura?

“Il porto di Ga�enica è il risultato del lavoro degli esperti, dell’impegno, nonché della capacità espressa dal mondo economico, politico e dall’opinione pubblica zaratini. Sostengo convintamente che si tratti di un progetto d’importanza strategica per lo sviluppo non soltanto di Zara e della sua Regione, bensì di tutta la Croazia. La mia è un’opinione condivisa pure dalle istituzioni europee, che hanno inserito il porto di Zara nei principali corridoi europei e che ne sostengono la realizzazione assicurando finanziamenti a condizioni molto vantaggiose. Sebbene si tratti di un’idea zaratina, il porto di Ga�enica è stato incluso già da tempo tra i progetti d’importanza nazionale, tanto che le istituzioni statali ne seguono la realizzazione. Lo sviluppo della Città di Zara poggia proprio sul nuovo porto e pertanto, nell’ambito delle sue competenze, la Municipalità ne sostiene convintamente il completamento, auspicando che il porto sia realizzato in tempi quanto più brevi possibile.
Con la realizzazione del porto non si svilupperanno soltanto le attività portuali, ma anche tutta una serie di altri servizi e attività produttive. Considerate le potenzialità del terminal passeggeri, confidiamo nel fatto che Ga�enica potrà assumere il ruolo di porto d’imbarco per le navi da crociera, dando così un nuovo impulso allo sviluppo dell’offerta turistica e di tutte le attività legate al turismo. Il porto esprimerà appieno le sue potenzialità in seguito alla realizzazione del terminal per la manipolazione delle merci.”

I collegamenti sono fondamentali

In generale, i collegamenti sono molto importanti per lo sviluppo di una città. Come giudica la situazione per quanto attiene ai collegamenti aerei e marittimi dei quali si può avvalere Zara?

“La realizzazione dell’autostrada ha assicurato un ottimo collegamento non soltanto tra Zara e Zagabria, ma anche tra Zara e tutti i principali centri dell’Europa centrale, ma, fatto questo, l’aeroporto di Zara ha rischiato il collasso. Si è reso pertanto indispensabile impostare strategie capaci di assicurare l’aumento del numero dei passeggeri. A tale proposito ci siamo avvalsi della collaborazione con le compagnie aeree a basso costo e con quelle specializzate nei voli charter per il turismo, che hanno riconosciuto le potenzialità di Zara quale destinazione turistica. A distanza di cinque anni posso affermare con soddisfazione che il numero dei passeggeri è cresciuto in modo costante e sono convinto che questo trend proseguirà anche in futuro.
Purtroppo non posso dire la stessa cosa per quanto attiene ai collegamenti marittimi internazionali. Nonostante il tragitto tra Zara e Ancona rappresenti la rotta più breve e veloce per unire le due sponde dell’Adriatico, i collegamenti con i vicini d’oltremare si mantengono solamente durante la stagione turistica.
Ci rallegra però l’aumento dei passeggeri diretti verso le isole dell’arcipelago zaratino. Rilevo con orgoglio che la linea Zara-Oltre (Preko) è la più trafficata a livello nazionale. Indubbiamente il completamento del porto di Ga�enica e la conseguente realizzazione di uno scalo passeggeri più moderno aiuterà i collegamenti marittimi a raggiungere i livelli di crescita registrati nel traffico aereo.”


Il potenziale economico

Ogni anno molti turisti stranieri visitano Zara, gli ospiti italiani sono tradizionalmente tra quelli più numerosi. In quale modo questo fatto influisce sull’interesse degli imprenditori italiani a investire nello sviluppo di Zara?

“Zara è tradizionalmente legata all’Italia. Rilevo con orgoglio che siamo gemellati con Padova e Reggio Emilia, città con le quali coltiviamo ottimi rapporti d’amicizia. Le collaborazioni migliori le abbiamo realizzate nel campo della cultura, della scienza e dell’istruzione, ma va detto che anche il settore economico offre un potenziale immenso. Questo deve essere sfruttato per realizzare progetti comuni. Al momento la collaborazione economica è visibile nel campo dell’industria alimentare, con particolare riferimento alla maricoltura e alla pesca. Siamo però consci di tutte le potenzialità riguardo ai possibili investimenti italiani nel nostro territorio. Colgo anche l’occasione di questa intervista per segnalare agli imprenditori italiani che Zara vanta un forte potenziale economico e che le porte della Municipalità per loro sono sempre aperte.”

Grande il contributo di Luxardo

Durante la II Guerra mondiale e nel secondo dopoguerra molti zaratini hanno dovuto abbandonare la propria Città natale. Missoni e Luxardo sono soltanto due delle dinastie imprenditoriali italiane originarie di Zara. Esistono contatti e collaborazioni di natura culturale o imprenditoriale tra la Città di Zara e le associazioni degli esuli zaratini?

“La Città di Zara coltiva buoni rapporti e una collaborazione costante con la Comunità degli Italiani di Zara e con la sua presidente Rina Villani. La Comunità collabora con le famiglie zaratine che durante la II Guerra mondiale hanno lasciato queste terre per recarsi in Italia. Molte di queste sono attive anche nell’associazione culturale Dante Alighieri, che è presente anche a Zara con una sua succursale. Entrambe le istituzioni, sia la Comunità degli Italiani sia la Dante Alighieri, promuovono eventi e manifestazioni coinvolgendo la Città di Zara nella loro organizzazione e invitandola a partecipare agli stessi. In questo contesto, inoltre, non posso non menzionare il contributo dato, nel 2003, dal signor Franco Luxardo e dai suoi collaboratori all’intensificazione dei rapporti tra Zara e Padova, e quindi al gemellaggio tra le due città. Inoltre, so che il signor Luxardo ha donato diversi libri di grande valore alla Comunità degli Italiani e al Dipartimento di Italianistica dell’Università di Zara. Il signor Luxardo ha contribuito anche all’organizzazione di diverse iniziative culturali realizzate sia a Zara sia a Padova. Zara è una città aperta anche per quanto concerne la collaborazione nella sfera imprenditoriale. Se qualcuno ci proporrà progetti realizzabili valuteremo con interesse le proposte progettuali e saremo felici di valutarne la fattibilità.”


Con la CNI ottima collaborazione

A Zara operano la Comunità degli Italiani e l’Asilo in lingua italiana “Pinokio/Pinocchio”. La Città sostiene le loro attività? In quale modo?

“Per diversi anni la Città di Zara ha assicurato dei finanziamenti, seppur modesti, a sostegno dei programmi culturali della Comunità degli Italiani. Allo stesso modo ha sostenuto anche i programmi promossi dalle associazioni delle altre minoranze nazionali attive nella Regione di Zara. Dopo aver inaugurato l’iniziativa denominata “Giornata internazionale della varietà culturale”, il cui svolgimento è fissato nel mese di maggio, e dopo aver avviato la pubblicazione della rivista Zadarski most prijateljstva (letteralmente: Il ponte zaratino dell’amicizia), in linea di principio abbiamo smesso di erogare sovvenzioni per i singoli programmi. L’idea era di concentrarci su queste due iniziative che accomunano l’attività di tutte le minoranze nazionali di Zara, e che scaturiscono dalle decisioni del Gruppo di lavoro per il coordinamento delle minoranze nazionali. Va detto però che, dal 1.mo dicembre 2013, la Città di Zara finanzia lo stipendio di due educatrici (15.200 kune al mese) impiegate presso l’asilo italiano Pinocchio.”



156 - Varese News 20/03/14 Busto Arsizio: La signora Veronica Segon in Prodan compie 100 anni
Busto Arsizio

La signora Veronica compie 100 anni

Due guerre, diverse nazioni, sette figli, 11 nipoti e 7 pronipoti: per nonna Prodan un compleanno centenario che corona una storia lunghissima e le gioie di una famiglia numerosa

Un compleanno centenario che corona una storia lunghissima e le gioie di una famiglia altrettanto numerosa: oggi la signora Veronica Segon in Prodan di Busto Arsizio compie 100 anni (nella foto di un anno fa al 99esimo compleanno).
Quando nacque, nel lontano 19 marzo del 1913, il mondo era completamente diverso: basti pensare che la sua casa natale, in territorio istriano, ricadeva sotto l'impero austro ungarico. Da allora quel posto ha cambiato nazionalità diverse volte e lei si è spostata con tutta la famiglia in un'altra nazione.
Veronica è nata 100 anni fa, ha vissuto due guerre mondiali delle quali non ha mai voluto raccontare nulla e ha conosciuto la paura e la povertà, ma anche le gioie e le soddisfazioni di una vita semplice ma condotta con la consapevolezza di chi ha una forte tradizione alle spalle.
La signora Veronica si è innamorata nel periodo tra le due guerre di Matteo Prodan, con il quale ha condiviso il resto della sua vita. Un momento felice ma anche segnato da tragedie e preoccupazioni. Nel 1936 è morta la prima delle sue figlie, alla tenera età di sei mesi. E qualche anno dopo il marito è dovuto partire per l'Africa con l'esercito italiano, da dove farà ritorno solo al termine della guerra.
Tra gli anni '40 e '50 è diventata madre per sei volte vivendo con i figli e il marito in una grande casa famiglia nel piccolo paese di Prodani, in Istria, dove si sopravviveva solo con il lavoro dei campi e l'allevamento degli animali.
Nel contesto di quell'epoca le donne come Veronica non avevano voce in capitolo sulle scelte importanti, che invece spettavano agli uomini, e fu così che nel 1966 il signor Prodan riuscì a portare tutta la famiglia in Italia, ad eccezione di uno dei suoi figli che decise di rimanere con la sua famiglia in Jugoslavia.
Poco dopo il trasferimento, però, il marito morì di malattia. E fu in quel momento che la signora Veronica, apparentemente fragile, ha preso da sola le redini della sua numerosa famiglia: oggi è molto grata al marito per la scelta di trasferirsi in Italia dove i suoi figli sono riusciti a trovare lavoro e costruirsi una famiglia.

Veronica Segon oggi festeggia il suo compleanno con gli amici, con i suoi figli, con i suoi 11 nipoti e i suoi 7 pronipoti. Riesce a malapena a camminare e la vista l'ha abbandonata ma è ancora molto lucida. Dice di sentirsi molto stanca e che, forse, «100 anni sono un po' troppi»: lei stessa si dice molto stupita della sua età e a volte se ne chiede il perché. In tutti questi anni si è dedicata molto alla preghiera. Per questo giorno speciale ha detto che non importa come si sarebbe festeggiato. «L'importante è che si stia ancora insieme».

La famiglia ha festeggiato presso l'abitazione della signora Veronica nel quartiere Redentore. Ai festeggiamenti hanno partecipato anche il parroco, il sindaco Gigi Farioli e la Balcon Band che ha suonato per la festeggiata.

 



157 - Il Piccolo 26/03/14 La Comunità degli italiani si rifà il look a Gallesano

A giugno la fine dei lavori

La Comunità degli italiani si rifà il look a Gallesano

GALLESANO Alla Comunità degli Italiani che porta il nome dell’antifascista Armando Capolicchio, sono in corso importanti lavori di ristrutturazione e ampliamento degli spazi di cui è stato fatto il punto nel corso di una recente conferenza stampa convocata dal presidente della Giunta esecutiva dell’Unione italiana Maurizio Tremul. Il costo è di 180mila euro stanziati dal governo italiano e la conclusione è fissata entro il prossimo giugno.
Come precisato dalla giovane presidente della comunità Moira Drandic, le attività sono in crescita, specie tra le generazioni più giovani, per cui si sentiva la necessità di spazi nuovi. Dei lavori ha parlato la progettista Vesna Gojak. Praticamente ha spiegato, l’intero edificio subirà una specie di face-lifting. Ma quel che più conta si otterranno due vani nuovi al piano superiore, uno dei quali sarà adibito a galleria d’arte e l’altro sarà polifunzionale. Inoltre vengono sostituiti tutti gli infissi, rifatti completamente il tetto con l’uso di una copertura isolante e gli impianti elettrico e del riscaldamento centrale. Se avanzerà qualche euro, all’intero edificio sarà applicato il mantello isolante per contenere i consumi energetici. Tremul ha voluto precisare che nel 2011 è stato avviato un intenso programma di ristrutturazione e costruzione a nuovo di comunità, scuole e asili. «La nostra strategia - ha spiegato -, è quella di portare a termine quanto prima tutti gli interventi nella sfera edilizia in modo tale da concentrare poi le risorse e gli sforzi sull’aumento delle attività sia sul piano della quantità che della qualità». Non è mancato il riferimento di Tremul alle pesanti critiche alla dirigenza dell’Unione italiana, da parte dell’opposizione interna. «Alle accuse gratuite nei nostri confronti - ha detto -, noi rispondiamo con i fatti, con il lavoro tangibile a favore delle nostre istituzioni». All’incontro stampa è intervenuta anche la vicesindaco di Dignano Luana Moscarda Debeljuh che ha ribadito la sensibilità dell’amministrazione municipale nei confronti della Comunità di Gallesano il cui ruolo ha detto, è oltremodo prezioso per la salvaguardia delle tradizioni e dell’identità del borgo. (p.r.)






158 - L'Indipendenza 28/03/14 Concorso sull'identità veneta, lo vince una scuola di Buje (Istria)
Concorso sull’identità veneta, lo vince una scuola di Buje (Istria)

di LUIGI POSSENTI

Mille e cento anni di storia non rappresentano una parentesi della storia, ma la storia stessa. L’Italia, semmai, ha l’aspetto della parentesi nella gloriosa storia della Repubblica Serenissima, finita fra le grinfie del Regno italiano solo grazie ad un plebiscito truffa (ormai ampiamente dimostratosi tale) svoltosi nel 1866.

Ma Venezia, il venetismo hanno radici profonde. Non solo su quel suolo che oggi è imprigionato nei confini italiani, ma anche in quelle terre che sono state parte della Repubblica di San Marco.

Ecco allora – come riporta il Gazzettino – che La scuola media superiore di Buje (Istria, Croazia) nel settore teatro con lo spettacolo “Una confusion de comedia” ha vinto il concorso fra i ben 150 progetti presentati da 126 istituti scolastici di ogni ordine e grado da tutto il Veneto e dalla Slovenia e Croazia durante la Festa del popolo veneto celebrata nella Scuola grande di San Giovanni Evangelista.

In Istria e non in Veneto i vincitori? Capito quanti danni ha fatto la scuola italiana? Par tera, par Mar… evviva San Marco.





159 - Il Piccolo 16/03/14 Duemila gli esuli istriani che si rifugiarono a Grado
Delle vicende di 65 anni fa si è parlato nell’incontro dedicato a quanti si stabilirono sull’Isola o nella frazione di Fossalon. Oggi rappresentano l’8% dei residenti

Duemila gli esuli istriani che si rifugiarono a Grado

di Antonio Boemo Circa 120 profughi istriani trovarono ricovero a Grado esattamente 65 anni fa. Alloggiarono tutti (anche cinque o sei per stanza) a Villa Teresa, che proprio in questo periodo – dopo diversi anni di chiusura – viene ristrutturata mantenendone intatto l’aspetto architettonico. Di quanto accadde 65 anni fa se n’è parlato anche in occasione dell’ “Incontro istriano”, dedicato a quelli che sono residenti a Grado, svoltasi alcuni giorni fa. Ricordi, quelli legati a Villa Teresa, portati alla luce da una delle persone, Tullio Svettini, che allora trovarono alloggio proprio in quell’edificio. Frammenti del passato che si collegano oggi con quelli degli istriani che emigrarono in Australia, la cui partenza proprio in questi giorni viene ricordata a Trieste. A Grado esuli istriani trovarono alloggio, oltre che a Villa Teresa, anche in diversi altri edifici come le ville Aida, Alga, Santina, Istria e Minerva. Allora transitarono per Grado circa duemila profughi. Di questi un migliaio si stabilì definitivamente nell’Isola o a Fossalon.
Oggi si calcola che a Grado ci siano ancora circa 500 istriani (circa l’8 per cento della popolazione). L’arrivo degli esuli avvenne in più tornate e in periodi diversi. Un primo “sbarco” avvenne nel 1947, seguito da altri fra il 1949 e il 1950. L’ultimo fu nel 1954 quando, a seguito del memorandum di Londra, Trieste tornò all’Italia e contestualmente tantissimi istriani lasciarono Buie, Cittanova, Umago e altre località passate all’ex Jugoslavia. Questi ultimi trovarono sistemazione in particolare a Fossalon, dove peraltro c’è anche una piccola comunità di esuli veneti. Di quest’ultimo esodo istriano a Grado ne narra anche Fulvio Tomizza nel libro “Il bosco di acacie”.
Il perché della scelta di Grado sta essenzialmente nel fatto che è una località di mare per certi versi simile a quelle istriane. «Credo – dice Tullio Svettini – che mai avremo pensato di essere accolti così bene dalla gente di Grado. Certo, tutti hanno dovuto fare dei sacrifici ma tutti noi siamo riconoscenti». Villa Teresa ospitò gli istriani sino al 1958 quando nella proprietà subentrò la famiglia Mariannini, che la condusse sino al 1993. Era allora l’ultima casa di Grado, oltre c’era la palude.
Tra gli abitanti di Villa Teresa molti erano rovignesi. «Nel 1949 – ricorda Svettini” – la mia famiglia arrivò a Grado esule da Rovigno d’Istria , dopo un brevissimo periodo passato al campo profughi di Udine. Io e mio fratello Claudio, mio padre Mario, mia madre Eufemia e mia nonna Emilia, ci siamo sistemati in una stanza in affitto in Villa Teresa. Fra tutti gli altri - aggiunge - ricordo la famiglia Burla con le quattro sorelle: Lucia, Erasma, Letizia e Ilda, le “piccole donne”. Nei campi retrostanti la villa facevamo salire gli aquiloni di pascoliana memoria, fatti con canne, carta colorata e colla di farina». Da Villa Teresa la famiglia Svettini, così come altre famiglie di profughi istriani, si trasferì in Colmata, vicino a quella che oggi è la spiaggia della Costa Azzurra ma che allora – parliamo del 1954 – vicino alle abitazioni si presentava come una distesa di fango, sabbia e acquitrini.





160 - La Voce in più Storia & Ricerca 01/03/14 Padova, Venezia e l'Istria appunti su legami secolari

Riflessioni

Padova, Venezia e l'Istria appunti su legami secolari

di Kristjan Knez

Dai tempi antelucani, i rapporti tra il Veneto e l’Istria rappresentano una costante. Nel corso della protostoria, la cultura di Este, che si era sviluppata nell’età del ferro, si riflesse anche sulla penisola adriatica.
Quella popolazione era solita costruire gli abitati sulle parti alte delle sommità; i castellieri, questo è il nome di tali villaggi, conservano le prove palesi di queste antiche relazioni, come la necropoli venetica portata alla luce a Nesazio, l’antica capitale degli Istri. Questo fugace riferimento, che ci rimanda alle epoche più remote, rivela inequivocabilmente il percorso comune dei territori finitimi, i cui popoli entrarono in contatto, sviluppando scambi resi possibili dagli scali di Adria e Spina.

Dopo la vittoria navale riportata su Cleopatra e Antonio ad Azio, che decretò la conquista dell’Egitto e pose fine alle guerre civili, fu Ottaviano Augusto, ormai padrone dell’Impero, a dare una nuova organizzazione territoriale alla penisola italica, suddividendola in undici regioni. La decima, la Venetia et Histria, comprendeva il nord-est e la penisola d’oltre Adriatico, dal Po all’Arsa, fiume che segnava il confine d’Italia, che prima del 12 d.C. correva lungo il Risano.

Ebbe inizio un periodo di stabilità e prosperità. Il crollo dell’edificio imperiale d’occidente per opera delle popolazioni che avevano oltrepassato i limiti di Roma, non rappresentò una cesura per le terre dell’alto Adriatico, il regno di Teodorico, infatti, comprendeva sia l’Italia centrale e settentrionale sia l’Istria e la Dalmazia. Gli Ostrogoti acquisirono la maggior parte delle istituzioni politiche ed economiche dell’Urbe, come pure la sua lingua e cultura.

L’andirivieni di nuovi popoli, che misero a ferro e fuoco una vasta area geografica, non ebbe fine e i risultati furono deleteri. Centri urbani fiorenti si trasformarono in spettri, e le collettività degli stessi cercarono riparo in direzione di approdi più sicuri. Quella fu la sorte di Aquileia, emporio e città tra le più importanti dell’Impero romano, saccheggiata dagli Unni; non diversa quella di Padova, piegata sotto i colpi dei Longobardi, i cui abitanti trovarono riparo a Monselice.

Tra la terraferma e la laguna, in mano ai Bizantini che contrastavano l’avanzata longobarda verso il mare, il braccio di ferro perdurò fino al collasso del sistema difensivo che correva da Oderzo a Padova. Il precipitare della situazione costrinse i superstiti a cercare una nuova dimora sugli isolotti lagunari, che furono vivificati, mentre precedentemente erano stati per lo più delle zone di transito o di pesca e in buona parte disabitati. Si assistette a una traslazione di uomini e di istituzioni, che dettero vita a nuovi agglomerati, come Civitas nova, la futura Eraclea. E le ondate di profughi non si arrestavano, continuavano verso Torcello, Caorle, Malamocco. Il ducato bizantino delle Venezie scomparve sulla terraferma, ma serebbe continuato nelle lagune, con i fuggiaschi che portarono seco il retaggio della romanità, conservato con particolare attenzione e in seguito nuovamente irradiata. Vi giunse nuova linfa, mentre con l’andare del tempo uno slancio inedito avrebbe trasformato quell’ambiente nella culla di una civiltà vigorosa e grazie alla sua posizione geografica e al suo essere una cerniera tra oriente e occidente, che inizialmente faceva riferimento a Bisanzio, furono gettate le basi di quella mediazione che contraddistinse la fortuna e la strategia di Venezia, anche una volta affrancatasi dalla Roma d’Oriente. Terminato il dissidio franco-bizantino, il cui punto di frizione passava proprio ai margini della laguna, nell’840 l’imperatore Lotario confermava gli accordi precedenti, ridando a quelle comunità la libertà e l’indipendenza. Il centro dell’unità politica e territoriale si polarizzò a Rialto. La potenza del centro lagunare crebbe soprattutto grazie ai traffici, ai commerci che portarono le sue navi nei porti dell’intero Adriatico e del Mediterraneo. L’afflusso della ricchezza permise poi l’allestimento di una flotta militare e quindi di contrastare la pirateria, un problema ormai endemico che rendeva difficile la navigazione e bloccava gli scambi. Ormai stiamo parlando di Venezia, che in due secoli circa, tra il IX e X secolo, si sviluppò in un agglomerato urbano. Dalla difesa si passò all’idea di conquista. Nell’anno Mille il doge Orseolo compì la spedizione in Dalmazia ottenendo l’omaggio di quelle comunità, le promesse di fedeltà, di cooperazione e di collaborazione quale segno di gratitudine per aver contrastato le insidie provenienti dal mare e la minaccia dei principi slavi. Si stava tracciando una nuova politica, che aveva dei precedenti importanti, come l’accordo firmato con Capodistria nel 932.
Allo scadere del secolo undecimo, l’ancella di un tempo offerse il suo aiuto ai Bizantini, impegnati nel basso Adriatico in duri scontri con i Normanni.
I successi riportati furono di straordinaria importanza per i traffici
veneziani, ampliati esponenzialmente al tempo delle crociate. l’influenza politica e militare della Repubblica era viepiù maggiore.

Era una protagonista a tutti gli effetti, fu proprio questa che mediò la pace tra l’imperatore Federico I Barbarossa e papa Alessandro III, firmata nella città di San Marco nel 1177. Si arrivò anche alla IV crociata, nel 1204. I navigli veneziani avevano trasportato gli uomini armati non in Terrasanta ma a Costantinopoli, che fu saccheggiata decretando il crollo temporaneo di quell’impero. Le enormi risorse trafugate e l’occupazione di punti strategici nel Mediterraneo orientale rappresentarono il punto di svolta della sua talassocrazia. Contemporaneamente andò a cozzare contro le repubbliche marinare di Pisa e Genova, anch’esse interessate ai commerci in quel settore che fruttavano generosi guadagni.

Nella seconda metà del XIII secolo, complice la crisi che interessava il Patriarcato d’Aquileia, che aveva alimentato le bramosie dei comuni istriani e il loro spirito autonomistico, specie di Capodistria, il patriarca dovette ricorrere all’aiuto del conte di Gorizia, Venezia, invece, puntò lo sguardo sull’Istria. Sarà Parenzo a rivolgersi ad essa per evitare di cadere nell’orbita giustinopolitana.

Era il 1267. Ebbe così inizio l’espansione marciana su quella sponda, in poco più di un quindicennio tutte le cittadine della costa occidentale (esclusa Muggia e la Polesana) e Montona nell’interno finirono sotto la sua egida. Nel 1331 fu la volta di Pola e del suo ampio contado; sul finire di quel secolo la Repubblica acquistava anche alcune posizioni importanti, come Grisignana e Raspo. Nel Quattrocento, nel corso delle guerre contro il patriarca e l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, venuto meno il suo appoggio perché impegnato nella Boemia infuocata dallo scontro religioso, la Dominante abbatté quella struttura ormai pericolante. Estese il dominio all’intero Friuli e a diverse zone istriane: Muggia, Portole, Fianona, Albona, Pinguente, Pietrapelosa, ancora prima Buie. Era il 1420-21.

La sentenza di Trento del 1535, dopo anni di guerre, che avevano sconvolto la penisola italica, coinvolgendo pure l’Istria, cercò di fissare un confine accettabile con la Casa d’Austria, che dal 1374 possedeva la Contea di Pisino, mentre nel 1584, con l’istituzione del Magistrato di Capodistria con funzioni di corte d’appello, furono gettate le basi dell’organizzazione provinciale di quel possedimento. L’Istria, lo scudo della Serenissima,
rappresentava la propaggine della laguna e assieme ad essa costituiva un tutt’uno. L’area costiera, facilmente raggiungibile attraverso le vie del mare, lo era senz’altro. Questa osmosi secolare, questo dare ma anche ricevere, hanno scandito la storia di queste contrade, pertanto non deve stupire se nel 1797, spentasi la Repubblica oligarchica e costituita la Municipalità democratica, le comunità della sponda opposta avevano deciso di dedicarsi spontaneamente, e alcune inviarono le loro delegazioni in laguna, per rimarcare le antiche corrispondenze ed evitare di recidere il cordone ombelicale. Gli accadimenti volsero diversamente e le truppe asburgiche entrarono negli ex possedimenti di S. Marco e dopo ci fu il Trattato di Campoformio. Nonostante ciò, il ricordo rimase vivo. A Perasto, nelle Bocche di Cattaro, con un commiato della comunità, il gonfalone fu deposto sotto l’altare della chiesa; a Pirano, invece, abbattuto il vecchio palazzo comunale ed eretto quello nuovo, nel 1879, sulla facciata dell’edificio neoclassico, che rimanda al gusto architettonico proveniente da Vienna, si volle ricollocare il leone alato, considerato un simbolo imperituro.

Rapporti economici, culturali, artistici, spirituali e umani avevano forgiato un ambiente unitario, che già per ragioni storiche antecedenti era stato contraddistinto da una comunanza di elementi. Se a Venezia arrivava il sale, il legname, la pietra, l’olio d’oliva, dalla capitale giungevano gli influssi culturali, le tele, le pale d’altare, i libri, le idee, i prodotti di lusso, come pure le granaglie e più tardi il caffè o il cioccolato, che si consumavano nelle famiglie patrizie di Capodistria.

Le corrispondenze culturali, poi, annoverano una storia particolarmente importante, rappresentano il cemento dei rapporti tra le terre bagnate da un mare comune.

Monaldo da Capodistria, frate francescano del XIII secolo, fu autore della Summa de iure canonico, opera nella quale sono trattati argomenti economici, come l’analisi del mercato e la sua eticità o la simonia. Il manoscritto più antico oggi conosciuto si conserva a Padova, alla Biblioteca Antoniana, e risale al 1293. Nicolò d’Alessio, esponente di una famiglia modesta di Capodistria, si laureò in legge all’Università di Padova, nellaloro idee di libertà s’opposero al governo asburgico, il docente perdette la cattedra e dovette trasferirsi a Milano, seguito da Combi stesso. Nel capoluogo lombardo dettero il loro contributo fondando giornali e scrivendo articoli per i fogli patriottici. Combi nel 1851 rifiutò di diventare assistente di filosofia a Padova per non giurare fedeltà alle autorità di Vienna.
L’isolano Domenico Lovisato si laureò in matematica e scienze naturali, fu geologo di fama mondiale e garibaldino (nel 1866).

Le guerre risorgimentali decretarono la fine del Lombardo-Veneto; la guerra del 1866 rappresentò anche una cesura per le terre dell’Adriatico orientale.
Il Veneto passò nel Regno d’Italia e al tempo stesso si ruppe il legame intrinseco esistente con l’Istria e la Dalmazia, che di fatto era continuato anche nel periodo napoleonico. Con quell’annessione la popolazione della sponda dirimpettaia si trovò privata della possibilità di completare l’istruzione superiore nella propria lingua madre. Sorgeva la questione universitaria italiana, che da subito appassionò i liberalnazionali, che in Trieste avevano individuato la sede ideale per un ateneo che avrebbe accolto i giovani connazionali.

Rappresenterà un problema per tutta la seconda metà dell’Ottocento, ripreso con veemenza ai primi del Novecento. Non se ne fece nulla. D’altra parte gli alti funzionari asburgici erano intenzionati ad ostacolare quell’aspirazione, già nel 1866 il luogotenente di Trieste, Kellersperg, aveva dissuaso l’istituzione di un istituto universitario italiano.
città natale fu notaio, mentre tra il 1360 e il 1380 fu cancelliere di Francesco da Carrara, signore della città del Santo.

La celeberrima università, le cui origini risalgono agli anni Venti del XIII secolo, istituzione che raccolse le menti migliori e i giovani di varia provenienza, fu frequentata da numerosi studenti istriani e dalmati, compresi i ragusei. Nomi eccellenti, di grande spessore intellettuale, si formarono in questo ateneo.

Non possiamo ricordarli tutti in questa sede, anche perché l’intervento diverrebbe un’elencazione con centinaia di nomi. I capodistriani sono i meglio rappresentati. L’umanista e pedagogista Pier Paolo Vergerio il Vecchio frequentò quell’università e ottenne il dottorato in arti, medicina nonché diritto civile e canonico.

Ottonello de Belli, che si laureò in legge nel 1589, è autore di un poemetto satirico Lo Scolare (1588) nel quale presenta la vita mal costumata degli studenti universitari a Padova, soffermandosi sulle loro malefatte nei confronti delle matricole, ma anche sulla loro strategia adottata per procurarsi il denaro presso genitori e parenti.

Nel 1585 Girolamo Vida scrisse la Filliria favola boscareccia, un’imitazione dell’Aminta di Torquato Tasso, rappresentata dapprima a Capodistria e subito dopo a Padova.

Santorio Santorio quivi addottoratosi (1582), nel 1599 si stabilì a Venezia ove ebbe rapporti con la famiglia Morosini, con Paolo Sarpi, con Galileo Galilei. Grazie a questa frequentazione applicherà ai suoi studi la ricerca sperimentale. Nel 1611 fu chiamato alla cattedra di medicina teorica nello Studio di Padova (che tenne sino al 1624).

Nel 1675 con l’approvazione del Senato veneziano, a Capodistria fu fondato il Collegio dei nobili; decenni prima, nel ospitato un seminario laico ma ebbe vita effimera, la guerra contro gli arciducali prima e la preste degli anni Trenta successivamente, contribuirono ad eclissare l’istituzione, che non ebbe una ripresa, nonostante le premure del patriziato locale e dei rappresentanti istituzionali della città di San Nazario. Questa struttura deputata all’istruzione, voluta dalla nobiltà ma destinata non solo ad essa, divenne un punto di riferimento per l’intero Adriatico orientale, che ospitava i giovani provenienti dal Friuli alle isole Ionie, ma anche dalle terre asburgiche.

Dal 1699 l’insegnamento fu affidato all’ordine dei padri scolopi delle Scuole pie, con sede a Roma. Divenne la tappa obbligatoria nella formazione prima di passare a Padova, nella stragrande maggioranza dei casi.

Nell’età dei lumi, nella città veneta si formarono Alessandro Gavardo, Girolamo Gravisi, suo cugino Gian Rinaldo Carli, che intraprese gli studi di giurisprudenza e si fece subito notare per la sua erudizione, proprio per questo fu ammesso, ventenne, nell’Accademia dei Ricovrati. Tra il 1745 e il 1750 ebbe a Padova il lettorato di teoria dell’arte nautica. Oltre ad essere uno studioso di vasti orizzonti, in grado di occuparsi di materie tra le più disparate, sarebbe divenuto un funzionario di rilievo nella Milano teresiana, nel 1765 fu nominato presidente del neocostituito Supremo Consiglio di economia e consigliere per gli studi nel ducato di Milano.

Giuseppe Tartini, che in patria studiò materie umanistiche e si dilettava alla musica, soprattutto al violino, a Padova studiò lettere e filosofia e oltre alla passione per lo strumento musicale si dedicava alla sciabola e ai duelli. A Padova ebbe una carriera importante; nel 1721 divenne primo violino e capo di concerto dell’orchesta di Sant’Antonio. Nel 1723 fu chiamato a Praga per l’incoronazione dell’imperatore Carlo VI.

A Padova, centro culturale di prim’ordine, Girolamo Gravisi conobbe le opere teatrali di Carlo Goldoni che rappresentarono uno stimolo per la stesura della sua tragedia Merope e della commedia, appena abbozzata, L’uomo per se stesso.

Nel primo Ottocento a Padova si laurearono il capodistriano Francesco Combi, l’isolano Pasquale Besenghi degli Ughi, che studiò giurisprudenza ma è conosciuto per essere il maggiore poeta del suo secolo. Il piranese Vincenzo de Castro in quell’ateneo era professore di estetica e letteratura classica, qui giunse anche il figlioccio Carlo Combi; per le Un altro isolano, Attilio Degrassi, insigne storico antichista ed epigrafista, si formò a Vienna, ebbe una carriera impostante; nel 1949 vinse la cattedra di storia greca e romana all’Università di Palermo, ma scelse Padova, dove si era liberata la stessa cattedra, e nel 1956 si trasferì a Ftoma. Queste note sparse sono la testimonianza più schietta della presenza reale di una componente, che ha prodotto cultura, si è adoperata a formare i propri giovani e ha dato vita a una fitta rete di relazioni. Mai dimenticando l’amore per la lingua e la cultura italiana. D’altronde il contributo della piccola penisola e di Capodistria in particolare, l’“Atene dell’Istria”, allo sviluppo civile in senso lato del Bel Paese e non solo è stato considerevole nel corso dei secoli, per quanto oggi, e da più parti, si tenda a misconoscerlo.

Con la lodevole iniziativa dedicata a Giuseppe Tartini, possiamo dire, con larga soddisfazione, di aver ricordato una gloria istriana, italiana, europea “ante litteram” evidenziando, ancora una volta, la concreta potenza della cultura, vettore straordinario che unisce le persone, getta ponti e crea legami. Conosciamo le lezioni del passato, perciò riprendiamo a ripercorrere gli antichi sentieri e le rotte già segnate. Ne trarremo grande beneficio. Tutti!

Testo presentato il 15 febbraio 2014 nella chiesa di Santa Caterina d’Alessandria a Padova durante la cerimonia d’inaugurazione del busto dedicato al violinista piranese, intitolata “Giuseppe Tartini e i secolari lagami culturali tra l’Istria e Padova”.





161 - La Voce del Popolo 16/03/14 Jan Bernas Una sola «colpa», quella di essere italiani
Una sola «colpa», quella di essere italiani

Ilaria Rocchi

FIUME – Senza grossi paroloni, senza retorica, senza quell’enfasi che spesso contraddistingue i politici, così un vecchio di Pola, esule in Italia, narra il dolore dell’abbandono della propria terra: “Pensate a casa vostra, al vostro quartiere, alla vostra città. Gli odori, i colori, le vie, la gente. In ogni angolo risuonano voci e rumori. È la vostra terra. Ne riconoscete quasi per istinto il respiro. Dialetti, tradizioni e modi di dire. Feste, canti e luoghi di ritrovo. Luoghi d’amore, che vi dicono chi siete e da dove venite. Ecco, provate ora a immaginare il silenzio. La vostra città, i suoi vicoli, le sue piazze, le sue chiese senza più rumori, odori, parole, senza più la sua gente. Vuota. Silenziosa. Deserta. Un silenzio irreale che avvolge e ovatta tutto. Il vostro mondo diventa altro. Lentamente si spoglia di voi. E voi di lui. Altri se ne appropriano. Altri prendono il vostro posto. Quelle vie che erano la vostra stessa identità, oggi, rivedendole lasciano nell’animo solo un’innaturale senso di estraneità.” Ora, immaginate di passare per queste stesse calli e piazze – luoghi in cui siete nati e cresciuti, e prima di voi i vostri genitori e nonni, e chissà ancora quante generazioni addietro – e non solo sentirvi maledattamente stranieri a casa propria, ma di venir additati con il marchio infame di “fascisti”. Perché italiani. In Istria, a Fiume (e macroregione), in Dalmazia. Esuli e rimasti: due voci di una tragedia comune; due voci che da tempo stanno gridando l’ingiustizia subita sessanta e passa anni fa. Per decenni nessuno le ha ascoltate e, per certi versi, alcuni continuano, in parte, ancor sempre a ignorare, a far finta che non esistano, oppure a sentire una sola delle due. Quella più insistente, o semplicemente quella più capace di ottenere quell’amplificazione necessaria affinché la si percepisca nella maniera più incisiva.

Di libri sulle foibe e sull’esodo degli istriani, giuliani e dalmati, ne abbiamo ormai a disposizione parecchi. Dopo il Giorno del Ricordo (10 febbraio), che rende omaggio, in Italia, alle vittime di queste vicende dimenticate, oltraggiate da un silenzio colpevole, si sono moltiplicate documentazioni, racconti, ricostruzioni storiografiche sulle sofferenze di 350mila persone costrette a lasciare le loro case dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Una voce, quella degli esuli, che dunque si sta facendo strada anche tra il più vasto pubblico da qualche anno a questa parte.

 Presentazioni a Fiume e Trieste

Trasversalmente, dà spazio anche “all’altra voce”, quella dei rimasti, uno dei libri freschi di stampa sull’argomento, “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani”, di Jan Bernas, edito da Ugo Mursia (Milano 2010, 192 pp., 16 euro), con una coraggiosa prefazione a firma di Walter Veltroni. Il volume verrà presentato venerdì prossimo a Palazzo Modello, con la partecipazione di Jan Bernas, nell’ambito di un incontro promosso dall’Unione Italiana in collaborazione con la Comunità degli Italiani Se ne parlerà anche a Trieste, il giorno prima, nella sala di lettura della libreria “Minerva” (via S. Nicolò, ore 18), su iniziativa del Circolo di Cultura istro-veneta “Istria”, con l’intervento dell’autore, di Livio Dorigo, presidente del Circolo, e del giornalista Ezio Giuricin. Jan Bernas, giornalista italiano di origine polacca, nasce a Roma nel 1978 e attualmente lavora per l’agenzia di stampa Apcom, occupandosi dell’Europa Centro-Orientale e balcanica. Scrive per “Il Messaggero” e collabora con la Fondazione Farefuturo, con il blog “Il Cannocchiale” e con la rivista di geopolitica “Equilibri”. Laureato all’Università di Bologna in Scienze Internazionali e Diplomatiche, ha conseguito un master in European Policy presso il College of Europe.

Un’opera che, tra cronaca e storia, ricostruisce tassello dopo tassello l’intero mosaico, il dramma comune di un popolo. L’Unione Italiana l’ha definita “meritevole di essere distribuita” nel territorio dell’insediamento storico degli italiani che ne sono protagonisti, tra le Comunità degli Italiani, le scuole e le istituzioni dei rimasti, la Comunità Nazionale Italiana. Nel motivare la proposta di acquistare, dalla casa editrice, duecento copie del libro (con uno sconto del 35 per cento, per cui il valore complessivo dell’operazione è di 2.130,46 euro al lordo, comprese le spese di imballaggio e di spedizione), la Giunta esecutiva dell’UI rileva che l’autore, con questa pubblicazione, “ha voluto presentare sotto una diversa luce, fatta di testimonianze, una pagina di storia italiana troppo spesso dimenticata”, e ha intervistato e raccolto le testimonianze di diversi connazionali rimasti: Claudio Ugussi (Buie), Giovanni Radossi (Rovigno), Anita Forlani (oggi a Dignano, ma originaria di Fiume), Tullio Vorano (Albona), Nella Smilovich (Pola), Laura Marchig, Elvia Fabianić e Maria Schiavato (Fiume). Le loro, le nostre storie, si affiancano e intrecciano a quelle degli esuli Bruno De Bianchi (Cittanova), Mafalda Codan (Parenzo), Sergio Bormé (Rovigno), Livio Dorigo, Myriam Andreatini e Lino Vivoda (Pola), Abdon Pamich, Franco Gaspardis, Federico Falck ed Erio Franchi (Fiume), nonché all’esperienza di Dino Zanuttin, di Gradisca d’Isonzo, uno dei tanti italiani del cosiddetto controesodo che nell’allora Jugoslavia, nei campi di concentramento titini, vedrà infrangersi il sogno di una società più giusta e migliore.

 Un «mea culpa»

Il libro in Italia ha avuto eco soprattutto per una sorta di “mea culpa”, messo nero su bianco, da Veltroni. Per l’ex segretario del Partito democratico, quello che portò alla tragedia delle foibe fu “un odio alimentato dall’ideologia, in questo caso soprattutto dall’ideologia comunista”. “La verità – aggiunge il politico italiano, che già in passato aveva sottolineato responsabilità e silenzi della sinistra italiana sulla tragedia delle foibe – è che nessuna costruzione ideologica, di nessun tipo e di nessun colore, può giustificare la violenza, la privazione della libertà la persecuzione e l’uccisione di migliaia di persone. E non c’è niente, né un se, né un ma, che possa far dimenticare il modo orribile in cui questo avvenne”. Veltroni con le sue parole chiarisce gli equivoci su “quell’ondata di violenza antitaliana” e non nasconde le responsabilità di quella rimozione: “Di quelle sofferenze e di quello sconvolgimento, infatti, l’Italia e la Repubblica non hanno colto né allora, né per tanto tempo dopo, la portata e il significato nazionale. Anche per colpa di una parte importante della cultura della sinistra, prigioniera dell’ideologia e della guerra fredda”. Una sinistra che troppo spesso ha minimizzato la portata di quello che avvenne, giustificandola con la crudeltà dell’occupazione fascista dei territori sloveni e croati: “Ma questo nulla toglie al dovere che tutti hanno di riconoscere che nessun rancore storico, nessuno spirito di vendetta può giustificare quel che avvenne, e il modo barbaro in cui avvenne. Ad alimentare l’espansionismo nazional-comunista di Tito fu un intreccio perverso di odio etnico, nazionale e ideologico. Un odio che colpì, come mette bene in luce l’autore, fascisti, antifascisti, persone senza una precisa posizione politica”.

 Oltre le foibe

Brevi capitoli dedicati alla storia, poi Jan Bernas cede il passo alla voce dei protagonisti: ricorda gli italiani, quelli costretti ad andarsene e quelli rimasti – goccia in un mare slavo – a difendere con ostinazione la propria autoctonia. Gli esuli, “dimenticati da una patria matrigna, che dopo oltre sessant’anni ancora fatica a riconoscere dignità e onore a migliaia di suoi figli, sacrificati per lavare gli errori e gli orrori di una guerra sciagurata”; i rimasti, abbandonati di fronte all’avanzare delle truppe jugoslave di Tito alla fine della Seconda guerra mondiale. Come sottolinea l’autore, “paradossalmente, tutti subirono la stessa accusa: fascisti! Gli esuli perché in fuga dal paradiso socialista. I rimasti perché italiani”. Questo libro, spiega Bernas, vuole andare ben oltre le foibe, diventate nell’immaginario collettivo simbolo di una vicenda assai più complessa. Perché nell’ascoltare le tante storie riportate, emerge che donne e uomini, spesso di fede politica opposta, sono accomunati dalla stessa sorte e dalla stessa accusa: “Fascisti!”.

 Situazioni paradossali

A differenza dei numerosi testi finora pubblicati su tale argomento, “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani” non si limita a riportare vicende passate, ma offre una prospettiva presente, raccontando le difficoltà e le condizioni, spesso al limite dell’assurdo, in cui vive da sessant’anni la CNI, spesso affiancando e confrontando le esperienze di italiani che, oltre a essere connazionali, sono stati in un certo senso anche concittadini. Non per “autismo”, ma semplicemente per dare rilievo a una “storia che nella storia è stata doppiamente obliata, riportiamo le parole dei “rimasti”. Esordisce il pittore e scrittore di Buie (nato a Pola), Claudio Ugussi: “Siamo cresciuti portandoci sulle spalle il peso di un marchio di fuoco, indelebile: ‘Italiani fascisti’. (...) Tutto quello che era italiano era fascista. Era automatico. Il paradosso era che in Italia, noi che avevamo deciso di restare e di non abbandonare la nostra terra, siamo stati, e a volte lo siamo ancora, tacciati di essere comunisti. O peggio, amici di Tito. Qui, i croati invece ci urlavano: ‘Fascisti!’. Uno strano destino, il nostro. Fascisti in Croazia, comunisti in Italia.”

Anche il rovignese Giovanni Radossi illustra quanto è stato difficile essere, rimanere italiani a casa propria, mantenendo la propria dignità e l’onestà morale e intellettuale: “In città (Rovigno, nrd) non c’era un atteggiamento pregiudiziale antiitaliano, a condizione che gli italiani fossero assolutamente e dichiaratamente a favore dell’annessione dell’Istria alla Jugoslavia. Una discriminante fondamentale a quei tempi. Noi italiani, ancor prima della fine della guerra, eravamo distinti nell’ottica slava tra buoni e cattivi. I ‘buoni italiani’, così ci descrivevano i giornali slavi dell’epoca, erano coloro che in qualche modo avevano accettato o per paura o per convinzione il progetto di annessione e di slavizzazione dell’Istria da parte della Jugoslavia. Nella categoria ‘italiani cattivi’ rientravano, invece, tutti quelli che (...) avevano avuto legami diretti con lo Stato e le istituzioni italiane, anche se non compromessi con il fascismo. (...) Una distinzione che è rimasta ancora ai giorni nostri.”

 Astio e repulsione

Restare non era impossibile, sebbene difficile, e non di rado significava soffrire, sopportare angherie. La fiumana Elvia Fabijanić (Fabianich, nel libro), all’epoca diciassettenne, finì in carcere, in cella con le prostitute, per una bravata, l’aver strappato dal libro la foto di Tito. E non fu (non è piacevole) sentirsi sempre e comunque “diversi”; stranieri in patria, ma stranieri anche in Italia, dove c’è stata una voluta rimozione della memoria, un oblio collettivo che “ha relegato noi e queste terre nel rifiuto e nella vergogna per il fascismo”, confessa Laura Marchig, di Fiume, che nella sua testimonainza parla anche di “scontro di culture”: “Il mondo croato (e quello slavo in generale) è sicuramente più aggressivo del nostro. E noi italiani di fronte a questa aggressività di solito soccombiamo.”

Ma non senza lottare. Un grosso peso fu sostenuto – e continua ad essere sostenuto – dalla scuola, dagli insegnanti che salvarono/salvano le istituzioni dalla loro chiusura, dallo svilimento. Come narra Anita Forlani: “Era una lotta quotidiana contro i soprusi e i più svariati tentativi di ridurre gli spazi delle tradizioni e della cultura italiana. Insieme ad altri professori ci battemmo perché la lingua italiana fosse insegnata anche nelle sezioni croate. (...) Scoppiò una specie di rivolta. Gli alunni croati uscivano dall’aula quando iniziava l’ora di italiano. Insegnanti, colleghi ci chiamavano fascisti. Ci facevano il saluto romano quando passavamo. Non fu facile da sopportare. Erano umiliazioni continue. Sono certa che nei giovani di allora, oggi oltre la quarantina, è rimasto un sentimento di astio, di repulsione verso gli italiani, pur avendo imparato e utilizzato la nostra lingua. (...) Nonostante tutto, alla fine siamo riusciti con determinazione e coraggio a mantenere vive le nostre tradizioni e a salvare la scuola, da allora punto di riferimento importante per la comunità italiana, che comunque resta debole ed emarginata.”

Altrove la scuola italiana non si salvò. Ad Albona il decreto Peruško comportò il trasferimento forzato dei ragazzi con cognomi che terminavano in “ich” nelle scuole croate e, conseguentemente, la chiusura degli istituti italiani. Un provvedimento che ha irrimediabilmente compromesso la continuità storica della presenza italiana nell’Albonese. “La comunità degli italiani qui è molto piccola. Non ha speranza di sopravvivere. Non c’è neanche una scuola di lingua italiana. Non riusciamo ad avere quadri dirigenziali. (...) Quel poco che è rimasto dell’italianità ad Albona è destinato a scomparire negli anni. Sarà rintracciabile solo nei monumenti o nei libri di storia”, afferma Tullio Vorano.

Rimanere: non sempre fu una scelta e, anche se lo fu, seppur fatta consapevolmente, non fu semplice convivere con le conseguenze di tale scelta. Fu giusta o sbagliata? Un dilemma che, ne siamo convinti, accomuna esuli e rimasti. Ci fu chi partì per l’Italia ma tornò indietro. Nella Smilovich, polese, cita l’esempio di suo padre: “Non riusciva ad abituarsi all’idea di vivere lontano dalla sia terra. Così decidemmo di tornare a casa nostra, a Pola. Non ci volle molto tempo per capire che avevamo commesso un grave errore. La nostra, si era trasformata in una città fantasma. (...) Anche noi, tornando, ci eravamo di colpo trasformati. Nella Jugoslavia di Tito non eravamo più italiani, ma italiani fascisti. (...) Optammo due volte per la cittadinanza italiana, per tentare di ripartire nuovamente. Ma questa volta le autorità slave non ci lasciarono andare e così fummo costretti a rimanere.” Era cambiato il contesto: se nell’inverno del 1947 vi era tutto l’interesse, da parte degli jugoslavi, di ritrovarsi con una presenza etnica italiana ridotta al lumicino, anche al fine di legittimare l’annessione dell’Istria, più tardi, consolidato il nuovo potere, le dimensioni dell’esodo rischieranno di “offuscare” l’immagine che il regime – e quella decantata “fratellanza di popoli” – voleva dare di sé.

 
Dimenticare/recriminare

Microstorie, piccole vicende personali che fanno la Storia, che portano a galla tutte le sfaccettature di questo mosaico di dolori. A lungo gli Stati coinvolti – la stessa Italia, per non parlare della Jugoslavia, poi della Slovenia e della Croazia – hanno cercato di rimuovere questa pagina di storia. Qualcuno dei protagonisti, a livello personale, avrà cercato anche di dimenticare, di reprimere i sentimenti, i ricordi. Per poter andare avanti. C’è anche chi ha cristianamente perdonato. C’è chi non ce la fa. “Non posso. A chi dice oggi che bisogna dimenticare tutto, che dobbiamo andare verso una riconciliazione, vorrei rispondere: ‘Troppo facile. Avresti dovuto esserci anche tu lì con me a Goli Otok, per capire quello che ci hanno fatto, riducendoci a bestie e distruggendo quel che c’era di umano nell’uomo’. Gli slavi li ho odiati e li odierò per sempre”, ammette Sergio Bormé, esule di Rovigno.

Riconciliazione impossibile? “Io, da rimasta, ho sempre recriminato contro chi se n’era andato. Non riuscivo ad accettare il fatto di essere rimasti così pochi. Se gli esuli non avessero lasciato queste terre forse avremmo potuto avere, seppur all’interno della Jugoslavia, più forza e una certa forma di autonomia. (...) Quando, dopo la caduta della Jugoslavia, si sono organizzate le prime riunioni, i primi incontri tra gli esuli e noi rimasti, è apparsa evidente la differenza. Ricompattarci, tornare ad essere un unico popolo come eravamo, era ed è illusorio. Sono passati tanti anni, troppi. Io mi considero da sempre irredentista, anche se so benissimo che non rivedrò mai più il tricolore sventolare di nuovo a Fiume. A noi rimasti, non resta altro che tentare di trasmettere e difendere il ricordo dell’identità italiana di Fiume. Ma siamo destinati a scomparire”, conclude Maria Schiavato.

Parole sconsolanti che denotano tristezza per un destino che la Storia ha voluto diverso da quello sperato, da quello che sarebbe stato giusto; amarezza per le tante, troppe incomprensioni, da parte di tutti; forse anche un po’ di stanchezza nel vedere che le tante battaglie portate avanti sono destinate a svanire sotto i colpi di quell’assimilazione “naturale” che colpisce un po’ tutte le minoranze, anche in assenza di un preciso disegno politico di emarginazione ed annientamento. Ormai tutto è compiuto: non ci resta che piangere? E seppure tra le lacrime continuare a ripetere che Koper è Capodistria, Rijeka è Fiume, Zadar è Zara...

 Ilaria Rocchi




162 -  La Voce di Romagna 25/03/2014 Maresciallo Antonio Farinatti , l'eroe dell'Istria

LA GUARDIA DI FINANZA DEDICA AL MARESCIALLO LA CASERMA DELLA SEZIONE AEREA DI RIMINI

Antonio Farinatti, l’eroe dell’Istria

A PARENZO comandava la Brigata litoranea. Dopo l’8 settembre era rimasto al suo posto assieme al collega dell’Arma dei carabinieri per tutelare i cittadini

Arruolatosi giovanissimo nella Regia Guardia di Finanza, Antonio Farinatti nell’ottobre 1941 era stato assegnato al comando della brigata litoranea di Parenzo (oggi Porec in Croazia), alle dipendenze della compagnia di Pirano (oggi Piran in Slovenia). Ed è proprio a Parenzo, dove la popolazione era in maggioranza italiana, che il maresciallo Farinatti viene sorpreso dall’8 settembre. Vista la situazione drammatica, un gruppo di cittadini di sentimenti italiani aveva dato vita a un Comitato di salute pubblica con l’obiettivo di difendere Parenzo e i suoi abitanti. Solo i finanzieri e i carabinieri erano rimasti al loro posto dando vita a un Comitato di sicurezza pubblica con il compito di recuperare le armi lasciate dai militari che si erano allontanati e di assicurare l’ordine pubblico. Ricostituito il presidio militare con i pochi uomini rimasti, il Comitato aveva potuto fare fondamento sui soli comandanti delle forze dell’ordine, il maresciallo Farinatti e il collega dell’Arma dei carabinieri, Torquato Petracchi, toscano. La figura del maresciallo Farinatti è stata ricostruita dal capitano Gerardo Severino, direttore del Museo storico della Guardia di Finanza; sul sito ufficiale del Corpo, nelle sezioni dedicate al Giorno della Memoria e al Giorno del Ricordo, è possibile trovare una serie di interessanti e documentate notizie sull’attività e il sacrificio delle Fiamme Gialle rispettivamente in difesa degli ebrei e delle popolazioni istriane. Da tempo il Comando generale della Guardia di Finanza, attraverso il Museo storico, è impegnato nel fare ottenere riconoscimenti alla memoria dei propri appartenenti morti nei lager nazisti o nelle foibe istriane, come appunto il maresciallo Farinatti. Alla memoria del maresciallo dei carabinieri Petracchi, da tempo era stata conferita la medaglia d’Argento al Valor militare. Tornando nella Parenzo del post 8 settembre, i due sottufficiali, scrive Gerardo Severino, rimasero al loro posto anche dopo l’arrivo delle forze partigiane del maresciallo Tito avvenuto il 14 settembre. Farinatti e Petracchi con grande coraggio fecero di tutto per mitigare la situazione ed evitare spargimenti di sangue. Dopo aver assistito al saccheggio delle rispettive caserme, i due marescialli cercarono di indurre alla ragione i partigiani slavi, lo stesso aveva fatto monsignor Raffaele Radossi, ultimo Arcivescovo di Parenzo e Pola italiane. Farinatti verrà prelevato dalla sua abitazione nella notte tra il 20 e il 21 settembre, qualche giorno dopo condivideranno la sua stessa sorte Petracchi e tanti altri cittadini di Parenzo e delle località limitrofe. Farinatti verrà fatto salire sulla famigerata corriera della morte, caratterizzata come hanno raccontato diversi esuli istriani dai finestrini oscurati; il mezzo durante la notte faceva la spola tra Parenzo e Pisino (oggi Pazin in Croazia), dove nei sotterranei del castello di Montecuccoli, reso celebre dal romanzo di Giulio Verne “Matias Sandorf”, aveva sede il “tribunale del popolo” presieduto da Ivan Motika, soprannominato il “boia di Pisino”. Antonio Farinatti, condotto nelle secrete del castello, subirà una serie interminabile di torture e umiliazioni fino ai primi giorni di ottobre, per poi venire trasferito, di notte e sempre a bordo della famigerata corriera della morte, nei pressi di Albona, precisamente a Vines dove si trova una delle tante foibe istriane, nota con il toponimo “dei colombi”. Il maresciallo verrà fatto precipitare nella cavità, profonda circa 146 metri, con i polsi legati da filo di ferro e accoppiato ad altri due sventurati. Dalla testimonianza di altri reclusi nel castello di Pisino poi rilasciati, emerge che il sottufficiale aveva sempre mantenuto un contegno sprezzante verso i suoi aguzzini, riaffermando la propria italianità e rifiutando qualsiasi compromesso che avrebbe potuto salvargli la vita. Il corpo del valoroso sottufficiale è stato recuperato assieme a quello degli altri sventurati grazie all’opera dei Vigili del fuoco di Pola guidati dal maresciallo Arnaldo Harzarich, che in quel periodo, superando difficoltà di ogni genere, si erano resi protagonisti di altre analoghe imprese. A Vines, Harzarich e i suoi uomini, supportati dalla squadra di soccorso delle Miniere dell’Arsa, avevano riportato in superficie 84 cadaveri, di alcuni è stata possibile l’identificazione. Da ricordare che la Guardia di Finanza a Trieste ha fornito un importante contributo al successo dell’insurrezione proclamata dal Comitato di liberazione nazionale giuliano il 30 aprile 1945. Gli uomini delle Fiamme Gialle, in quelle drammatiche giornate, avevano aderito spontaneamente all’appello lanciato dai patrioti antifascisti della città, ma il 2 maggio verranno disarmati dalle formazioni filo jugoslave e incarcerati. Sono 97 quelli arrestati nella caserma di Campo Marzio che non hanno fatto più ritorno a casa; gli sventurati non finirono i loro giorni nella Foiba di Basovizza, come si era sempre creduto, ma presumibilmente, secondo studi più recenti, nei pressi di San Pietro del Carso, oggi Piuka in Slovenia. Tra i 97 finanzieri arrestati a Trieste non ci sono romagnoli. Era di Bondeno (Ferrara) Dino Pisani, classe 1924, mentre veniva da Crespellano (Bologna) Enzo Genasi, promosso sotto (oggi vice) brigadiere per la sua partecipazione all’insurrezione del 30 aprile. Sono comunque diversi i militari delle Fiamme Gialle originari dell’Emilia –Romagna caduti in Istria o nell’ex Jugoslavia. E’ il caso degli appartenenti al presidio di Matteria (oggi Materija in Slovenia) a pochi chilometri da Trieste, come il comandante, il brigadiere Serafino Ricci Lucchi nato a Lugo. I militari, attirati in una trappola con la scusa di una festa in una casa colonica nelle immediate vicinanze, sono stati certamente gettati in qualche foiba o cavità della zona. Da ricordare anche l’impresa iniziata il 12 settembre 1943 per l’evacuare l’ospedale militare di Zaravecchia, località nella zona di occupazione italiana, non lontana da Zara. Per portare in salvo i militari assediati da un lato dalle truppe tedesche, dall’altro dai partigiani titini, era stata utilizzata un’imbarcazione condotta dal capitano marittimo Angelo Simoncelli, di Cattolica. La barca, carica di viveri era stata avvistata e intercettata dalla Guardia di Finanza mentre si dirigeva verso il canale di Pasmano. Simoncelli aveva detto ai finanzieri che il carico era destinato all’ospedale di Zaravecchia, rimasto completamene isolato e saccheggiato dai partigiani. Dopo una serie di trattative condotte dal sottotenente delle Fiamme gialle Silvio Stella, il locale comando partigiano aveva autorizzato l’evacuazione dei degenti. L’imbarcazione riuscirà a raggiungere il 13 settembre, dopo un’avventurosa traversata dell’Adriatico, Porto San Giorgio.

Aldo Viroli

Il Comando generale della Guardia di Finanza, lo scorso 20 marzo, ha intitolato la caserma della Sezione aerea di Rimini al maresciallo capo Antonio Farinatti, nato nell’attuale comune di Fiscaglia il 7 febbraio 1905 e trucidato nella foiba di Vines, nei pressi di Albona d’Istria (oggi Labin in Croazia), nell’autunno 1943. Alla solenne cerimonia erano presenti tra gli altri il generale di Corpo d’Armata Michele Adinolfi, comandante interregionale della Guardia di Finanza per l’Italia centro settentrionale, e la signora Stefania Farinatti, figlia del sottufficiale. Alla memoria dell’eroico maresciallo, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha conferito la medaglia d’Oro al merito civile. La bandiera di Guerra della Guardia di Finanza ha ricevuto la medaglia d’Oro al merito Civile quale attestazione di riconoscenza per l’opera svolta a difesa delle comunità italiane e slave della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, sia per l’elevato numero di vittime subite dalle Fiamme Gialle sul confine orientale nel periodo che va dal 1943 al 1945. Sono diversi i finanzieri nati in Emilia - Romagna caduti o dispersi sul confine orientale; da tempo “Storie e personaggi” si sta occupando degli appartenenti al presidio di Matteria, località all’epoca in provincia di Fiume.


Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it



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