Rassegna Stampa

 
RASSEGNA STAMPA MAILING LIST HISTRIA
 
a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri

N. 914 – 10 Maggio 2014
Sommario


189 - La Voce del Popolo 07/05/14 Italia-Slovenia, solida amicizia (Christiana Babić)
190 - La Voce del Popolo  08/05/14  La CNI valore aggiunto nei rapporti italo-sloveni (Krsto Babić) 
191 - Il Piccolo 29/04/14 La lettera del giorno - Cristicchi: «Senza Delbello non avrei scritto Magazzino 18» (Simone Cristicchi)
192 - Il Piccolo 29/04/14 Il Veneto rifà il tetto alla Chiesa di Sissano (p.r.)
193 - Il Piccolo 07/05/12 Buie - L'Unione Italiana teme ulteriori tagli (p.r.)
194 - Il Borghese - Maggio 2014 Esuli senza codice (Mario Coda)
195 – Libero  09/05/14 Milano : Show sul partigiano titino finanziato dal Comune (Dino Bondavalli)
196 - L'Eco di Bergamo 26/04/14 Bergamo:  E in vendita anche le ex case dei profughi (Diana Noris)
197 - Libero 05/05/14 Libro - Foibe ed Esodo, Carla Cace e "l'Italia negata" (Marco Petrelli)
198 - La Voce di Romagna 06/05/14 Storie e Personaggi - Arsia 1940: Una miniera affidata a incapaci (Aldo Viroli)
199 - Il Piccolo 09/05/14 Trieste - Madieri, parco intitolato con un refuso sulla targa (Giulia Basso)
200 – Mailing List Histria Notizie 08/05/14 Nico Lugnan campione di dama, a Grado e dintorni s’installarono nel dopoguerra tanti profughi giuliani... (Claudio Antonelli)
201 - Il Piccolo 30/04/14 Gorizia: Il decennale della Transalpina tra sfiducia, nostalgie e rischi (Gigi Riva)



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189 - La Voce del Popolo 07/05/14 Italia-Slovenia, solida amicizia

Italia-Slovenia, solida amicizia 

Christiana Babić 

ROMA | “Desidero innanzitutto sottolineare il significato della decisione del presidente Pahor di mantenere ferma la visita programmata in Italia come visita di Stato nonostante l’aprirsi di una crisi di governo nel suo Paese. Credo che in questo modo abbia voluto sottolineare l’intensità dei rapporti di amicizia e collaborazione tra Italia e Slovenia e anche tra i due Capi di Stato come qualcosa che rimane un punto di riferimento in qualsiasi frangente politico. E sappiamo che nei nostri Paesi, come in tutta Europa, la politica, i rapporti politici, le evoluzioni politiche stanno conoscendo momenti particolarmente complessi: ci sono fenomeni di instabilità, fenomeni di frammentazione della rappresentanza politica, anche in questo momento di particolare divisione e contrapposizione sul tema fondamentale dello sviluppo del processo di integrazione e unità europea. Ma proprio su questi temi abbiamo ancora una volta confermato il nostro accordo e impegno comune”. Così il presidente Giorgio Napolitano al termine dell’incontro con il Capo dello Stato sloveno, Borut Pahor, svoltosi al Quirinale alla presenza del ministro sloveno per l’Educazione, la Scienza e lo Sport, Jernej Pikalo, dei sottosegretari di Stato agli Affari esteri, Benedetto Della Vedova e Igor Senčar, degli ambasciatori sloveno in Italia e italiano in Slovenia, Iztok Mirošič e Rossella Franchini Scherifis, nonché delle rispettive delegazioni.
“Farò di tutto per uscire da questa situazione difficile – ha sottolineato dal canto suo Borut Pahor –, assicurando un futuro agli investimenti economici e mi impegnerò con le forze politiche per andare quanto prima ad elezioni anticipate per un nuovo governo, un nuovo mandato”. Pahor, in visita di Stato a Roma all’indomani dell’acuirsi della crisi politica in Slovenia, sfociata lunedì nelle dimissioni della premier Bratušek (dimissioni che hanno determinato l’accorciamento della sua permanenza a Roma a un solo giorno, nda), ha tenuto a rassicurare che la “situazione politica in Slovenia riuscirà a trovare una soluzione responsabile e democratica”.

La via della riconciliazione

“Il presidente Pahor, come il suo predecessore, è parte attiva del consolidamento di una vera e propria svolta che si è compiuta nel corso degli ultimi anni nelle relazioni tra Italia e Slovenia a conclusione di un periodo infelice e drammatico come quello costituito dalla Seconda guerra mondiale e dall’immediato dopoguerra. Abbiamo trovato la via della riconciliazione attraverso eventi che voi ricordate e che hanno poi coinvolto anche l’amica Croazia e il suo presidente Josipović. Siamo impegnati ad andare avanti verso un ulteriore allargamento dell’Unione europea ai Paesi dei Balcani occidentali. La Slovenia è stata il primo Paese dell’ex Jugoslavia che sia entrato a far parte dell’Unione europea e sono stati necessari parecchi anni perché le porte si aprissero alla Croazia. Abbiamo altri Paesi dei Balcani occidentali che sono o aspirano ad esser candidati e a vedere avviato un negoziato per diventare membri a pieno titolo dell’Unione. Dobbiamo, quindi, prestare molta attenzione anche alla politica di allargamento e alla politica estera dell’Unione europea, che si trova di fronte a crisi molto pericolose e acute come in questo momento la crisi ucraina e nei rapporti con la Russia”, ha detto ancora Giorgio Napolitano incontrando la stampa al termine dei colloqui bilaterali.

Identità di vedute

“Lo scambio di idee che abbiamo avuto questa mattina con il presidente Pahor ci ha permesso di constatare una sostanziale identità di vedute su questi aspetti di politica estera europea e su tutti gli aspetti dell’ulteriore sviluppo del processo di integrazione. Opereremo, e ciò potrà accadere in modo particolare durante il semestre di Presidenza italiana dell’UE, ci adopereremo perché si vada verso politiche favorevoli alla crescita e all’occupazione più di quanto non lo siano state nell’ultimo tempo politiche che hanno avuto, non solo giustamente grandissima attenzione per il risanamento dei conti pubblici, per il riequilibrio finanziario in ciascuno dei nostri Paesi, ma – ha detto il presidente italiano – che hanno anche avuto un’accelerazione e una pesantezza tali da provocare fenomeni recessivi con cui siamo alle prese sia in Italia sia in Slovenia”.

Valorizzazione delle minoranze

“Vorrei quindi valorizzare questa presenza del presidente Pahor come conferma di quello che abbiamo costruito in questi anni, un’amicizia solida, un’amicizia che non conosce più alcuna delle ferite del passato, un’amicizia che è basata anche sulla presenza delle comunità slovena in Italia e italiana in Slovenia. Abbiamo molto curato, entrambi i governi e i Capi di Stato, le politiche di valorizzazione delle rispettive minoranze, che sono diventate uno dei punti fermi della cooperazione complessiva tra Italia e Slovenia. Noi – ha assicurato Napolitano – ci incontreremo sicuramente anche nel corso del semestre italiano di Presidenza europea e voglio in particolare rivolgere all’amico presidente Pahor, al quale ho conferito questa mattina l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, un augurio vivissimo per la soluzione che è chiamato a dare alla crisi politica in Slovenia”. 

“So che questo è uno degli aspetti più impegnativi e delicati delle nostre funzioni di presidenti non esecutivi e sono sicuro che il presidente Pahor troverà la strada più giusta e necessaria per restituire piena normalità di funzionamento alla vita politica e – ha concluso Napolitano – alla vita istituzionale in Slovenia.” “Cercherò di svolgere un ruolo, come ha fatto il presidente Giorgio Napolitano, per garantire il dialogo e contribuire alla soluzione della crisi politica interna”, ha sottolineato Borut Pahor.










190 - La Voce del Popolo  08/05/14  La CNI valore aggiunto nei rapporti italo-sloveni

La CNI valore aggiunto nei rapporti italo-sloveni 

Krsto Babić 
ROMA La Comunità Nazionale Italiana è un valore aggiunto nei rapporti tra l’Italia e la Slovenia. Lo si deduce dai discorsi pronunciati dai presidenti Giorgio Napolitano e Borut Pahor, che nel corso dei rispettivi interventi pronunciati in occasione della cena di Stato offerta martedì sera al Quirinale in onore del capo di Stato sloveno, hanno rilevato il ruolo di collante tra i due Paesi della minoranza italiana in Slovenia e di quella slovena in Italia.
Un segnale importante
All’importante evento hanno partecipato pure il presidente dell’UI e deputato della CNI al Sabor, Furio Radin, il deputato dell’etnia al Parlamento sloveno, Roberto Battelli, il presidente della Giunta UI, Maurizio Tremul, e il presidente della CAN costiera, Alberto Scheriani. Tremul, Radin e Battelli hanno espresso grande soddisfazione per l’invito porto ai rappresentanti della CNI a prendere parte alla visita di Stato in Italia del presidente sloveno.
Valorizzata l’unitarietà
Tremul e Radin hanno osservato che si tratta di un chiaro riconoscimento dello spirito unitario che caratterizza la CNI. Idem ha fatto pure Battelli. Difatti, lo ricordiamo, Radin è stato invitato alla cena nonostante sia cittadino croato, mentre Tremul, pur essendo cittadino sloveno, era a sua volta stato invitato alla cena di Stato offerta nel dicembre scorso dal presidente Napolitano in onore del proprio omologo croato, Ivo Josipović. “Essere stati invitati nell’arco di pochi mesi a due incontri di questa portata è un fatto importante per l’UI e per gli italiani in Istria, a Fiume e in Dalmazia”, ha commentato Radin, ribadendo il profondo valore che l’UI riconosce alla propria unitarietà e l’orgoglio di veder riconosciuto il suo ruolo ai massimi livelli istituzionali sia dalla Nazione Madre sia dai Paesi di residenza.
Il bel gesto di Pahor
Al Quirinale Borut Pahor si è rivolto a Tremul parlando in italiano. Un gesto molto apprezzato dal presidente della Giunta, che ha riconosciuto nell’atteggiamento del presidente sloveno la prova che eventi come quelli di ieri l’altro contribuiscono ad agevolare, approfondire, a rendere più amichevoli, spontanei e cordiali i rapporti con i rappresentanti delle istituzioni.

Tanti amici
Un parere condiviso anche da Furio Radin, il quale ha sottolineato che nel corso della serata i rappresentanti della CNI hanno avuto modo di incontrare numerosi amici della minoranza, ad esempio il presidente della Regione FVG, Debora Serracchiani, o il sindaco di Trieste, Roberto Cosolini, cogliendo l’occasione per tenere vivo e costante l’interesse per le tematiche a cuore degli italiani in Croazia e Slovenia.
Roberto Battelli ha espresso soddisfazione per l’importanza riconosciuta da Napolitano e Pahor alla minoranza italiana, in occasione della cena di Stato. “Il presidente Pahor – ha osservato Battelli – ha menzionato alcuni esempi di iniziative transfrontaliere che non includono direttamente la CNI. Tuttavia è importante affrontare questi argomenti e dare loro rilievo”. Battelli ha parlato dell’importanza di proseguire il dialogo avviato al fine di far acquisire alle minoranze e in particolar modo a quella italiana un ruolo di primo piano nell’evoluzione dei rapporti transfrontalieri promossi a livello regionale. “Un argomento del quale si discute da tempo e che auspichiamo possa iniziare a dare i propri frutti”, ha concluso Battelli.
Il presidente della CAN Costiera, Alberto Scheriani, ha espresso soddisfazione per l’esito dell’incontro tra i capi di Stato italiano e sloveno. Scheriani ha sottolineato che nonostante si sia trattato di un appuntamento protocollare, il medesimo ha messo in risalto la considerazione della quale gode la CNI agli occhi dei due presidenti. “Nel corso di un importante evento i due capi di stato hanno ribadito il ruolo di ponte esercitato dalle rispettive minoranze e il loro contributo al rafforzamento dei buoni rapporti instaurati tra i due Paesi”, ha notato Scheriani.

L’intervento di Napolitano
Nel discorso pronunciato durante la cena di Stato offerta in occasione della visita di Pahor, Napolitano ha sottolineato il rapporto di forte e sincera amicizia che unisce gli italiani e gli sloveni e che sta dando impulso a relazioni sempre più intense, in un clima di fiducia e reciproca stima. “La positiva evoluzione delle nostre relazioni bilaterali – ha osservato Napolitano – non avrebbe potuto raggiungere l’attuale ampiezza senza lo straordinario contributo delle rispettive minoranze nazionali. L’interazione fra la comunità italiana in Slovenia e quella slovena in Italia rappresenta un insostituibile valore aggiunto per l’ulteriore approfondimento della reciproca comprensione. Desidero dunque ribadire oggi l’impegno, che so essere pienamente condiviso, a far sì che queste comunità possano godere nel Paese in cui vivono una piena integrazione, nel rispetto della loro identità e delle loro tradizioni”




191 - Il Piccolo 29/04/14 La lettera del giorno - Cristicchi: «Senza Delbello non avrei scritto Magazzino 18» 
la lettera del giorno

Cristicchi: «Senza Delbello non avrei scritto Magazzino 18» 


Mi è capitato in questi ultimi giorni di leggere commenti molto belli sulle visite al Magazzino 18, in Porto Vecchio, e vorrei associarmi a quanti hanno vissuto forti emozioni e si sono sentiti profondamente coinvolti dal piccolo viaggio tra le masserizie, narrate dal direttore dell’Irci Piero Delbello (nella foto a destra, assieme a Cristicchi durante una visita proprio al Magazzino 18). Difficilmente avrei intrapreso l’avventura dello spettacolo se in una grigia mattina di ottobre non avessi avuto un “Virgilio” così avvincente come lui. Il rispetto, la cura e l’amore con cui mi spiegò quegli oggetti è un qualcosa che non ha prezzo, e per questo gliene sarò per sempre grato. Per aver custodito le sedie degli esuli, e la loro memoria silenziosa. Per avermi trasmesso con tanto pathos una parte di storia che ignoravo. Per avermi mostrato tra la polvere, il vero spirito che nel Magazzino abita! Perché le masserizie hanno uno spirito, e quello spirito alberga nelle parole di Piero Delbello. Spero che tanti altri in futuro potranno avere la fortuna di ascoltare i suoi racconti e la sua voce appassionata risuonare nel silenzio del Magazzino 18. 

Simone Cristicchi 




192 - Il Piccolo 29/04/14 Il Veneto rifà il tetto alla Chiesa di Sissano
L’INTERVENTO

Il Veneto rifà il tetto alla Chiesa di Sissano

SISSANO In Istria sta per completarsi un altro progetto sostenuto finanziariamente dalla Regione Veneto, nel rispetto della Legge Regionale 15/1994 finalizzata al recupero del patrimonio artistico, culturale e architettonico lasciato da queste parti dalla Serenissima, nota anche come Legge Beggiato. Stiamo parlando della ricostruzione del tetto della chiesa parrocchiale dei santi Felice e Fortunato, un intervento del valore pari a
35 mila euro di cui 15 mila erogati dal Veneto e il resto dalla parrocchia.
Il punto sull'andamento della ristrutturazione è stato fatto in conferenza stampa dal vice sindaco di Lisignano (il comune di riferimento) Paolo Demarin e da Antonio Dobran, presidente della locale Comunità degli italiani che ha promosso il progetto. La chiesa con il tetto rimesso a nuovo hanno detto, verrà riaperta a fine maggio, proprio come previsto nel contratto con la ditta appaltratrice, la Macuka di San Pietro in Selve. L'ultima riparazione del tetto hanno spiegato, risale a 35 anni fa e considerato che negli ultimi anni c'erano infiltrazioni di pioggia, abbiamo deciso di intervenire. La chiesa parrocchiale di Sissano è stata costruita nel 1528 sui resti di una precedente chiesetta. L'inventario sacrale, alcuni dipinti olio su tela e le statue in pietra e legno risalgono al periodo tra il 15esimo e 18esimo secolo. Stando ai dati dell'Ufficio per la conservazione dei beni culturali, la parrocchia di San Felice e San Fortunato è stato l'insediamento più ricco e importante nel circondario polese per tutto il Medioevo fino al 1631 quando la popolazione venne ridotta al lumicino causa l'epidemia di colera. Tornando alla Legge Regionale 15/1994 importante rilevare che in 20 anni essa a dato un notevole contributo all'attuazione di
101 progetti, per il totale di 2,5 milioni di euro. Di uno degli interventi più cospicui dal Veneto pari a 103 mila euro, ha beneficiato il restauro di Palazzo Bettica a Dignano ora adibito a museo, autentico gioiello architettonico lasciato dagli architetti e costruttori veneziani. (p.r.) 



193 - Il Piccolo 07/05/12 Buie - L'Unione Italiana teme ulteriori tagli
Si parla di una nuova “sforbiciata” da 160mila euro. Il sodalizio corre ai ripari e mette a punto un piano di accantonamento 

L’Unione Italiana teme ulteriori tagli

BUIE Da dieci anni a questa parte i finanziamenti di Roma a favore della Comunità nazionale italiana in Croazia e Slovenia sono stati dimezzati, il dato è stato più volte rimarcato dal presidente della Giunta Esecutiva dell'Unione Italiana Maurizio Tremul che comunque esprime sempre gratitudine alla Nazione Madre per gli sforzi materiali onde mantenere in vita la sua unica minoranza autoctona all'estero e l'identità italiana del territorio d'insediamento storico. E purtroppo lo spauracchio di altre decurtazioni è sempre presente. Dopo il taglio del 10% dei finanziamenti provenienti dall'Italia operato all'inizio dell'anno che li ha ridotti a 4.05 milioni di euro, esiste il pericolo di un ulteriore colpo di forbice pari a 160.000. Ne ha parlato Tremul stesso alla riunione dell'Assemblea UI dicendo che in via cautelativa è stato definito un piano che tenga di questo che lui ha definito accantonamento. Speriamo, ha aggiunto, che le nostre preoccupazioni rimangano infondate. E purtroppo arrivano anche tagli del 9% erogati dal bilancio dello Stato croato. Una situazione dunque non rosea che comunque finora non intaccato o ridimensionato le attività principali dell'Unione Italiana. Sono però stati cancellati i viaggi d'istruzione in Italia, limate per le spese per determinate manifestazioni nel settore Teatro, arte e spettacolo, quelle amministrative e si pensa si eliminare il gettone di presenza ai consiglieri per la partecipazione alle sedute assembleari.
Nonostante tutto il Presidente dell'Unione Italiana Furio Radin si dice molto soddisfatto dell'operato dell'attuale legislatura che sta per scadere.
Abbiamo mantenuto in vita l'italianità e l'identità italiana di queste terre dice. Tutte le Comunità degli Italiani e le altre nostre istituzioni funzionano benissimo continua, per cui non possiamo lamentarci. Certo conclude, ci sta colpendo la crisi economica che però è un fenomeno mondiale di cui bisogna tener atto. Per quel che riguarda l'elezione della futura Assemblea, probabilmente si andrà alle urne alla fine di giugno. Sulla data non si è sicuri in quanto i consiglieri non hanno approvato il regolamento elettorale, un piccolo colpo di scena in quanto si trattava soltanto di trasferire nel documento le modifiche statutarie approvate in precedenza.
Solo per questo punto all'ordine del giorno, è stata convocata una riunione straordinaria dell'Assemblea che si terrà lunedì prossimo a Dignano.

(p.r.) 







194 - Il Borghese - Maggio 2014 Esuli senza codice
Esuli senza codice

di Mario Coda

Sulla Laurentina, a poca distanza dell’EUR, si trova la Società degli Studi Fiumani. È qui che abbiamo avuto modo di conoscere una realtà di cui ignoravamo l’esistenza. All’interno del villaggio istriano-dalmata, oggi diventato un quartiere di Roma, siamo stati accolti dal Signor Oliviero Zoia e dal Dottor Marino Micich, Segretario generale dell’Associazione, ed abbiamo potuto parlare con loro dell’aberrante condizione in cui molti esuli istriani-dalmati e loro figli e nipoti si trovano ancora, ovvero… senza codice fiscale, il che rende impossibile l’attivazione di qualunque forma di sostegno e di assistenza sanitaria a loro tutela.

La ringraziamo di questo incontro con «il Borghese », che ci permette di far conoscere una realtà così drammatica, come quella della doppia offesa all’italianità, subita dai nostri compatrioti giulianodalmati.

«Sono io che ringrazio. Nel 1989, quando sono stati normalizzati i codici fiscali di tutti gli Italiani, ci siamo accorti che per gli esuli giuliano-dalmati, questi codici non venivano riconosciuti. Inizialmente, si è pensato che ciò fosse “normale” e che facesse parte del cosiddetto momento di rodaggio, ma andando avanti con il tempo, ci siamo accorti di cosa era
accaduto: l’Ufficio delle Entrate non aveva inserito tra gli ottomila e cento comuni italiani i 136 comuni dell’Istria, Fiume e Dalmazia e le tre relative province di Fiume, Pola e Zara che tra il 1920 ed il 1947 erano Italia, fino al 10 febbraio 1947, giorno del Trattato di Parigi. Da quel momento, gli esuli erano diventati stranieri o peggio ancora apolidi in patria. Abbiamo interessato il Parlamento italiano che ha provveduto nello stesso anno ad emanare una legge ad integrazione. La legge non ha avuto poi i decreti attuativi necessari alla sua applicazione, quindi da qui è cominciata la “disgrazia per i nostri esuli”. «Cacciati con violenza dall’Istria, avevamo dunque bisogno di una terra che ci accogliesse, e così è nato il quartiere Dalmata, qui a Roma. In quella stessa zona nella quale vennero relegati gli esuli al loro rientro in Patria, una volta scappati dal cosiddetto paradiso comunista di Tito. Esso fu costruito nel ‘42 ed il ruolo dello Stato era quello di garantire degli spazi per le attività sociali dei giuliano-dalmati, ma se ne son “dimenticati”. Per quanto riguarda, invece, la struttura che ci ospita, essa è stata acquistata ad un prezzo di favore ed è la sede della Società degli Studi Fiumani, fondata già nel 1923 a Fiume e riaperta dagli esuli in Italia nel 1960, a Roma. Abbiamo operato anche nell’ambito del sociale e ci siamo avvalsi in particolare di una legge, la 560/93, che ha consentito di acquisire abitazioni agli esuli aventi diritto alle condizioni di miglior favore, dopo sei lunghi anni di lavoro per poter applicare al meglio questa legge. Quello che mi risulta ancora doloroso è aver registrato i contratti di acquisto dei beni con codici fiscali “incerti”. Speriamo bene.»

Il problema è riconducibili ad un sistema di dati tutto italiano errato, oppure c’è dell’altro?

«Cos’è il codice fiscale? Insieme di nome, cognome, comune, provincia e data di nascita. Le ultime cinque tra lettere e numeri, indicano provincia e comune di nascita – D 620 M risulta bianco, non assegnato. A chi viene assegnato D620M ? A mia cugina Maria Luisa, nata a Fiume nel 1941, oltre a tanti altri esuli con il risultato che quei codici fiscali sono incompleti, quindi inservibili al sistema elettronico dei data base. «Pertanto, recarsi presso un ospedale, mettersi in fila per pagare il tiket sanitario, presentare il codice fiscale e sentirsi dire: “Signora, lei non può fare niente perché non risulta essere italiana”, è una offesa per chi come gli esuli sono italiani due volte, per nascita e per scelta. Altro esempio che posso riportare: una signora che conosco, architetto, Maria Grazia, nata a Pola nel 1931, poche settimana fà si reca a Nettuno, dove ha casa, e qui viene rapinata. I ladri le rubano il portafogli con il blocchetto degli assegni ed essendosi recata subito alla caserma dei Carabinieri di Nettuno per sporgere denuncia, si è sentita rispondere che non era possibile ricevere la sua denuncia in quanto nel data base del ministero degli Interni, la provincia della signora non esisteva, quindi lei era considerata apolide. «Il giorno 3 aprile, siamo stati ospiti a Mi manda Raitre per informare del problema anche i giornalisti e di conseguenza i telespettatori, i quali, per mancanza di conoscenza storica, non si sono mai chiesti nulla. Speriamo di aver acceso una luce di conoscenza della materia.
Ma il vero nemico, con il quale ci tocca combattere ancora oggi, è il profondo e marcato negazionismo dell’intero dramma degli esuli istriani.

«Senza conoscere affatto la verità, infatti, alcuni ritengono che gli esuli siano rientrati in Italia per motivi di emigrazione, per vivere meglio, quando, in realtà, essi vennero relegati in campi profughi (109 aperti in Italia e funzionanti fino al 1963), al cui interno le condizioni di vita non erano certo delle migliori. «Quand’ero piccolo », aggiunge a questo punto il Direttore della Società degli Studi Fiumani, Marino Micich, «dopo una certa ora, dovevamo ritornare nel quartiere, poiché i comunisti negazionisti solevano scagliarci contro delle pietre dal cancello urlando: “Fascisti”, quando, in realtà l’unica nostra colpa era quella di essere italiani.»

Un’ultima domanda, che vuole essere anche un po’ provocatoria: Italia come Dalmazia?
«Mi trovo ad essere, e nonostante tutto, fiducioso nell’Europa, pertanto non credo che qualcuno permetta che si divida l’Italia, anche perché, chi sostiene a gran voce di non essere italiano dovrebbe pensare all’italianità negata agli esuli di Fiume, Istria e Dalmazia ed alle conseguenze di questo torto che non si riesce ancora a rimuovere.. Un’ultima, triste considerazione è, purtroppo, che il governo attualmente in carica si occupa di ben altro. «Ringrazio per l’attenzione e la disponibilità dimostrate e confido nella buona volontà (?) e nella buona fede(?!) dei nostri cari governanti eletti, ora come non mai, a furor di popolo.»




195 – Libero  09/05/14 Milano : Show sul partigiano titino finanziato dal Comune
Milano - Consiglio di Zona 3

Show sul partigiano titino finanziato dal Comune Fdi: «Delibera indecente»

Dino Bondavalli_

Più che un «parlamentino» al servizio dei cittadini, una fucina di iniziative per promuovere e rivalutare l’ideologia di sinistra. Questa l’accusa rivolta dai consiglieri di Fratelli d’Italia-An alla maggioranza aU’interno del Consiglio di Zona 3, dopo che la Commissione cultura ha presentato una richiesta di delibera per destinare oltre mille euro allo spettacolo teatrale «Drug Gojko». Lo show narra sotto forma di monologo la vicenda di Nelio Marignoli, gommista viterbese e radiotelegrafista della Marina militare italiana sul fronte greco-albanese, il quale dopo l'8 settembre 1943 divenne combattente partigiano nell’esercito popolare di liberazione jugoslavo del maresciallo Tito. «Incredibile» attacca Federico Santoro, consigliere di Fratelli d’Italia in Cdz 3. «Invece che occuparci dei problemi dei cittadini e dei quartieri della zona ci troviamo per l’ennesima volta a discutere uno spettacolo storico di dubbio gusto, dal sapore giustificazionista rispetto a quanto avvenuto nelle terre di Tito e quindi rispetto al dramma degli esuli e delle Foibe». Non solo. «Nel documento depositato agli atti», spiega infatti Santoro, «si dice che uno degli elementi di sfondo delle spettacolo sarà un manifesto di Casa Pound. Ora, mi chiedo, cosa c’entra questa cosa con la storia di un partigiano titino? È il caso che questa iniziativa venga ritirata prima di essere discussa». Una richiesta chiara. Fondata anche su una serie di precedenti registrati negli ultimi mesi. Tra questi l’episodio più grave è forse quello avvenuto lo scorso 10 febbraio, in occasione del Giorno del ricordo dedicato alla memoria delle vittime delle Foibe. In quell’occasione il capogruppo della Sinistra per Pisapia in Consiglio di zona 9, Leonardo Cribio, aveva scatenato una feroce polemica scrivendo sul proprio profilo Facebook «nelle foibe c’è ancora posto». Il sindaco Pisapia aveva definito quelle parole «vergognose, inaccettabili e assurde». Un commento che aveva chiuso la vicenda e le polemiche sulle foibe. Fino all’ultimo stanziamento.






196 - L'Eco di Bergamo 26/04/14 Bergamo:  E in vendita anche le ex case dei profughi
E' in vendita anche le ex case dei profughi

Sono i 27 appartamenti di via Monte Grigna - Barca: Per noi fu una tragedia, ora siamo radicati

DIANA NORIS

Nel giardinetto che si apre tra le case popolari di via Monte Grìgna i bambini giocano a palla. Alcuni di loro sono figli di profughi, da poco a Bergamo. Giocano esattamente come i bambini di sessantenni fa, figli degli esuli istriani e dalmati, accolti in Celadina e in corso Venezia nelle case costruite appositamente dal Comune di Bergamo, con un concorso del Governo, per dar loro un tetto.
Ventisette di questi appartamenti sono stati acquisiti dal Comune di Bergamo a titolo gratuito dall’Agenzia del demanio : tre sono attualmente occupati dai profughi di oggi, mentre gli altri 24, lìberi da qualsiasi vincolo, sono stati inseriti nel piano delle alienazioni del 2014, allegato al bilancio di previsione in discussione in Consiglio comunale. Il valore stimato è di un milione e duecentomila euro. Ma il valore simbolico pe i primi abitanti di questi alloggi non si può stimare in euro. Tra quelle mura, centinaia di persone hanno trovato un posto sicuro dove vivere, crescere i propri figli e dare loro una speranza, lontani dagli orrori delle foibe. Dopo più di cinquant'anni gli esuli e le loro famiglie si sono spostati da quegli alloggi, ma il ricordo dell’arrivo a Bergamo, resta indelebile. Vincenzo Barca è uno di loro, nato a Fiume e trasferitosi a Bergamo, per anni è stato presidente dell'Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (oggi guidata da Maria Elena Depetroni). ?Tutti gli esuli sono stati portati dal vento della tragedia, sparsi in Europa e nel mondo - spiega Vincenzo Barca-. In alcuni casi si è quasi trattato di una deportazione, con famiglie disgregate, moglie e marito divisi. Chi è arrivato a Bergamo è stato fortunato, perché non si è trovato di fronte a tragedie di chi era in altre città, come Bologna.
Il nostro punto di riferimento era la Celadina, prima con l’istituto della casa di ricovero e poi con le abitazioni che il Comune ha costruito apposta per noi.

Barca dice con orgoglio di essere istro-orobico? : Bergamo ha il merito di averci accolto, non con la banda o gli onori, ma nemmeno con il pugno chiuso e le minacce. Ci ha offerto metà del pane che aveva, nel suo silenzio e nello spirito chiuso dei bergamaschi d ha accolto, è per questo che d siamo radicati qui. Lasciare per sempre la nostra terra, gli affetti e arrivare qui, senza neanche un fazzoletto per soffiarsi il naso, è stata una tragedia. Ma in punta di piedi di siamo inseriti rimboccandoci le maniche insieme ai bergamaschi, che dopo la guerra riprendevano la vita normale?.

Tra i primi esuli arrivati a Bergamo c’è Remigio Giacometti, oggi residente a Torre Boldone, accolto nel 1947, quando aveva solo sei anni, nel campo allestito alla Clementina, nell’ospizio per anziani. Lì è rimasto con la mamma e lo zio (il papà è disperso nella campagna di Russia) per tre anni, per spostarsi poi nella case comunali di viale Venezia Remigio parla della sua vita di stenti e di ostacoli per scappare dal paese natio, Dignano d’Istria.

Purtroppo noi esuli siamo sempre stati marchiati come fascisti, perché scappavamo dalla dittatura di Tito - racconta Remigio Giacometti -. In realtà eravamo persone normali, molti contadini che scappavano perché era diventato impossibile vivere nella nostra terra solo perché italiani, i “titini” ci facevano sparire nelle foibe, cavità naturali di centinaia di metri di profondità, fino al mare. Venire in Italia non è stato semplice, ricordo la partenza da Pola per Venezia, con una piccola valigetta. Prima di salire sul piroscafo “Toscana” ci hanno spruzzato con il ddt e sul treno verso Bergamo, non abbiamo potuto sostare a Bologna,perché i comunisti non volevano che la Croce Rossa desse il latte ai bambini.
Giacometti in Bergamo non ha visto un approdo, ma una tappa da cui ripartire, non senza difficoltà: ?La prima è stata il dialetto bergamasco, che non conoscevamo - spiega Giacometti -. E poi la gente non ci ha subito accettato. Ricordo un’estate e San Pellegrino, dove lavoravamo all’hotel Papa, con i partigiani che volevano incendiare i nostri alloggi. E’ dovuta intervenire la Polizia, sono brutti ricordi, eravamo terrorizzati. 








197 - Libero 05/05/14 Libro - Foibe ed Esodo, Carla Cace e "l'Italia negata"
Il libro

Foibe ed Esodo, Carla Cace e "l'Italia negata"

di Marco Petrelli

Strana sorte quella delle vittime del comunismo: milioni di persone dimenticate dalla storia e dagli uomini. Kolyma, Magadan, Yodok, Kathyn, Goli Othok sono nomi che ai più non dicono granché, malgrado il loro essere stati luoghi d'orrore e di tormenti da girone dantesco. E' alla memoria di vittime dimenticate che è dedicato Foibe ed Esodo, l'Italia Negata (edizioni de Il Borghese) della giornalista Carla Isabella Elena Cace, esule di terza generazione autrice di altri due titoli sullo stesso tema: Foibe, Martiri Dimenticati e Foibe dalla tragedia all'esodo. "In Dalmazia, la mia famiglia è originaria di lì, non si infoibava: corda al collo, due pietre e giù in fondo al mare. Mio nonno la scampò per miracolo", spiega Elena, la cui opera esce in libreria proprio nel decennale della Legge 92 del 30 marzo 2004 che istituisce il Giorno del Ricordo (10 febbraio).


Un testo commemorativo?
"Molto di più! Un'inchiesta per comprendere cosa sia stato fatto e cosa ancora ci sia da fare dieci anni dopo l'approvazione della legge. Un viaggio a ritroso: dal 2014 scivoli indietro negli anni fino ad arrivare a raccontare, a descrivere cosa sia una foiba".

E perché?
"Gli ultimi testimoni dell'esodo stanno lentamente sparendo. E' necessario tenere alta l'attenzione sul tema e così raccolgo ancora racconti, storie, vicende umane. Con la fotografa Clio Crescente fotografa ci recheremo presto al Magazzino 18 del porto di Trieste per documentare ciò che è rimasto; poi per il 10 Febbraio 2015 proporrò un nuovo lavoro. C'è poco da fare, le persecuzioni titine sono materia tutt'oggi non molto nota. Alla scarsa conoscenza si aggiunge il fatto che i network fanno servizi sempre più sintetici sul tema e che la politica si ricordi di quell'orrore una volta l'anno. Impensabile".
Strumentalizzazioni?

"In 10 anni sono state fatte 10 commemorazioni istituzionali. Ha davvero senso? E' così che si pretende di far comprendere l'entità di quella tragedia?".
Ti è piaciuto Magazzino 18?
"Molto. La storia veicolata dall'arte, sensazionale. Eccetto un piccolo neo:
la sequenza della bambina ad Arbe".

E cos'ha di male la scena?
"Ha di male le parole che sanno di velato giustificazionismo. A mio avviso avrebbe dovuto evitarle".
Ci hai parlato di tuo nonno esule che scampa alla morte in modo fortuito.
Hai un padre che dirige un'importante rivista di genere, “Dalmatica”. Il tuo pare essere più di un lavoro di ricerca, quasi una missione...
"Gli ultimi testimoni dell'esodo stanno lentamente sparendo. E' necessario tenere alta l'attenzione sul tema e così raccolgo ancora racconti, storie, vicende umane. Con la fotografa Clio Crescente fotografa ci recheremo presto al Magazzino 18 del porto di Trieste per documentare ciò che è rimasto; poi per il 10 Febbraio 2015 proporrò un nuovo lavoro".





198 - La Voce di Romagna 06/05/14 Storie e Personaggi - Arsia 1940: Una miniera affidata a incapaci
STORIE E PERSONAGGI

EMERGONO NUOVI DOCUMENTI E TESTIMONIANZE SULLA TRAGEDIA DI ARSIA DEL 1940

Una miniera affidata a incapaci

Tra le vittime anche alcuni minatori provenienti dall’Alta Valmarecchia. L’accurato lavoro di ricerca di Tullio Vorano

Questi i nomi delle vittime della Valmarecchia nella tragedia di Arsia del 1940. Si tratta di Francesco Alessi, nato a Pennabilli il 25 gennaio 1912, Primo Antonini, nato a San Leo il 22 gennaio 1907, Giovanni Guerra, nato a San Leo il 5 aprile 1907, Salvatore Crudi, nato a Mercatino Marecchia il 21 marzo 1896, Primo Manuelli, nato a Mercatino Marecchia il 6 luglio 1910, Emilio Mosconi, nato a S. Agata Feltria il 17 gennaio 1909. Erano numerose le vittime provenienti dalle Marche, dalla Sicilia e dalla Sardegna ed anche dal Veneto e precisamente dal Cadore. Quella di Arsia è la sciagura che ha fatto il maggior numero di vittime in Italia, i minatori avevano lasciato le loro terre di origine attratti dalle migliori condizioni economiche offerte in Istria. Le miniere del bacino dell’Arsa, oramai da tempo chiuse, nel corso degli anni hanno conosciuto diverse tragedie; nel dopoguerra va ricordata anche quella del 14 marzo 1948 sotto l’amministrazione jugoslava, tra le vittime c’erano diversi prigionieri tedeschi adibiti ai lavori forzati. Negli anni ’30, racconta Vorano, le miniere dell’Arsa conoscono uno straordinario sviluppo che vede come principali artefici Guido Segre e Augusto Batini. Infatti, in quel periodo la direzione delle miniere istriane era affidata all’ingegner Augusto Batini, di S. Giovanni alla Vena, vicino Pisa, uomo di straordinarie capacità organizzative, profondo conoscitore dell’arte mineraria e nel contempo molto umano, per cui godeva anche la stima e l’affetto degli operai. Nel contempo il dirigente principale dell’Azienda era Guido Segre, che da Trieste manovrava abilmente le sorti della stessa. Si deve principalmente a lui la costituzione dell’Azienda Carboni Italiani (A.Ca.I.) nel 1935, che significò l’unificazione delle miniere a livello nazionale e la congiunzione delle miniere istriane a quelle sarde, e poi fu Segre a commissionare all’architetto Gustavo Pulitzer Finali la progettazione e la costruzione dell’abitato di Arsia. L’incidente più grosso nelle miniere dell’Arsa durante la dirigenza Batini – continua la relazione di Vorano - è successo la notte tra il 6 e 7 settembre 1937 quando persero la vita 9 minatori “per avvelenamento da ossido di carbonio sviluppatosi… a seguito di anormale brillamento delle mine” e di altri 4 minatori la notte successiva per essersi recati sul luogo dell’infortunio per alcuni accertamenti senza le indispensabili apparecchiature e senza le dovute precauzioni. L’ingegner Batini in quei giorni si trovava in Toscana, nel suo paese, dove viene raggiunto da un telegramma di Segre che lo invitava a raggiungere subito Arsia. Batini e i suoi stretti collaboratori vengono colpiti da un mandato di comparizione davanti al pretore di Albona, con l’imputazione di delitto, negligenza e inosservanza del regolamento. Così si evince dalla perizia giudiziaria: la causa della disgrazia va attribuita ad “… un assieme di dolorose e fortuite circostanze”. Gli imputati verranno scagionati da qualsiasi responsabilità. Arriva il 1938 con le leggi razziali, che provocano l’allontanamento dall’A.Ca.I. di Guido Segre, colpevole di essere ebreo. Vi subentrarono “persone incapaci”, a dire dell’ingegnere capo del Distretto di Firenze del Corpo reale delle Miniere, l’ingegner Luigi Gerbella, al tempo, assieme a Tullio Seguiti, la maggiore autorità in Italia nel campo minerario, e ciò perché Vaselli non si era occupato mai di questioni minerarie, mentre Cattania aveva lavorato nelle miniere di zolfo, ma più da politico che da tecnico. Gerbella, scrive Vorano, aveva visto bene. Poco tempo dopo infatti la nuova dirigenza dell’A.Ca.I. votò sfiducia all’ingegner Batini, perché si rifiutava ad incrementare la produzione oltre alle possibilità effettive della miniera. Batini in special modo era contrario all’aumento della produzione nella Camera 1, dove più tardi è avvenuta la più grande tragedia. Lo stesso Batini aveva organizzato la preparazione della camera, perché ricca di carbone; secondo lui era però necessario congiungerla al nuovo pozzo (Littorio) che era in costruzione, nonché al pozzo Paolo per migliorare l’aereazione della stessa camera. Inoltre   avrebbe avuto bisogno di un efficiente armamento e di un impianto idrico per l’inaffiamento della polvere di carbone. L’ingegner Batini viene ulteriormente informato della tragedia da una lettera – espresso inviatagli da Francesco Braut da Vines: “Carissimo sig. Direttore, faccio seguito alla lettera inviatavi stamane per darvi ancor più triste comunicazione. I morti sinora estratti (ore 21) sono circa una cinquantina e si crede che altrettanti, se non di più siano ancora da estrarre. … Il quadro è tremendo. Il popolo mormora molto ed ormai tra la gente, nei crocchi, si parla di voi con affetto e con gratitudine ed operai hanno detto forte che vogliono ancora il direttore Batini. … cotanta disgrazia che non credo abbia precedenti in Italia e forse anche al largo dall’Italia. Grisou niente. I grisoumetristi nulla hanno trovato e nulla segnalarono da molto tempo. … Il disastro era previsto da me e da molti altri tecnicamente inesperti ma consci di ciò che veniva trascurato mentre da voi era sempre stato scrupolosamente curato”. Nella stessa giornata Braut manda un altro espresso: “Carissimo sig. Direttore, il numero dei morti è salito e sale e salirà probabilmente sino alla vicinanza tremenda del 200”. Il 5 marzo l’ingegner Batini scrive al “carissimo Gerbella”: “La catastrofe dell’Arsa supera qualsiasi immaginazione. E’ stata certamente causata da una esplosione di polvere che deve essere accumulata sui cantieri e nelle gallerie in quantità enormi… Sono rimasti uccisi operai che si trovavano nella galleria di Fianona, al livello +10, ad un chilometro almeno dal centro  dell’esplosione che deve essere avvenuta fra il 15° e 16° livello della camera 1, cioè fra la quota -200 e -250 alle ore 4 del mattino.… Ricorderai come io avevo previsto un disastro del genere e so che questa mia previsione è stata già riferita, su domanda, ai magistrati che numerosi sono sul posto… L’esplosione ha inoltre prodotto enormi frane di cantieri e di gallerie che si dice erano armate poco e con legname scadente...Quello che ti dicevo di Vaccari e di Bechi sembravano esagerazioni o rancori personali; ma credi non avevano capito la miniera, credevano che potesse marciare da sola con atti amministrativi e soprattutto non avevano creduto ai miei ammonimenti.” Infine conclude: “Era possibile pensare a lasciare quella miniera in mano inesperte; un imbecille presuntuoso all’Arsa ed uno scapolo a Trieste arrivato a quel posto da un volgare intrigo?”.

Aldo Viroli

Dove si svolge la vicenda
Nell’Istria che allora apparteneva all’Italia

Continuano ad emergere ulteriori novità sulla tragedia mineraria di Arsia, (Rabac in croato) avvenuta il 28 febbraio 1940 nell’Istria allora italiana. Storie e personaggi si è occupata a più riprese della vicenda perché tra le vittime ci sono minatori provenienti dall’Emilia – Romagna, comprese località della Valmarecchia passate alla provincia di Rimini. Il professor Tullio Vorano, presidente del Comitato esecutivo della Comunità degli Italiani di Albona (in croato Labin) e autorevole studioso del passato minerario albonese, in occasione dell’ottava edizione della cerimonia commemorativa delle vittime della sciagura, ha letto una documentata relazione. Vorano ha consultato materiale proveniente dall’archivio dell’ingegner Augusto Batini, dirigente della miniera fino al febbraio 1939, messo a disposizione dalla figlia Cesira. “Non si doveva dare la più grande miniera di carbone d’Italia, attrezzata come le migliori di Europa, in mano a tecnici che in questo genere di miniere erano dei veri principianti”. E’ quanto aveva dichiarato l’ingegner Batini, al pretore di Pinerolo il 26 marzo 1940, parlando delle principali cause della tragedia; dalle testimonianze raccolte dagli ex collaboratori, risulta che a perdere la vita sono stati 187 minatori, due in più rispetto a quanto si credeva fino a poco tempo prima.



199 - Il Piccolo 09/05/14 Trieste - Madieri, parco intitolato con un refuso sulla targa
Sbagliata di dieci anni la data della morte. Dedicata alla scrittrice fiumana l’area verde di via Benussi. Presente il marito Claudio Magris, il ricordo di Guagnini 

Madieri, parco intitolato con un refuso sulla targa

di Giulia Basso 

La scrittrice fiumana Marisa Madieri, autrice di storie e racconti di grande forza poetica e rara intensità, ora ha il suo giardino.
E’ stato intitolato a lei, compianta moglie di Claudio Magris, il grazioso parco pubblico di via Bernardo Benussi, aggiungendo così un tassello in più in direzione di quella toponomastica al femminile che, con l’azione del vicesindaco Fabiana Martini, si cerca ora di incoraggiare per mettere una pezza a secoli di assoluto dominio maschile in quest’ambito. La proposta per questa intitolazione, alla cui cerimonia ieri hanno partecipato davvero in tanti, è venuta direttamente dalla cittadinanza: è stata la settima circoscrizione a richiederla, con una mozione approvata all’unanimità dal consiglio. E ieri tra i presenti, tra i quali anche alcuni volontari del Centro di Aiuto alla Vita “Marisa” da lei fondato, l’emozione e la soddisfazione per questa dedica erano palpabili. Peccato per uno sgradevole fuoriprogramma. Si è letta un po’ di perplessità tra gli astanti quando è stata scoperta la targa per l’intitolazione, che riportava erroneamente la data di morte della scrittrice, fissandola al 1986 anziché al 1996. Ma dal Comune fanno sapere che si è già provveduto a far correggere l’errore.
Marisa Madieri è stata ricordata ieri dalle autorità e dal marito, oltre che dalle volontarie del Centro di Aiuto alla Vita e dal critico e saggista Elvio Guagnini, che ha arricchito la cerimonia con una sua rievocazione in chiave letteraria della scrittrice. Nata a Fiume nel 1938, Madieri si rifugiò con la famiglia a Trieste nel 1949 e per molti anni dovette vivere in un campo profughi. Frequentò il liceo Dante, dove conobbe Claudio Magris, che sarebbe diventato suo marito e padre dei suoi figli. Oltre alla laurea conseguì anche il brevetto di pilota aereo, una rarità per una donna di quei tempi, e fondò il Centro di aiuto alla vita che ora porta il suo nome, all’interno del quale svolse un’intensa opera di volontariato. Scrisse poco più di 300 pagine nell’arco della sua breve esperienza letteraria, durata una quindicina d’anni, ma con le sue opere si guadagnò l’attenzione della critica. «Fu una scrittrice parca ed equilibrata – rammenta Guagnini - parsimoniosa nella scrittura così come nella conversazione. Il suo primo libro, “Verde Acqua” (Einaudi 1987), fu un esordio di grande maturità, fondato sulla memoria e sull’interazione tra passato e presente. E’
difficile incasellarlo in un genere, perché è insieme autobiografia, diario, racconto e raccolta di osservazioni sul senso e l’etica della vita. Nel narrare la sua storia, le vicende legate alla guerra e all’esodo, la scrittrice si dimostrò estranea a ogni retorica e per questo incisiva».
Dedicarle un giardino, sottolineano con i loro interventi le autorità presenti, dal prefetto al vicesindaco alla presidente della provincia, è una scelta che ben si sposa con lo spirito di Marisa Madieri. 




200 – Mailing List Histria Notizie 08/05/14 Nico Lugnan campione di dama, a Grado e dintorni s’installarono nel dopoguerra tanti profughi giuliani...
 
A Grado e dintorni s’installarono nel dopoguerra tanti profughi giuliani...

Nico Lugnan, campione di dama

Iniziò a giocare a dama da ragazzino. Nacque così la sua grande passione per questo "sport del cervello" secondo la definizione che ci dà il "regolamento ufficiale di gioco della dama italiana". Passione che gli ha riempito la vita e lo ha fatto viaggiare attraverso l’Italia, incontrare tante persone. Lo ha fatto divenire insomma il Nicolò Lugnan di adesso, di sempre, che io ho potuto apprezzare profondamente fin dal nostro primo incontro, avvenuto anni fa a Grado, dove è nato e risiede. 

Fu una sera d’inverno, buia e ventosa. Ero in viaggio in Italia dal Canada. Mi trovavo a Grado. Aspettavo un autobus che mi riconducesse a Trieste. Mi rivolsi a questo signore intabarrato che per caso passava nei pressi di quella solitaria fermata d'autobus dove ormai io aspettavo con poche speranze. Mi confermò  ch'era proprio il posto giusto, e s’intrattenne con me, disponibile, cortese, pieno di utili consigli. Ebbi poi il piacere, negli anni che seguirono, di approfondire la conoscenza di questo gradese dalle radici antiche. Il cognome Lugnan, infatti, è uno dei più antichi di Grado.

Questa incantevole località lagunare, dal centro storico ricco di antiche memorie, e con la sua parte nuova in continua elegante crescita, si trova a due passi da Aquileia, località un po' surrealista alla De Chirico, e non si trova distante da Monfalcone, dai vibranti cantieri navali. Grado stessa nella labirintica varietà della sua geografia e nel carattere imprevedibile dei suoi scenari – vedi gli antichi casoni dei pescatori o anche la sua straordinaria pista ciclabile lagunare che è la più lunga d'Europa  –  reca in sé qualcosa d'inafferrabile che in certi momenti sembra sfiorare il mistero. 

Dalla sua strada litoranea si scorge la costa dell’Istria, nostra terra amatissima, cantata – non è un caso – da un grandissimo poeta di Grado: Biagio Marin. Nelle struggenti “Elegie istriane” Marin ricorda queste terre già italiane sulle cui coste "da Punta Salvore fino a Rovigno" – ci racconta –  si recava da bambino e poi da ragazzo, insieme col padre, a bordo del "trabaccolo" che la famiglia possedeva. 
A Grado e dintorni s’installarono nel dopoguerra tanti profughi giuliani.  Nelle fertili terre propinque a Grado vi sono ancora oggi diverse famiglie di agricoltori istriani, venuti via nel dopoguerra dal paradiso titoista dei lavoratori.

Ricorderò anche che qui riaprì le porte il convitto Fabio Filzi, dopo la distruzione nel corso della guerra dell’originario Filzi di Pisino; convitto che da Grado poi si rilocalizzò a Gorizia. Ancora oggi i "filzini", come si autonominano gli ex convittori del glorioso istituto, si tengono in contatto tra loro, attraverso incontri, pubblicazioni ed avvenimenti vari, miranti a rinverdire il ricordo dei loro anni lontani, ma straordinariamente formativi, trascorsi al Filzi di Grado e di Gorizia.

Grado per tantissimi è Biagio Marin, questo gigante della poesia. Una poesia espressa nel dialetto gradese: lingua ricca, delicata, mirabile, che però ha l'effetto di limitare il pubblico dei conoscitori di questo grande poeta poiché impedisce una fruizione disinvolta della sua opera da parte di coloro che non intendano questa lingua appieno e che quindi devono ricorrere un po' alle "traduzioni". Dicevo che Grado per tanti è Biagio Marin. Ed è giustissimo che sia così. Ma per me è anche, e oso dire, è "soprattutto" il mio amico Nicolò anzi "Nico" Lugnan. Gentiluomo d’altri tempi, uomo semplice, onesto, generoso, leale, fedele alla parola data, e dal profondo senso famigliare e dell'amicizia. Nico è la migliore espressione delle qualità non sempre troppo apparenti degli abitanti di questa terra lagunare, alquanto ermetica ma che dal fascino signorile e che, come  "Isola del Sole", attira una miriade di turisti e villeggianti sia dalle regioni vicinanti che dall’estero. E in particolar modo dall’Austria con cui Grado ha condiviso oltretutto momenti significativi di storia e dalla cui vicinanza sia storica sia geografica sia turistica ha ricevuto un'impronta innegabile fatta anche – direi – di regole e di cortesie.

I suoi abitanti parlano, poetizzano – vedi Biagio Marin – e cantano nella lingua speciale propria di questa terra rimasta un po' ripiegata e come distante, e dove del resto fino a non troppo tempo fa da Aquileia si giungeva solo in barca, come le vecchie foto ci mostrano. "Era sola, l’isola. Non si poteva andar lontano perché era subito acqua…" mi racconta Lugnan con questa sua spontanea frase poetica. Una terra da cui partivano un tempo vascelli, barche, trabaccoli verso Trieste, l’Istria ed altrove… 
Ma vedo che i sentimenti prendono il sopravvento nel mio raccontare di Nico Lugnan. Se ciò avviene è anche perché Nico, ormai anche lui avanti negli anni, nel corso di questo nostro recente incontro ha espresso con immediatezza parole, idee, sentimenti andati diritti al mio cuore. Mi ha detto: "Vieni che ti faccio vedere proprio quello che sono io". E quindi entrati nella sua cameretta dei ricordi, ha enunciato con naturalezza: "Questo è il mio vivere". Io ho voluto subito prendere nota su carta di questo suo parlare alla Biagio Marin… Frasi spontanee queste sue ma quanto forti, anche perché nascono, come i migliori versi poetici, non da una ricerca di effetti ma dall'anima.

Entriamo in una stanza ingombra fino al soffitto di un numero straordinario di trofei, attestati, targhe, manifesti. Sfoglio un album di fotografie… Esse lo ritraggono -  elegante e diciamolo anche "fascinoso come un divo hollywoodiano", in tanti luoghi, in tante cerimonie, in tanti tornei. Tornei di dame beninteso. E “dama” nella sua bocca risuona come una parola di un’altra epoca quando la signorilità si traduceva in cortesie ed inchini. Perché la dama – il gioco della dama – ha l’educato rigore di regole e rituali semplici, da cui nondimeno si esce vincitori o sconfitti. E da questi ricorrenti tornei d'ambito locale, regionale, nazionale, Nico per anni ed anni è uscito tante volte vincitore o comunque tra i primi. Questi incontri-scontri, attraverso l'Italia, intorno alla damiera lo  hanno arricchito dentro, aumentandogli nell’animo l’amore per il nostro Paese. 
"Non c’è una provincia dove io non sia passato a gareggiare…" mi dice. E nutre amore e rispetto per gli italiani. Inutile dire che Nico non è certo fatto della pasta di chi, in Italia, è ripieno  dell'unico razzismo permesso oggi in Italia: il razzismo antitaliano contro il Sud. Anche per questo, io che sono nato in Istria e che vivo in Canada, tra espatriati italiani che si considerano "italiani" senza distinzioni, e che inoltre ho vissuto per tanti anni a Napoli dove ho conosciuto incantevoli persone, non posso non apprezzare le parole di stima e riconoscenza che Nico ha sempre avuto per la generosa ospitalità e lo spirito d’amicizia della gente del Sud. "Ci accoglievano in occasione di questi tornei di dama con generosità, rispetto, amicizia…" mi racconta. E gli viene spontaneo, rimemorando quei giorni, pronunciare con un sorriso i nomi di damisti, del Nord e del Sud, suoi avversari ed insieme indimenticabili amici di torneo di quei giorni felici. 
 Il "maestro nazionale di Dama Nico Lugnan organizzò a Grado anche i campionati italiani, fregiandosi della presenza dei massimi esponenti mondiali" leggo in un articolo consacrato a lui e alla moglie Lucia in occasione dei festeggiamenti del loro mezzo secolo di matrimonio, avvenuto un paio di anni fa. 

Lucia Rota è istriana, di San Bortolo di Pirano. “Sono venuta via da piccola. Avevo 12 o 13 anni – mi dice – Sono stata a Varese, a Trieste… Ho trovato quindi lavoro a Grado…" Tra l'altro per un certo periodo hanno anche vissuto a Torino. Mi racconta le tappe salienti di una vita che l'ha vista sempre impegnata con spirito di sacrificio e fermezza d'animo. Lucia è una persona di grande vivacità, concretezza e intraprendenza, che ha dedicato un'intera vita al lavoro. E che ha sempre validamente sostenuto il marito in questo suo hobby totale della dama, implicandosi direttamente, ad esempio, nell'organizzazione dei vari eventi damistici che si sono svolti nel corso degli anni a Grado. 
E adesso Nico ha bisogno ancora più di prima dell’apporto della sua dinamica signora, perché – e le parole mi dolgono – "gli anni pesano per tutti" come siamo soliti dire quasi con pudore per descrivere una dura realtà nota ormai anche a me. E il Nico Lugnan che nelle numerose foto riempenti tre o quattro album vediamo accanto a personaggi potenti e famosi al tavolo di gioco della dama adesso ha difficoltà a concentrarsi – come mi spiega Lucia. E ha cessato quindi di giocare. Inutile dire: con gran rammarico. Ed è forse l'abbandono del tavolo della sua cara dama il rintocco più pesante della campana che scandisce il tempo con la sua crudele logica dell’irreversibilità di ogni cosa. Ma non dei ricordi, che ritornano ma ormai ammantati sia di rimpianto sia quasi d'incredulità raffrontando i giorni presenti con l'intensità e la varietà della vita di allora…

Osservo il nostro Nico, che ho davanti a me, poi guardo la foto che lo ritrae, magnifico come un cavaliere d'altri tempi, mentre Biagio Marin – è l'anno 1984 – gli appunta la medaglia d’oro per merito sportivo e in riconoscimento del suo apporto al turismo dell’Isola del Sole grazie ai numerosi campionati di dama qui svoltisi, per sua iniziativa. In un’altra foto Lugnan gioca a dama con il suo collega ed amico Renzo Tondo nel corso del campionato italiano che si svolse all'hotel Astoria di Grado. Sì, è il Renzo Tondo uomo politico, presidente della giunta regionale del Friuli-Venezia Giulia. E campione anch'egli di dama. 
Grado fortunatamente è memore: “Ancora adesso ci inviano ogni anno l’invito per gli eventi di Grado: manifestazioni, coppe, trofei… Ma ormai non vi andiamo più" mi dice la signora Lucia, che poi aggiunge con il suo usuale senso di concretezza:  "Dovremo farlo sapere a chi ce li invia…"
Sì, tante cose sono cambiate. E mi è impossibile non vedere e non sentire che oltre che in Lugnan tante cose sono cambiate anche in me. L’amicizia, il rispetto, l’ammirazione per un essere semplice e nobile come Lugnan si traducono infatti in una forte empatia che ci fa scoprire di riflesso che anche noi siamo ultimamente cambiati…

Risponde ad una domanda che gli ho rivolto circa la durata del gioco. “Una partita poteva durare anche due o tre ore…” mi spiega. "Ma una volta scaduto il tempo prescritto bisognava procedere “a lampo”, ossia si doveva fare una mossa ogni 40 secondi…" 
I ritmi, a causa dell'età, sono oggi cambiati… tante cose sono cambiate. "Non c'è più il circolo a Monfalcone… Non c’è più il circolo a Grado…" aggiunge mestamente.

Oggi rimangono, oltre alle foto,  attestati e trofei: coppe, statuette, targhe… Ancora numerosi, anche se da un certo tempo Lugnan e signora ne regalano ogni tanto un esemplare a questo o a quel giovane che si è distinto in uno sport. A che pro, infatti,  continuare a tenerli chiusi in una stanza? Nico e la moglie mi dicono che è quindi preferibile ch'essi vadano a chi merita; e questi rivolgerà ogni tanto un pensiero, più tardi, a colui per il quale erano stati forgiati…
Ma adesso rimangono ancora in buon numero sugli scaffali di questa stanza adibita alle memorie, e dove direi pulsa ancora la vita di allora con al centro il nostro Nico Lugnan. Sono i frammenti di un’avventurosa, elegante, gentile vicenda umana, che forse qualcuno giudicherà tutto sommato modesta se paragonata a ben altri destini, ma che invece reca in sé un elemento di nobiltà che non può non colpire chi conosca Nico. Siamo  dopotutto in tanti a ringraziare il gradese Nico Lugnan per la sua signorilità, il suo stile di cavaliere d’altri tempi, senza furbizie, senza calcoli e opportunismi, il quale non ha mai saputo o piuttosto mai voluto sfruttare le sue altolocate amicizie. E di tutto ciò rimane una traccia chiara e sincera anche  nelle parole del giornalista gradese Antonio Boemo, il quale nel libro “Ritorno a Grado” edito da “Grado impianti turistici” celebra così questo “oscuro-famoso" figlio dell’Isola del Sole: “Grazie a uno dei maestri internazionali di questo sport, Nico Lugnan, Grado divenne una piccola capitale della dama. Qui, al Palazzo regionale dei congressi, si svolsero diverse edizioni di gare a livello nazionale, con la partecipazione di centinaia di damisti provenienti veramente da tutt’Italia. Lo stesso Lugnan fu pure ispiratore per l’allestimento per una partita di dama vivente al Parco delle Rose…” E il testo continua, elevando un omaggio sentito, dovuto, sincero a Nico Lugnan, autentico gentiluomo, e silenzioso esponente di un’Italia di cui si è persa, purtroppo, in gran parte la traccia.

Claudio Antonelli




201 - Il Piccolo 30/04/14 Gorizia: Il decennale della Transalpina tra sfiducia, nostalgie e rischi
L’anniversario dell’ingresso sloveno cade in un periodo buio dell’Unione europea
Ma l’operazione di allargamento iniziata a Gorizia non può rimanere a metà 

Il decennale della Transalpina tra sfiducia, nostalgie e rischi

di GIGI RIVA

 Destino vuole che la Slovenia arrivi all’anniversario tondo (dieci anni) dell’ingresso in Europa all’alba di una crisi politica che può sfociare in caduta del governo: incerti della democrazia. E nel mezzo di una crisi economica devastante per i cittadini: incerti del libero mercato. Benché non se la passino bene, la democrazia e il libero mercato, e nonostante la fiducia nella Ue non superi il 40 per cento, stando ai sondaggi, i vicini più prossimi del confine orientale possono misurare le loro fortune per paragone con altri popoli, un tempo affratellati sotto la stessa bandiera jugoslava, per i quali la democrazia è un’ipotesi, il libero mercato una giunga senza paracadute e l’Europa un sogno. Così come lo è, ad altre latitudini, per gli ucraini. Siamo portati, noi umani, a considerare ovvio l’acquisito e un dramma ogni mancanza. Nel guado di un fiume misuriamo i passi che mancano all’approdo e non quelli percorsi dalla riva di partenza. Sulle pendici del monte Sabotino è ricomparsa la scritta “Tito”. Più che ideologia, pare nostalgia fuori tempo massimo per protezioni sociali insostenibili, oggi come allora, quando venivano camuffate con operazioni cosmetiche ai bilanci che sfociavano in inflazioni incontrollate e devastanti. Loro afflitti dalla penuria e noi italiani che ci facevamo furbi, andavamo alle Terme di Catez o al castello di Mokrice, pagavamo con carta di credito e l’addebito, un mese dopo, era la metà del conto originale. Il prezzo, almeno simbolico, era quel muretto che tagliava la piazza della Transalpina a Gorizia smantellato completamente oggi, dieci anni fa, più longevo di un Muro assai più imponente e potente, Berlino, ma più obsoleto e anacronistico se già Francesco Cossiga, in una delle sue estemporanee iniziative, lo aveva ridicolizzato, il 3 novembre 1991, passando a piedi il valico di via San Gabriele, sostenendo di farlo da privato cittadino: ma era il presidente della Repubblica, e non uno qualsiasi, l’uomo di Gladio, sezione italiana della rete “Stay behind”, organizzazione segreta dell’Alleanza Atlantica sorta per difenderci da ogni comunismo. Si può anche voltare il cannocchiale e vederla dalla nostra prospettiva. O, meglio, da quella dei commercianti di Gorizia o Trieste, arricchiti da quei tour di shopping compulsivo, carovane di pullman che varcavano il confine e ripartivano cariche di scarpe, jeans, calze. Un prologo di consumismo che annunciava, assai più delle pretese diversità etniche, lo sgretolamento non già di un Paese ma di un esperimento antropologico uscito ammaccato dall’autoscontro con i neon delle vetrine. Il buffo muretto di Gorizia, rimasto là quasi fosse un oggetto d’antiquariato, cadeva alfine come una parentesi che racchiudeva il secolo breve delle ideologie. Le eterne ragioni geopolitiche della storia si riprendevano la loro rivincita a segnalare la comune e più lunga appartenenza austroungarica. Naturalmente ci vuole tempo per riannodare un filo interrotto, seppellire rancori, dimenticare incomprensioni. E ricordare che una frontiera, fisica o culturale che sia, è ricchezza, confronto, osmosi. Dieci anni sono un piccolo spazio davanti a un futuro ineluttabile. Cosa è la piccola Slovenia davanti al mondo globalizzato? E cosa è la pur assai più grande Italia se il metro di misura è il pianeta con le sue nuove superpotenze da un miliardo di abitanti? Certo il gigantismo spaventa, provoca, di riflesso, la tentazione di rifugiarsi nelle “Heimat”, nelle piccole patrie, illusioni di sicuro approdo contro i pericoli dell’altrove. Ma noi italiani avremmo maledetto la lira, e gli sloveni il tallero, se sotto la bufera finanziaria non avessimo avuto l’euro a calmierare tassi di interesse e persino debiti pubblici o privati impagabili con divise troppo deboli. Nella faticosa ma indispensabile costruzione di una identità europea (più lunga per noi, più breve per loro) abbiamo ancorato valori condivisi da un Continente senza dubbio Vecchio ma che costituisce una stella polare per chi reclama diritti civili, morali, libertà. Tutto questo dovrebbero ricordarsi i molti sloveni che, sempre stando ai sondaggi, non andranno alle urne il prossimo 25 maggio, tutti quegli italiani attratti dalle sirene di un populismo demolitore. E se gli anniversari hanno la loro ragione principale nei consuntivi a cui obbligano, allora un sacrosanto esercizio di memoria dovrebbe riportare a che cosa era, la frontiera, quando significava cesura e non scambio, quando una linea di separazione, arbitraria come tutte, segnava l’odio verso l’altro, l’impossibilità di un dialogo. C’è una generazione, che ormai ha l’età per le urne, cresciuta dopo la fine dei rimbombi di cannone di là dalla frontiera, abituata ai weekend musicali a Lubiana, alle gite senza passaporto entro Schengen. Dovrebbe imparare che quanto sembra scontato non lo era per i padri e per i nonni, che la convivenza è si un destino ma arriva dopo un faticoso lavoro sulla tolleranza. Non si può tacere, in questi giorni di cerimonie commemorative, anche il senso di un’amputazione. Se Zagabria, pur tra molti ripensamenti, si è inserita nel cammino verso Bruxelles, mancano all’appello capitali incongruamente separate che non solo la carta geografica, anche la storia e una più profonda adesione dell’anima definiscono come Europa. Belgrado, Sarajevo, e le altre città dei nuovi Stati balcanici stanno là, dietro un muretto che prima o poi dovremo scavalcare. Per non lasciare a metà l’opera iniziata quando a Gorizia la piazza Transalpina è tornata integra.


Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it




 

a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri

N. 913 – 26 Aprile 2014
    
Sommario

178 - La Voce del Popolo 12/04/14 Intervista - ML Histria: Nel racconto della Cosliani le finalità di un impegno (Emanuela Masseria)
179 - Messaggero Veneto 19/04/14 Udine: Minacciato di morte perché ha presentato il libro di Cristicchi
180 - La Voce del Popolo 19/04/14 E & R - Perdere la propria terra, le radici (Franco Papetti)
181 - Il Piccolo 09/04/14 Morto a 91 anni Primo Rovis, esule da Gimino
182 – Il Tempo 17/04/14 Lutto - Addio a Quarantotto, intellettuale controcorrente (Gianfranco de Turris)
183 - Il Piccolo 23/04/14  Il 25 Aprile in Venezia Giulia non c'è nulla da celebrare. (Rodolfo Ziberna)
184 - Il Piccolo 18/04/14 Il patto di Pola sul turismo senza confini (p.r.)
185 - La Voce del Popolo 17/04/14 Cultura - La rivoluzione «cristicchiana» (Nelida Milani Kruljac)
186 - Avvenire 18/04/14 La Storia - Nino Benvenuti nell'Isola che non c'è più (Massimiliano Castellani)
187 - Il Piccolo 22/04/14 I Caffè letterari portano a Trieste (Fabio Dorigo)
188 – Corriere della Sera 10/04/14 Lettere a Sergio Romano – Patto di Londra: Destino di Fiume (Maura Bressani)




Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arenadipola.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.arcipelagoadriatico.it/


178 - La Voce del Popolo 12/04/14 Intervista - ML Histria: Nel racconto della Cosliani le finalità di un impegno

ML Histria. Si chiude il 15 aprile il termine ultimo per inviare i temi del Concorso

Nel racconto della Cosliani le finalità di un impegno

Se c’è qualcosa che sprizza energia e voglia di stare al passo con i tempi, nella cosiddetta “galassia” esule, è la Mailing List Histria. Nata per preservare e tutelare l’identità culturale istriana, fiumana, quarnerina e dalmata di carattere italiano, guidata da uno spirito multietnico e svincolata da ogni appartenenza partitica, la MLH ha tra le sue principali attività il concorso letterario rivolto alle scuole elementari e superiori in Slovenia, Croazia e Montenegro. Al progetto principale si affiancano altri eventi collaterali, dei quali abbiamo parlato meglio con Maria Rita Cosliani, la quale, insieme a Lino Vivoda, è una colonna portante del progetto fin dai suoi esordi.
Nata nel 2000 per iniziativa di Axel Famiglini e Gianclaudio de Angelini, la MLH si è sviluppata come gruppo di discussione “virtuale” su Internet tra esuli, “rimasti”, rispettivi discendenti e simpatizzanti. Ma la vita di questo progetto è una questione di incontri, convegni, riflessioni e tanto lavoro, come ci spiega meglio chi lavora dietro le quinte.
Come sta andando,

Maria Rita, il concorso di quest’anno, dato che sta per chiudersi?
“Siamo arrivati a 149 temi, ma è presto per giudicare, visto che la scadenza è stata fissata al quindici aprile. l’anno scorso abbiamo contato in tutto 240 elaborati, tra “individuali” e “gruppi”, con il coinvolgimento di 362 studenti”.

Su quali argomenti si sono espressi i ragazzi?
“Ogni anno scegliamo 12 temi, ma a partire dal 2012, non sapendo francamente quasi più cosa proporre, abbiamo pensato a un argomento che ritorna e funziona sempre:
“I nonni raccontano”. Così vengono messe in contatto le generazioni, dato che è un tema che fa piacere ai nonni e che, nel contempo, fa scoprire ai nipoti una giovinezza in loro che magari non immaginavano”.

Qual è lo scopo del concorso?
“Incoraggiare e potenziare lo    studio e l’uso della lingua italiana e dei dialetti romanzi nelle giovani generazioni. l’elemento unificante rappresentato dalla lingua parlata e scritta è infatti fondamentale per la preservazione ed il rafforzamento di un’identità nazionale numericamente minoritaria. In particolar modo i dialetti tipici delle realtà cittadine istriane e dalmate, nonché della città di Fiume, sono il sale della nostra comunità italiana autoctona, sale che va conservato e custodito gelosamente”.

Come è organizzato, dal punto di vista territoriale?
“Per noi è fondamentale la collaborazione con i Dalmati nel mondo, per operare in modo capillare in Croazia e in Montenegro. Infatti, nel concorso ci sono le categorie A e B anche se la filosofia di fondo è ben espressa dal sito che raccoglie tutte queste esperienze: www.adriaticounisce.it.

Il concorso è diviso in due parti anche in un altro senso. La prima parte è il concorso propriamente della Mailing List Histria con i premi donati dalla MLH per i quali tutti gli iscritti fanno colletta durante l’anno, mentre la seconda parte è sponsorizzata dall’Associazione dei Dalmati italiani nel mondo con i premi donati dall’associazione per i temi che giungono dai territori della Dalmazia in Croazia e Dalmazia in Montenegro. Poi varie associazioni sponsorizzano con premi speciali i ragazzi meritevoli come l’Associazione per la Cultura Fiumana, istriana e dalmata nel Lazio; il periodico ISTRIA EUROPA con il suo direttore Lino Vivoda; il Libero Comune di Fiume in esilio; il Libero comune di Pola in esilio; L’Anvgd, comitato provinciale di Gorizia; Coordinamento Adriatico. Ci sono poi i Premi Giuria e i Premi Simpatia consistenti in libri per i ragazzini delle prime elementari”.

E’ importante raggiungere tutte le anime di una stessa comunità, ovunque esse siano, insomma...
“Sì. E poi scoprire la Dalmazia e il Montenegro è stata una bellissima sorpresa. A Cattaro c’è l’unica Comunità degli italiani, che però è attivissima, sono innamorati dell’Italia. Il 13 novembre del 2013 l’abbiamo raggiunta per le premiazioni. Hanno partecipato con 50 temi, è stato davvero sorprendente”.

E invece sul fronte degli eventi collaterali?
“Ad esempio abbiamo organizzato una mostra fotografica a Castelbembo, che ora è diventata un libro, Gente di Valle d’Istria, a cura di Gigliola Cnapich. l’autrice ha ricostruito la vita di molte persone attraverso foto dell’epoca andandole a trovare quasi casa per casa. In generale pensiamo sempre a vari eventi collaterali prima e dopo il concorso”.
Cambiando prospettiva, fai parte anche di altre realtà all’interno del mondo degli esuli, come ad esempio il Libero Comune di Pola in Esilio...
“Opero in effetti nel suo consiglio direttivo, come anche nel comitato provinciale dell’Anvgd di Gorizia e, ovviamente, nella Mailing List Histria.
Inoltre con Walter Cnapich curo le attività di segreteria del Concorso, che quest’anno è giunto alla dodicesima edizione”.
Di questo Maria Rita non vuole più di tanto parlare, quasi che la sua presenza nelle associazioni sia un lavoro da fare con grande impegno ma senza la necessità di costanti riflettori puntati. Una caratteristica, forse, del mondo delle donne. Ciò non toglie nulla alle tante ramificazioni del Concorso che Maria Rita Cosliani a partire dalle radici sembra aver sempre mirato decisamente alle fronde.

Tutti i lavori in un libro    

Da raduno telematico la MLH, già dopo il primo anno di vita, incominciò ad effettuare dei raduni veri e propri ed il primo, informale, si svolse in quel di Cesenatico, città di residenza del fondatore Axel Famiglini. Nel
2002 il Raduno divenne un avvenimento istituzionale. L’anno di svolta fu però il 2003 quando il III Raduno si tenne, per la prima volta, in terra d’Istria ospite della Comunità degli italiani di Pirano. In questo contesto venne inaugurato il 1° concorso letterario della MLH e poi stampato un libro che raccoglie tutti gli elaborati dei partecipanti grazie alla collaborazione con il Centro di documentazione multimediale (CDM) di Trieste. Altre notizie su www.adriaticounisce.it.

Emanuela Masseria




179 - Messaggero Veneto 19/04/14 Udine: Minacciato di morte perché ha presentato il libro di Cristicchi
Minacciato di morte perché ha presentato il libro di Cristicchi
 
Nel mirino lo studioso che con lo scrittore ha tenuto una conferenza sugli istriani. «Mi danno del fascista, ma sono di sinistra». Ziberna (FI) solleva il caso in Regione

UDINE. Il politologo Ivan Buttignon è stato minacciato di morte dopo aver preso parte alla presentazione del libro Magazzino 18 di Simone Cristicchi sulla tragedia dell’esodo istriano, fiumano e dalmata. Un evento che si è svolto il 7 aprile alla libreria Feltrinelli di Udine.

A darne notizia, ieri, è stato il consigliere regionale goriziano Rodolfo Ziberna (Forza Italia). Buttignon, da parte sua, ha confermato che all’interno del negozio, quel giorno, c’è stato chi gli ha fatto un segno inequivocabile (passandosi il dito indice davanti al collo) e ha aggiunto di aver trovato, un paio di giorni dopo, sul parabrezza dell’auto parcheggiata sotto casa, nell’Isontino, un foglio in cui c’era scritto - dopo vari insulti - anche “Hai i giorni contati”. Non solo, come ha riferito lo stesso interessato, c’è stato pure chi, in rete, ha pubblicato testi «decisamente lesivi della sua immagine e della sua professionalità».

«Il 7 aprile - racconta in una nota Ziberna - in libreria erano presenti l’autore, Cristicchi, e Buttignon. Quest’ultimo ha subìto aggressioni e minacce, anche di morte, da parte di gruppi politicizzati di sinistra, i quali hanno cercato di impedire con offese e insulti la presentazione del libro. E il giorno successivo ancora minacce esplicite scritte su un foglietto lasciato sul parabrezza del politologo».

L’accaduto è poi diventato oggetto di interrogazione alla presidente della Regione Debora Serracchiani. Il documento è stato firmato dallo stesso Ziberna che ha anche espresso vicinanza e solidarietà a Buttignon e Cristicchi da parte del Gruppo consiliare e del partito di Forza Italia.

«Già la sera della presentazione del libro - racconta Buttignon - ho cercato di dire ai manifestanti che mi davano del fascista, neanche troppo implicitamente, che nel mio passato c’è anche la dirigenza di partiti della sinistra. Insomma, ho tentato di far capire chi sono e quali sono realmente le mie idee. Ma loro non mi hanno ascoltato e così mi sono diretto verso la sala conferenze. Dopo la presentazione - continua il politologo - un altro episodio spiacevole: due ragazzi mi hanno fatto segno di avvicinarmi, io ho fatto due passi verso di loro e poi uno dei due si p passato l’indice davanti al collo, esprimendo così una minaccia ben chiara. Alla fine ho dovuto uscire dall’altra parte».

Successivamente i fatti sono stati rappresentanti alle forze dell’ordine, che hanno pure acquisito il biglietto scritto a mano lasciato sull’auto del politologo.

«È noto che Buttignon – ha sottolineato Ziberna – è persona di sinistra, dirigente dal 2001 della Cgil, coordinatore del Comitato Pro Renzi di Gorizia. Sono sconcertato del fatto che non vi sia stata da parte della sinistra una levata di scudi, fatto salvo per l’apprezzato intervento del collega Moretti – aggiunge – e sono molto preoccupato per come una certa sinistra, con atti violenti ed intimidatori, impedisca il regolare svolgimento di manifestazioni pubbliche non di loro gradimento».

«Purtroppo la situazione non si è ancora esaurita - conclude Buttignon, che è docente di storia contemporanea all’università -, sto valutando il da farsi, soprattutto per tutelare la mia persona, la mia famiglia e la mia professionalità, visto che i disordini di quel lunedì hanno già avuto concrete ripercussioni negative sul mio lavoro e questo di certo non è giusto».




180 - La Voce del Popolo 19/04/14 E & R - Perdere la propria terra, le radici
a cura di Roberto Palisca
 
Nel decennale del Giorno del Ricordo, riflessioni sull’importanza della testimonianza diretta
Perdere la propria terra, le radici
Abbiamo parlato, da protagonisti, da testimoni quali siamo, di tanti fatti storici in questi dieci anni da quando il Giorno del Ricordo è  diventato Legge. Abbiamo cercato soprattutto di capire che cosa avvenne nella Venezia Giulia dal 1940 in poi, perché gli istriani fiumani e dalmati decisero nella quasi totalità di abbandonare le proprie terre sulle quali avevano da sempre vissuto, e perché per  oltre 50 anni, della nostra tragedia non si è saputo niente. Ebbene, tutto molto giusto, se non fosse che spesso dimentichiamo che i soggetti della storia sono le  persone, con la loro anima, i loro drammi, i dolori, le sconfitte, spazzati via dal turbine degli eventi. Diceva Euripide: “Non c’è dolore  più grande della perdita della terra natìa”.
E noi giuliano dalmati siamo stati condannati alla peggiore delle pene; non solo abbiamo perso la nostra patria, le nostre  case, ma abbiamo perso quanto di più prezioso c’è in un uomo: le nostre radici. La diaspora ci  ha sparpagliati in tutta Italia in 109 campi profughi, dalle città della pianura Padana fino in Sicilia; tanti piccoli ghetti lontani dal nostro mare azzurro, con terribili condizioni di vita, dove ci sosteneva, è vero, il poter continuare a parlare il nostro dialetto, il fatto di essere ancora insieme anche se in stanzoni freddi e gelidi in cui le coperte marroni e grigie dividevano le pareti divisorie delle “abitazioni”.
In tanti, tantissimi abbiamo scelto di andarcene dall’Italia e siamo  andati in ogni parte del mondo.  Proprio quest’anno, il 15 marzo, ricorreva il sessantesimo anno della partenza della nave Castel Verde, da Trieste verso l’Austrialia con a bordo 650 giuliani in cerca  di fortuna. Da quell’anno fino al 1961 saranno decine di migliaia gli istriani, fiumani, dalmati che  imbarcheranno per ricostruirsi una nuova vita oltre Oceano:  in Australia, Sud America, Stati Uniti, Canada. Nomi di navi come, Castel Verde, Castel Bianco, Toscana, Toscanelli, Flaminia,  Aurelia, Oceania, Farsea, Vulcania, Saturnia, resteranno per sempre nella memoria di tante famiglie che hanno visto allontanarsi, tra  tanti rimpianti, le coste istriane mentre partivano da Trieste per un nuovo mondo, sconosciuto, pieno  di insidie: “là xe le mie radici, là xe la mia tera”, avranno pensato guardando il faro di Promontore che si allontanava all’orizzonte, con nel cuore il dolore di un lungo addio.
Ricchi della nostra dignità
Nessuno di noi ha mai protestato o è sceso in piazza per manifestare la propria insoddisfazione o ha fatto atti inconsulti per l’ingiustizia subìta; ci siamo rimboccati le  maniche, con la sola proprietà dei vestiti e poco più, senza chiedere niente a nessuno, ricchi della nostra dignità. Siamo andati avanti, cocciutamente, come la nostra educazione ci insegnava.
In ogni campo istriani, fiumani e dalmati, nonostante le difficoltà proprie di chi deve ricominciare da zero la propria vita, si sono fatti valere in Italia ed all’estero, restando sempre legati all’amore per le proprie terre: Ottavio  Missoni, Mila Shon, Giorgio  Gaber, Mario Andretti, Alida Valli,  Laura Antonelli, Fulvio Tomizza, Nino Benvenuti, Abdon Pamich, Leo Valiani, Sergio Endrigo, Uto Ughi, Lidia Bastianich, Sergio Marchionne, solo per citarne alcuni, e ce ne sono tanti altri.
L’amore che i giuliano dalmati hanno avuto per l’Italia è stato superiore a quello che l’Italia ha avuto per questi sfortunati fratelli che fin dalle guerre d’indipendenza sono accorsi per partecipare alla costituzione dell’unità nazionale della quale si sentivano parte.
Come non dimenticare tutti  gli irredentisti come Ernesto Giovannini, Vittorio Zuppelli, Rinaldo Carli, Pio Gambini di Capodistria, Marco Tamaro, Vico Predonzani di Pirano, Paolo de Peris di Rovigno, Luigi Bilucaglia, Ernesto Gramaticopopolo di Pola e tanti altri e gli eroi Nazario Sauro, Fabio Filzi, Francesco Rismondo.
Il dolore più grande, dopo che abbiamo abbandonato tutto per restare italiani, è stato quello di essere considerati ospiti non amati se non indesiderati, stranieri in patria o solo strumento da utilizzare a fini politici.
E per 60 anni siamo stati completamente dimenticati e condannati alla “damnatio memoriae”. Solo a partire dalla  fine degli anni 80 studiosi come Raoul Pupo e Roberto Spazzali e poi ancora Gianni Oliva hanno cominciato a portare in evidenza questa parte di storia nazionale che la maggioranza degli italiani non conosceva o considerava un piccolo fatto di ordine locale.
I nostri beni intanto erano serviti a pagare i debiti di guerra verso la Jugoslavia, anzi il maresciallo Tito volle restituire 20 milioni di dollari, in quanto il loro valore materiale era superiore alla richiesta di risarcimento; il governo degasperiano si impegnò al rimborso alle nostre genti evidenziando l’ingiustizia che i giuliano dalmati non dovessero pagare per tutti gli Italiani.
 Ancora oggi, dopo che gli esuli, che  realmente avevano bisogno di un risarcimento che li aiutasse nel ricominciare una nuova vita, stanno sparendo uno dopo l’altro, dopo  oltre sessanta anni la questione è  ancora aperta e stiamo aspettando il risarcimento giusto ed equo (sic!).
Sotto mille padroni
Finalmente con la Legge 30 marzo 2004 n. 92 è stato istituito il “Giorno del Ricordo”. La legge, votata da quasi tutta la totalità  del Parlamento ha voluto, anche  se tardivamente, rendere giustizia ed onore ai 350.00 esuli giuliani e dalmati e far sì che, finalmente, la storia del confine orientale potesse entrare a pieno titolo nella storia  nazionale.-
.Mi è stato chiesto, in questi anni, di portare una testimonianza, da Fiumano, proprio nel Giorno del Ricordo, sia nelle scuole che nelle cerimonie volute da varie  amministrazioni comunali, in Umbria ed altre regioni.
Così ho raccontato la mia esperienza personale; sono nato a Fiume quando la città era già passata ufficialmente, a seguito del Trattato di pace, alla Jugoslavia.  La mia famiglia è una vecchia famiglia fiumana che fin dal secolo  diciottesimo risiedeva nella città  quarnerina. Ha partecipato alla tumultuosa crescita della città nell’Ottocento e già nel 1857 esisteva la “Società Achille Papetti  e figli” specializzata nel commercio  tessile; ogni fiumano conosceva l’emporio Papetti in “Piazza Santa Barbara” vicino “Piazza delle Erbe” sotto la Torre civica.
Attiva fu sempre la partecipazione alla vita della città. Tullio e Umberto Papetti parteciparono, diciassettenni, come volontari all’avventura dannunziana e lo  stesso Tullio Papetti andò a Parigi nel 1947 per perorare la causa del ritorno allo “Stato libero fiumano” oltre ad essere uno dei fondatori dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia a Roma. Mio bisnonno, Achille, fu per molti anni  presidente o vicepresidente della Camera di Commercio fiumana.
La mia famiglia esodò nel 1950; fino all’ultimo volle restare a Fiume tanto che divenne celebre la frase di mio nonno “gavemo visudo soto mile paroni staremo anca soto i s’ciavi”. Ma fu tutto inutile: i beni furono nazionalizzati, il nonno  licenziato dalla gestione delle sue stesse proprietà prima che potesse effettuare l’opzione prevista dall’accordo di pace del 1947, era  chiaro che non ci sarebbe stato più posto per noi nella nuova Rijeka. Fummo costretti e ce ne andammo.
Il ricordo di due sacerdoti chersini
Dopo una sosta nel campo profughi di Udine, proseguimmo per l’Umbria dove mio padre iniziò a lavorare presso la “Società mineraria del  Trasimeno” di proprietà di Angelo Moratti nella quale c’era un socio  fiumano che conosceva: così  diventammo umbri col pensiero alla  nostra terra. Ma anche qui, la nostra esperienza seppe costruire. Ne sono un esempio i tanti esuli giuliani che si sono adoperati per la crescita  di questa realtà, ma mi piace ricordarne due in particolare che hanno lasciato un solco profondo, due uomini di chiesa come Padre  Alfonso Orlini e Raffaele Radossi.
Il primo, quarnerino, nato a  Cherso nel 1887. Fu Ministro  Generale dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, dal 1924 al 1930. Dopo San Bonaventura fu il più giovane Ministro Generale dell’Ordine. Durante il suo governo diede impulso all’ordine  risvegliandolo dalla sonnolenza in cui era caduto dopo le soppressioni  ed amare vicissitudini dell’ottocento.
Recuperò il Sacro Convento di Assisi, facendolo diventare il centro vitale dell’Ordine; fondò il Convitto Nazionale e portò lo sviluppo del francescanesimo nel mondo. Fu presidente dal 1948 al 1952 dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. Morì a Roma il  26 luglio 1972.
Era chersino anche Raffaele Radossi, nato nel 1887. Nel 1907 diviene Fra’ Raffaele e dopo due anni a Friburgo (Svizzera) riceve l’ordinazione sacerdotale. Nel  1941viene nominato vescovo delle diocesi riunite di Pola e Parenzo e si prodiga nel portare conforto morale agli istriani nei giorni terribili  della guerra e dell’esodo: egli va, rincuora, accarezza i bambini, cerca d’infondere speranza, invita  alla preghiera. Nel 1947 divenne Vescovo di Spoleto e lo sarà per 19 anni ma resterà sempre legato alle sue terre non smettendo mai di aiutare ed interessarsi delle  vicende dei nostri profughi.
Ha fatto storia l’episodio relativo alla circolare 224/17437 del 15 maggio 1949 del Ministero dell’Interno  Scelba che stabiliva la schedatura  ed il rilevamento delle impronte digitali a tutti i profughi italiani  dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia.
.I carabinieri di Spoleto si prersentarano in vescovado  per sottoporlo alla schedatura e le impronte digitali, come  prevedeva la circolare ministeriale,  in considerazione del fatto che era nato a Cherso. Il vescovo  Radossi obiettò che come vescovo era pubblico ufficiale dello Stato  italiano e come tale non doveva essere sottoposto alla procedura prevista dalla circolare ministeriale.   Ma infuriato soprattutto per l’ulteriore umiliazione che stavano subendo i profughi giuliano dalmati,  telefonò immediatamente al  presidente de Consiglio De Gasperi e la circolare fu ritirata.
Morì a Padova il 26 settembre 1969 ed ancora oggi a Spoleto è ricordato con tanto affetto per la sua azione episcopale.
Franco Papetti



181 - Il Piccolo 09/04/14 Morto a 91 anni Primo Rovis, esule da Gimino
Dal caffè ai minerali pregiati: la vita intensa di un imprenditore abbagliato dalla politica

Morto a 91 anni Primo Rovis

É morto ieri verso le 14, all’età di 91 anni, l’imprenditore Primo Rovis. Da un mese lottava contro la morte in un reparto dell’ospedale di Cattinara per un’infezione polmonare. Lascia la moglie Sunilce, le figlie Cristina e Gilda e i suoi adorati nipoti. di Maurizio Cattaruzza Una valigia di cartone con due camicie e un paio di calzini bucati dentro. È tutto quello che si era portato con sè quando nel 1947 aveva lasciato da esule Gimino d’Istria per andare incontro a una miniera d’oro racchiusa in un chicco di caffè. Questa storia, la sua storia, praticamente una favola, era solito raccontarla a tutti quelli che vedeva per la prima volta. Era così orgoglioso della vita che era riuscito a regalarsi che non riusciva a trattenersi. Partiva come un fiume in piena ed era difficile fermarlo. Ma piccoli e grandi spicchi (o chicchi se vogliamo) di questa sua vita fortunata, che lo aveva portato a diventare negli Anni Ottanta il più ricco contribuente di Trieste ma anche tra i più facoltosi d’Italia davanti all’epoca anche a Berlusconi e Pirelli, li aveva voluti dividere con gli altri. «Trovo sia giusto destinare una parte dei miei guadagni alla collettività perchè io so cosa significa essere poveri», diceva spesso. Bisognava ristrutturare la cardiochirurgia e non c’erano soldi pubbici? Bisognava acquistare costose apparecchiature sanitarie? Serviva una nuova sede per gli anziani della Pro Senectute? Ci pensava lui. In un attimo staccava un assegno e lo firmava. Non era capace di dire no neanche a tutte quelle persone in difficoltà che ogni giorno bussavano alla porta del suo ufficio. Piuttosto che negare un aiuto preferiva essere avaro con sè stesso. Più facilmente storceva il naso quando c’era da spendere per gli arredi della sua casa o per restaurare l’ufficio.
Primo Rovis, il Commendatore, era fatto così. Generoso come pochi, ma anche un carattere come una pietra dura di Gimino d’Istria. Non sempre una persona facile. Con un temperamento forte, a volte spigoloso, battagliero e senza peli sulla lingua. «Ha lottato con determinazione anche questa volta fino all’ultimo, come ha fatto sempre in tutta la sua vita», sussurra al telefono la figlia Gilda a poche ore dalla morte. La città lo ricorda come un imprenditore coraggioso e dal grande intuito. Cremcaffè a Trieste era qualcosa più di un marchio, con quella torrefazione di piazza Goldoni dove c’era sempre gente in terza o quarta fila per bere un espresso o un frappè, un prodotto che Rovis aveva lanciato sul mercato triestino. Nell’attesa tutti si lasciavano ipnotizzare da quel nastro scorrevole che trasportava tazzine e bicchieri in cucina per essere lavati. Una sua invenzione. Ma il suo caffè arrivò anche nelle case delle famiglie dell’ex Jugoslavia grazie al suo intuito di sponsorizzare la squadra di calcio del Rijeka che all’epoca giocava in Coppa Uefa, la Stella Rossa di pallacanestro e il campione di pugilato Mate Parlov. C’erano delle giornate in cui carabinieri e polizia erano costretti a intervenire in piazza Goldoni per mettere un po’
d’ordine tra la ressa di centinaia di clienti d’oltreconfine. Anni d’oro che finirono nel 1989. Rovis aveva capito che un mercato sempre più globalizzato avrebbe finito per fagocitare la sua florida ma piccola azienda di via Pigafetta che aveva mantenuto fino all’ultimo un’impronta familiare. Una impresa dove non c’erano esperti di marketing o ad o responsabili delle risorse umane. Ma una piccola comunità formata da fidati collaboratori dove tutti si chiamavano per nome. Come Fulvio, Gigi e Vinicio, Stelio il tostatore. Parallelamente alla sua attività di industriale (aveva trasformato il porto di Trieste in uno dei più grandi terminal di caffè del Mediterraneo), Rovis si era avventurato con alterne fortune, fino a farsi del male, sulla scena politica per promuovere un autonomismo che sarebbe servito per svincolarsi dal Friuli che, a suo dire, si prendeva la fetta più grande dei finanziamenti regionali e statali. Un’iniziativa politica che si era concretizzata nell’Associazione “Amare Trieste” e in una petizione firmata da 53mila triestini. Ma la politica l’ha spesso usato e lo ha anche munto facendogli sperperare una montagna di denaro in battaglie perse o in campagne elettorali con promesse quasi mai mantenute. Più vicino al centrodestra, Rovis in realtà non si era mai veramente schierato, era pronto a foraggiare qualsiasi partito disposto a portare avanti la guerra contro Udine. Per la politica aveva una grande passione mal ripagata. Quando arrivava a Trieste il segretario nazionale di un partito lui non perdeva occasione per rincorrerlo e per perorare la causa di Trieste. Fino a pochi anni fa è rimasto in prima linea anche con un’altra sua creatura, l’Associazione “Amici del cuore”, centinaia di soci e tante donazioni. La sua seconda vita, una volta chiusa la parentesi del caffè, Rovis l’ha dedicata quasi interamente alle pietre, ai minerali pregiati da lui valorizzati e importati in Italia dal Brasile col marchio “Ipanema”.
Un’esposizione di respiro internazionale visitata da migliaia di persone negli ultimi vent’anni. Un’attività che gli è valsa una laurea honoris causa dell’università di Mosca in mineralogia. Ne andava fiero e forse è stata l’ultima pietra preziosa di una vita vissuta sempre in prima fila. Come voleva il nome che portava.






182 – Il Tempo 17/04/14 Lutto - Addio a Quarantotto, intellettuale controcorrente

LUTTO

Addio a Quarantotto, intellettuale controcorrente

È stato uno dei più brillanti ed eclettici giornalisti della Destra italian. Si è spento ieri a 78 anni non ancora compiuti
Claudio Quarantotto, scomparso ieri per un brutto male a 78 anni non ancora compiuti, è stato uno dei più brillanti ed eclettici giornalisti della Destra italiana, quando essa era una vera Destra. Di famiglia istriana, era nato a Rovigno, subì l’esodo come gli altri 350 mila nostri connazionali. La sua vera vocazione era il giornalismo. E infatti, ventenne, grazie a Nino Tripodi entrò nella redazione de Il popolo italiano, lavorando nelle pagine culturali curate da Piero Buscaroli.
Claudio era un uomo effervescente, pronto alla battuta, di una dialettica difficile da contrastare perché sorretta da una vasta cultura, fermissimo nelle sue posizioni, portato alla polemica. Soprattutto si interessava di un settore, quello del cinema, da sempre, nell’Italia del secondo dopoguerra, egemonizzato dal PCI. Un terreno dunque difficilissimo da affrontare, in cui si poteva andare soltanto controcorrente. Oltre che critico fu anche autore e sceneggiatore per Gualtiero Jacopetti, un altro outsider del cinema italiano e per questo spesso ostracizzato e calunniato.
Lo conobbi alla fine degli anni ’60 quando anche io volevo fare il giornalista e giravo - da incosciente - solo nelle redazioni dei quotidiani moderati o di destra, dal Giornale d’Italia al Roma, ma anche mi affacciavo grazie a qualche amico comune anche a quella del Borghese. Claudio aveva un po’ le mani in pasta in queste testate e del settimanale di Mario Tedeschi era redattore. Il mio interesse per la letteratura fantastica lo colpì perché anche a lui piaceva e così cominciai a scrivere di questo, e altro, sulla pagina culturale del Roma, il quotidiano di Achille Lauro, che lui curava e che era diretto da Alberto Giovannini. Poi Giovannini divenne direttore del Giornale d’Italia e lui lo seguì. Divenne direttore del Roma Piero Buscaroli e io andai a Napoli per chiedergli se potevo essere io il successore di Claudio Quarantotto. Buscaroli invece mi disse: «Ti assumo». Era il 1974 e ovviamente la mia vita cambiò e di questo gliene sarò sempre grato, anche se lui forse se lo sarà dimenticato. Ma questa è un’altra storia.
Ma le vite in un certo ambiente sì intrecciano. Claudio curava la collana de I Libri del Borghese. All’inizio degli anni ’70 riuscii a collaborare in redazione con lui, nella stessa stanza. Mi passavano davanti traduzioni da rivedere, bozze da correggere. Claudio era sempre lì entusiasta, sarcastico, polemico, ma anche pronto a segnalare errori e sciocchezze che poteva fare un semi-principiante, proteggendomi dalle sfuriate di Mario Tedeschi. Erano i tempi della contestazione e poi degli «anni di piombo». Eppure questa atmosfera non si viveva dentro, fra gli amici e i colleghi, dove si doveva pensare soltanto a scrivere e pubblicare articoli e libri che dimostrassero come una cultura diversa era possibile, esisteva, soltanto che nessuno voleva pubblicarla.
Un uomo piacevole, un uomo colto, un uomo sempre controcorrente, un uomo coerente, un altro amico che ci ha lasciati e il cui lavoro, pubblico e dietro le quinte, non si dovrebbe dimenticare.

Gianfranco de Turris





183 - Il Piccolo 23/04/14  Il 25 Aprile in Venezia Giulia non c'è nulla da celebrare.
IL 25 APRILE IN VENEZIA GIULIA NON C’è NULLA DA CELEBRARE

Il 25 aprile in tutto il Paese si festeggia la Liberazione dal giogo nazifascista. Nella Venezia Giulia, diversamente che nel resto del Paese, in questi giorni del ’45 non vi è stata alcuna liberazione, bensì una terribile e brutale occupazione delle truppe comuniste del maresciallo Tito, ancor più condannabile perché avvenuta a guerra finita e per giunta su cittadini inermi. Se non fossero entrate le truppe titine, Gorizia sarebbe stata realmente liberata da quelle neozelandesi (ed allora sì che avremmo festeggiato la liberazione!), che invece furono rallentate dai titini proprio per poter vantare diritti di occupazione al tavolo dei vincitori, che come noto avrebbero voluto occupare la Venezia Giulia sino al Tagliamento. Per snazionalizzare rapidamente Gorizia e per soffocare sul nascere ogni tentativo di ribellione dal 2 maggio iniziò il rastrellamento di tutti coloro (furono ben 665!) che potevano rappresentare un pericolo per le aspirazioni annessionistiche di Tito.

Tra questi la burocrazia goriziana e chi aveva manifestato con eccessivo entusiasmo la propria italianità. Tra i tanti citiamo anche due noti esponenti della Resistenza non comunista, il socialista Licurgo Olivi e l’azionista Augusto Sverzutti. Alla città di Trieste i famigerati 40 giorni di occupazione jugoslava valsero la Medaglia d’Oro al Valor militare. Questo rappresenta per i goriziani e per tutti i giuliani il 25 aprile, e non certo la liberazione, che invece avverrà dopo i cosiddetti “quaranta giorni di terrore”. Tanto rispettiamo ed onoriamo quei partigiani che combatterono per la libertà, quanto condanniamo quei partigiani che invece combatterono per asservire la Venezia Giulia allo straniero e sanguinario regime comunista titino.

Noi crediamo che anche da parte dell’Anpi locale ci debba essere una presa di coraggio, come in altre Anpi italiane, nell’interesse dei tanti partigiani che nulla hanno a che spartire con quei partigiani italiani che, invece, tradirono e vendettero l’Italia ed il popolo italiano, per obbedire agli ordini degli allora vertici comunisti di collaborare con i “fratelli” titini contro gli interessi dell’Italia. Rispettiamo tutti coloro che individuano nel 25 aprile la festa della liberazione, ma parimenti va rispettato anche chi associa il 25 aprile non già ad una liberazione, bensì alla brutale occupazione comunista. Cogliamo l’occasione per precisare che oggi la guerra non la si combatte solo con le armi da fuoco, ma anche con lo strumento dell’informazione, che diventa arma se brandita per meri fini politici e personali. Mi riferisco a quelle forme di negazionismo con cui si legittima e si incita alla violenza, configurando, a mio avviso anche una apologia di reato.

Chi oggi vorrebbe giustificare le foibe con le violenze fasciste consumate venti anni prima, conseguentemente inciterebbe le decine di migliaia di discendenti delle vittime delle foibe a farsi giustizia da sé. Ma così non deve essere, né oggi né mai! La violenza deve essere sempre condannata! La guerra voluta dai regimi nazista e fascista, che hanno trovato nel regime comunista di Tito una sanguinaria e brutale strumento di oppressione, hanno due grandi vittime: il popolo istriano, fiumano e dalmata, che è stato costretto ad abbandonare la propria terra, lasciando tutti i propri beni, con cui l’Italia ha pagato i debiti di guerra, non avendo ancora risarcito gli esuli e la comunità di lingua slovena, per questa ragione oggetto di inaccettabile violenza.

Dobbiamo ricordare e rispettare il dolore patito da chi ci ha preceduto, ma promuovere ogni azione possibile per superarlo, nell’interesse dei nostri figli e di un confine orientale che ambisce alla….normalità. Infine un pensiero grato a tutte le donne e tutti gli uomini italiani che in armi difendono la pace nelle missioni militari all’estero, orgoglio della nostra nazione in teatri del mondo dove solo la loro presenza impedisce tragici spargimenti di sangue. In questo contesto rivolgiamo un appello ai governanti italiani e stranieri affinché possa essere condotta ogni azione possibile volta a riportare a casa i nostri eroi, i marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, da quasi 26 mesi in India in attesa di un capo di accusa!  

RODOLFO ZIBERNA *vicepresidente Lega Nazionale



184 - Il Piccolo 18/04/14 Il patto di Pola sul turismo senza confini
Istria e Friuli Venezia Giulia concordano sull’opportunità di una proposta comune «che coinvolga anche Venezia»

Il patto di Pola sul turismo senza confini

Uniamo le forze perché le nostre Regioni non sono concorrenti ma complementari Possiamo organizzare presentazioni congiunte POLA Una collaborazione “senza confini” sul versante turistico. L’Istria e il Friuli Venezia Giulia rinsaldano i rapporti e cercano sinergie in uno dei settori chiave dello sviluppo economico. Lo fanno in occasione della visita di una delegazione friul-giuliana guidata dal presidente del Consiglio regionale Franco Iacop. A ricevere gli ospiti il presidente dell’Istria Valter Flego che, dal suo insediamento avvenuto poco meno di un anno fa, sta incrementando i rapporti con le Regioni italiane. Poco tempo fa, nel corso di una sua missione a Venezia, lo stesso Flego ha infatti “invitato” gli investitori italiani oltreconfine. Stavolta, con il Friuli Venezia Giulia, si parla soprattutto di unione delle forze in campo turistico: «Le due Regioni - dichiara Flego ai giornalisti dopo l’incontro - non sono concorrenti ma compatibili e complementari. Il punto forte dell’offerta del Friuli Venezia Giulia è il turismo invernale in montagna mentre noi puntiamo sulle vacanze al mare. E quindi possiamo promuoverci a vicenda sui rispettivi territori». Non solo: «Possiamo anche organizzare delle presentazioni turistiche congiunte sui mercati turistici sia europei che americano, russo, cinese e indiano, proponendoci magari come Alto Adriatico». Flego si sofferma quindi su una «bella forma di ospitalità» vista in Italia che vorrebbe far attecchire anche in Istria: gli alberghi diffusi che potrebbero nascere nelle pittoresche Montona, Grisignana, Portole... Iacop, dal canto suo, ricorda il sostegno che l’Unione europea offre ai progetti di integrazione e innovazione in tutti i settori, inclusi quello turistico: «Utilizzando queste opportunità di realizzare prodotti turistici che si integrano, il mare d’estate e la montagna d’inverno, possiamo costruire quel modello turismo che oggi viene richiesto un po’ in tutto il mondo. Ovviamente possiamo includere nel prodotto anche Venezia».
Alla fine Flego annuncia che entro l’anno verranno definiti alcuni progetti congiunti nel settore dello sviluppo rurale e dell’agricoltura. Per la Giornata dell’Europa, in programma il 9 maggio, si annuncia la formalizzazione di una collaborazione più vasta con il Veneto e la Carinzia.
All’incontro tra le rispettive delegazioni è stata affrontata anche la posizione degli italiani in Istria. L’interlocutore di Iacop, in questo caso, è stata la vicepresidente Tamara Brussich. La conclusione comune: le identità linguistiche e culturali minoritarie sono una ricchezza del territorio che, in linea con le direttrici Ue, va assolutamente salvaguardata.

(p.r.)


185 - La Voce del Popolo 17/04/14 Cultura - La rivoluzione «cristicchiana»
La rivoluzione «cristicchiana»

Nelida Milani Kruljac

Si diventa irrimediabilmente vecchi. Ma prima di diventarlo, tutti noi facciamo invecchiare quelli che vengono prima di noi. Ma farli diventare addirittura preistoria succede a pochi di farlo. Quando ciò avviene, tutto quello a cui siamo abituati, che crediamo di conoscere come stabile e definitivo, cambia in un attimo e improvvisamente, per un movimento brusco, ci si trova di fronte al nuovo, di fronte a nuovi parametri.

I mulini della Storia, lo sappiamo, macinano lenti, impiegano ere geologiche per lasciar trapelare un avanzamento, ma – a volte – combinano di questi scherzi. Infatti noi, nella nostra era geologica, vivevamo tranquilli nel nostro piccolo mondo chiuso sistemato sui propri dogmi, sulle proprie (in)certezze, sui gusti e le volontà degli altri, sulla Storia raccontataci dagli altri, senza – apparentemente – alcuna ragione per cambiare. E poi, improvvisamente, paf! La svolta improvvisa. Lo strappo.

E chi se l’aspettava?

Non è capitato solo a noi e non è capitato solo una volta. Succede che a un certo punto qualcuno, contro ogni logica, faccia sparire il mondo che lo aveva preceduto e cambi la Storia. Così è successo con la rivoluzione francese. E chi se l’aspettava? È successo con la rivoluzione d’ottobre. E chi se l’aspettava? È successo con il Muro che crolla in un attimo. E chi se l’aspettava? Sono gli strappi. Sono le svolte. Sono le improvvisate della Storia.

Poteva non capitare improvvisamente una rivoluzione, un’altra rivoluzione, poteva non crollare un Muro, invece ciò avviene perché tutta un’umanità, tutta una collettività, tutta una comunità, in tempi rapidissimi, decide di accettare quel movimento brusco, quello strappo. Sono momenti enigmatici e di un’intensità unica. Avvengono con una forza dirompente alla faccia di tutta un’era geologica.

Simone Cristicchi passa per di qua come un meteorite e fa sparire il mondo che lo ha preceduto. Appare all’orizzonte con la sua  cavelada  indomabile, s’insedia nel suo Magazzino pieno di  careghe svode, si mette a raccontare con il suo talento affabulatorio la nostra vicenda, e tutto il nostro mondo di colpo invecchia di decine di anni.

Uno shock meravigliso

Uno shock meraviglioso. Fa balenare un’idea diversa di mondo. Spalanca un mondo nuovo, tridimensionale, che dà spazio e respiro alle memorie divise dell’Istria, le accosta e le riunisce. Lo strappo fa di colpo diventare dinosauri quelli che lo hanno preceduto, li fa retrocedere nella preistoria. Quando cala il sipario e Simone se ne va, noi già fiutiamo il futuro. L’effetto storico è questo: dopo di lui, nulla come prima.

Uno choc meraviglioso. Ma anche pericoloso. Pericoloso per chi non vuol gettare ponti e intende restare arroccato sulla sua torre e porsi in una condizione di vantaggio tenedosi stretta solo la sua memoria. È un atteggiamento di separazione che nasconde solo una grande paura.

Ma a Pola c’è ancora paura

Questa paura c’è ancora a Pola. Per singoli detrattori – non riesco a contarli sulle dita di una mano – Cristicchi rappresenta uno shock pericoloso. Sono quelli che si accontenterebbero di ammannirci le solite aspirinette per tenersi stretta solo la loro memoria. Tutto legittimo, in democrazia ognuno ha il sacrosanto diritto di farsi a pezzi da solo.
La gente, però, sente in un’altra maniera, lo ha mostrato con le standing ovation che sono scoppiate e hanno riecheggiato da una località all’altra, da un teatro all’altro.
Le figure come quella di Simone Cristicchi, in grado di trasformare in dinosauri quelli che li hanno preceduti, condividono uno spazio. È lo spazio della vicinanza all’umanità della gente e la distanza da ciò che fino a quel momento era stato percepito come definitivo e inamovibile.

Per troppo tempo la memoria degli italiani d’Istria è stata negata a vantaggio della memoria unica, quella dei vincitori. Tutto l’attivismo politico era vissuto come una battaglia della memoria, fortemente politicizzata e funzionale a creare separazioni, tanto più che in queste terre si ha a che fare con l’etnicità e l’identità nazionale, e perciò essa ha una dimensione aggiunta, dove nazionalità e lingue-culture sono state mortificate e soppresse dal fascismo e dal comunismo.

La battaglia della memoria

La battaglia della memoria ha avuto un ruolo chiave fondamentale nella vita politica in tutto il periodo del dopoguerra fino alla disgregazione della Jugoslavia, e anche oltre. Poi finalmente! ci sono stati i due concertoni, uno a Trieste, l’altro all’Arena di Pola. Grande musica, grandi maestri, grandi interpreti, grandi cori, alte celebrazioni e altrettanti buoni propositi.

Ora dai buoni propositi bisogna passare ai fatti.
Discutere del proprio passato è una pratica sana e segno di democrazia. Quando c’è solo una versione del passato si ha una tendenza all’eliminazione del dibattito politico e storico. Sarebbe perciò onesto affrontare questa paura creata in certuni dallo choc suscitato da Cristicchi che ha rievocato il mito di Antigone ricordandoci che Sofocle ci pone di fronte a due verità e tutte due legittime. Aprire l’orizzonte è molto più necessario che mettersi al sicuro nella propria “verità” unica.

 






186 - Avvenire 18/04/14 La Storia - Nino Benvenuti nell'Isola che non c'è più
La storia
Nino Benvenuti nell'Isola che non c'è più
Nino Benvenuti è la seconda stel­la, ma ancora la più luminosa della sua Isola “che non c’è”. La prima, è stata la squadra dei ca­nottieri, medaglia d’oro alle O­limpiadi di Amsterdam del 1928. Erano gli eroici vogatori di Isola d’Istria, il paesino carezzato dall’Adriatico do­ve Nino Benvenuti, la leggenda vivente del no­stro pugilato, è nato nel 1938 e in cui ha vissu­to la sua “meglio gioventù”.

«Quelli in Istria sono stati gli anni più dolci del­la mia vita, con la grande fortuna di crescere in una famiglia stupenda, isolana da quattro ge­nerazioni, in cui regnavano l’amore e l’armo­nia che mio padre e mia madre avevano tra­smesso a noi figli». I cinque fratelli di casa Ben­venuti, quattro maschi (Eliano, Nino Alfio e Da­rio) e una femmina (la più piccola, Mariella). Di quel tempo pacifico e spensieratamente lu­dico, gli è rimasto il sapore familiare delle «pa­tate in tecia e dello strucolo de pomi», ma so­prattutto l’odore del mare che partiva dal ban­co della pescheria paterna. «Tutto intorno o­dorava di pesce salato. Anzi senza quell’odore, Isola non sarebbe stata più la stessa. Sì, perché Isola era un paese di pescatori e tutta la sua cul­tura, la sua storia, la sua gente veniva dal ma­re. E viveva grazie al mare», ha scritto Benve­nuti – a quattro mani con Mauro Grimaldi –, nel libro L’Isola che non c’è (finalista al Premio Ban­carella Sport). Titolo romantico che rimanda al celebre brano di Edoardo Bennato, se non fos­se per quel sottotitolo, “Il mio esodo dall’Istria”, che invece, parla di fuga, di dolore e di morte. «I fascisti parlavano di bonifica etnica, gli slavi di normalizzazione. Alla fine si è trattato solo di violenza che ha generato altra violenza», di­ce amaro Nino. Il germe velenoso si insinuò in quella piccola comunità «composta a maggio­ranza da italiani puri» che, dalla nazionalizza­zione di Mussolini e dal controllo delle truppe tedesche, due anni dopo l’8 settembre 1943 si ritrovarono braccati dai partigiani di Tito.

 «Il Maresciallo ordinò le epurazioni di noi ita­liani d’Istria con processi sommari, espropri, torture. La gente spariva dal mattino alla sera... Tito cominciò da Zara nel ’44 dove fecero 2mi­la morti su una popolazione di 20mila abitan­ti. Poi toccò a Fiume che cambiò nome in Rijeka e infine nel ’46 a Pola con 28mila esuli su 34mi­la abitanti». È il bilancio drammatico dell’uo­mo di oggi che è scampato al peggio e che pri­ma di quei giorni assurdi si preparava al suo destino di campione. Nella cantina di casa il giovane Nino si era costruito il suo sacco da boxeur e due-tre volte alla settimana in sella a una bici copriva i 60 km tra andata e ritorno che separano Isola da Trieste, per andare ad alle­narsi in una vera palestra pugilistica. «Mi ac­compagnava Luciano Zorzenon, il primo a credere che sarei potuto diventare un asso del pu­gilato. Era un personaggio degno di Salgari: la­vorava come palombaro a Isola per recupera­re i resti del transatlantico Rex affondato dagli inglesi nella baia di Capodistria».

Quelle tappe estenuanti erano ancora scanzo­nate, fino al giorno in cui la guerra fratricida non entrò in casa Benvenuti. «L’Ozna, la poli­zia politica di Tito, si presentò alla nostra por­ta e arrestò mio fratello Eliano che aveva 16 an­ni. Rivedo ancora le lacrime di mia madre, la sua disperazione. Soffriva di cuore, da quel giorno iniziò a morire, si spense a 46 anni», ricorda con profonda amarezza. Intanto Tito aveva annesso Trieste dove sui mu­ri si leggeva: “Trst je nas”  (Trieste è no­stra). Seguirono quaranta giorni di san­gue (dal 1° maggio al 9 giugno del ’45), prima dell’arrivo degli americani. Un tempo sufficiente per il massacro del­la comunità italiana in Istria da par­te dei titini che se la presero anche con i preti. Benvenuti ricorda don Francesco Bonifacio, ucciso a guerra ormai finita nell’estate del ’46, e mon­signor Antonio Santin, vescovo di Trie­ste e Capodistria che, accusato di essere un nemico del popolo jugoslavo, subì le per­cosse di una banda di balordi. Il parroco di I­sola, don Giuseppe Dagri, scampò alla morte fuggendo. Maestri e professori delle scuole i­taliane lo seguirono, ma alcuni non riuscirono ad arrivare a Trieste (tornata sotto l’Italia nel 1954), dove il loro “calvario” non era ancora ter­minato.

«Ricordo il pianto dei miei nonni il giorno che lasciarono Isola, erano consapevoli che non l’avrebbero più rivista. Vennero con noi a Trie­ste dove avevamo già un’attività commerciale e una casa e così non siamo finiti, come la mag­gior parte dei profughi, nei 109 centri di acco­glienza che erano stati allestiti. Baraccopoli do­ve istriani e dalmati venivano trattati da “inde­siderati”, così tanti preferirono emigrare in Au­stralia o in America, insomma il più lontano possibile da quella terra amata e perduta». U­na terra da cui Nino portò via con sé solo «i ri­cordi delle piccole cose» che aveva appena im­parato a conoscere ed amare. «Io e i miei fra­telli andavamo pazzi per i giochi che faceva­mo per la strada o giù al porto, a Castel Ver­de. Pomeriggi d’estate passati a pescare “mussoli” e “peoci” (le cozze) e d’inverno tutti assieme ci riscaldavamo davanti al “fogoler” (focolare). Mi è rimasto dentro quel dialetto di Isola e crescendo nono­stante le gioie e i tanti momenti di gloria che mi ha regalato lo sport e la vita, non sono riuscito a cancellare quel senso di sradicamento. Come a degli alberi, a noi italiani d’Istria hanno strappato le radici, per sempre». Dopo l’oro olimpico di Roma 1960 il record dei 170 incontri vinti prima del­la sconfitta «ingiusta» con il sudcoreano Kim Soo Kim e, mentre si avviava a salire sul trono del re dei superwelter (nel 1965-’66) e poi dei medi (dal 1967 al ’70), Benvenuti tornò nella sua Isola per essere festeggiato. «Un ritorno toc­cante, un’accoglienza calorosa, ma rivedere quel piccolo cimitero, che avevo lasciato di­strutto dai titini, mi ha fatto più male dei pu­gni presi nel match con Carlos Monzon o del­la spugna che il mio allenatore Amaduzzi gettò sul ring di Montecarlo. Ci può essere dignità anche nella sconfitta, ma oggi so che l’unica vera sconfitta subita è stato vedere calpestata la dignità e la memoria di un popolo... Mi con­sola che finalmente tutto ciò sono riuscito a scriverlo, per raccontarlo ai miei figli, ai miei ni­poti e a tutti coloro che non conoscono questa triste pagina della nostra storia. È il mio ricor­do, senza odio, perché ai giovani e alle genera­zioni che verranno ho solo una verità da co­municare: tutte le guerre sono terribili, ma l’o­dio che generano è il male peggiore».

Massimiliano Castellani

Nino Benvenuti-Mauro Grimaldi
L’ISOLA CHE NON C’È
Il mio esodo dall’Istria
Libreria Sportiva Eraclea Pagine 112. Euro 12,00




187 - Il Piccolo 22/04/14 I Caffè letterari portano a Trieste
San Marco, Tommaseo e Pirona nell’inedito itinerario della guida “I Locali storici d’Italia 2014”

I Caffè letterari portano a Trieste

di Fabio Dorigo

Il primato letterario dei Caffè triestini è noto. Ora c’è anche la guida dei “Locali storici d’Italia” a certificarlo. L’edizione di quest’anno, uscita nel mese di febbraio, presenta un itinerario inedito attraverso i 70 alberghi, ristoranti e caffè letterari che hanno ispirato la creatività di grandi scrittori, poeti e musicisti. Il Caffè San Marco raccoglie tre citazioni (Voghera, Vinci, Magris) come il Caffè Tommaseo (Tomizza, Qurantotti Gambini, Stuparich) al pari del Caffè Giubbe Rosse di Firenze (Soffici, Papini e Prezzolini). Davanti solo l’Antico Caffè Greco di Roma (Guttuso, Gogol, Passini, Casanova) e il Pedrocchi di Padova (Simoni, Fraccaroli, Barzini, Berti-Crescini-Stefani). «Dal 2011, la guida presenta degli itinerari tematici che consentono di apprezzarli in modo sempre nuovo
- spiega il curatore Enrico Guagnini -: quest’anno viene suggerito un percorso inedito tra i locali che hanno ispirato scrittori, poeti, pittori, compositori, cantanti, fotografi che, frequentandoli, hanno vissuto momenti di creatività e hanno dato vita a un’opera del loro ingegno, oppure hanno reso immortale il locale rendendogli l’onore di una citazione illustre». La guida, 300 pagine in edizione bilinque italiano-inglese, è illustrata al tratto dal pittore Gianni Renna, come le guide dell’Ottocento. In questo itinerario letterario-artistico tre tappe riguardano Trieste. Si parte dal Caffè San Marco di via Battiti. «Riaperto nel 1919, restaurato dopo la seconda guerra e ancora nel 1997, i suoi arredi e decorazioni - si legge nella guida - sono superbo esempio di stile Secessione viennese, con bancone intarsiato, tavolini marmo e ghisa, specchiere e decine di opere dei pittori Cozzi, Barison, Flumiani, Cambon e Marussig. Lo frequentarono Stuparich, Slataper, Svevo, Saba, Joyce, Voghera. Gli scrittori Magris e Vinci gli hanno dedicato opere e spesso lavorano qui. Oggi anche libreria». C’è poi la tappa del Caffè Tommaseo di Riva Tre Novembre. «La coscienza nazionale batteva qui tra il 1836 e il ’46 con Orlandini, Madonizza, Valussi, Dall’Ongaro, menti del settimanale letterario “La Favilla”, e qui si levò nel 1848 il primo grido “Viva l’Italia” - riporta la gudia -. Lo amarono il poeta Besenghi degli Ughi, Svevo e Joyce, Stuparich, Quarantotti Gambini e Saba. È alla moda dei Caffè viennesi, ricca di stucchi e orpelli, con specchiere fatte venire dal Belgio nel 1830, tavolini in marmo e ghisa e una pendola del 1839». Non manca neppure un caffè pasticceria: Pirona di Largo Barriera Vecchia che si può fregiare dell’autografo di James Joyce.
«Corroborato dai vini scelti di Pirona, James Joyce cominciò a elaborare qui il suo "Ulisse"» si leggeva nella scheda della precedente edizone. «Nacque dall’estro di Alberto Pirona, dispensando confetture, dolci fini, frutta in conserva, galanterie di zucchero, paste e biscottini, nonché liquori e vini scelti - si legge nella scheda aggiornata dell’edizione 2014 - Quest’ultimi aprezzatissimi da James Joyce durante la sofferta creazione di “A Portrait of the Artist as a Young Man”. Frequentata da letterati e artisti, come il compositore Antonio Smareglia che abitava accanto». Joyce, in ogni caso, non si perdeva dietro a caffè e pastine.




188 – Corriere della Sera 10/04/14 Lettere a Sergio Romano – Patto di Londra: Destino di Fiume
PATTO DI LONDRA

Destino di Fiume

Caro Romano, lei ha trattato le conseguenze del Patto di Londra del 26 aprile 1915 fra Italia, Francia, Regno Unito e Russia, che prevedeva l`entrata in guerra dell`Italia a fianco dell`Intesa, entro un mese. In cambio avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, il Trentino, il Tirolo Meridionàle, la Venezia Giulia, la Dalmazia e l`intera penisola istriana, con l`esclusione di Fiume. Non è chiaro perché fosse stata esclusa la città di Fiume, fra l`altro, popolata in gran parte da cittadini di lingua italiana.

Maura Bressani
Trieste

Quando fu firmato il Patto di Londra tutti davano per scontato che l`Impero austro-ungarico sarebbe sopravvissuto al conflitto e pensavano che fosse assurdo privarlo del suo maggiore porto meridionale. L`Italia chiese Fiume quando fu evidente che le province slave meridionali dell`Impero intendevano creare uno Stato indipendente.


Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it




La Gazeta Istriana  a cura di Stefano Bombardieri, M.Rita Cosliani e Eufemia G.Budicin
anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arenadipola.it
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.arcipelagoadriatico.it/

Aprile 2014 – Num. 44


22 - La Voce in più Dalmazia 12/04/14 Le fortezze della Serenissima sotto l'egida dell'Unesco tutelate pure Zara, Sebenico e Curzola. (Erika Blečić)
23 - Tempi 16/04/14 Cristicchi: «L'esodo dall'Istria è una pagina che è stata strappata dai libri di storia. Per questo ve la racconto» (Matteo Rigamonti)
24 - Alguer.it 24/04/14 L´esodo di Antonia Cervai a Fertilia
25 - Il Piccolo 20/04/14 “L’Istria e i conti di Gorizia”: presentato il libro a Lubiana (g.tom.)
26 - La Voce del Popolo 22/03/14 Del sì, del da, dello ja – IstrEuropa (Milan Rakovac)
27 - La Voce di Romagna 15/04/14 Con il "viaggio a Fiume" Gaby Adam va alla ricerca delle radici delle proprie origini (Aldo Viroli)
28 - L'Arena di Pola 16/01/14 - 9 gennaio 1944: il primo bombardamento di Pola (Lino Vivoda)
29 – East Journal 30/03/14 I quaranta giorni del Mussa Dagh. sul genocidio armeno



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22 - La Voce in più Dalmazia 12/04/14 Le fortezze della Serenissima sotto l'egida dell'Unesco tutelate pure Zara, Sebenico e Curzola.

LE FORTEZZE DELLA SERENISSIMA SOTTO L’EGIDA DELL’UNESCO TUTELATE PURE ZARA, SEBENICO E CURZOLA

Le fortezze veneziane sotto l'egida dell'Unesco

ARCHITETTURA di Erika Blečić

Si delinea sempre più compiutamente il progetto transnazionale sulle “Opere di difesa della Serenissima tra Quattrocento e Seicento”. L’obiettivo è quello di candidare le fortezze veneziane per l’inserimento nella World heritage list dell’Unesco.
È stato il ministero italiano dei Beni culturali ad avviare l’iter per larealizzazione della proposta di inserimentonella Lista del patrimonio culturale mondiale di una serie di sistemi difensivi presenti nei territori che una volta erano sotto l’egida della Repubblica di Venezia. Si tratta di opere edificate, come rilevato, dal 15.esimo al 17.esimo secolo. La proposta sarà presentata come un progetto comune dell’Italia, della Croazia e del Montenegro.
Infatti nella lista si trovano località italiane (Bergamo, le fortificazioni di Peschiera del Garda, di Palmanova e della laguna veneziana), croate (i sistemi di difesa di Sebenico e Zara, nonché la città fortificata di Curzola) e montenegrine (le fortificazioni di Cattaro).
Il ministero della Cultura croato ha preso in esame la proposta dei colleghi italiani e, ottenuto il beneplacito del dicastero degli Affari Esteri ed Europei, l’ha accolta. In tal maniera è stata redatta la lista delle località da proporre per la tutela dell’Unesco, stilata in collaborazione tra i ministeri dei tre Stati.
Ci vorranno anni Gli esperti italiani, croati montenegrini dovranno svolgere un’imponente mole di lavoro, mentre a coordinare il progetto sarà il ministero italiano ai beni culturali. Bruno Diklić, della Direzione per la tutela dei beni culturali presso il ministero croato alla Cultura, ha spiegato che per arrivare all’inserimento nella lista dell’UNESCO ci vorranno anni. Il primo passo è redigere la Lista propositiva, poi segue la raccolta della documentazione, che dovrà essere molto precisa e di qualità, per poter candidare il progetto. Della candidatura decide l’ICOMOS, che ha il ruolo di comitato tecnico-scientifico dell’UNESCO, mentre l’inserimento ufficiale avviene durante la sessione dell’Assemblea generale dell’UNESCO. “Dall’inserimento nella Lista propositiva alla candidatura possono passare anche una decina di anni. Se la candidatura del progetto verrà accolta, ci vorrà un minimo di un anno e mezzo, prima della decisione finale”, ha rilevato Diklić. Sebenico, fior di monumenti Una delle città che dovrebbero trarre maggiore giovamento dal progetto è Sebenico. Oltre alla cattedrale di San Giacomo, inserita nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco 14 anni fa, la Città dalmata potrebbe veder riservato lo stesso privilegio in futuro alle sue quattro fortezze e a ciò che rimane delle mura di cinta. Il sindaco di Sebenico, Željko Burić, è rimasto piacevolmente sorpreso dalla notizia.
“Stiamo completando la ricostruzione della Scena estiva nella fortezza di San Michele, intendiamo ristrutturare la fortezza di San Giovanni, attendiamo la visita degli esperti austriaci per costruire una funivia che collegherebbero le due fortezze. L’inserimento nella lista dell’Unesco sarebbe la ciliegina sulla torta”. Entusiasmo a Curzola Per il sindaco di Curzola, Vinko Kapelina, “è un grande onore trovarci al vertice del patrimonio culturale mondiale. Curzola si potrebbe trovare nel novero di autentiche metropoli culturali quali Bergamo, Sebenico, Cattaro. La Repubblica di Venezia ha segnato parte della nostra storia e sarebbe di grande importanza essere inseriti nella lista dei beni culturali mondiali in quanto parte parte integrante degli antichi sistemi di difesa della Serenissima.




23 - Tempi 16/04/14 Cristicchi: «L'esodo dall'Istria è una pagina che è stata strappata dai libri di storia. Per questo ve la racconto»
Società

Cristicchi: «L’esodo dall’Istria è una pagina che è stata strappata dai libri di storia. Per questo ve la racconto»

Matteo Rigamonti

«No a ricostruzioni “santificate” della Resistenza. Perché è anche dalle zone d’ombra e dal dolore che si impara». Intervista al cantautore: «Le parole hanno bisogno di diventare carne»

Mio nonno è morto in guerra e Magazzino 18 sono i due libri che il cantautore romano Simone Cristicchi ha scritto per parlare della Seconda Guerra Mondiale e della Liberazione dell’Italia. Entrambi sono editi da Mondadori. Il primo raccoglie circa sessanta racconti di reduci, partigiani e civili sopravvissuti al conflitto, come suo nonno che, dopo essere scampato alla campagna di Russia, è tornato «e mi ha cresciuto come un padre – confida Cristicchi a tempi.it – io che sono rimasto orfano quando avevo dodici anni. Mi ha insegnato moltissime cose, soprattutto l’ironia, che è la capacità di saper ridere di se stessi». Il secondo volume narra di una drammatica e ancora controversa pagina della recente storia italiana:
l’esodo degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia che furono costretti a lasciare la loro terra in seguito al Trattato di pace del 10 febbraio 1947 che consegnò alla Jugoslavia comunista di Tito quel pezzo d’Italia da sempre conteso che abbraccia il mare da Capodistria a Pola.

Mio nonno è morto in guerra è diventato uno spettacolo teatrale, interpretato da Cristicchi, dove le storie sono state ridotte a 14 e il racconto è intervallato da canzoni popolari e d’autore italiane. Oggi al teatro Menotti, a Milano, l’ultima data. Ma a breve l’artista ritornerà sulla scena con l’altro spettacolo, Magazzino 18, dal quale da poco più di un mese è stato ricavato anche un libro. Per accompagnare il lettore in quel magazzino, che tuttora sorge alle spalle di Piazza Unità d’Italia a Trieste, dove sessant’anni fa i trecentocinquantamila italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, prima di trasformarsi in esuli, dopo essere stati costretti a evacuare le loro case e abbandonare la regione, lasciarono i loro beni e averi nella speranza, un giorno, di poterli ritrovare. Un’immensa tragedia di cui quasi nessuno sa nulla e di cui pochi hanno trovato il coraggio di parlare nei decenni che seguirono.
Cristicchi, cosa l’ha spinta a cercare le storie che racconta nei suoi libri e spettacoli?
Il silenzio di mio nonno che, dopo essere tornato dalla ritirata di Russia, non ha mai voluto parlare di quello che aveva visto al fronte. Forse perché ero ancora troppo piccolo. La mia curiosità, però, mi ha spinto a cercare parole e racconti per riempire quel silenzio. Oltretutto, i testimoni di quel periodo stanno cominciando a scomparire e già una decina di quelli che io ho sentito non ci sono più.

Perché ha scelto di ricorrere alla forma artistica del teatro?
Perché il materiale che ho raccolto nei miei libri è moltissimo e il teatro mi offre la possibilità di fare una scelta. Parole di questo tipo, infatti, hanno bisogno di diventare carne, di essere dette. È la stessa ragione per cui invito i lettori a leggere ad alta voce le storie che racconto.
Lei ha acceso un riflettore su di una pagina di storia, quella dell’esodo istriano, la cui memoria è tuttora controversa nell’opinione pubblica italiana. Come mai?

È importante parlare di questa drammatica pagina che è stata strappata dai libri di storia per non scadere in una ricostruzione “santificata” della Resistenza. Perché è anche dalle zone d’ombra e dal dolore che si può imparare. L’esodo dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia è il prezzo che abbiamo pagato per uscire da una guerra nella quale siamo spesso stati ritratti come vincitori, ma che invece abbiamo perso. Basti pensare al risarcimento dei danni di guerra che abbiamo dovuto corrispondere.
Non la preoccupano le contestazioni, che ha già ricevuto?
No, non mi preoccupano. Anche perché io non condanno la Resistenza né tantomeno la Liberazione, per le quali ho sempre avuto e ho parole positive.
Ciò non significa, però, che non si possa parlare anche delle magagne e delle contraddizioni che pure le hanno attraversate. A patto che prima di scrivere e di scegliere i contenuti ci si avvalga sempre del parere obiettivo di storici autorevoli. E io l’ho fatto.




24 - Alguer.it 24/04/14 L´esodo di Antonia Cervai a Fertilia
L’esperienza dell´autrice recentemente scomparsa in un libro che ha vinto la 15° edizione del Premio Romà Planas i Miró di memorie popolari. Il suo è un resoconto autobiografico sull’esperienza di uno degli esodi “silenziosi”
dell’Europa contemporanea. Venerdì la presentazione nella Torre di San Giovanni alle 18.30

L´esodo di Antonia Cervai a Fertilia

ALGHERO - Venerdì 25 aprile, alle ore 18:30, nella torre di San Giovanni ad Alghero, verrà presentato il libro di Antonia Cervai "Nosaltres, els julians" (Viena edicions). Oltre ai familiari dell'autrice recentemente scomparsa, parteciperanno, Montserrat Ametller, assessore al Patrimonio Culturale di Roca del Vallès e Giovanni Marzocchi, dell’Archivio della Memoria Popolare di questa cittadina vicina a Barcellona.

Attraverso i ricordi vissuti da Antonia Cervai, abbiamo una testimonianza della vicenda dell’espulsione dei Giuliano-Dalmati di origine italiana, dalla penisola dell’Istria, alla fine degli anni quaranta, dopo l’annessione di questi territori alla Iugoslavia di Tito. Nel libro viene descritto il precario insediamento di una colonia di profughi giuliani a Fertilia e la sensazione di sradicamento nell’animo degli espatriati, che nonostante ciò trovarono la maniera di completare l’edificazione del piccolo borgo e di costruirsi una nuova vita.

Nosaltres, els julians recupera la memoria d’un episodio quasi totalmente sconosciuto della storia recente del nostro continente, che mette in evidenza, una volta in più, la fragilità della costruzione dell’Europa. Come ha scritto il critico letterario Abraham Mohino, «Antonia Cervai, alla ricerca di una identità che si basa sulla nozione di luogo, ci porta nel bel mezzo di un viaggio storico, evocativo e problematico, tra l’Istria, Fertilia e la Catalogna, paese che diventa il terzo asse discorsivo nella costruzione di una possibile patria, alla fine trovata». Antonia Cervai è nata nel 1947, ad Orsera, una cittadina della penisola dell’Istria ed l’anno seguente la sua famiglia è arrivata a Fertilia. Laureata in Filologia Romanica presso l’Università di Pisa, nel 1977 durante un viaggio a Barcellona, conosce il futuro marito e lì forma la sua nuova famiglia.
Perciò, come le piaceva ricordare, era figlia di tre luoghi, tre regioni, tre nazioni, e di uno stesso mare.





25 - Il Piccolo 20/04/14 “L’Istria e i conti di Gorizia”: presentato il libro a Lubiana

“L’Istria e i conti di Gorizia”: presentato il libro a Lubiana

TRIESTE L'Istria, il Litorale, il Goriziano sono territori che soltanto a uno sguardo distratto potrebbero apparire marginali. Sono invece un punto cardine dell'Europa e tante volte ne hanno riflesso gli sviluppi epocali. A queste terre rende giustizia l'ultimo libro dello storico medievalista dell'università di Lubiana Peter Štih: "I conti di Gorizia e l'Istria nel Medioevo" è il titolo del corposo saggio appena pubblicato dal Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, presentato nei giorni scorsi a Lubiana in una conferenza organizzata con il supporto dell'ambasciata italiana in Slovenia, dell'Istituto italiano di cultura lubianese, del Comune di Gorizia nonché dell'Unione italiana e dell'Università popolare di Trieste. Nelle 250 pagine del suo saggio Štih ha delineato un ritratto della casata nobiliare che per secoli è stata tra i protagonisti della storia delle nostre terre: una realtà importante che spaziava dalle Alpi all'Istria e che ha costituito a lungo un interlocutore importante tanto per l'Impero germanico quanto per la Serenissima repubblica di Venezia. Lo storico ha ricostruito accuratamente le loro vicende, ricorrendo anche a materiale inedito, tracciando un'immagine precisa della loro espansione territoriale e del funzionamento del loro sistema feudale. Secondo Fulvio Salimbeni, storico dell'università di Udine, l'opera di Štih è uno strumento utile a comprendere come le Alpi nel Medioevo fossero un canale di congiunzione e comunicazione fra diverse realtà e non una linea di divisione, come sostenuto spesso dalla storiografia nazionalista. A tal proposito il direttore del Crs Giovanni Radossi ha rivendicato la pubblicazione del saggio, così come tutto il lavoro del Centro, come un contributo «nell'ambito della storiografia regionale, nazionale e internazionale», un ponte fra storie nazionali di Slovenia, Italia e Croazia. (g.tom.)



26 - La Voce del Popolo 22/03/14 Del sì, del da, dello ja – IstrEuropa
Del sì, del da, dello ja

IstrEuropa

Milan Rakovac

IstrEuropa? Sì, penso che oggi l’Istria (quella mia “imperialistica” Istria che si estende fino al fiume Po, alle Alpi, a Corfù) sia più europea dell’Europa stessa. Accanto ai popoli “autoctoni” e alle “minoranze” ora si possono incontrare anche nuovi gruppi etno-culturali provenienti da ogni parte del mondo.
Sabato scorso ho annunciato che mi sarei soffermato sull’istrianizzazione dell’Europa, mi scuso dell’Unione europea – ma l’UE è convinta di essere l’Europa. Ed è convinta di potere parlare a nome di tutto il continente. Ma quando lo fa non dice nulla. Molto tempo fa (da allora sono passati quasi 20 anni) ho pubblicato un lungo saggio intitolato ISTRIANIZZARE L’EUROPA, che è stato tradotto anche in tedesco. Ovviamente, il mio era un testo retorico perché cosa mai potrebbe esserci di tanto europeo di Istria da dovere essere esportato nell’UE? Forse i contenuti non sono poi tanti, ma sta proprio qui il punto: perché l’UE è sempre meno europea e sempre più nazionale e nazionalista – praticamente il contrario di quanto avviene in Istria! Ed è questo l’atteggiamento mentale che l’UE dovrebbe venire a recuperare in Istria! Ma è oramai da tempo che l’UE ha paura dell’euroregionalismo, l’unica idea nuova sulle cui basi potrebbe nascere la Nuova Europa, intesa come una comunità di cittadini liberi, e non come un’unione di Nazioni o di Stati. Certo, proprio per questo motivo l’UE ha permesso, senza profferire parola, che lo Stato Nazionale distrugga l’idea stessa di euroregionalismo. In primis i nostri tre Stati – la Croazia, l’Italia e la Slovenia!
Ma eccoci finalmente al tema annunciato: quale contribuito può dare alla creazione dell’Europa intesa come Stato, o meglio come COMUNITÀ DI CITTADINI, la piccola Istria?
Per avviarci lungo la strada dell’europeizzazione dell’Europa dobbiamo potere contare su un nucleo socio-politico che guarda al mondo da un’ottica europea, continentale, sovranazionale. Inutile dirlo: l’Istria ha queste caratteristiche. Una comunità europea libera e integrata, e perché no uno Stato, può nascere però soltanto se indeboliamo lo STATO in quanto tale, ogni Stato, tutti gli Stati.
Purtroppo però l’indebolimento dello Stato è dettato dalla crisi che scuote l’Europa e alla quale lei non sa trovare una soluzione. La propongono invece i neonazisti e i neofascisti e la loro sempre più potente derivazione – i populisti.
Ma cosa si può fare? Poco o nulla. Perché ogni azione da nuovo vigore ai nazionalismi che si stanno diffondendo con la forza di uno tsunami. Penso che l’unica soluzione a lungo termine sia combattere senza se e senza ma ogni forma di nazionalismo, a partire da quello individuale… Per diamine, ma dove mi sta portando il ragionamento? Io sono soltanto un giornalista/scrittore e non un membro di un qualsiasi gruppo di stampo politico… Né i giornalisti, né gli scrittori sono chiamati a tenere lezioni, ma nemmeno a richiamarsi al permissivismo. Le “élite” e i circoli dei ben pagati “detentori” del diritto a parlare in pubblico sono tutelati dal sistema che permette (soltanto a loro) di dire tutto. Questi però di regola parlano tanto senza dire niente. Si limitano a fare da portavoce a precisi gruppi di interesse, che spesso sono anche i proprietari dei media….
Non è che in Istria la situazione sia molto migliore, per quanto attiene i media. Ma in Istria (che si estende anche nell’FVG, nel Veneto, nella Carinzia, nel Prekmurje, nel Međimurje e sulle isole dalmate – checché ne pensi qualcuno!) e nell’area che da Fiume porta a Čakovec c’è una solida collettività che non coincide con i partiti, il potere e non si limita a diffondere il prevalente “sentimento” nazionale. L’Istria (e il suo hinteland) sono oggi un nucleo sano nel quale vivono in armonia le maggioranze e le minoranze e dove appartenere alla maggioranza non significa essere in vantaggio. È questo il principale lascito della storia – lasciarci alle spalle le assimilazione e consentire ai piccoli mondi di esprimersi. QUESTA è l’IstrEuropa, QUI devono venire gli UE burocrati, QUI l’Europa del domani è già la realtà!





27 - La Voce di Romagna 15/04/14 Con il "viaggio a Fiume" Gaby Adam va alla ricerca delle radici delle proprie origini
CON “IL VIAGGIO A FIUME” GABY ADAM VA ALLA RICERCA DELLE RADICI DELLE PROPRIE ORIGINI

Renata salva grazie alla musica

UNA TAPPA anche in Romagna dove avevano trovato rifugio nonni materni Isacco e Amalia Einhorn, che saranno poi arrestati e deportati senza ritorno

La città di Fiume, oggi Rijeka, è il fulcro attorno a cui ruota il viaggio complesso e affascinante sulle tracce di una famiglia ebraica del nord Italia, durante il periodo fascista, la Shoah e il dopoguerra. Fiume, grande città portuale croata, è stata un crocevia di religioni, popoli e culture.
Gaby Adam, è venuta in contatto con queste culture, queste religioni e queste genti e le ha raccolte in un libro, non solo con la ricostruzione del passato tragico della famiglia di sua madre, annientata. Il viaggio a Fiume è come una tela ricamata multicolore: al suo interno ci sono ricordi di famiglia e testimonianze, scene che partendo dal presente ripercorrono il passato, c’è uno sguardo all’eredità culturale creata nell’area di Venezia, il tutto intessuto in maniera complicata e turbolenta. Questo intreccio conferisce al libro un ascendente letterario e un valore aggiunto, discostandolo molto dalla semplice memoria familiare.  Ma in che modo aveva preso il via il canale di fuga per la salvezza dal capoluogo del Carnaro verso la Romagna? La testimonianza rilasciata nel 1988 da Elena Weiss in Galandauer e riportata da Gregorio Caravita nel suo libro “Ebrei in Romagna (1938-1945)”, da tempo esaurito, è precisa: “Avevamo raggiunto Bagnacavallo - racconta - perché a Trieste qualcuno aveva detto che Isacco Einhorn era partito lasciando il suo indirizzo per quelli che non sapevano dove andare. Noi ci siamo aggrappati a questo, e arrivati a Bagnacavallo abbiamo saputo che il signor Einhorn conosceva i signori Tambini già da tempo ed era sicuro di poter contare sul loro aiuto. E non si è sbagliato. Peccato che il signor Einhorn, che ha aiutato noi e molti ancora col lasciare il suo indirizzo, è finito così tragicamente”. E’ probabile che Isacco Einhorn e Vincenzo Tambini si siano conosciuti a Trieste, dove Isacco e la moglie Amalia Rosenstein si erano stabiliti dopo un periodo di internamento a Notaresco, in provincia di Teramo.
Gaby puntualizza parte delle dichiarazioni della zia Lilly, Laura Einhorn vedova Ricotti, sulla mancata fuga da Bagnacavallo, pubblicate in passato da Storie e personaggi. Isacco non voleva andarsene perché consapevole dei rischi che avrebbe corso; sapeva delle difficoltà che si incontravano alla frontiera con la Svizzera, dove una sua congiunta era stata arrestata. Dalle lettere in suo possesso, Isacco non appare come un uomo debole ma coraggioso; Gaby non condivide la versione della zia Lilly che sarebbe stato preso da un blocco psicologico. Religioso molto osservante, Isacco aveva la convinzione che il matrimonio di Lilly con un non ebreo avrebbe portato male alla famiglia. Gaby riferisce che Isacco, divenuto apolide dopo la proclamazione delle leggi razziali, voleva andare in Israele per aiutare la figlia Clara – sua madre – a sistemarsi. Per lui non c’era altra scelta che lavorare nel Kibbutz; nel frattempo doveva imparare l’ebraico e l’inglese. Le lettere di Isacco sono sempre scritte in tedesco e cominciano con “cari figli”. In quel periodo sperava di riottenere la cittadinanza romena che già aveva per ottenere il passaporto che gli avrebbe consentito di uscire dall’Italia. Nel capitolo dedicato a Bagnacavallo, Gaby ricorda Vincenzo Tambini, organizzatore assieme ad Antonio Dalla Valle della grande catena di solidarietà verso gli ebrei fiumani che avevano cercato rifugio in Romagna, e il maresciallo Ezechiele Maccaccaro, comandante della locale stazione dei carabinieri. Grazie alla testimonianza di Maria Dalla Valle, figlia di Antonio, si è potuto accertare che era lui il “capo della polizia locale” di cui parla Eugenio Galandauer. Quando Antonia Galandauer, sorella di Eugenio, in occasione della sua recente visita a Bagnacavallo e Lugo ha mostrato a Maria un album fotografico con tutti i personaggi coinvolti in quella eccezionale catena di solidarietà, dai salvatori ai salvati, lei ha riconosciuto immediatamente il maresciallo. “Era grande amico di mio padre e di Tambini. A Bagnacavallo la caserma e il palazzo Tambini sono vicinissimi e loro si salutavano dalle finestre. Quando Maccacaro andava a Lugo, si fermava sempre a casa nostra, erano legati da una fraterna amicizia”. La signora Maria racconta che “Aveva modi gentili ed era sempre pronto ad avvisare Tambini e mio padre del pericolo imminente”. La signora Maria conferma il racconto di Eugenio Galandauer, che all'epoca aveva 10 anni, della sera in cui il maresciallo si era precipitato ad allertare suo padre e Tambini della retata che avrebbero fatto i tedeschi l'indomani permettendo loro di organizzare la grande fuga. Quella sera in particolare, ricorda la signora Maria, il maresciallo era in macchina con altri carabinieri, un particolare che lascia pensare che anche i suoi militari fossero al corrente di quanto stava accadendo a Bagnacavallo. Purtroppo gli Einhorn si erano stabiliti nel centro di Bagnacavallo, tutti sapevano la loro identità, e non è stato possibile allertarli tempestivamente in modo che si allontanassero. Tra l'altro come ha ricordato Maria Dalla Valle in quel periodo in paese c'erano anche i fascisti di Ferrara, che potrebbero essere gli autori dell'arresto. Nel suo libro, Gaby ricorda anche la zia Renata, conosciuta in tempi successivi a Lilly. E rivela un particolare che potrebbe aver salvato Renata dai forni crematori. Era una eccezionale pianista, a 14 anni aveva iniziato a suonare in concerti radiofonici della futura Rai, allora Eiar. Nel dopoguerra aveva acquistato un bellissimo pianoforte a coda che però non ha mai utilizzato; suonare le causava sofferenza fisica e certamente interiore. Renata è sepolta a Palestrina nella tomba di famiglia del marito Michele Tomaselli, conosciuto a Caracas quando lavorava all’Ambasciata italiana.  E infine chi è Gaby Adam. E’ nata nel 1943 a Haifa. I suoi genitori emigrarono clandestinamente in Israele da Trieste nel 1939, quando il Mandato britannico in Palestina aveva imposto una limitazione alla libera immigrazione ebraica nella regione. Dopo il servizio militare, Gaby si è trasferita in Europa, dove ha ottenuto il diploma di interprete a Ginevra. Dal 1968 ha lavorato come documentarista per la televisione israeliana (IBA) e per quella tedesca (ZDF), producendo film fino al 2005. Gaby Adam ha pubblicato, tra il 1970 e il 2003, tre libri di poesie, un libro sull’adozione per adolescenti – portando come esempio la sua esperienza personale – e, dal 2000, si è avvicinata anche al mondo della pittura. Il viaggio a Fiume, cominciato a scrivere nel 2009, è stato pubblicato in Israele nell’aprile del 2012. Gaby oggi continua a portare avanti i propri progetti.
Aldo Viroli

Chi è la protagonista
Vive in Israele è regista e documentarista

Nel suo libro “Il viaggio a Fiume”, da poco pubblicato da Salomone Belforte editore, Gaby Adam, regista e poeta di Gerusalemme, come discendente di una famiglia fiumana va alla ricerca delle radici delle proprie origini, dando vita a una storia unica e straordinaria su una parte di Ebraismo rimasta esclusa dalla coscienza storica dopo la Shoah. Il viaggio tocca anche la Romagna perché a Bagnacavallo avevano trovato rifugio i nonni Isacco e Amalia Einhorn con la figlia Renata, chiamata in famiglia Renée. Nel libro Gaby ricorda anche l’impegno di Storie e personaggi nel ricostruire la vicenda degli ebrei fiumani rifugiati in Romagna. Al centro del libro, scrive nella presentazione il professor Ariel Hirschfeld, troviamo la zia Lilly, una figura avvincente, affascinante e originale, che ha vissuto a lungo e ha avuto modo di fare pace col suo passato tormentato: Lilly ha fatto i conti con l’abbandono della propria religione e della propria famiglia alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale e ha visto da lontano il destino dei propri cari. Gaby è venuta in contatto con queste culture, queste religioni e queste genti e le ha raccolte in un libro, non solo con la ricostruzione del passato tragico della famiglia di sua madre, annientata ad Auschwitz, ma anche tramite un viaggio nuovo nelle città del nord sul mare Adriatico, in Italia, nell’odierna Croazia, e nell’Israele di oggi.





28 - L'Arena di Pola 16/01/14 - 9 gennaio 1944: il primo bombardamento di Pola
9 gennaio 1944: il primo bombardamento di Pola

Sono passati 70 anni esatti dal primo dei 23 bombardamenti aerei anglo-americani su Pola. Era il 9 gennaio 1944 e quel terribile evento lasciò lutti e rovine, rimanendo impresso indelebilmente nella memoria di tutti i polesani superstiti. Il consigliere ed ex sindaco dell’LCPE Lino Vivoda ne parla in un capitolo del suo recente libro In Istria prima dell’esodo. Autobiografia di un esule da Pola (Edizioni Istria Europa, Imperia 2013), che riproduciamo di seguito. Invitiamo i lettori che sperimentarono quella tragedia a mandarci la propria testimonianza diretta.

Tra i tanti accadimenti vissuti durante la guerra ricordo bene il giorno del primo bombardamento di Pola. Era domenica e giocavo al pallone nel campetto del cortile della Catolica quando le sirene verso le dieci iniziarono a suonare per l’allarme aereo. Mi recai a casa abbastanza svelto, non avevamo ancora cognizione infatti di che cosa potesse seguire a un allarme aereo. Giunto a casa mi misi in spalla lo zaino grigio che Papà mi aveva dato quando erano iniziati gli allarmi aerei: conteneva un cambio di biancheria, una maglia un po’ pesante per stare in rifugio e quattro pacchetti di gallette che chiamavamo scherzando “razioni di guerra”. Presi anche il piccolo seggiolino pieghevole di legno e tela sotto il braccio e scendendo le scale incontrai Papà che era venuto in bicicletta da Scoio Olivi per sincerarsi che tutti fossimo andati in rifugio. Arrivai comodamente al riparo e incominciai con le solite chiacchiere coi vicini per passare il tempo quando iniziammo a sentire le vibrazioni degli scoppi e nelle orecchie lo spostamento d’aria. Erano le undici e quindici del 9 gennaio 1944 quando iniziò il primo bombardamento della mia vita.

Quando finì il rumore delle bombe qualcuno disse: «C’era da aspettarselo, l’altro ieri hanno bombardato Fiume».
Cessato l’allarme uscimmo lentamente all’aperto, e poi di corsa verso casa. La città era stata pesantemente bombardata da più di cento B-17 della 15a AF americana: centrate chiese, ospedali, scuole e numerose case, provocando la morte di oltre cento persone solo fra i civili.

L’impressione tra la gente fu profonda vedendo le macerie dappertutto, le strade coperte da una sottile coltre grigiastra. Ovunque nell’aria l’odore dell’esplosivo. Cambiò subito l’atteggiamento in tutti: dal primo allarme successivo i tempi di percorrenza per arrivare al rifugio si ridussero notevolmente cercando tutti di mettersi al sicuro il più presto possibile.
Il nostro palazzo per fortuna era intatto ma vicino a noi parecchie case erano state sventrate in via Tradonico, e mi dispiacque vedere sparito il negozio di alimentari di sior Rocco all’inizio della strada, nella piazzetta del Torchio, dove talvolta andavo a comperare qualcosa e ricevevo sempre alcune sidele (mentine simili a caramelle).

Anche il cantiere di Papà era stato colpito in più parti (era anche la base dei sommergibili) e, quando mi recai il giorno dopo a portargli il pranzo, mi fece vedere da lontano la sagoma di un sommergibile tedesco semiaffondato a fianco della vasca grande verso la città, che con le due piccole gemelle costituivano i bacini di carenaggio del cantiere. Il sommergibile tedesco era il famoso U-81, che il 13 novembre 1941 aveva silurato ed affondato la portaerei britannica Ark Royal. Anche un altro sommergibile tedesco, l’U-407, venne colpito.
Ma quello che fece più impressione fu la tragica morte del giocatore di calcio polesano Aldo Fabbro, assieme alla mamma ed alla nonna. Fabbro era centromediano del Napoli ed essendo fermo il campionato di calcio era venuto a casa in licenza. La sua abitazione fu centrata in pieno e rasa al suolo. I soccorritori intenti a sgomberare le macerie raccolsero ciò che rimaneva delle tre vittime in un secchio pieno di resti umani.

Lino Vivoda (Imperia)




29 – East Journal 30/03/14 I quaranta giorni del Mussa Dagh. sul genocidio armeno
 
I quaranta giorni del Mussa Dagh. Sul genocidio armeno

Aprile 1915. Cinquemila armeni, perseguitati dai turchi cercano rifugio sul massiccio del Mussa Dagh, a nord della baia d'Antiochia. Il brano che segue è tratto dal secondo capitolo del romanzo storico “I quaranta giorni del Mussa Dagh” (1933) di Franz Werfel, dove vengono narrate le vicende dell'unica forma di resistenza armena durante il “Grande crimine”, Medz Yeghern in armeno. È il bazar, da sempre luogo dell'incontro e del dialogo, luogo delle relazioni, la metafora scelta dall'autore per mostrarci la città di Antiochia nei giorni che precedono il genocidio. Attraverso gli occhi dell'armeno Gabriele si iniziano a percepire i primi segni della tragedia. Quell'Impero ottomano che di lì a poco si sarebbe disgregato era, fino a quel momento, la terra di tutti. Una terra dove “sangue e popolo”, erano fino ad allora  “concetti vani”.

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"Quando Gabriele Bagradiàn svoltò nella via del bazar di Antiochia, aveva deciso due cose: primo, in caso di una sua chiamata sotto le armi, di non indietreggiare davanti a nessun sacrificio per riscattarsi dal servizio militare; secondo di aspettare la fine della guerra nella placida tranquillità della casa di Yoghonolùk, inosservato e indisturbato. Siccome però si era già nella primavera del 1915, non poteva ormai più trattarsi che di qualche mese, prima dell'armistizio generale. Egli calcolava per il settembre o l'ottobre. Una nuova campagna invernale nessuna delle parti l'avrebbe più osata. Fino a quel momento bisognava adattarsi come si poteva, per poi ritornare il più presto a Parigi. Il bazar lo affascinò: quella densa fiumana che non conosce fretta, che non cresce e decresce come il traffico nelle città europee, ma si svolge con un ritmo irresistibilmente uguale, come il tempo nell'eternità.

Ci si sarebbe potuti creder trasportati non già nella derelitta provincia di Antakje, ma ad Aleppo o a Damasco, tanto erano inesauribili le due correnti opposte del bazar, che fluivano parallele su e giù. Turchi in abito europeo, con bastone da passeggio e colletto rigido, il fez in testa, commercianti e impiegati. Armeni, greci, siriaci, anch'essi riconoscibili dall'abbigliamento occidentale, ma con un copricapo differente. E in mezzo, continuamente, curdi e circassi nei loro costumi. La maggior parte di essi portava armi in mostra, poiché il governo, che fra i popoli cristiani considerava con diffidenza ogni coltellino tascabile, fra quelle irrequiete stirpi montanare tollerava moderni fucili di fanteria e perfino li regalava.

Contadini arabi dei dintorni. Anche alcuni beduini del sud, nel lungo mantello drappeggiato color del deserto, con intorno al capo il magnifico tarbùsch, dal quale pendevano sulle spalle i fiocchi di seta. Donne svelate, emancipate, con le gonne alla caviglia e le calze di seta. Di tanto in tanto nella corrente degli uomini avanzava tentoni un asino stracarico, in disperato proletario del mondo animale, con la testa bassa. Gabriele aveva l'impressione che fosse sempre lo stesso asino, che compariva ad intervalli con la sua testa ciondolante, e sempre lo stesso conducente cencioso, che lo teneva alla cavezza.

Ma tutti, tutto questo mondo, uomini, donne, turchi, arabi, armeni, curdi, e nella ressa i soldati abbronzati dal campo, ed asini e capre, tutti erano fusi in una indescrivibile unità dall'andatura uguale: un passo lungo, lento e ondeggiante, che tendeva senza posa ad una meta invisibile.

Gabriele comprò un berazìk, un panno spalmato di sciroppo d'uva. Anche questo “cibo di rondine” era per lui un ricordo d'infanzia. Ma al primo boccone lo prese la nausea ed egli regalò il dolce ad un ragazzo, che lo guardava in bocca estatico.

Chiuse gli occhi per qualche secondo, tanto aveva l'animo oppresso. Che cosa era dunque avvenuto, che cosa aveva trasformato completamente il mondo? Qui, in questo paese egli era nato. Qui avrebbe dovuto sentirsi a casa sua. Ma come? La fiumana continua e regolare della gente del bazar gli disputava la sua terra natale. Egli lo intuiva, quantunque i volti concentrati in se stessi non lo guardassero affatto.

E il giovane Mudir? Si era comportato con estrema gentilezza e cortesia. “La illustre famiglia Bagradiàn!” Tuttavia Gabriele credette ad un tratto di capire che tutta quella cortesia, compresa la sua “illustre famiglia”, non era che impertinenza. Anzi di più, era odio, odio travestito in forme civili. E il medesimo odio lo circondava in quel momento. Gli bruciava la pelle, gli feriva la schiena. Ed egli sentiva davvero nella schiena un'improvvisa paura, come un perseguitato, mentre neppure un'anima viva si curava di lui.

A Yoghonolùk, nella grande casa, sotto il suo tetto, non sapeva nulla di tutto questo. E prima a Parigi? Là, malgrado tutto il benessere, egli aveva vissuto nella fredda condizione di uno straniero immigrato, che ha le sue radici altrove. Erano qui le sue radici? Solo allora, in quel miserabile bazar della sua terra, egli poté misurare appieno quanto fosse straniero nel mondo. Armeno! Antichissimo sangue, antichissimo popolo era in lui. Ma perché i suoi pensieri parlavano più spesso francese che armeno, come proprio in quel momento, ad esempio? Sangue e popolo! Siamo franchi! Non erano anche questi dei concetti vani? In ogni età gli uomini si cospargono l'amaro cibo della vita con la droga di idee diverse, che lo rendono ancora più disgustoso".



La Mailing List Histria ha il piacere di inviarVi la “Gazeta Istriana” sugli avvenimenti più importanti che interessano gli Esuli e le  C.I. dell' Istria, Fiume e Dalmazia, nonché le relazioni dell'Italia con la Croazia e Slovenia.
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 MAILING LIST HISTRIA

RASSEGNA STAMPA

a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri

N. 912 – 11 Aprile 2014
    
Sommario


163 - Il Gazzettino 07/04/14 La Cassazione: «Esuli giuliano dalmati, lo Stato non risarcisce più»
164 -  Il Giornale 09/04/14  La Cassazione beffa gli esuli giuliani: "Stop agli indennizzi" (Fausto Biloslavo)
165 – Anvgd.it 08/04/14  Le associazioni degli esuli: «Ricorso a Strasburgo»
166 - Il Piccolo 09/04/14 Indennizzi negati agli esuli Sinagra: «Italia disattenta» (Roberto Urizio)
167 - Il Piccolo 06/04/14 Il borgo di Babici in festa per l'asilo italiano (p.r.)
168 - Il Piccolo 28/03/14 Trieste: Giorno del Ricordo dieci anni dopo (Ugo Salvini)
169 - La Voce del Popolo  07/04/14 Cultura – Cittanova: Racconti dolorosi di un'epoca (Kristina Blecich)
170 – La Voce del Popolo 10/04/14 «Magazzino 18» a Rovigno un altro pienone annunciato (Sandro Petruz)
171 - Secolo d'Italia 30/03/14 Cristicchi ricorda l’eroe “scomodo” della strage di Pola provocata dai comunisti di Tito (Francesco Signoretta)
172 - Avvenire 01/04/14 Goli Otok, a teatro la ferocia dei gulag di Tito (Fulvio Fulvi)
173 – La Voce del Popolo 01/04/14 "Endrigo '47" - Partirà, la nave partirà, dove arriverà, questo non si sa... (Gianfranco Miksa)
174 - Il Piccolo 06/04/14 Gorizia: Storico abbraccio tra Mandic e Pamich (Alex Pessotto)
175 - La Voce del Popolo 04/04/14 Rovigno: quando la città era un'isola (sa)
176 - Il Piccolo 06/04/14 Lettere - Al Magazzino 18 ho compreso il dramma dei miei genitori (Loretta Lucci)
177 -  Il Piccolo 03/04/14 L'accento del ministro che recide i legami con la terra d'origine (Michele Cortellazzo)


Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arenadipola.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/



163 - Il Gazzettino 07/04/14 La Cassazione: «Esuli giuliano dalmati, lo Stato non risarcisce più»

La Cassazione: «Esuli giuliano dalmati, lo Stato non risarcisce più»

TRIESTE - Lo Stato italiano non deve risarcire ulteriormente gli esuli giuliani e dalmati che hanno perso i propri beni nei territori ceduti alla Jugoslavia con il Trattato di Pace del 1947, espropriati o nazionalizzati dal governo jugoslavo.

Lo sottolinea la Cassazione a Sezioni Unite. La Corte era chiamata a decidere sul ricorso presentato da alcuni esuli, e loro eredi, che avevano fatto causa alla presidenza del Consiglio e al ministero dell'Economia giudicando le somme versate loro come indennizzo tardive (furono stabilite solo con il trattato di Osimo del 1975, reso esecutivo negli anni '80) e «irrisorie».

Puntando su un precedente abbastanza recente, una sentenza del 2004 della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo sui risarcimenti da parte della Polonia dopo gli accordi presi con le Repubbliche Sovietiche, i ricorrenti avevano portato in tribunale, a Trieste, lo Stato chiedendo di giudicare sul loro diritto a essere risarciti delle conseguenze dell'accordo di pace dopo la seconda guerra mondiale, perdendo sia in primo grado che in appello.

Ora la Cassazione (sentenza 8055, udienza del 25 marzo) sottolinea come in effetti ci sia «un diritto soggettivo della parte nei confronti della pubblica amministrazione», ma questo «non limita le scelte del legislatore nel determinare la misura dell'indennizzo» che è un intervento «ispirato a criteri di solidarietà della comunità nazionale», e non ad «un obbligo di natura risarcitoria per un fatto illecito, non imputabile allo Stato italiano».

Fu l'allora Jugoslavia con la propria politica di nazionalizzazione, a procedere all'espropriazione anche dei beni appartenenti a cittadini di nazionalità italiana. Quindi lo Stato italiano «non è autore della violazione», «poiché la privazione dei beni dei cittadini italiani si è verificata ad opera di uno Stato straniero, al quale il territorio su cui essi si trovavano è stato ceduto dall'Italia, soccombente nel conflitto bellico». E in questo - hanno osservato le Sezioni Unite - il caso è diverso da quello giudicato dalla Corte Europea, che si riferisce ad un accordo tra due stati usciti vincitori dal conflitto, riguardante la frontiera orientale della Polonia e gli accordi con l'Ucraina, la Bielorussia e la Lituania, «con l'assunzione, da parte dello Stato polacco, di una specifica obbligazione di risarcimento nei confronti dei propri cittadini».



164 -  Il Giornale 09/04/14  La Cassazione beffa gli esuli giuliani: "Stop agli indennizzi"
La Cassazione beffa gli esuli giuliani: "Stop agli indennizzi"
Associazioni dei profughi indignate, ora pensano di rivolgersi alla Corte europea per i diritti umani
Fausto Biloslavo
Gli esuli reclamano gli indennizzi per i beni rapinati da Tito dopo la fine della seconda guerra mondiale dallo Stato italiano considerandoli tardivi ed irrisori? Non se ne parla.
 Una sentenza del 25 marzo della Corte di Cassazione è la pietra tombale sulla richiesta dei profughi istriani, fiumani e dalmati. Adesso, però, si apre lo spiraglio di un ricorso alla Corte europea per i diritti dell'uomo.
«Siamo pronti a presentarlo per contestare l'elemosina elargita dall'Italia agli esuli - dichiara l'avvocato triestino Sardos Albertini -. Così lo Stato sarà chiamato a rispondere della violazione del diritto ad un risarcimento congruo per i beni scippati a chi è stato costretto a lasciare l'Istria e la Dalmazia». Gli fa eco Massimiliano Lacota, presidente dell'Unione degli istriani: «Una sentenza vergognosa, non solo una beffa. L'Italia, in maniera indubbia, si era assunta l'onere di risarcire gli esuli».
Non la pensano allo stesso modo i supremi giudici. Alcuni esuli ed eredi avevano fatto causa al ministero dell'Economia e alla Presidenza del Consiglio. La sentenza 8055 della Cassazione sancisce che, pur esistendo «un diritto soggettivo nei confronti della pubblica amministrazione» tuttavia «non limita le scelte del legislatore nel determinare la misura dell'indennizzo».
Il ricorso degli esuli faceva presente che le somme versate per i beni abbandonati erano irrisorie e tardive essendo state stabilite con il famigerato accordo di Osimo del 1975. La causa faceva riferimento al precedente della Corte europea dei diritti dell'uomo relativa ai risarcimenti da parte della Polonia dopo gli accordi presi con le Repubbliche sovietiche. I giudici italiani sostengono che «la privazione dei beni dei cittadini italiani si è verificata ad opera di uno Stato straniero, al quale il territorio su cui essi si trovavano è stato ceduto dall'Italia, soccombente nel conflitto bellico».
Gli esuli chiedono da anni a Roma un equo indennizzo per una cifra complessiva di sei miliardi e mezzo di euro. «Con l'ultimo governo Berlusconi si era arrivati quasi ad un accordo su 3-4 milioni, ma poi è saltato tutto» spiega Lacota. Ad Osimo l'ex Jugoslavia si impegnò a versare 110 milioni di dollari per i risarcimenti su un conto in Lussemburgo. Dopo le prime tranche è scoppiata la guerra che ha dilaniato il Paese bloccando i versamenti.
In seguito la Slovenia ha sborsato la sua quota e la Croazia no. L'Italia non ha mai toccato questi soldi. In Slovenia e Croazia ci sono ancora 1440 proprietà e immobili, magari ridotti a rudere, ma che potrebbero venire, in alternativa, restituiti.
«Provo profonda tristezza per questa sentenza. La soluzione è politica, anche se fino ad oggi abbiamo ricevuto solo briciole» sostiene Renzo Codarin, presidente della Federazione degli esuli. Al Piccolo, il quotidiano di Trieste dove vive una forte comunità di istriani e dalmati, il deputato Pd, Ettore Rosato, ammette che «la questione degli indennizzi agli esuli spetta alla politica, non agli organi giudiziari».
La parlamentare giuliana di Forza Italia Sandra Savino accusa la Cassazione di far parte di «un'Italia che si rifiuta di guardare al passato con la lucidità del presente».
Pochi mesi fa tre fratelli eredi di un'autofficina nel centro di Capodistria, oggi principale porto sloveno, hanno rifiutato con sdegno un risarcimento di Roma di 80 euro per la licenza sommati a 240 per i macchinari perduti e la licenza. A dieci anni dal giorno del Ricordo che ricorda il dramma dei profughi istriani e dalmati, lo Stato italiano continua a beffare gli esuli.




165 – Anvgd.it 08/04/14  Le associazioni degli esuli: «Ricorso a Strasburgo»
Le associazioni degli esuli: «Ricorso a Strasburgo» -  

Le associazioni degli esuli istriani, fiumani e delmati non mollano e annunciano l'intenzione di voler ricorrere alla giustizia europea contro la sentenza della Cassazione che nega loro ogni possibilità di ulteriore indennizzo per gli espropri patiti alla fine della seconda guerra mondiale. «La realtà è più complessa, la sentenza mi sembra sia solo un avallo ulteriore per un ricorso a livello europeo - commenta il direttore dell'Irci (Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano- dalmata) di Trieste, Piero Delbello. L'Italia ha le sue responsabilità; tra Roma e Belgrado ci sono stati vari accordi nel tempo, quindi l'Italia non può dire "sono innocente"».

Peraltro, la «sentenza riconosce che c'è un diritto soggettivo della parte nei confronti della Pubbliche amministrazioni», dunque è «difficile pensare che questa questione debba ritenersi definitivamente chiusa». [...] «Le sentenze vanno rispettate - afferma il deputato triestino del Pd Ettore Rosato - ma sottolineo che la questione degli indennizzi degli esuli è di pertinenza della politica, non degli organi giudiziari».

Secondo Rosato, «la questione dell'equo e definitivo indennizzo degli esuli, sulla quale in più parlamentari, trasversalmente, ci siamo impegnati per lungo tempo, pertiene le scelte politiche e non quelle giudiziarie. Nonostante i grandi passi avanti compiuti dalla coscienza nazionale sul dramma dell'esodo - osserva Rosato - quando si tratta di mettere mano alla cassa, lo Stato diventa smemorato.

E le cancellerie dimenticano, con la stessa rapidità, di discutere questioni importanti di diritto soggettivo, come - conclude - la restituzione dei beni non denazionalizzati».




166 - Il Piccolo 09/04/14 Indennizzi negati agli esuli Sinagra: «Italia disattenta»
Indennizzi negati agli esuli Sinagra: «Italia disattenta»

Il parere dell’avvocato dopo la sentenza della Cassazione che chiuso a ogni ipotesi di risarcimento più consistente per i beni confiscati ai giuliano-dalmati

di Roberto Urizio

TRIESTE. La politica estera dello Stato italiano è più attenta alle esigenze degli altri Paesi che alle nostre. Il professor Augusto Sinagra, avvocato esperto di diritto internazionale che da sempre segue le vicende degli esuli istriani, fiumani e dalmati, non risparmia critiche all’Italia all’indomani della sentenza della Corte di Cassazione, che ha confermato quanto già stabilito dal Tribunale di Trieste in primo grado e in appello sui ricorsi presentati da alcuni esuli e loro eredi. Secondo la Suprema Corte, lo Stato non deve risarcire ulteriormente le persone che nei territori oggi sloveni e croati hanno lasciato terreni e proprietà e che lamentavano indennizzi irrisori da parte italiana.

Professor Sinagra, come valuta questa sentenza della Cassazione?
Per dare una valutazione bisognerebbe leggere le motivazioni della sentenza.
Si possono tuttavia fare alcune considerazioni generali relativamente al preannunciato ricorso alla Corte europea per i diritti dell’uomo.

Ci sono i presupposti per questo ulteriore ricorso?
Il presupposto è la violazione del protocollo di Roma del 1950, in particolare sul diritto di proprietà e dell’interesse patrimoniale. La giurisprudenza ha più volte riconosciuto le lesioni dei diritti patrimoniali e mi pare anche questo un caso di violazione.

Il fatto che le cause portate avanti in Slovenia e Croazia procedano più a rilento possono rappresentare un ostacolo per il ricorso a Strasburgo?
Questo sarebbe un ricorso in cui vengono messe in evidenza le responsabilità dello Stato italiano. A stretto rigore giuridico è vero che Slovenia e Croazia non hanno portato a termine tutti i gradi di giudizio, ma per giusta tutela il ricorso non potrà che coinvolgere anche Lubiana e Zagabria.

Da parte di alcune associazioni degli esuli sono state mosse critiche forti all’Italia in merito alla questione degli esuli. Le condivide?
Credo sia abbastanza chiaro che i danni di guerra siano stati sostanzialmente pagati dagli esuli se si considera il valore complessivo dei beni nazionalizzati nei territori ceduti all’allora Jugoslavia.
L’atteggiamento dell’Italia relativamente ai diritti di indennizzo da parte degli esuli è stato quantomeno passivo.

Ci sono critiche da muovere anche nei confronti di Slovenia e Croazia?
Onestamente non mi sento di criticare più di tanto l’atteggiamento di questi due Paesi che, come è normale che sia, fanno i propri interessi. Lascia invece qualche perplessità il comportamento dell’Italia in politica estera che pare più attenta alle istanze dei Paesi stranieri che alle proprie.




167 - Il Piccolo 06/04/14 Il borgo di Babici in festa per l'asilo italiano
l’inaugurazione

Il borgo di Babici in festa per l’asilo italiano

UMAGO Il piccolo borgo di Babici in festa per l'apertura della sezione d'asilo “Do re mi” che fa parte della scuola materna italiana Girotondo. La prima presidente della locale Comunità degli Italiani Ariella Altin che ha avuto l'onore di tagliare il nastro, ci ha dichiarato che un sogno sognato per 20 anni finalmente si è concretizzato. È sicuramente la rete prescolare quella che negli ultimi anni ha subito lo sviluppo maggiore nella verticale scolastica in lingua italiana in Croazia e Slovenia. Come ha ricordato il presidente della Giunta esecutiva dell'Unione Italiana Maurizio Tremul, da 4 anni a questa parte sono stati costruiti o ricostruiti 5 edifici adibiti all'educazione prescolare. Tra questi quello di Zara che ha segnato lo storico sconfinamento del sistema scolastico della Cni ben oltre i tradizionali confini del territorio istroquarnerino. Per la sezione Do re mi, cosi si chiama, il governo italiano ha erogato qualcosa come 270 mila euro. Come sottolineato dalla direttrice del Girotondo Roberta Lakoseljac, nel territorio umaghese la rete prescolare italiana ha compiuto passi da gigante rispetto al 1965 quando il regime jugoslavo permise la riapertura dell'asilo italiano. All'epoca i piccini iscritti erano solo 4 mentre oggi il numero è salito a 220 ripartiti in 7 sezioni che ricoprono praticamente tutto il territorio. Sono dislocate infatti a Moella, Comunella, Salvore, Petrovia, Punta, Babici e quella centrale a Umago. L'attuale presidente della Comunità degli Italiani Roberta Grassi Bartolic ha ringraziato coloro che si sono prodigati per la realizzazione del progetto, in primo luogo il governo italiano. Il sindaco di Umago Vili Bassanese si è compiaciuto del fatto che la città sia al primo posto in Croazia per lo standard pedagogico negli asili. Il nuovo presidente dell'Università popolare di Trieste Fabrizio Somma si è soffermato sull'importanza dell'educazione prescolare per il futuro della Comunità italiana e ha ringraziato il suo predecessore Silvio Delbello per i risultati raggiunti nel suo mandato. Il Console Generale d'Italia a Fiume Renato Cianfarani ha ribadito l'impegno della madrepatria a favore della sua unica minoranza autoctona oltre i confini nazionali. Dal canto suo il presidente dell'Unione Italiana Furio Radin ha sottolineato che nella nuova istituzione i bambini impareranno la lingua italiana che nella comunicazione giornaliera useranno assieme all'istroveneto, al croato e al ciacavo diventando cosi dei veri istriani.
(p.r.)



168 - Il Piccolo 28/03/14 Trieste: Giorno del Ricordo dieci anni dopo
CELEBRAZIONE

“Verdi”, Giorno del Ricordo dieci anni dopo

Il presidente della Lega Nazionale Paolo Sardos Albertini: «C’è ancora tanto da capire»

Conoscere e approfondire “ma soprattutto capire, perché su questo fronte c’è ancora tanta strada da fare”. Questo, per il presidente della Lega nazionale, Paolo Sardos Albertini, l’obiettivo della manifestazione di domenica al Ridotto del Verdi, con inizio alle 10.30, in occasione del decennale dell’entrata in vigore della legge istitutiva del “Giorno del Ricordo”.

 «Dopo anni di vergognoso silenzio – ha spiegato Sardos Albertini - la legge ha prodotto un primo fondamentale risultato, far conoscere il dramma delle foibe e dell’esodo. Ora bisogna guardare avanti – ha aggiunto – e capire per esempio che i martiri delle foibe furono le vittime del tentativo di Tito di dare vita, dopo quella di Stalin, a una nuova rivoluzione comunista, da raggiungere annientando brutalmente chiunque si opponesse». Dopo aver ringraziato il Comune «per la disponibilità del Ridotto del Verdi», Sardos Albertini ha illustrato il programma che prevede interventi intercalati da canti istriani e da filmati.

Interverranno il presidente dell’Unione degli istriani, Massimiliano Lacota, Renzo Codarin a nome della Federazione delle associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati, il sindaco, Roberto Cosolini e il parlamentare Roberto Menia, padre della legge. Codarin ha osservato che: «Non va dimenticato che, per anni, abbiamo dovuto subire i negazionisti e i giustificazionisti. Oggi non bisogna cadere nel riduzionismo». Manuele Braico, presidente delle Comunità istriane e vice presidente dell’Università popolare ha auspicato che «lo studio della Giornata del Ricordo sia portato nelle scuole». Gli intermezzi musicali saranno del Coro dell’Associazione delle comunità istriane, diretto da Paolo Di Paoli Paulovich e della Gorizia guitar orchestra. Le immagini e i filmati sono stati curati da Franco Viezzoli.

Ugo Salvini



169 - La Voce del Popolo  07/04/14 Cultura – Cittanova: Racconti dolorosi di un'epoca
Racconti dolorosi di un’epoca

Scritto da Kristina Blecich

Cosa significa al giorno d’oggi essere italiani? Il senso d’italianità è soggettivo e intimo, ma è anche sinonimo di un’identità radicata che rischia di affievolirsi nel contesto europeo contrassegnato dall’abbattimento dei confini, di soccombere di fronte alla globalizzazione e alla crisi dei valori che caratterizza la nostra realtà. Cosa prova di fronte a tutto ciò chi ancora crede nella propria identità nazionale? Sono stati questi i temi discussi nel corso del Convegno intitolato “Italiani oltre i confini. Testimonianze di Italiani d’Istria e non solo”, tenutosi sabato presso la sede della Comunità degli Italiani di Cittanova. L’iniziativa, organizzata dall’Associazione Culturale “Cristian Pertan” in collaborazione con l’Unione Italiana, l’Università Popolare di Trieste e la CI di Cittanova, è stata un’ottima occasione per inaugurare il XV fondo librario in lingua italiana intitolato a Cristian Pertan, oltre che per discutere sul senso di appartenenza alla Comunità Nazionale Italiana in Istria come in Italia. L’incontro ha visto la partecipazione di rappresentanti di diverse associazioni di “esuli” e “rimasti”.


Libri in dono

Dopo una visita alla città, è stato dato il via ai lavori con l’apertura del Fondo librario e con una donazione di libri alla CI di Cittanova. A nome del sodalizio ha parlato la presidente Paola Legovich. Gabriele Bosazzi e Manoel Bibalo del Fondo Pertan, hanno quindi illustrato la propria attività e presentato i circa 150 volumi in italiano regalati alla CI, che sono andati ad arricchire la biblioteca del sodalizio.
Il gesto è stato “sigillato” con l’atto della firma da parte di Paola Legovich e Manoel Bibalo. La prima si è detta felice e orgogliosa di poter dare il benvenuto a tantissime autorità, tra cui Fabrizio Somma, neoeletto presidente dell’Università Popolare di Trieste, Maurizio Tremul, presidente della Giunta Esecutiva dell’Unione Italiana, Alessandro Altini, rappresentante dell’Associazione Culturale Cristian Pertan, Antonio Ballarin, presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, lo storico Giuseppe Parlato, Arianna Braico, presidente della Comunità degli Italiani di Momiano, Antonio Martelli, rappresentante dell’Associazione Trieste Pro Patria, Emanuele Merlino, rappresentante dell’Associazione Comitato 10 febbraio, il professor Massimilano Rovatti, Lino Vivoda, Denis Visintin e Franco Biloslavo. Legovich ha ringraziato inoltre i rappresentanti del Fondo Pertan e i genitori di Cristian, presenti al Convegno.

La parola è passata quindi agli esuli, ai rimasti, agli istriani e a tutti coloro che si sentono, anche per motivi sentimentali, legati profondamente all’Istria. Il dibattito socio-culturale con testimonianze libere e sentite ha avuto inizio con una relazione di Fabrizio Somma. Il presidente dell’UPT lavora e collabora da ormai 28 anni con le varie istituzioni della Comunità Nazionale Italiana. Secondo lui, le Comunità degli Italiani sono indispensabili per la tutela e la promozione della cultura italiana.

Maurizio Tremul si è soffermato sull’italianità odierna e quella dell’esodo. “Oggi è più facile parlare di italianità in Istria che dieci o vent’anni fa. Per rimanere italiani bisognava andare via e si diventava esuli. I rimasti invece hanno accettato una nuova nazionalità. Ma una cosa che univa gli esuli ai rimasti era il fatto che sia gli uni che gli altri divennero stranieri. I primi perché non vennero accolti dalla loro nazione madre come avrebbero dovuto essere, e i secondi perché la loro terra venne occupata da stranieri. Ma se tutti se ne fossero andati dal proprio Paese natale, oggi non ci sarebbero più italiani in queste terre. Essere italiani oggi significa dunque operare per mantenere”, ha puntualizzato Tremul, aggiungendo che ormai non esistono più confini tra la Croazia e la Slovenia. “Ora bisogna abbattere quelli mentali”, ha detto ancora.

 Al numeroso pubblico si è rivolto anche Lino Vivoda, esule in Liguria, che ha condiviso con i presenti le proprie testimonianze di profugo. Nativo di Pola, il direttore del periodico “Istria Europa” ha fatto parte del convoglio partito da Ancona nel ‘47. “Una volta raggiunta l’Italia, gli istriani si erano sentiti male, e quell’Italia che per loro rappresentava l’unica speranza, invece che madre era diventata matrigna. Nonostante ciò, sono rimasti sempre italiani e di ciò vanno fieri”, ha ricordato commosso Vivoda.

Storie struggenti

A raccontare la propria esperienza anche Arianna Braico, presidente della Comunità degli Italiani di Momiano. Essendo molto giovane all’epoca dell’esodo, non lo ha vissuto in prima persona ma dopo essersi iscritta all’Università degli Studi di Trieste è stata trattata male e la sua esperienza non è stata per niente gradevole. Spesso si è sentita una studentessa di categoria B e i professori la chiamavano “croata”, seppur avesse più volte fatto notare loro di essere italiana. “Un italiano d’Istria – ha detto – subiva un trattamento diverso”. Oggi Arianna Braico si dichiara pertanto istriana di nazionalità italiana.

“La patria è una cosa e chi la gestisce, ovvero il governo, è un’altra”, è intervenuto brevemente Antonio Martelli, portavoce dell’Associazione “Trieste Pro Patria”, illustrandone l’attività. È stata poi la volta di Emanuele Merlino del Comitato 10 febbraio di Roma. L’Associazione, nata dopo la scomparsa di Cristian Pertan, si occupa della storia del ricordo, delle vittime delle foibe, di valorizzazione dell’identità e della tutela dei valori umani, morali e territoriali che rappresentano la nazione italiana.

Sabato sera si è parlato tanto anche di Simone Cristicchi e del suo spettacolo “Magazzino 18” che ha riempito le sale e i teatri dell’Istria. Secondo Antonio Ballarin, presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia nonché figlio di profughi, l’italianità è l’appartenenza a un patrimonio storico, è l’amore viscerale per la propria terra. “La storia va raccontata e vanno rispettate le componenti culturali del territorio. Grazie al popolo dell’esodo la memoria viene raccontata”, ha detto. Si sono rivolti ai presenti anche Alessandro Altini, dell’Associazione Culturale Cristian Pertan, lo storico Denis Visintin e Franco Biloslavo, segretario della Comunità degli Italiani di Piemonte d’Istria. L’idea comune è stata rappresentata dal fatto che la cultura e l’identità italiana in Istria sono uniche e come tali vanno mantenute e salvaguardate. Il professore e sociologo Massimiliano Rovatti, anch’egli presente al Convegno e il quale si occupa di ricerche sociologiche dei confini, ha sottolineato l’importanza degli studi sull’identità nel territorio istriano. Il laboratorio sull’italianità si è concluso con l’esposizione dello storico Giuseppe Parlato che ha ribadito la differenza tra gli esseri umani e gli animali. “Le persone hanno la capacità di raccontare la propria storia e la storicizzazione nasce dalla coscienza della propria identità. Se esistono delle identità poco chiare, il dialogo non avviene” è stato precisato infine.

Angolo sportivo

A moderare la serata, Manoel Bibalo e Gabriele Bosazzi, figlio di esuli rovignesi. I due hanno spiegato che l’idea del Convegno, nato con l’intento di portare il discorso dell’italianità in Istria dopo l’abbattimento dei confini, è dovuta anche al campione olimpico e nostro connazionale Giovanni Cernogoraz.
Ieri, seconda giornata dell’evento, si è tenuto al poligono di Cittanova un torneo di tiro al piattello con dimostrazione di Cernogoraz.





170 – La Voce del Popolo 10/04/14 «Magazzino 18» a Rovigno un altro pienone annunciato

«Magazzino 18» a Rovigno un altro pienone annunciato

Scritto da Sandro Petruz
 
Riparte il tour istriano del celebre spettacolo “Magazzino 18” di Simone Cristicchi, che non poteva saltare una tappa importante come quella della Città di Rovigno, come confermano gli oltre 270 biglietti distribuiti per la serata allestita al Teatro “Antonio Gandusio”. Il cantautore romano si è esibito davanti a una sala gremita fino all’ultimo posto e alla presenza della vicepresidente della Regione Istriana Viviana Benussi, del sindaco e deputato Giovanni Sponza, dei vicesindaci Marino Budicin e William Uljanić, del presidente della CI “Pino Budicin”, Gianclaudio Pellizzer, del presidente dell’UPT, Fabrizio Somma, del presidente dell’associazione degli esuli rovignesi “Famìa ruvigni∫a” Francesco Zuliani e di numerosi altri rappresentani di spicco della CNI e della Città di Rovigno, nonché di numerosi esuli e membri delle Comunità di tutta l’Istria.

Sul palco del “Gandusio” Cristicchi ha di nuovo indossato i panni di Duilio Persichetti, al quale viene dato il compito di archiviare le masserizie degli esuli ancora conservate al Magazzino n. 18 del Porto Vecchio di Trieste. Sedie, armadi, pianoforti, utensili da cucina, giocattoli, ritratti e tant’altro custodito nel magazzino, che rappresentano le lacrime e le sofferenze del dramma che gli esuli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia hanno dovuto affrontare.
Durante la serata, Cristicchi attraverso i personaggi che interpreta nelle due ore del suo spettacolare monologo riesce a portare sul palco tutta la sofferenza che gli esuli hanno subito in quel buio periodo storico. “Magazzino 18”, che si avvale della collaborazione ai testi di Jan Bernas e dell’impeccabile regia di Antonio Calenda, è stato apprezzato dal pubblico rovignese con uno scrosciante e sentito applauso finale. Un’opera che sicuramente farà ancora parlare di sè e che è riuscita a riportare in auge e far conoscere al pubblico italiano ma anche a quello croato e sloveno una pagina di storia dei propri Paesi, che per troppi anni è rimasta in disparte. Alla fine dello spettacolo due alunne della Scuola Elementare Italiana “Bernardo Benussi” hanno omaggiato l’artista con un dono floreale a nome della Comunità degli Italiani di Rovigno “Pino Budicin”.
Un copione scritto osservando da vicino le sensazioni che regala
la Terra istriana

Prima dell’inizio dello spettacolo siamo riusciti a scambiare due battute con l’artista romano, che ha raccontato di avere visitato Rovigno per la prima volta l’estate scorsa come turista, scoprendo il centro storico, il Canale di Leme, l’isola di Santa Caterina e le deliziose specialità dei ristoranti locali, che portano ancora avanti la tradizionale cucina italiana di Rovigno.
Il cantautore ha ricordato di avere scritto “Magazzino 18” prendendo spunto e osservando attentamente le varie località dell’Istria per scoprire da vicino quali sono le sensazioni che questa terra regala.
“Ritornare a distanza di un anno a Rovigno nei panni di attore di teatro con uno spettacolo pensato e dedicato a questa terra è un’emozione veramente incredibile” ha dichiarato Cristicchi, aggiungendo che in quest’opera ci sono diversi legami con la città di Rovigno. Partendo dal grande Piero Soffici, con la canzone “Curiva zèi par el mondo”, che il cantautore ha confessato di aver adattato perché con tutta la buona volontà non è riuscito a imparare la “faviela” rovignese, e con la poesia “No dimentichemo”, di un altro grande della storia di Rovigno, il poeta Bepi Nider.




171 - Secolo d'Italia 30/03/14 Cristicchi ricorda l’eroe “scomodo” della strage di Pola provocata dai comunisti di Tito
Cristicchi ricorda l’eroe “scomodo” della strage di Pola provocata dai comunisti di Tito

Il commento di Francesco Signoretta

Un’immagine ingiallita dal tempo. E una scritta: «Il dott. Geppino Micheletti in una rara foto presta i primi soccorsi in strada, dopo lo scoppio sulla spiaggia di Vergarola (18 agosto 1946). Salverà tantissime vite. Un eroe sconosciuto». Simone Cristicchi rilegge un’altra terribile pagina di storia, di quelle che è difficile trovare sui libri di scuola perché scomoda. Siamo nell’agosto del 1946. Sulla spiaggia di Pola esplose un deposito di materiale bellico e morirono almeno ottanta persone. In quel momento, l’Istria era rivendicata dalla Jugoslavia di Tito, che l’aveva occupata da almeno un anno. Pola invece era in mano alle truppe britanniche e quindi non veniva controllata dagli slavi.  Gli italiani erano i nemici, i fascisti da cacciare, da perseguitare.

La spiaggia era gremita di bagnanti, tra i quali molti bambini. Ai bordi dell’arenile erano state accatastate ventotto mine antisbarco – per un totale di circa nove tonnellate di esplosivo – ritenute inerti perché erano stati tolti i detonatori. Alle 14,15 l’esplosione delle mine provocò una strage. Alcune persone rimasero schiacciate dal crollo dell’edificio della “Pietas Julia”.  I soccorsi furono complessi e caotici, anche per il fatto che alcune persone furono letteralmente “disintegrate”. Nell’opera di assistenza medica si distinse in particolar modo proprio il dottor Geppino Micheletti che – nonostante avesse perso nell’esplosione i figli Carlo e Renzo, di 9 e 6 anni – per più di ventiquattr’ore consecutive non lasciò il suo posto di lavoro. Ma di quest’uomo, di questo eroe, non parla mai nessuno, un silenzio che dura da decenni. Perché allora – come accaduto in seguito per tanti episodi in cui c’erano responsabilità politiche ben precise, “rosse” – si tentò di dare la colpa agli altri. Era fin troppo chiaro che la strage di Vergarolla fosse un attentato organizzato da chi aveva interesse a mandar via la popolazione di lingua italiana dalla maggiore città istriana, e cioè i comunisti di Tito. Ma non si doveva dire. L’Unità ne diede notizia dopo i funerali. Il titolo: «Gli angloamericani responsabili della strage di Pola». La tesi del quotidiano dell’allora Pci era che era stata una disgrazia, dovuta all’incuria degli angloamericani. La stessa Unità, in quelle settimane, conduceva una campagna di stampa in difesa degli interessi jugoslavi nella regione, contro «i servi del fascismo e dell’Italia fascista». Ora quella pagina di storia, una ferita dolorosissima per il popolo italiano, è stata ricordata di nuovo da lui, da Cristicchi, che – tra le aggressioni dell’estrema sinistra – ha avuto il grande merito di riparlare delle foibe e dell’esodo istriano grazie allo spettacolo Magazzino 18. E basta leggere uno dei tanti commenti, postati sotto l’immagine di Geppino Micheletti, il dottore, l’eroe: «È una delle storie più toccanti… non so quante persone al posto suo avrebbero avuto una simile forza. Grazie per aver pubblicato la sua foto, ora so che volto ha questo immenso eroe, il cui ricordo resterà indelebile nella mia memoria per il resto della mia vita».





172 - Avvenire 01/04/14 Goli Otok, a teatro la ferocia dei gulag di Tito
Goli Otok, a teatro la ferocia dei gulag di Tito


D​al 1949 al 1955 sono stati oltre 30.000 i deportati nei campi di concentramento di Goli Otok e del vicino arcipelago di Arbe, in Croazia. Di questi, 4.000 non sono più tornati a casa (i corpi sono stati ammassati in fosse comuni) e molti di quelli che l’hanno potuto fare si sono tolti la vita o sono impazziti. Comunisti perseguitati da comunisti, sottoposti ad atroci torture e a raffinati "lavaggi del cervello" finalizzati a un ravvedimento dimostrabile solo rendendosi carnefici o delatori dei propri compagni di prigionia. Si trattava soprattutto di partigiani, ex combattenti della guerra di Spagna, dirigenti e militanti del partito comunista jugoslavo rimasti fedeli a Stalin dopo lo "strappo" titino da Mosca del giugno 1948, "traditori" che avendo aderito al Cominform (l’Internazionale dei Paesi filosovietici) dovevano essere "rieducati" in un gulag per capire dove sorgesse davvero il "Sol dell’avvenir": non all’ombra del Cremlino, cioè, ma sotto la guida del maresciallo Tito.
Goli Otok, l’Isola Calva in cui la gelida bora e il sole cocente hanno pelato nei secoli le chiome di un colle svelandone tutta la sua aridità, è stato un lager tra i più terribili della storia, dove la ferocia degli aguzzini è stata uguale a quella nazista. Quattordici baracche, brande nella sporcizia, dodici ore di lavoro al giorno nella cava di pietra o in officina, quattro fagioli quattro dentro la gamella, acqua poca o niente, umilizioni tante, condite da sputi, calci, sevizie e la condanna finale al disprezzo collettivo. E ancora bastonate a chi si lamentasse, botte fino a morirne.

Tra i prigionieri che sopravvissero a quell’inferno senza piegarsi mai, un antifascista fiumano, Aldo Juretich, uno dei pochi a voler raccontare, anni dopo, l’agghiacciante esperienza nel gulag durata 22 mesi. «Perché, in casi come questi, il testimone vive un conflitto interiore lancinante, tra il dovere di far conoscere agli altri quella orribile realtà e la consapevolezza che ciò è destinato a trasformarsi in incubi spaventosi come quelli che hanno tormentato il sonno di Aldo per quarant’anni» spiega Renato Sarti, il drammaturgo triestino fondatore del Teatro della Cooperativa di Milano che ha raccolto la storia dell’ex deportato traducendola in un testo teatrale (vedi box).
«Sapevo che viveva a Monza e lo cercai dopo aver letto Goli Otok (il libro del giornalista istriano Giacomo Scotti che descrive la barbarie del gulag titino, ndr) nel quale si parlava di lui: raccontava cose che mi sconvolsero e che quasi nessuno sapeva» ricorda Sarti. E così i due, dopo essersi incontrati, divennero molto amici. «No, di più – precisa l’autore della piéce –, perché Aldo è stato per me come un padre adottivo, mi ha insegnato il rigore etico, il vero valore della libertà e della giustizia, la fede nelle capacità umane e persino l’ironia che pesca nel profondo dell’animo: era (è morto nel 2011, ndr) un uomo di grande cultura, amava Dante, conosceva a memoria passi della Divina Commedia e dell’Eneide, citava il Cyrano di Rostand, cantava brani della Traviata... Ma aveva come un’ossessione, temeva cioè che la sua sofferenza a Goli Otok fosse stata inutile e che altri, in futuro, avrebbero potuto vivere una simile condizione di disumanità». È proprio per questo che Sarti ha deciso di scrivere un’opera teatrale sull’"isola dei dannati" tramutandola però, nel sottotitolo, in un’"isola della libertà": «Perché Juretich è l’emblema di una speranza contro la ferocia di cui è capace l’uomo, anche se, beninteso, con questo testo non vogliamo santificarlo...». Nemmeno di fronte alle macerie del comunismo la dignità di Juretich è stata spezzata. Riassumeva così la sua grande delusione per un’ideologia travolta dalla Storia: «Abbiamo vinto una volta sola nella nostra vita, quando ci hanno messo in galera».  

Anche il regista e attore Elio De Capitani, direttore artistico dell’Elfo-Puccini di Milano, si è gettato a capofitto nel progetto del quale cura, insieme con Sarti, produzione, regia e interpretazione. Sarà lui, infatti, a dare voce e corpo sul palcoscenico alle sofferenze e al grido di libertà di Aldo: «Un’adesione totale, la mia – commenta – perché sin dall’inizio di questa avventura teatrale, magicamente, non ho mai guardato il copione, è accaduto tutto senza diaframmi come fosse un miracolo della parola: merito di Aldo che ha saputo raccontarsi facendo trasparire l’anima, ma c’è qualcosa di misterioso in questo, come un parallelismo con il "Verbo che si è fatto carne"...».

Non è, insomma, teatro e basta. «Stavolta non indosso l’anima del personaggio, mi sembra di averlo davanti mentre mi sollecita stravolgimenti interiori: mi emozionano, mi sollevano la sua grandiosa dignità – conclude De Capitani – e le cinque o sei note della musica di Carlo Boccadoro che distilla la storia, che mi entrano dentro dandomi l’energia necessaria a sostenere la "parte"». Ma la chiave di tutto sta, forse, nel finale struggente, quando Aldo, parlando con un ex compagno di prigionia gli dice, guadando fuori dalla finestra: «Ecco, vedi, ci hanno tolto tutto, ma quel meraviglioso tramonto nessuno ce lo potrà levare mai».  
 
Fulvio Fulvi




173 – La Voce del Popolo 01/04/14  "Endrigo '47" - Partirà, la nave partirà, dove arriverà, questo non si sa...  
Partirà, la nave partirà, dove arriverà, questo non si sa...

Scritto da Gianfranco Miksa

È un documentario che racconta la vicenda umana e artistica del cantautore Sergio Endrigo, dall’infanzia trascorsa a Pola all’esodo nel 1947. Parla di Pola, della sua musica, dell’amicizia che lo legava al collega croato Arsen Dedić. Un autore, Endrigo, che seppure lontano dalla sua città natia, non è stato mai dimenticato dai polesi né dagli istriani, tanto che gli hanno voluto rendere il giusto omaggio con la pubblicazione del doppio CD “Hommage a Sergio Endrigo 1947”, con il sostegno della locale Comunità degli Italiani.

È un documentario dedicato ad Endrigo, in cui si parla di lui e dell’esodo, qui visto come una ferita ancor sempre aperta, insanabile nella struttura della città dell’Arena. “Endrigo ’47”, di Ines Pletikos, è stato di recente proposto sulla prima rete della Radiotelevisione croata (HRT), ma avava “debuttato” qualche mese fa in occasione dell’entrata della Croazia nell’Unione Europea, proprio mentre sul primo canale dell’HRT andava in onda la cerimonia dell’adesione.

Come spiega l’autrice stessa – che abbiamo raggiunto mentre è alle prese, al Teatro Popolare Istriano, con lo spettacolo “Blak”, su testo di Milan Rakovac, storia d’amore tra due giovani a Pola nel 1947, con una ricostruzione degli eventi storici fatta attraverso il protagonista principale dell’opera, ricoverato al reparto psichiatrico dell’ospedale polese –, a causa della coincidenza con la festa europea, il lavoro è stato visto da pochissimi spettatori, ecco perché la recente replica è stata vissuta come una seconda prima, che ha avuto un successo maggiore.

Crème de la crème dell’Istria musicale

“Tutto ebbe inizio circa un anno fa – esordisce l’autrice alla domanda di com’è nato il progetto “Endrigo ’47” –. Sono stata avvicinata dal redattore in pensione dell’HRT, Silvije Hum, che possedeva immagini di repertorio dell’ultima visita di Sergio Endrigo all’amico Arsen Dedić nella primavera del 2005. Mi raccontò del suo desiderio di fare un film su Endrigo. Gli avevano parlato di me come di un’apppassionata di Endrigo e dopo diverse settimane di preparazione decise di affidarmi il progetto. Hum aveva in mente di realizzare una piccola trasmissione nostalgica, costruita sui ricordi di Dedić e corredata da immagini d’archivio. Io non mi trovai d’accordo con tale impostazione e riuscii a convincerlo dell’importanza del contesto politico dell’intera storia. Poi anche gli autori e produttori del progetto musicale ‘Hommage a Sergio Endrigo 1947’, Edi Cukerić e Mauricio Ferlin, accolsero l’invito a partecipare al film e in breve tempo misero in piedi un concerto nell’ambito del Forum Tomizza a Capodistria, invitando i musicisti del progetto, che sono poi stati ripresi per il documentario. L’iniziativa ha visto l’adesione di Massimo Savić, Danijel Načinović, Bojan Šumonja, Franko Krajcar, Livio Morosin, Dario Marušić, Tamara Obrovac e di tanti altri musicisti istriani”.

Un ipotetico incontro

Oltre a loro il documentario vede pure la partecipazione dello scrittore e giornalista Milan Rakovac.

“Infatti, tra i tanti artisti figura pure Milan Rakovac, che ha scritto appositamente per il corto la poesia ‘Endrigo Blues’, poi messa in musica da Tamara Obrovac e Uroš Rakovec. È una canzone che parla di un ipotetico incontro tra due autobus nel ’47: uno parte da Pola e l’altro arriva in città. In uno vi è il piccolo Sergio con la madre e il fratello, nell’altro si trova Milan, anche lui con la madre e il fratello, entrambi però senza i padri e nonni. Uno lascia la sua città natale, per approdare chissà in quali lidi. L’altro lascia il proprio villaggio e arriva in una città fantasma desolata e demolita dalla guerra, una nuova civiltà. Ci si chiede chi siano i vincitori e chi i vinti”.

Universo incontaminato

Parte del documentario è incentrata sull’amicizia intercorsa tra il cantante croato Arsen Dedić e Sergio Endrigo.

“Arsen Dedić ha insistito tanto al fine di preservare il loro universo incontaminato. Un mondo che ha generato e mantenuto la loro profonda amicizia, nonostante l’abisso dovuto alla tormentata storia del territorio. Arsen gli ha scritto nel 1970 la canzone ‘Kud plovi ovaj brod’ (Dove va questa nave), musicata da Esad Arnautalić. La nave della canzone è il piroscafo ‘Toscana’ con il quale gli esuli partivano da Pola verso l’ignoto. Proprio a causa dell’amicizia con Arsen, Sergio frequentava la Croazia. Ed è stato proprio Arsen e riportarlo per la prima volta a Pola, città che ovviamente non era la Pola della sua infanzia. Pola con l’esodo si è svuotata e nella nostra memoria collettiva si è verificato un vuoto che si va estendendo tanto più quanto ci immergiamo nel nostro inconscio collettivo. La vita dei nostri concittadini è inseparabile dalla nostra. Ciò è stato bene espresso da Cukerić e Ferlin che lavorando sul progetto ‘47 hanno affermato di percepire Endrigo come un loro parente”.

Ha avuto delle difficoltà nel realizzare il documentario in quanto parla apertamente dell’esodo, un argomento che in certi ambienti della Croazia è ancor sempre vissuto con una certa riluttanza?

“Ci sono state delle difficoltà dovute soprattutto all’ottenimento dei diritti per i filmati dell’esodo da Pola risalenti al 1947, e che sono conservati all’Archivio della Cineteca italiana ‘Istituto Luce’. Quale autrice del lavoro, ho insistito perché questi siano parte del corpo del film, altrimenti non ha senso nemmeno aprire l’argomento. Presentare gli originali filmati dell’epoca era l’unico possibile approccio documentaristico all’intera storia”.

Precedentemente ha realizzato un altro cortometraggio su un altro grande compositore di Pola, Antonio Smareglia?

“Quando si ascoltano le sue opere, in particolare ‘Oceàna’, ‘Abisso’ e ‘La Falena’, realizzate in collaborazione con il librettista, poeta e giornalista Silvio Benco, e caratterizzate da un suono sensuale, sinfonico e denso, è difficile non chiedersi chi sia l’autore di queste musiche, quando sono state composte e in quale contesto. Ogni nuova informazione su Smareglia ha rappresentato per me una scoperta affascinante. Nonostante sia nata a Pola, dove ho frequentato la scuola di musica, e possiedo una buona infarinatura relativa a questioni culturali, sia a livello globale e locale, fino a poco tempo fa non possedevo alcuna nozione del compositore Antonio Smareglia. La mia ignoranza mi ha particolarmente sorpreso costringendomi a prendere la giuste misure. In questo modo è nato il documentario su Smareglia”.




174 - Il Piccolo 06/04/14 Gorizia: Storico abbraccio tra Mandic e Pamich
L’ex deportato e l’amico d’infanzia protagonisti al Rotary, che ha consegnato 41mila dollari al Centro disabili di Fiume

Storico abbraccio tra Mandic e Pamich

di Alex Pessotto

Quando lasciò, alle sue spalle, quel monito che della più bieca storia fa parte (“Arbeit meicht frei”, “il lavoro rende liberi”) Oleg Mandic, con tutta probabilità non poteva sapere che, un giorno, di quella storia sarebbe stato testimone prezioso. La sua, infatti, è la storia dell’ultimo a uscire vivo da Auschwitz, la storia di un 11enne che si trovò nel reparto del dottor Mengele. Storia raccontata ieri, al pubblico della sede goriziana dell’università di Trieste. Che ha fatto il paio con un’altra, preziosa testimonianza. Quella di Giovanni Pamich, a lungo primario chirurgo a Gorizia e Monfalcone. Che, assieme al fratello Abdon, olimpionico nella marcia - ieri impossibilitato a essere presente - nel ’47 compie una rocambolesca fuga da una Fiume ormai titina per seguire il padre prima a Trieste, per lavoro, e dopo a Milano: ma da Fiume a Trieste per i fratelli Pamich è un viaggio da romanzo per non parlare dei successivi trasferimenti:
sì Milano ma anche Udine e Novara, rifugiandosi in campi profughi. Al di là delle loro storie va detto che i fratelli Pamich, assieme a Oleg, da bambini giocavano assieme. La storia li ha divisi, poi voluti assieme. Ma è grazie al Rotary, in particolare, se si son ritrovati. Per un abbraccio, ma, soprattutto, per portare la loro testimonianza. Che ha il sapore di un invito, specie per i più giovani, a non arrendersi mai, come ha sottolineato il giornalista Roberto Covaz nel presentarli, ieri, con molti studenti fra il pubblico. E sempre il Rotary club Gorizia, con a capo Bruno Augusto Pinat (gli subentrerà Roberto Collini), ha raccolto, rivolgendosi anche ad altri Rotary club del Nord-Est, e consegnato un service di oltre 41mila dollari a favore del Centro di assistenza a persone colpite da disabilità gravi situato a Fortica, Kraljevica, nei pressi di Fiume. Davvero un’iniziativa lodevole. Al punto che vi hanno preso parte, fra gli altri, l’arcivescovo Redaelli, il sindaco Romoli, il rettore dell’ateneo triestino Fermeglia, il presidente dell’Unione Italiani Istria e Dalmazia, Maurizio Tremul, il generale di corpo d’armata Luigi Federici, il parlamentare europeo e presidente della Commissione agricoltura, Paolo De Castro, nonché la governatrice Debora Serracchiani. Quest’ultima, collegando l’incontro
all’attualità: «Così com’è l’Europa non va bene, certo - ha detto -. Ma una forza d’animo va ritrovata. E dobbiamo eleggere al Parlamento europeo chi l’Europa la vuole cambiare ma la rispetta. Io non potrei pensare a tornare in un’Europa con muri e barriere».




175 - La Voce del Popolo 04/04/14 Rovigno: quando la città era un'isola
Rovigno: quando la città era un’isola

Lo storico Marino Budicin, che detiene la carica di vicesindaco e di vicepresidente del sodalizio rovignese, ha dato vita nella CI a un fantastico e interessante viaggio nella storia del centro storico rovignese.
La conferenza, dal titolo “Lo sviluppo urbano di Rovigno con particolare riguardo alla topografia della piazza della Riva”, ha attirato un numeroso pubblico di tutte le età, tra alunni, studenti e pensionati, ma anche guide turistiche che hanno colto l’occasione per approfondire le proprie conoscenze in merito all’affascinante storia della città di Santa Eufemia, che fino al 1763 è stata un’isola. Marino Budicin, ricercatore e vicepresidente del CRS, durante la presentazione si è avvalso di numerosi disegni, schizzi e cartoline d’epoca, per presentare al meglio l’evoluzione urbana di una della città più particolari al mondo, evidenziando che il centro storico rovignese è uno degli esempi più rappresentativi dello spazio antropico istriano, che rivela una chiara matrice storico-sociale popolana in funzione abitativa. Lo storico ha sottolineato che il centro rovignese, nonostante presenti inconfondibili tratti e modelli edilizi e artistico-architettonici veneziani, a causa della particolare conformazione geologica, non ha potuto sviluppare appieno la tipica tipologia dell’ordito urbano veneto-veneziano, che vede la platea magna (communis) coronata dalle sedi pubblico-istituzionali più importanti.


Piazza della Riva

La piazza della Riva, che portò anche il nome di Vittorio Emanuele, oggi piazza Tito, è stata presentata edificio per edificio e nella sua evoluzione del tempo grazie ad alcuni disegni di Rocco Venerandi, che si custodiscono presso l’Archivio di Stato di Venezia, agli schizzi rovignesi dell’architetto triestino Pietro Nobile del 1815, custoditi dall’Archivio di Stato di Fiume e alla documentazione del segretario comunale Giuseppe Gaetano Natorre, che a metà Ottocento disegnò le antichità urbane rovignese, comprese quelle della piazza della Riva.
Il relatore ne ha illustrato le evoluzioni partendo dall’Arco di Balbi, che in realtà fu eretto dal podestà Bernardo Barbaro nel 1678-79, poi modificato dalla famiglia Balbi. Sulla sinistra dell’Arco che porta al centro storico si ergeva Palazzo Pretorio, il cui pianoterra venne riadattato nel 1891 per l’apertura del “Caffè del Muncipio” e dove l’8 dicembre del 1913 venne inaugurato l’albergo “Adriatico”, tutt’oggi in funzione. Nel 1756 a fianco dell’Arco dei Balbi è disegnato l’edificio del “Granaio”, eretto nel 1680 dal podestà Daniele Balbi nell’area a ridosso delle mura riservata fino allora alla cosiddetta “berlina”. Nel 1772 questo edificio divenne sede del Monte di pietà e la lapide che ricordava l’erezione del granaio venne sistemata sulla nuova trabeazione dell’Arco dei balbi.
Dall’altra parte della piazza prevale l’edilizia abitativa; nell’edificio centrale agli inizi del secolo XX la famiglia Ghira aprì l’omonimo caffè (oggi “Viecia batana”). Nell’angolo sud-est della piazza si trovavano l’edificio che ospitava un forno privato e la sede dei piloti rovignesi, nonché quello delle cosiddette “beccarie pubbliche” (carceri), che con la sua loggia si apriva verso la piazza. Nel 1857 il vecchio Corpo di guardia fu rifabbricato ad uso di caffè commerciale e in quell’epoca venne eretta la Torre dell’orologio, ricostruita nel 1907, quando vi venne murato il leone che fino al 1843 si trovava sopra l’architrave del Porton del ponte.

Gli stendardi marciani

Grazie agli schizzi è possibile vedere una delle strutture più interessanti che si ergevano al centro della piazza, dove oggi è presente una fontana:
sono gli stendardi pubblici, con il pilo centrale e le 2 colonne marciane con S. Eufemia e il Leone di S. Marco. In base allo stemma posizionato sul pilo centrale la loro costruzione è attribuibile al podestà Francesco Baffo, tra il 1592 e il 1593. Rovigno e Canea (Creta) sono gli unici centri della Serenissima a poter vantare 2 colonne marciane, al pari di Venezia. Con la caduta della Repubblica marinara, il leone marciano fu scambiato con una statua raffigurante San Giorgio, il compatrono di Rovigno.

La Torre del Porton del ponte

Durante la conferenza il relatore ha spiegato che a partire dalla metà del XVII secolo e soprattutto con lo sviluppo dell’abitato sulla terraferma, l’ampia area tra la cinta muraria cittadina e l’antemurale sul canale che divide l’isola della terraferma assunse sempre maggiore rilevanza. In base agli scritti dello storico Bernardo Benussi, l’antemurale sul canale venne eretto nel XII secolo e presentava al centro la Torre del Porton del ponte, alla quale si aveva accesso attraverso un ponte oltre il canale. Il disegno del 1756 riporta l’unica raffigurazione conosciuta del ponte, che in origine era levatoio e che poi venne costruito in pietra, sostenuto da due archi.
Dagli scavi realizzati in piazza del Ponte nel 1998 è emerso che la sua lunghezza era di circa 8 metri o 4 “passi” veneziani. Inoltre, durante gli scavi sono venuti alla luce i resti della tomba di Nicolò Calucci, cavaliere di S. Marco, morto nel 1622, che erano custoditi nella chiesa del SS.mo Salvatore, che si ergeva a fianco della Torre.

Un patrimonio da salvaguardare

Il vicesindaco ha concluso l’affascinante relazione ricordando che piazza della Riva è il risultato di corsi storici e di una sedimentazione urbana tanto particolari quanto ricchi, complessi e interessanti, che l’hanno plasmata gradualmente quale punto nevralgico e di confluenza più importante dell’abitato rovignese. “Un patrimonio che abbiamo ricevuto in eredità, che presenta testimonianze storico-architettoniche ancora in situ e che ha dietro di sé una splendida storia da salvaguardare”, ha concluso lo storico.
Il pubblico ha ringraziato il relatore per l’affascinante esposizione con un lunghissimo applauso, mentre il presidente della CI, Gianclaudio Pellizzer, ha annunciato che presto verrà organizzato un giro turistico della città; a far da cicerone sarà il professor Marino Budicin.

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176 - Il Piccolo 06/04/14 Lettere - Al Magazzino 18 ho compreso il dramma dei miei genitori
Al Magazzino 18 ho compreso il dramma dei miei genitori

LA LETTERA DEL GIORNO

Invio copia della lettera con cui ho ringraziato Piero Delbello per la generosa dedizione con cui si prodiga e per come ci ha illustrato e fatto rivivere le persone (e la “roba”) che lì, nel Porto Vecchio di Trieste, hanno lasciato tutto. Per la prima volta, nei miei settant’anni di vita, ho avuto la consapevolezza di cosa abbiano patito i miei genitori in quei terribili giorni. È stato davvero commovente! Dal giorno della visita al Magazzino 18, penso ai miei genitori con un altro sentimento ed interpreto in un modo del tutto nuovo i loro repentini cambi di umore, la loro improvvisa irritabilità e la loro frustrazione. Insomma, ho finalmente capito le loro difficoltà ad accettare la loro nuova vita. Per tutto ciò e per la persona nuova in cui mi riconosco dopo quell’evento, voglio esprimere un profondo ringraziamento a Delbello, all’Irci e a quanti contribuiscono a sostenerli e a farli conoscere, compreso il Piccolo. «Caro dottor Delbello, mercoledì 19 marzo, tre settimane fa, sono venuta a visitare il Magazzino 18. Verso la conclusione della visita, ci ha invitati a porre la firma sul registro dei visitatori e, qualora lo avessimo desiderato, una frase, una riflessione... Non sono riuscita a scrivere nulla: le emozioni, quella folla di foto ingiallite così vive e presenti, i ricordi personali e le sue parole cariche di dolorosa memoria, mi hanno ammutolita. Mai ho vissuto così intensamente l’evento che ha sconvolto la vita dei miei genitori, nonni e zii. Partiti di notte in pieno inverno con un treno che, dopo pochi chilometri da Pola, si fermò perché erano saltati i binari; con una bambina di due anni in braccio e uno di sei per mano (i miei cugini) dovettero percorrere molta strada a piedi nella speranza di trovare un altro treno che li portasse lontano dalla propria terra, verso un futuro ignoto. Avevo finalmente chiare quelle tragiche difficoltà che i miei genitori mai vollero ricordare e raccontare: dallo strazio dovuto al coatto abbandono della terra natia, alla lunga solitudine e alla disperazione che ne derivò, perché qui, nel Veneto, all’inizio erano ed eravamo fardelli ingombranti da nascondere, fantasmi senza diritti e senza futuro, infine profughi dalle “numerose colpe”. Le scrivo tutto questo, perché nei giorni che sono seguiti a quel 19 marzo, mi sono chiesta, durante qualche notte insonne, come faccia lei a rivivere e rinnovare il ricordo di tanto dolore. Perché dalle sue parole e dagli accenni alla sua infanzia, così dura e difficile, questo dolore mi è sembrato troppo pesante da sopportare e perpetuare. Il compito, la missione, che si è assunto è ammirevole e degno di grande stima, ma mi permetta di aggiungere che i suoi cinquantatre anni (l’età di mio genero) dovrebbero essere rischiarati anche da un nuovo raggio di sole, dal profumo di questa primavera precoce colma di colori e di interessanti promesse... La saluto con sincero affetto.»

Loretta Lucci
Venezia




177 -  Il Piccolo 03/04/14 L'accento del ministro che recide i legami con la terra d'origine
L’accento del ministro che recide i legami con la terra d’origine

 Il responsabile del dicastero dell’Economia accetta di essere chiamato Pàdoan: non viola la legge, ma rinnega etimologia e storia

di MICHELE CORTELLAZZO

Rainews24, sabato 29 marzo, ore 9. La conduttrice annuncia un servizio sul Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoàn. Parte il servizio, nel quale si parla del Ministro Pier Carlo Pàdoan. Una doppia possibilità di pronuncia del cognome del Ministro dell’Economia che è frequente in questi mesi. Il problemino l’aveva già notato immediatamente l’elefantino del Foglio, cioè l’attento direttore Giuliano Ferrara, al momento della formazione del governo.

Elencando i ministri, ha osservato: «Matteo ha sbagliato l’accento del cognome: Padoàn, non Pàdoan». Con Ferrara stanno Gian Antonio Stella, che ha dedicato al tema un articolo sul «Corriere della Sera» del 12 marzo (con i competenti commenti del Presidente onorario dell’Accademia della Crusca Francesco Sabatini e della dialettologa Maria Teresa Vigolo), Antonio Di Lorenzo, nel «Giornale di Vicenza», io stesso nel blog «Parole» (http://cortmic.myblog.it/) e una miriade di siti e blog che si occupano di questioni linguistiche.

Il punto è, secondo me, di una chiarezza cristallina: i cognomi come Padoan sono cognomi di origine veneta e, in quanto tali, portano l’accento sull’ultima sillaba. Quindi Padoàn. Allo stesso modo, portano l’accento sull’ultima sillaba Padovàn, Trevisàn, Visentìn, Furlàn, Milàn, e poi Padoìn, Bordìn, Lorenzìn, Benettón, Sansón, Stefanèl, e via dicendo.

Che Padoàn sia un cognome di origine veneta, anche se il ministro è nato a Roma da padre torinese, è altrettanto indubbio. Lo dimostra la distribuzione geografica (ricavabile dal sito www.gens.info): all’evidentissimo nucleo veneto si accompagnano due addensamenti a Milano e Torino, secondo una configurazione tipica dei cognomi veneti, legata all’emigrazione interna del secondo dopoguerra, e qualche altra sporadica presenza in giro per la Penisola (ad es. a Roma).

Ma i politici, usi a parlare di cose che non sanno, non sono d’accordo. Il saputello Pippo Civati, ad esempio, ha sostenuto che «Pàdoan è nato in Piemonte quindi si pronuncia ‘Pàdoan’», sbagliando persino la biografia del ministro. A sua volta, il vice-ministro allo Sviluppo economico, Claudio De Vincenti, economista romano, a «Tg3 Linea notte» del 12 marzo, ci ha rassicurati, informandoci, come se fosse un’ovvietà, che il cognome è Pàdoan, aggiungendo, con un sorrisino di supponente superiorità, che quello che aveva scritto Stella quel giorno si riferiva al dialetto.

Spero che il vice-ministro, sia un bravo economista. Ma in linguistica è davvero impreparato e dovrebbe evitare di parlare di lingue, dialetti e pronunce, anche se provocato dai conduttori dei telegiornali. E mi dispiace che a sua volta Maurizio Mannoni, che conduceva la trasmissione, non abbia avuto la curiosità di chiedergli come pronuncia il cognome della ministra della Salute, Beatrice Lorenzin (di padre istriano).
L’affermazione di De Vincenti relativa al dialetto è del tutto inconsistente. Non penso alla convinzione di alcuni che il veneto sia una lingua e non un dialetto: questione nominalistica e oziosa, che non appassiona i linguisti e divide le istituzioni (la Regione Veneto ha una legge per la tutela del patrimonio linguistico, il cui articolo 2 è intitolato «lingua veneta», mentre il Friuli Venezia Giulia ne ha una per la «valorizzazione dei dialetti di origine veneta»).

Penso ad altro, e cioè al fatto che si potrebbe tirar fuori il dialetto a proposito della realizzazione della “n” finale di questi cognomi, che in Veneto è velare (cioè come la “n” di ancora o dell’inglese spelling), ma non a proposito dell’accento. Quello sulla vocale finale è in modo incontrovertibile l’accento etimologico, e ne possiamo essere certi quando pronunciamo le varianti derivate dalla forma plurale (Padovàni, Trevisàni, Furlàni, Milàni), accentate da tutti sulla “a”.

 

E poi, i cognomi possono anche essere di origine regionale, ma non sono più dialettali quando diventano patrimonio dell’anagrafe.

Questa minima vicenda ci apre lo sguardo su alcuni problemi di ordine più generale, legati al policentrismo, linguistico oltre che culturale, del nostro Paese e alla definizione di chi possa essere il “padrone della lingua”.

Nel caso specifico: è lecito cambiare la forma dei cognomi? Se sì, chi è legittimato a farlo? Un tema credo particolarmente sentito in una terra in cui sono stati ortopedizzati con la forza i cognomi che sapevano di esotico (i Vidossich e i Cencig, per capirci) e nella quale è norma socialmente condivisa quella della ritrazione dell’accento nei cognomi di stampo veneto (Crèvatin, Trèvisan).

Detto in altri termini: se, motivazioni sballate a parte, Civati e De Vincenti hanno ragione, e Padoan vuole farsi chiamare con l’accento sulla prima sillaba, ne ha il diritto? Se a un cittadino non piace il suo cognome, o lo ritiene frutto di un errore anagrafico, non può cambiarlo a piacimento, ma deve intraprendere una procedura formale, che riveste carattere eccezionale ed è ammissibile «esclusivamente in presenza di situazioni oggettivamente rilevanti, supportate da adeguata documentazione e da significative motivazioni».

Ma ognuno ritiene di poter spostare come vuole l’accento, per ignoranza o per volontà di nobilitazione, e non c’è bisogno di nessuna procedura, perché non cambiano i documenti anagrafici, che, secondo le norme dell’ortografia italiana, segnano l’accento solo se la parola finisce con una vocale e questa è accentata. Non so cosa spinga il Ministro a farsi chiamare Pàdoan. Forse un’identità onomastica acquisita per rispecchiamento della forma usata dai suoi conterranei romani: un processo necessario, per garantirsi un’accettabilità sociale ed evitare sdoppiamenti di personalità anagrafica (ossitona in famiglia, parossitona nella vita sociale).

Ma il prezzo di questa scelta è quello di recidere i legami con il proprio passato familiare, cancellando le tracce che gli avi lasciano su di noi non solo con i caratteri fisici, ma anche con l’onomastica. Il saldo è positivo? Comunque sia, io preferisco stare dalla parte dell’etimologia e della storia, e continuerò a chiamare il ministro secondo la forma tradizionale Padoàn, come immagino facessero suo nonno e suo bisnonno. Spero che non gli dispiaccia troppo. In caso contrario, renzianamente, me ne farei comunque una ragione.

Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia
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