Rassegna Stampa

 


La Gazeta Istriana  a cura di Stefano Bombardieri, M.Rita Cosliani e Eufemia G.Budicin


anche in internet ai seguenti siti  :
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Marzo 2014 – Num. 43


15 -  La Voce della Famìa Ruvignisa n.178 settembre-ottobre 2013 - Le nostre letture - Recensione del libro di Vivoda "In Istria prima dell'esodo" (Gabriele Bosazzi)
16 - L'Arena di Pola 16/01/14 -  1943: i giorni che sconvolsero la Venezia Giulia (Paolo Radivo)
17 - La Voce del Popolo 04/01/14 E & R -  Da Napoli al Collegio (Sergio Fogar)
18 - L'Arena di Pola 16/01/14 "Un sufion de vita nova": inizia così il 2014! (Tito Lucilio Sidari)
19 - Difesa Adriatica Febbraio 2014 Il Collegio "Niccolo Tommaseo" di Brindisi (1946-1951) (Egone Ratzenberger)
20 - Il Piccolo 03/01/14 Antonio Foscari, così si vive in un gioiello del Palladio (Elisabetta d’Erme)
21 - Corriere della Sera - La Lettura 19/01/14  I crimini dei collaborazionisti croati (Carlo Vulpio)


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15 -  La Voce della Famìa Ruvignisa n.178 settembre-ottobre 2013 - Le nostre letture - Recensione del libro di Vivoda "In Istria prima dell'esodo"

In Istria prima dell’esodo

Lino Vivoda è un esule da Pola noto a tanti istriani per il suo impegno di lunga data nella divulgazione della nostra storia e nel riallacciamento dei rapporti con la terra natìa e con gli italiani rimasti; si tratta anche di un amico della Famìa Ruvignisa, che ha partecipato al nostro ultimo raduno. Il buon Lino è stato per molti anni membro del comitato nazionale dell’ANVGD, fino a divenirne vice presidente, nonché co-fondatore e per alcuni anni sindaco del Libero Comune di Pola in Esilio; durante la sua lunga attività nelle associazioni degli esuli ha scritto sei libri e moltissimi articoli su riviste, narrando il dramma dell’esodo da Pola, la successiva vita dei campi profughi e l’inserimento nella vita italiana del dopoguerra.

Recentemente, il nostro ha dato alle stampe e presentato il suo settimo libro, intitolato “In Istria prima dell’esodo. Autobiografia di un esule da Pola“, un’opera piacevole da leggere, per il suo stile semplice e genuino, nel raccontare le esperienze vissute in prima persona, ma anche nelle parti in cui vengono narrati alcuni fatti storici frutto di ricerche dell’autore.
Il libro si apre proprio in maniera molto intima, con la descrizione dei genitori e dei famigliari più stretti ed affezionati dell’autore con le relative esperienze di vita. Un racconto personale, che però assume molta importanza anche per il lettore estraneo, in quanto tratta esperienze di vita comuni a tanti istriani e che sono estremamente rappresentative della storia contemporanea delle nostre terre.

A partire dai nonni Giovanni Vivoda e Maria Clarich, arrivati a Pola rispettivamente da Sergobani e da Jursania, due paesini dell’Istria interna siti nella zona di Pinguente, per aprirvi delle attività commerciali, quando la città viveva un periodo di prosperità per la presenza dei cantieri navali e della base navale della Marina austro ungarica. Il padre di Lino, Riccardo, era come molti suoi concittadini un operaio dei cantieri di Scoglio Olivi, convinto sostenitore delle idee socialiste, ma buon patriota; le sue idee infatti lo portarono ad esporsi nelle violente dispute tra italiani e filo-slavi nel 1946, a rimuovere la bandiera rossa da una torretta dei cantieri per ripristinarvi il tricolore, cose che gli costarono un’aggressione ed un agguato sventato per poco. Anche la vicenda della zia Fanny (Francesca) testimonia un pezzo di storia interessante: sposatasi con un austriaco residente a Pola, alla fine della Prima Guerra Mondiale lo seguì nel suo rientro in Carinzia, dove entrambi combatterono da volontari nella difesa dei carinziani dalle truppe del nascente stato SHS (futura Jugoslavia) che intendevano occupare ed annettere la regione, resistendo fino all'arrivo delle truppe italiane che ristabilirono l'ordine e permisero lo svolgimento del plebiscito del 1920 che assegnò la Carinzia alla nuova Austria. Dopo i piacevoli capitoli che raccontano di un Vivoda ragazzino vivace, ma soprattutto tracciano un bell'affresco di Pola italiana, inizia una significativa  parte dedicata alla descrizione dei tragici fatti che accompagnarono la seconda guerra mondiale.

Questa fase si apre con il ricordo del porto di Pola completamente gremito di unità da guerra illuminate, il 10 giugno 1940 giorno dell’entrata in guerra dell’Italia, con il papà Riccardo che disse a Lino “Osserva bene, perchè uno spettacolo così non lo rivedrai mi più”; in effetti, nessuno avrebbe più visto il porto di Pola italiana affollato ed illuminato in quel modo. Una delle parti più concitate del racconto è quella che narra i bombardamenti alleati sul capoluogo dell’Istria, particolarmente intensi e ripetuti a partire dal primo del 9 gennaio del '44, fino alla tremenda e distruttiva serie del gennaio-febbraio del '45; ovviamente la causa di tanto accanimento era la presenza della base della Marina Militare, ma come in tutta Italia, tali bombardamenti a tappeto andarono ben oltre il colpire gli obiettivi militari o strategici, finendo per distruggere interi rioni, provocando innumerevoli lutti e lasciando senza casa centinaia di persone. Il racconto di Vivoda rende bene l'idea del clima di paura e di lutto che si respirava in città; dal febbraio del '44 anche i Vivoda si aggiunsero alla lunga lista dei “sinistrati”, in quanto la loro casa, posta all'inizio della via Sergia accanto a Piazza Foro, fu seriamente danneggiata dalle bombe, costringendoli a trasferirsi in altra sistemazione. Nel dopoguerra, la rimozione delle macerie fece emergere dei resti di un'abitazione romana oggi visitata da molti turisti e conosciuta come la “casa di Agrippina”.

Nel luglio del 1944 le autorità decisero lo sfollamento della città, proprio per porre la popolazione al riparo da questi massacri venuti dal cielo; la famiglia Vivoda fu tra le più fortunate, potendosi trasferire a Gallignana presso la casa degli zii di parte materna, evitando così i disagi dei campi di sfollamento, allestiti generalmente in Friuli. Proprio in questo bel paesino istriano si colloca il racconto dei tragici fatti dell’8 settempre del ’43, capitolo che si può aggiungere alle tante preziose testimonianze di quel tragico momento della storia d'Italia; dopo aver visto transitare centinaia di soldati italiani sbandati, malconci ed esausti in ritiro dai Balcani, Lino assistette all'arrivo dei primi partigiani, su una ventina di “minadore”, le corriere usate per il trasposto dei minatori dell'albonese. Un giorno, i partigiani radunarono tutti gli uomini del paese con il pretesto di scavare trincee per difendersi dai tedeschi; in realtà, si trattava di scavare una fossa, sull'orlo della quale furono uccisi e poi sepolti un gruppo di prigionieri, in parte militari tedeschi, in parte civili; la loro sorte fu nascosta per tanto tempo, finché la fossa venne scoperta con il ritrovamento di resti umani appena negli anni novanta. Furono invece riesumate dalla squadra di pompieri del maresciallo Harzarich le salme ritrovate in due cave di Bauxite della zona di Gallignana, poi sepolte in una fossa tra il duomo ed il cimitero di Pisino, cui recentemente ha reso omaggio la Famìa Ruvignisa.

Lino Vivoda racconta il movimentato episodio che lo vide protagonista all'arrivo dei tedeschi a Gallignana: dopo tutto ciò che era successo, con la presa di potere dei partigiani e le vittime che fecero questi ultimi, tutti erano impauriti dalla probabile reazione delle truppe germaniche ed al loro arrivo tanta gente si rifugiò di corsa nella vallata sotto al paese, compreso Vivoda con la mamma e la sorellina neonata. I tedeschi intimarono però di far rientro in paese, dove stava già bruciando una casa in cui era stata trovata una bustina con la stella rossa. Il dodicenne Lino fu separato dalla famiglia e messo con il gruppo di uomini; a quel punto il nostro usò tutta la sua astuzia ed il poco tedesco che conosceva: con una frase azzeccata ad un giovanissimo ufficiale riuscì a farsi rilasciare; gli altri una trentina circa, furono invece portati a Dachau e solo 4 di essi fecero ritorno.

Alla fine della guerra, i partigiani di Tito entrarono a Pola senza trovare resistenza, visto che l’ultima guarnigione della Marina tedesca si trincerò nell'area tra Stoja, Forte Musil e la Fabbrica Cementi, nella speranza di riuscire a resistere all’esercito jugoslavo fino all’eventuale arrivo delle truppe alleate, lasciando ad una sessantina di militi della X Mas il compito di mantenere l'ordine pubblico e presidiare le strutture strategiche, in accordo, sembra, anche con emissari del movimento partigiano; il 29 aprile, prima di questo passaggio di consegne, l'ammiraglio tedesco Georg Waue fece affiggere un manifesto, il cui testo integrale è riportato in questo libro, in cui ringraziava la popolazione e ne lodava il senso civico dimostrato durante l'occupazione e persino scusandosi per le occasioni in cui i tedeschi avevano agito con spietatezza, un caso forse unico in Italia e in Europa. I partigiani disarmarono subito gli uomini della Decima che non opposero resistenza e furono rinchiusi nel campo dell'aeroporto di Altura; servirono invece vari giorni per ottenere la resa dei tedeschi ben fortificati nella zona di Forte Musil; essi deposero le armi appena l'8 maggio, in quanto il Feldmaresciallo Jodl aveva firmato la resa della Germania e continuare a combattere avrebbe significato essere giudicati al di fuori delle leggi di guerra. Come in altri casi, la resa fu seguita da una sanguinosa vendetta: i primi militari tedeschi che capitarono a tiro furono ammazzati sul momento, l’ammiraglio Waue ed i suoi ufficiali vennero fucilati e la maggior parte dei militi italiani fu trucidata in maniera brutale, altri vennero imbarcati sulla nave Lina Campanella, saltata sulle mine al largo di Fasana.

Nel maggio del '45 anche Pola entrò per più di un mese in un tunnel di terrore con innumerevoli arresti prevalentemente notturni dei cosiddetti “nemici del popolo”, che Vivoda quantifica in oltre un migliaio. Il racconto dell'autore riporta un personaggio noto ai rovignesi: il “gobo Trani”, un fascista di Pola che fu accusato di essere stato il responsabile dell'uccisione di Pietro Ive, durante gli scontri tra fascisti polesani e socialisti rovignesi nel febbraio del 1921. Il Trani venne rintracciato a Pola dai partigiani e portato a Rovigno, dove venne sottoposto a vari maltrattamenti e poi ucciso; Vivoda racconta di averlo visto rinchiuso in una gabbia di legno trascinata dai carcerieri, con lo sguardo terrorizzato e con i segni delle percosse subite.

Molto interessante il capitolo dedicato alla prima occupazione titina, durante la quale si inaugurò la sistematica abitudine di far arrivare a Pola abitanti slavi del contado inneggianti alla Jugoslavia ed al comunismo, simulando così una città a maggioranza croata, entusiasta verso il nuovo regime e desiderosa di unirsi alla Jugoslavia.

L’accordo Tito-Alexander stabilì il momentaneo ritiro delle truppe jugoslave da Gorizia, Trieste e Pola in attesa del trattato di pace, ritiro che in quest’ultima città fu però tutt’altro che indolore. Infatti le truppe inglesi arrivarono appena il 16 giugno, ma le prime manifestazioni di esultanza della popolazione italiana furono violentemente contrastate dai filo-titini che si trovavano ancora preponderanti in città, i quali aggredirono e malmenarono i piccoli gruppi spontanei di italiani e strapparono le prime bandiere tricolori. Il periodo di occupazione alleata che accompagnò la città sino all’entrata in vigore del Trattato di Pace fu decisamente acceso e turbolento, forse ancor più che a Trieste, viste le innumerevoli manifestazioni e scontri di piazza tra la maggioranza della popolazione che esternava la sua italianità e la componente filo-slava, le cui file erano ingrossate da gente venuta da fuori città e che invece reclamava l’annessione alla Jugoslavia di Tito. L’autore fornisce un’interessante descrizione delle principali manifestazioni, ma anche degli scontri di piazza, che si verificavano molto spesso anche tra piccoli gruppi; non fu sempre facile neanche il rapporto con le autorità inglesi, che anche qui istituirono la Polizia Civile della Venezia Giulia, cui la gente affibbiò il nomignolo di “bacoli neri”, non solo per il colore della divisa.

Si trova anche una dettagliata descrizione di tutte le associazioni, partiti e gruppi italiani che si organizzarono in quel periodo, ispirati a diverse ideologie e provenienze politiche. Fu intensa anche l'attività giornalistica, che doveva contrastare quella del “Nostro giornale”, foglio filo-titoista che si dedicava ad un'intensa propaganda per l'annessione alla Jugoslavia e che proprio per questo la gente soprannominò il “Mostro giornale”; nacquero così “El Spin”, “Democrazia”, “La posta del lunedì” e soprattutto “L'Arena di Pola”, il vero giornale polesano, passato alla storia per aver testimoniato ed accompagnato l'esodo dei suoi cittadini, che ancora oggi esce “in esilio” per tenere uniti gli esuli ed i loro discendenti.
Il punto forte di questo libro è indubbiamente il capitolo che tratta la strage di Vergarolla, che Vivoda ha considerato una specie di “rivelazione” tenuta in serbo per tanto tempo, in quanto porta all’opinione pubblica gli ultimi importanti dettagli frutto di tanti anni di ricerche personali e giunge a rivelare il nome di un altro degli esecutori materiali dell’eccidio. Come noto, il 18 agosto del '46, 28 mine di profondità precedentemente disinnescate esplosero nella spiaggia di Vergarolla affollata di famiglie accorse per le gare di nuoto della società Pietas Julia, uccidendo almeno 64 persone, contando solo quelle che furono riconosciute. Le autorità militari alleate avviarono un’inchiesta, le cui precise conclusioni rimasero nascoste fino a pochi anni fa quando dei documenti riguardanti Vergarolla sono stati trovati presso gli archivi dei servizi segreti inglesi di Kew Garden, a Londra, da due giornalisti triestini che pubblicarono quanto scoperto in un dossier. Tali rapporti del servizio segreto inglese, di cui uno intitolato significativamente “sabotage in Pola”, citano come fonte definita attendibile il controspionaggio italiano che agiva in stretta collaborazione coi servizi inglesi, e danno per certa la matrice terroristica dell’esplosione, come opera dell’OZNA.

Il documento cita il nome di uno dei “sabotatori” che avrebbero innescato le mine e che sarebbe scomparso successivamente al fatto, il fiumano Giuseppe Kovacich, già indicato da un altro documento precedente alla strage come un agente dell’OZNA “molto attivo nel perseguire gli italiani”. Un’ulteriore informativa fornita dall’intelligence italiana a quella inglese aveva segnalato inoltre, sempre nel mese di luglio, dei movimenti sospetti alla periferia di Pola, con protagonista un esponente comunista italiano, che avrebbe distribuito delle armi ad altre persone e che in seguito, ricercato della polizia, sarebbe fuggito a Fasana, occupata dagli jugoslavi. Un tanto combacerebbe con alcune testimonianze del giorno della strage.
Queste notizie comparvero sulla stampa appena dopo 62 anni dalla strage, ma diversi anni prima alcune verità erano comunque emerse grazie alle silenziose ricerche di alcuni volenterosi, tra cui proprio Lino Vivoda, che nella strage perse il fratello Sergio di soli 8 anni. In questo lavoro, l’autore riporta che poco dopo la strage un ufficiale inglese ed il rovignese Bepi Nider, che allora si trovava a Pola, trovarono in una cava prossima alla spiaggia di Vergarolla tracce di un innesco, identico a quelli usati allora nelle miniere dell'Arsa (a pochi chilometri da Pola); proprio nella vicina cittadina di Albona, aveva un delle sue più importanti sedi istriane l'OZNA. Dopo aver scritto in merito vari articoli sulla stampa degli esuli ed aver rilasciato interviste a giornali istriani, Vivoda entrò in contatto con un giornalista del quotidiano croato Glas Istre, che si era appassionato della vicenda e nel 1999 aveva scritto vari articoli su Vergarolla, rivelando un fatto inedito: un ex partigiano jugoslavo, suicidatosi anni prima, avrebbe lasciato una lettera in cui si diceva schiacciato dal rimorso, per aver fatto parte del gruppo che organizzò la strage, su incarico dell'OZNA; il giornalista riuscì persino a combinare a Vivoda un appuntamento con i familiari del suicida, con l’accordo di “acquistare” il biglietto; a questo punto, però, consapevole della delicatezza della questione ed allarmato dalle condizioni poste, cioè di doversi presentare da solo in luogo isolato, Vivoda non si fidò a recarsi all’appuntamento; il biglietto manoscritto, che il giornalista croato dice di aver visto personalmente, non è stato quindi mai recuperato. In questo libro, tuttavia, si riporta il nome dell’ex partigiano suicida: Ivan (Nini) Brljafa, che da ulteriori ricerche è risultato essere uno dei primi membri del partito comunista croato clandestino di Pola, nonché, durante la guerra, un “gappista” responsabile di un attentato contro una mensa di ufficiali tedeschi ed in seguito membro dell'OZNA, attivo tra Fasana e Peroi, nell'agro polesano. Circostanze che sembrano accreditare l’ipotesi di un suo coinvolgimento nella strage della spiaggia polesana.

Questa ulteriore fatica dell’amico Lino Vivoda è quindi particolarmente importante, sia nel dare un contributo concreto al chiarimento degli aspetti più spinosi ed ancora irrisolti della storia istriana, sia perché, sullo sfondo dei ricordi di gioventù dell’autore, riaffiorano immagini e storie di una Pola che non c’è più, riemerge un prezioso affresco di Pola italiana.  

Gabriele Bosazzi



16 - L'Arena di Pola 16/01/14 -  1943: i giorni che sconvolsero la Venezia Giulia
1943: i giorni che sconvolsero la Venezia Giulia
Ha avuto luogo a Isola il 28 e 29 novembre 2013 un intenso convegno scientifico internazionale sul tema 8 settembre 1943: i giorni che cambiarono la Venezia Giulia. Nel numero precedente abbiamo riassunto la parte iniziale della prima giornata. Ora proseguiamo con la parte finale della stessa.
La connazionale Erika Sporčić (Scuola Media Superiore Italiana, Buie) ha rilevato come il movimento indipendentista croato prese corpo dopo il colpo di stato di re Alessandro, che il 6 gennaio 1929 istituì una dittatura personale trasformando il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni in Regno di Jugoslavia e centralizzandolo ulteriormente. Allora i dirigenti del Partito Croato del Diritto ripararono in Italia, Germania, Austria, Ungheria, Belgio, USA e Argentina. Con il nome di ustascia (insorti) organizzarono un movimento rivoluzionario volto a far sorgere tramite la lotta armata una Croazia indipendente, militarista, autoritaria e cattolica. Mussolini li protesse offrendo loro anche campi di addestramento. Dopo l’assassinio di re Alessandro a Marsiglia per mano ustascia nel 1934, la Francia pretese da Mussolini l’espulsione dei suoi protetti, ma egli si limitò a confinarli sull’isola di Lipari. A guidare questo nucleo di 480-550 fuoriusciti era Ante Pavelić, che il 10 aprile 1941 proclamò sulle ceneri del Regno di Jugoslavia lo Stato Indipendente Croato, satellite di Italia e Germania. Lo Stato ustascia subì sempre più l’influsso tedesco e dopo l’8 settembre si basò esclusivamente sul loro appoggio.
Lorenzo Salimbeni (Lega Nazionale, Trieste) ha parlato della maldestra gestione del Governatorato di Dalmazia, istituito nell’aprile 1941 con le Province di Zara, Spalato e Cattaro e sciolto il 7 agosto 1943. Ci furono sovrapposizioni di competenze e progettualità contrastanti fra militari, gerarchi e civili, incapaci di sradicare la guerriglia titoista. L’8 settembre le truppe italiane, pur in maggioranza numerica ma divise in due catene di comando, si trovarono allo sbando fra reparti tedeschi, già in possesso di porti, aeroporti e punti strategici, e partigiani. Nelle Bocche di Cattaro la divisione Emilia fronteggiò insieme ai cetnici i tedeschi fino al 16 settembre, quando il generale Ugo Buttà scappò via mare in Italia con altri ufficiali superiori, mentre i subordinati o si arresero, o si unirono ai tedeschi, o si diedero alla macchia.
Nel Montenegro interno le unità italiane si organizzarono contro i tedeschi o passarono alla lotta partigiana.
Il 10 settembre le avanguardie tedesche entrarono a Zara, che divenne un’enclave della RSI con crescente presenza tedesca. Alcuni italiani combatterono con i tedeschi o gli slavi anti-comunisti, altri con i partigiani. Ancora il 10 settembre i partigiani presero il controllo di Sebenico, ma poi si sfilarono.
L’11 settembre le truppe tedesche e croato-ustascia circondarono Ragusa e ottennero un accordo per il disarmo delle truppe italiane, che il 12 avviarono all’internamento nei lager.
A Spalato, dopo trattative anche con i cetnici, l’11 settembre le truppe italiane consegnarono le armi ai partigiani, che uccisero 106 persone fra italiani, cetnici e simpatizzanti ustascia. A Clissa italiani e tedeschi resistettero per quasi due settimane ai partigiani, cui si erano aggiunti militari italiani. Il 27 settembre i tedeschi occuparono Spalato e fucilarono 46 ufficiali italiani, mentre gli ustascia scatenarono la repressione contro gli italiani e scalpellarono i leoni veneziani.
Ad Arbe i prigionieri del campo (tra cui diversi anziani ebrei) presero il controllo dell’isola aggregandosi ai partigiani. I pochi rimasti furono poi sterminati dai nazisti.
Hitler consentì a Pavelić, che aveva denunciato tutti i trattati con l’Italia, di annettersi la bramata Dalmazia salvo Zara, ma stroncò sul nascere le sue velleità di occupazione dell’Istria, volendo gestire direttamente il Litorale Adriatico.
«Dall’aprile 1941 – ha rilevato Nevenka Troha (Istituto di Storia Contemporanea, Lubiana) – il movimento di liberazione sloveno organizzò la resistenza anche nei territori “sottratti alla Slovenia nella passata guerra imperialista”. Nell’agosto 1941 Oskar Kovačić, membro del Comitato centrale del Partito Comunista Sloveno, giunse nella Venezia Giulia. In autunno arrivarono i primi sette partigiani. La formazione delle organizzazioni del PCS sul territorio dello Stato italiano fu approvata nell’agosto 1942, su richiesta di Tito, dal Comintern, che pretese altresì lo sviluppo del movimento partigiano assieme agli italiani. Dal luglio 1941 Palmiro Togliatti da Radio Mosca incitava a stringere un patto d’alleanza tra il popolo italiano e quello sloveno. Nel marzo 1942 invece invitò gli italiani ad unirsi ai partigiani jugoslavi. Nel gennaio 1942 Umberto Massola, a nome del PCI, pubblicò il Manifesto del PCI per il diritto all’autodeterminazione e alla riunificazione del popolo sloveno. Contemporaneamente tra i due partiti vi furono tensioni relative non solo alla questione territoriale, ma anche alla condotta del PCS, che, avendo una forza maggiore, trattava subordinatamente i compagni italiani. Questi, come aveva scritto Kardelj nel maggio 1942, con il rafforzamento del movimento partigiano nella Venezia Giulia avrebbero dovuto contribuire ad estendere la rivoluzione. Nel gennaio 1943 la direzione del PCS strinse a Trieste un accordo con Vincenzo Marcon-Davilla in cui tracciava una linea di separazione tra l’attività del PCS e del PCI in città e su quella base furono costituite le organizzazioni comuni Unità Operaia. Della richiesta pubblica di includere Trieste entro la futura Slovenia libera e riunita nella Jugoslavia libera e democratica, avanzata dal Comitato esecutivo del Fronte di Liberazione, il 20 agosto 1943 fu informato Umberto Massola. Questi non concordava con l’annessione della Venezia Giulia, compresa Trieste, alla Slovenia, come scrisse nella lettera del 6 ottobre 1943, e ripeté le posizioni del PCI, vale a dire il riconoscimento dei diritti fondamentali degli sloveni all’autodecisione e alla secessione nonché la contrarietà alla richiesta di zone particolari».
«Dopo l’8 settembre al confine orientale – ha dichiarato Ezio Giuricin (Centro di Ricerche Storiche di Rovigno) – almeno in una prima fase si manifestarono, dando vita a difficili rapporti di collaborazione, sovrapponendosi ed a tratti confrontandosi, due diverse Resistenze: quella italiana e quella jugoslava (croata o slovena). Si trattò di due concetti diversi di lotta di liberazione: nazionale e sociale per i croati e gli sloveni; sociale, diretta prevalentemente a scacciare l’occupatore ed a lavare l’onta della repressione nazi-fascista, per gli italiani. La Resistenza jugoslava era monopolizzata dal Partito Comunista Jugoslavo attraverso le strutture del Movimento Popolare di Liberazione in un contesto caratterizzato da un disegno rivoluzionario di radicale sovvertimento sociale e nazionale del territorio polarizzato da un chiaro progetto di annessione territoriale. La Resistenza italiana, almeno nelle fasi immediatamente successive alla caduta del fascismo e all’armistizio, tentava invece di seguire lo schema – ampiamente collaudato in tutta l’Italia settentrionale – della collaborazione fra le forze antifasciste democratiche nell’ambito dei CLN o dei Comitati di salute pubblica. Diverse erano anche le concezioni dei comunisti: per quelli croati e sloveni il disegno rivoluzionario risultava subordinato a quello di liberazione e di espansione nazionale. I comunisti italiani invece erano legati a una visione internazionalista in cui l’obiettivo della costruzione di una “società più giusta” prevaleva su ogni considerazione nazionale. Ben presto, a causa dell’isolamento delle strutture resistenziali italiane dell’Alta Italia, della dissoluzione delle istituzioni e del disordine seguiti al crollo del fascismo e alla capitolazione dell’esercito italiano, e con l’espansione e il graduale affermarsi del ruolo egemonico del MPL jugoslavo, gli antifascisti italiani persero gradualmente ogni autonomia e soggettività, vedendosi costretti a confluire negli organici e a sottostare alle direttive croate e slovene. La tesi iniziale dei comunisti e in generale degli antifascisti italiani secondo cui la soluzione del problema dei confini doveva essere rinviata al dopoguerra venne abbandonata in seguito all’evolversi degli eventi, in un contesto contrassegnato dal graduale rafforzarsi delle posizioni jugoslave».
«Dal 25 luglio all’8 settembre – ha aggiunto Giuricin – vennero gradualmente liberati i prigionieri antifascisti giuliani, che raggiunsero le rispettive località. Subito dopo l’armistizio a Pola si formò Comitato nazionale antifascista italiano guidato tra gli altri dal comunista Edoardo Dorigo e dall’ex deputato social-riformista Antonio De Berti, che il 9 settembre promossero uno sciopero generale e un comizio subito respinto dalle truppe badogliane con 3 morti e 16 feriti. A Rovigno un numeroso gruppo di antifascisti guidati dal comunista Pino Budicin organizzò un comizio e un corteo per le vie della città con la bandiera italiana; anche loro vennero dispersi da militari e Carabinieri senza però incidenti. In molte località dell’Istria sorsero Comitati di salute pubblica, espressione delle forze politiche antifasciste e di ciò che rimaneva dell’amministrazione italiana, per autoregolamentare il territorio evitando il caos totale. Fra l’8 e il 15-20 settembre ci fu un’insurrezione quasi spontanea, promossa, gestita e controllata prevalentemente da elementi antifascisti locali italiani, croati o sloveni. Ma quasi subito prevalsero le strutture organizzative del MPL croato. Nella seconda metà di settembre cominciarono ad affluire dai territori liberati della Croazia numerose unità partigiane non originarie del luogo con dirigenti e commissari politici, tra cui molti istriani croati fuoriusciti durante il fascismo. Il 24 settembre si costituì a Pisino il comando operativo partigiano dell’Istria, che formò subito un tribunale militare. Nel frattempo in molte località, a seguito della sollevazione spontanea, si erano verificati arresti di individui considerati collaborazionisti del regime fascista, anche se non tutti lo erano, facendo semplicemente parte dell’amministrazione italiana od essendo ostili all’annessione. Dal 22 settembre si ebbe il tragico fenomeno delle foibe perché, a seguito del cambio ai vertici delle strutture partigiane, si verificò una resa dei conti con l’esecuzione sommaria di moltissimi prigionieri. Si parla di 500-700 persone. Non fu o fu solo in parte una jacquerie o una forma di giustizialismo popolare, bensì un’azione preordinata della polizia politica in nuce delle formazioni partigiane che si tradusse nell’eliminazione di quelli che sarebbero diventati testimoni scomodi davanti alla grande offensiva tedesca che dal 28 settembre mise a ferro e fuoco l’Istria uccidendo circa 2.000 persone. Il trattamento dei prigionieri fu diverso da località a località».
«L’assoggettamento della Resistenza italiana da parte dei comunisti jugoslavi – ha continuato Giuricin – fu più rapido nell’Istria croata che dove esercitava la propria azione il Fronte di Liberazione sloveno. Gli antifascisti italiani avrebbero dovuto accettare la linea annessionistica oppure sarebbero stati espulsi dal MPL. Il 10 dicembre 1943 Pino Budicin, alla prima Conferenza regionale del PCC istriano, denunciò, accanto ad alcuni sconcertanti aspetti sciovinistici dell’azione del MPL croato, anche i metodi con i quali erano stati eliminati i fascisti o i supposti “nemici del popolo”. Nel febbraio 1944 egli morirà insieme ad Augusto Ferri per mano fascista dopo un’imboscata. Il suo posto sarà preso prima dall’albonese Aldo Negri e poi dal rovignese Aldo Rismondo, entrambi uccisi in imboscate. All’epoca risale anche la fucilazione del comunista albonese Lelio Zustovich, giustiziato dai titini perché anti-annessionista. A Trieste i nazi-fascisti eliminarono tutti i comunisti italiani che, come Luigi Frausin, portavano avanti una politica autonoma e azzerarono ben tre compagini del CLN. La nascita dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, concepita nel luglio 1944 dai comunisti croati in vista del temuto sbarco anglo-americano sulla costa occidentale istriana, era volta ad addomesticare e controllare l’antifascismo italiano saldandolo con quello jugoslavo. A Rovigno per due volte consecutive fra il 1944 e il ’45 vennero eliminate le strutture del PCC guidate da comunisti italiani che rivendicavano una posizione autonoma, mentre i combattenti del Battaglione “Pino Budicin” furono mandati a morire nel Gorski Kotar».
«Nell’area del confine orientale – ha affermato Leonardo Raito (Università di Padova) – l’armistizio non comportò solo lo sbandamento organizzativo e morale dell’esercito, ma anche l’improvvisa scomparsa di ogni articolazione dello Stato italiano, ampliando ancor di più il carattere di cesura del momento storico. Si accelerarono i processi che si stavano delineando fin dal 1942, quando l’attività partigiana aveva trasformato quel territorio in zona di guerra. Diverse unità si fecero sopraffare da contadini croati senz’armi. Tre corpi d’armata, forti ognuno di 50.000 uomini, cedettero il passo ai circa 5.000 tedeschi in marcia dalla Slovenia. Eclatanti risultano i casi di Fiume, dove il generale Gastone Gambara al comando di 50.000 unità si arrese a un colonnello tedesco accompagnato da due motociclisti, e di Pola, dove 40.000 italiani tra soldati e marinai si arresero a un’esigua colonna tedesca. Una colonna di soldati autotrasportati diretta all’Isonzo si lasciò disarmare da un gruppo di contadini ubriachi. Ma a Monfalcone gli operai dei cantieri organizzarono la Divisione Proletaria, che insieme ai partigiani sloveni si oppose all’invasione tedesca di Gorizia riportando un centinaio di morti. Tentativi di opposizione all’avanzata tedesca si ebbero anche a Tarvisio e in Val Canale. In Istria l’insurrezione del settembre 1943 rappresenta per i croati il momento culminante della propria epopea di liberazione nazionale, mentre ha per gli italiani una valenza fortemente traumatica. Le condanne a morte e gli infoibamenti non furono violenze legate a sollevazioni contadine, ma al rapido costituirsi di un contropotere partigiano, che si giovò di quadri provenienti da oltre confine ma che fu bruscamente interrotto dalla dura occupazione tedesca. Dopo le decisioni di Jajce del 29 novembre ’43 il Consiglio Territoriale Antifascista di Liberazione della Croazia e il Fronte di Liberazione sloveno si considerarono i soli legittimi detentori del potere in Istria. Nel Litorale Adriatico il supremo commissario Friedrich Rainer cercò di far leva sulle nostalgie asburgiche. Tale strategia aveva una valenza etnica e politica anti-italiana. Nelle zone slovene fu ripristinata l’amministrazione in lingua slovena, a Lubiana venne nominato sindaco il generale Rupnik, a Fiume fu insediato un prefetto croato e a Pola un viceprefetto croato. Fu data ampia diffusione alla stampa slovena, vennero istituite trasmissioni radiofoniche in lingua slovena e riaperte scuole con lo sloveno come lingua d’istruzione. Un certo apporto collaborazionista si ebbe da parte sia italiana che slovena (i belogardisti)». (continua)

Paolo Radivo



17 - La Voce del Popolo 04/01/14 E & R -  Da Napoli al Collegio
Da Napoli al Collegio

a cura di Roberto Palisca
di Sergio Fogar

Arriva l’autunno e a Padova mi iscrivono alla prima elementare. La scuola è vicina, in piazza del Duomo: tutt’oggi è la “Carrarese”. L’aula è piena di bambini ma anche di gente adulta. Ricordo gran confusione attorno a me. Mi fanno tirare tante aste sui quadratini del quaderno: il mio rendimento è nullo. Le vicissitudini m’impediscono un regolare corso di studi e un apprendimento consono alla mia età. Nel marzo del 1950 gli zii traslocano e vanno ad abitare in un palazzo non lontano dalla Basilica del Santo, m’iscrivono a un’altra scuola elementare, ripeto la prima.

Esempio di patriottismo in classe

Comincio ad ambientarmi, mi trovo bene con la zia e lo zio, sono più sereno. Ogni tanto, ascoltando i discorsi dei grandi che parlano di me, precisano a estranei che sono il nipote, che la mia mamma è morta per colpa di un soldato tedesco e che il mio papà è in un campo di concentramento, risvegliando in me la solita precarietà e l’incertezza della mia esistenza. Pure la maestra ci mette del suo. Tiene lezione alla maniera Deamicisiana e mi porta come esempio di patriottismo davanti agli altri bambini, imbarazzandomi non poco.
 
È il 13 marzo del 1951. Con mia grande sorpresa ricompare papà. Si ferma qualche giorno, poi scompare di nuovo. Pure gli zii Emilia e Renato arrivano improvvisamente. Provengono da Genova, dove hanno trovato casa e cercano di ricostruirsi una nuova vita dopo l’esodo. La loro presenza mi rasserena. Risvegliano in me bei ricordi passati e mai sopiti. La loro permanenza dura pochi giorni, poi scompaiono nuovamente. Purtroppo la zia si ammala e viene ricoverata in ospedale. La cosa appare seria ma viene operata e la salvano. In conseguenza di questa situazione mio zio deve prendere delle gravi decisioni. Oltre al problema della moglie in ospedale, si ritrova costretto ad affidare a parenti il piccolo Antonio e me. Io vengo accudito da sua cugina e dal marito. Hanno due figli, abitano in zona Stanga e sono esuli da Fiume pure loro. La figlia più grande ha pressappoco la mia età. Mi rendo conto che sono ancora una volta “parcheggiato“.
 
Con la bravura dei medici e sicuramente con l’intervento dall’Alto, la zia viene dimessa dall’ospedale e torna a casa. Tempo dopo ritorna pure qui la cicogna. Nel cesto questa volta c’è una bambina. È ormai evidente che non sono più in grado di tenermi. Scrivono a mio padre il quale si affretta a fare quanto serve per affidarmi a un istituto. La zia mi prepara la valigia con il corredo. Mentre la riempie mi fa mille raccomandazioni sul comportamento da tenere. Non può immaginare quale linguaggio sentiranno le mie orecchie qualche mese dopo. Pure la maestra patrocina una gara di solidarietà nei miei confronti. Così parecchi bambini della mia classe mi donano qualcosa. Il 27 febbraio del 1952 arrivo a Napoli e mi ricongiungo felicissimo al mio papà.

Arrivo a Napoli, che da pochi mesi ho compiuto otto anni. Il viaggio da Padova è stato lungo. Mio zio è uomo di poche parole. Io tengo il naso appiccicato al finestrino del treno, osservo il mondo esterno che veloce mi corre incontro e mi arrovello a pensare al perché, pali e fili della luce mi vengano incontro in un saliscendi continuo. Il viaggio è terminato. La realtà napoletana che mi accoglie è totalmente diversa dal mondo cui ero abituato. Lo zio riparte subito. Immagino con quanto sollievo farà il viaggio di ritorno.
 
 Camminando osservo con stupore che alcuni palazzi portano ancora evidenti i segni della guerra. Pure il rumore della città è diverso, caotico. Fuorigrotta è un popoloso quartiere a nord di Napoli. Qui iniziano i Campi Flegrei. Incrociamo donne con pancioni e tanti bimbi che giocano in strada, poco vestiti, forse per la mitezza del clima, ma anche per povertà. In fondo alla via, quasi a chiuderla un muro con un cancello di ferro su cui un cartello porta scritto “Centro di raccolta profughi - Canzanella 1001”.

Una nuova dimora: la B 7

Appena varchiamo il portone, un poliziotto armato di fucile ci blocca il passo. Papà si qualifica e cerca di convincere l’incredulo celerino che io sono suo figlio e che d’ora in avanti avrei abitato con lui. Ci lascia passare. Proseguiamo verso l’interno del campo. A sinistra la baracca con una croce sul tetto significa che funge da cappella; la successiva da uffici e direzione. Entriamo e mio padre mi presenta a dei signori: qualche carezza e benevoli sorrisi. Mi è piacevole sentire che parlano il nostro dialetto veneto. Noto pure il tono di rispetto nei confronti di papà. Usciamo con dei fogli in mano ed entriamo in un’altra baracca dove c’è scritto “Magazzeno”. Li porgiamo a un signore, che in cambio ci consegna del pagliericcio, due lenzuola, una coperta, una gamella, un cucchiaio e una forchetta d’alluminio, tutti indispensabili accessori dei quali conservo ancora la ricevuta.

Papà “tramaca” il tutto nella mia nuova dimora: la B7. È una baracca uguale a tante altre, con una trentina di posti letto nel perimetro interno, due porte ai lati. Dentro, due lampade coperte da un tubo di cartone blu pendono dal tetto d’amianto; sono accese per la notte, dopo le venti.
Durante il tragitto, mi colpisce la gente che ci incrocia. Continuo a chiedermi in che razza di posto sono finito. Papà ha sistemato i due letti dove la baracca fa angolo e ha teso un filo. Sopra ha appeso due coperte per coprire la vista a chi entra o esce dalla vicina porta, per avere un minimo di privacy. Questa è sgangherata, costruita con assi d’abete grezzo, invecchiata nei decenni dalle intemperie. É di colore grigio, a ogni apertura cigola e quel pomeriggio stride molto, a causa del continuo viavai dovuto al mio arrivo.

Il “Canzanella” era in realtà un campo costruito per prigionieri della Prima, riutilizzato per accogliere dopo la Seconda disastrosa Guerra, rimpatriati e profughi dell’Istria, da Fiume, dalla Dalmazia, o dalle ex colonie, dalla Romania odalla Russia. Una baracca per le docce calde ogni 15 giorni. Un’altra, vicino a noi, divisa longitudinalmente a metà e con dei buchi sul pavimento affiancati e separati da muretti divisori alti circa un metro, funge da servizi igienici. Nessuna porta. Dall’altro lato tre grandi stanze in cui, da arrugginiti tubi che sporgono dal muro, sgorga in continuazione acqua fredda nella vasca sottostante. Papà mi lava tra le due brande. Usa un catino e un vaso da notte da lui costruiti con la lamiera ricavata da fusti di nafta vuoti, all’epoca facilmente reperibili nei dintorni.
 
Ha costruito pure un secchio e una stufetta dove la sera si riscalda attorniato dagli altri: si fanno quattro chiacchiere, ricordi di una vita che fu e speranze future, tra una fumatina e un bicchiere di vino. Mentre io, dalla branda, ascolto i loro discorsi, mi addormento. Inizio a vivere, così, in una realtà allucinante. I giorni passano mentre mi abituo a quella vita di nessuna regola, dove non c’è traccia di figure femminili: solo uomini con le loro storie, i loro drammi, epilogo assai triste al rimpatrio, in questo vergognoso lager nazionale. Papà mi fornisce subito di raccomandazioni. “Non disturbare le persone che riposano“. “Non avvicinare gli altri“.
 
Mi dice di stare sempre vicino a lui o a gente di sua fiducia. Nonostante tutto sono felice. La sera, quando ci corichiamo, lui mi stringe a sè e io mi stringo a lui. Gli chiedo di parlarmi della mamma, che ho visto solo in fotografia. Voglio sapere tutto di lei: il colore dei capelli, quello degli occhi... E così mi addormento, ascoltando i racconti di quando era marinaio a bordo di vecchie carrette e poi sul sommergibile “Pier Capponi“.

Le amicizie del Collegio

Dopo due settimane arriva il fatidico 10 marzo 1952 in cui entro al Collegio: l’orfanotrofio “Castello di Baia”. Inizio una nuova esperienza di vita, bella, con amicizie durate nel tempo e tanti ricordi, tra le tristi entrate e le felici uscite per le vacanze. Il Collegio è dentro al Castello Aragonese, tra i paesi di Baia e Bacoli. Domina il mare sottostante al quale si accede da un ripido tornante che porta alle tre spiaggie e al faro. Appena scendiamo dal trenino (Cumana), che da Napoli porta a Torregaveta, ci troviamo sul porto antistante e da qui arriviamo a destinazione con un piccolo bus.
 
Più tardi, capelli rapati a zero, dotato di lenzuola e coperta, scarpe nere e bella divisa, mi ritrovo inserito tra altri 150 orfani. Purtroppo, data la mia provenienza, inizialmente non riesco a comprendere la  parlata locale, ma dopo pochi giorni mi arrangio già con più facilità. Arrivano le vacanze di Pasqua e in divisa da marinaio mi presento così a papà, che appare visibilmente orgoglioso del mio aspetto.

Le vacanze estive e quelle natalizie si susseguono nei cinque anni di permanenza a Napoli. Tante le persone conosciute che per la loro umanità porto nel cuore, primi tra tutti i miei zii, sia paterni che materni, che non ci hanno fatto mai mancare il loro solidale aiuto. Il fratello e la sorella di papà con le loro famiglie si sono stabiliti a Genova. Zia Angela ha tre figli, i due maschi sono imbarcati su navi mercantili della Cosulich. Spesso attraccano a Napoli e così arrivano da noi con generi di conforto vari, nonostante la vita non sia facile neppure per loro. L’altra sorella, zia Nicky emigrata negli Stati Uniti, ha raggiunto i suoi genitori. Ci scrive spesso e allega alle sue lettere anche qualche prezioso dollaro. Ne manda uno anche a me ma viene sequestrato dai Carabinieri.

(3 e continua)





18 - L'Arena di Pola 16/01/14 "Un sufion de vita nova": inizia così il 2014!
Un sufion de vita nova”: inizia così il 2014! 

E così inizia il libro ’Sta mia cara e vecia Pola di Sergio Zuccoli, pubblicato da “L’Arena” nel 1978. «Un sufion de vita nova / che se senti per le strade, / per le rive sue bagnade...».
Ricordate? Uno spirito nuovo con nuove iniziative, per la nostra Pola e per le associazioni degli esuli. Da dove cominciamo? Prima di tutto: auguri a tutti di un Buon e Sereno 2014!
Come è nostra tradizione, intendiamo ricordare il  “Un sufion de vita nova”: inizia così il 2014!
passato e lavorare per il futuro, sempre e dovunque.

Proprio in questo ambito, su mandato del Consiglio Comunale, il nostro Sindaco Tullio Canevari ha avuto i necessari contatti per un possibile rientro della nostra Associazione Libero Comune di Pola in Esilio nella Federazione delle Associazioni degli Esuli, dopo anni di separazione. Infatti si sono individuati un nuovo spirito di collaborazione e nuove prospettive di azione comune in campo istituzionale e in campo culturale. I risultati non si sono fatti attendere: il 13 gennaio 2014 l’Esecutivo della Federazione riunito a Padova ha accolto la richiesta; tale decisione verrà portata alla ratifica del Consiglio della Federazione stessa e poi del LCPE. Pertanto la Federazione, arricchita nuovamente di una voce, la nostra, sarà ancor più rappresentativa e le relazioni con le istituzioni pubbliche e private risulteranno più semplici e produttive. Le iniziative culturali beneficeranno delle comuni esperienze e di un più vasto apporto di idee, sempre mantenendo l’attuale autonomia d’azione delle singole organizzazioni; per capirci con due esempi, ricordiamo i nostri tre più recenti Raduni annuali tenuti a Pola, che hanno avuto tanto ampi riconoscimenti, ed il recente ottimo Incontro Mondiale “Sempre Fiumani” a Fiume.

Un auspicio forte sarebbe che anche altre Associazioni entrassero nella Federazione, dopo i necessari chiarimenti sulle autonomie e le peculiari caratteristiche di ciascuna; difficile sì, impossibile no.

Una partita di calcio fra italiani esuli e residenti a Pola, che avverrà durante il Raduno a Pola in maggio: non vi sembra un’idea vincente? L’iniziativa è del più giovane fra i nostri Consiglieri, Giuliano Moggi, coadiuvato dall’Assessore per i Giovani, Andrea Manco, e da altri giovani entusiasti, di varie zone d’Italia e di mezza Istria. Fra effettivi e riserve si cominciano a contare numerosi partecipanti; speriamo che le tribune siano sufficienti per accogliere tutti i tifosi.

Sempre a Pola, ci auguriamo con forza di poter estendere i contatti con gli attuali cittadini polesani italiani, per raccontarci i ricordi tristi e terribili, ma anche quelli lieti e le ciacole, e di realizzare il sogno di una rappresentazione di Magazzino 18 di Simone Cristicchi nella nostra Arena: questi sono gli strumenti concreti di comprensione reciproca e di riconciliazione, così come lo sono le Messe in italiano, le cerimonie svolte insieme per Vergarolla, nel nuovo “Parco delle Vittime di Vergarolla” ed in navigazione sul tragico specchio d’acqua, le commemorazioni dei Defunti, di tutti i Defunti, la Giornata Internazionale di Studi sul Professor Mirabella Roberti, gli spettacoli di schietto teatro italiano tenuti nella Comunità degli Italiani, per ricordarne alcuni.

Come già sapete, i tre grandi volumi di copie anastatiche de “L’Arena di Pola” degli anni 1945-46-47, opera poderosa curata da Argeo Benco e Silvio Mazzaroli con l’aiuto di vari polesani, già presentati con ottime accoglienze, verranno distribuiti a numerosi centri di studio e biblioteche in Italia ed altrove. Oltre a ciò, verrà messa a disposizione la “informatizzazione” di tutti i numeri de “L’Arena” degli anni dal 1948 al 2000, opera ancor più poderosa ed impegnativa curata per vari anni da Argeo Benco, così consentendo a studiosi e a chiunque, in tutto il mondo, di esaminare sul proprio computer i contenuti di 52 anni di pubblicazioni, effettuando le ricerche tramite date, oppure autore, oppure parole-chiave, come nomi di persona, di luogo, di oggetto, di evento; insomma una possibilità di ricerca amplissima che potrà dare luogo a nuovi studi, ma anche a rileggere le più belle pagine de “L’Arena”, scegliendo l’argomento o l’autore preferito.

La strage di Vergarolla, la più grave strage della Repubblica Italiana, viene studiata attualmente su documenti e testimonianze originali, con metodologia storica, su mandato del nostro Libero Comune; in attesa dei risultati dello studio, siamo positivamente colpiti dall’attenzione che esso ha sollevato in alcune personalità politiche e confidiamo che l’attenzione della Nazione possa finalmente rivolgersi anche a questo luttuoso evento, per tanti anni colpevolmente ignorato e coperto, come fu colpevolmente ignorato e coperto il dramma delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata.

Il Giorno del Ricordo 2014, nel decennale dell’istituzione della solennità, presenta una novità importante: mentre la massima cerimonia celebrativa è programmata come di consueto a Roma, alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (ma nel Palazzo del Senato), quest’anno sarà Milano la sede prescelta, dalla più vasta associazione di esuli, la ANVGD, e dal suo Presidente Antonio Ballarin per gran parte delle altre manifestazioni di maggior rilevanza. Il nostro Libero Comune parteciperà ai vari eventi con i Consiglieri ed i Soci residenti nell’area lombarda e darà la più ampia informazione possibile dei singoli eventi, tramite messaggi informatici a Soci e simpatizzanti.

Grazie al Comitato ANVGD di Milano, per opera del presidente Sergio Trevisan, del Segretario Gianluca Kamal e dei collaboratori, sin d’ora è confermato lo spettacolo teatrale “Giulia” nella Sala Merini della Provincia di Milano in Piazza Oberdan, alle 11:00 del 15 febbraio 2014. Altre manifestazioni sono programmate nelle scuole in Provincia (Parabiago, Arese, Binasco...). Sono in corso i contatti per la programmazione dello spettacolo di Simone Cristicchi Magazzino 18, finalmente anche per Milano, dopo il clamoroso successo ottenuto a Trieste, in Istria e in altre regioni.

La scelta di Milano, che è alla vigilia della grande Expo del 2015, gratifica il Comitato Provinciale ANVGD milanese, la cui attività è in progressivo aumento, ed attira l’attenzione sul capoluogo lombardo, dove è allo studio l’erezione di un grande monumento alle Vittime delle foibe e all’Esodo e dove si terrà un Convegno Internazionale sulla Letteratura Dalmata, grazie all’iniziativa di Giorgio Baroni, professore emerito di Letteratura Italiana all’Università Cattolica di Milano.
Un’altra importante celebrazione del Giorno del Ricordo è programmata a La Spezia, su iniziativa del nostro Assessore Andrea Manco e del Delegato ANVGD Vittorio Sopracase, con il coinvolgimento delle Autorità cittadine.

Il 2014 va visto anche come l’inizio delle commemorazioni mondiali della Grande Guerra, che produsse distruzioni e sofferenze di vastità mai prima vista e che, nella nostra Patria, consentì ai fanti, ai marinai e agli aviatori di tutte le regioni italiane, nessuno lo dimentichi, ed ai nostri “irredenti” di realizzare la Redenzione nelle nostre Terre.
Istria, addio è il titolo della nuova versione cinematografica, in lingua italiana, della rappresentazione teatrale originale Istria terra amata – La Cisterna, recitata in dialetto istro-veneto. Ne siete già stati informati e ci auguriamo che ciascuno di Voi collabori alla sua più ampia diffusione nelle Scuole, sia per via informatica, sia tramite i DVD che verranno messi a disposizione.

Verrà pubblicato un volume che raccoglie le Leggende Istriane in dialetto originale ed in lingua italiana, frutto della passione di Maria Secacich, la professoressa che le raccolse per la sua tesi di laurea nel lontano 1933, e di Iginio Udovicich, suo pronipote, che le ha riordinate e presentate per il pubblico.
Con la guida del nostro Sindaco Tullio Canevari, nuove iniziative ancora attendono di essere lanciate ed il Direttore de “L’Arena” Paolo Radivo ve ne darà conto nel corso dell’anno. Da parte del Libero Comune di Pola in Esilio e de “L’Arena di Pola”, a tutti Voi, ai Vostri Famigliari ed in particolare ai Vostri Giovani, ancora I MIGLIORI AUGURI DI BUON 2014!

Tito Lucilio Sidari
Vice Sindaco del Libero Comune di Pola in Esilio



19 - Difesa Adriatica Febbraio 2014 Il Collegio "Niccolo Tommaseo" di Brindisi (1946-1951)
Il Collegio “Niccolo Tommaseo” di Brindisi (1946-1951)
Storia, esperienze e testimonianze
L’Assemblea ordinaria della  “Libera Unione Muli del Tommaseo, tenutasi nel settembre 2013, ha rinnovato le cariche sociali e il nuovo Direttivo per il biennio 2013-2015, risultandone  nuovo Segretario generale l’ambasciatore Egone Ratzenberger, originario di Fiume. La scelta di Brindisi quale sede del  Seminario sul confine orientale  2014 permette di riaprire un capitolo, fra i molti, meno conosciuto della storia dell’esodo e dell’approdo nella Penisola dei profughi dalla Venezia Giulia, ovvero dell’accoglienza in Puglia dei giovani in età scolare,  per i quali fu necessario apprestare un collegio, il “Niccolò Tommaseo”, che nell’anteguerra era stato Accademia Marinara dell’Opera Nazionale Balilla.   Abbiamo dunque richiesto all’ambasciatore Ratzenberger una memoria di quegli anni in cui fu ospite del “Tommaseo”, unitamente a centinaia di giovani profughi per i quali quell’esperienza fu per tanti versi indelebile e fondamentale.
Forse a nome di tutti  quei genitori che¡ all’indomani dell’esodo si preoccupavano degli studi dei loro figli e quindi del loro  futuro lascerei per un attimo parlare mia madre: ≪Mi avevano  detto che a Roma in via  Guidobaldo del Monte presso piazza Euclide vi era un ufficio distaccato della Pubblica Istruzione che si occupava di  collocare in un Collegio sito a Brindisi i ragazzi profughi  giunti dai nostri territori. Sul  mezzo pubblico che mi trasportava chiesi peró  di piazza Oiclide, lasciando interdetti  bigliettaio e passeggeri finche un anziano, probabilmente colto signore interpretó  correttamente la richiesta  fatta con pronuncia di stile  tedesco. E piu tardi, un altro signore cortese preposto all’ufficio surriferito chiese  che il ragazzo (ero io) partisse  immantinente per il Collegio  dato che l’anno scolastico era ben avanzato (eravamo a  febbraio) e fu cosi che mi ritrovai due giorni dopo, doverosamente accompagnato da mia madre, a scivolare con il treno nella ferace Puglia fra immensi alberi d’olivo dalle foglie argentate splendenti al  sole - la giornata infatti era  bella - circondati da un dialetto musicale, borbottato,  enunciato, scandito da tanta gente che dopo Foggia scendeva e saliva con forte vocio,  cio che faceva spicco dopo il silenzio della notte.
Eravamo infatti partiti da Roma a mezzanotte e cinque con un treno “diretto” che non ho mai capito se fosse l’ultimo convoglio della sera o il primo della mattina (era l’ultimo) e che si disfaceva a Foggia del troppo moderno locomotore elettrico per ostentare nelle Puglie una onesta locomotiva a vapore, il cui fumo, se ti affacciavi, era pregno di frammenti di carbone a cui piacevaannidarsi sotto le vesti, infilarsi nei capelli o, meglio ancora, negli occhi.
Mentre a Brindisi ci dirigemmo poi al collegio con una inusitata carrozzella. Un arrivo come si deve. Ma da quello che ho sentito ad esempio dai “muli” Sedmak e Faraguna abbastanza frequente. Mentre i primi anni gli arrivi erano piu spartani come vedremo.
Arrivare al collegio di Brindisi era tornare un po’ a casa, perche superata la barriera dei dirigenti e degli istitutori si passava subito  all’idioma ufficiale che era ovviamente il nostro dialetto veneto, si ritrovavano atteggiamenti e comportamenti delle nostre terre, si incontravano anche antichi compagni di scuola. Ma si facevano subito anche nuove amicizie, soprattutto nel campo sportivo che era per tutti estremamente  importante tanto che i campioncini (di calcio o di atletica che fossero) godevano un giusto prestigio che altri potevano solo sognare e certamente non ne godevano quegli sciocconi dei “bravi a scuola”.
Mi si perdonerà  se dico che le mie valutazioni nel  collegio crebbero nell’estate quando fu accertato che nuotavo molto bene. Il Collegio  non era esclusivamente nostro e ció nel senso che venivano accettati anche ragazzi  indisciplinati o pigri della Puglia del sud ma anche di Roma, nonche ragazzi profughi provenienti dalla Grecia, dalla Francia o dalle Colonie.   Alcuni di essi avevano trascorso tutta la guerra ospitati in qualche convitto.
Come nacque il Collegio
Come nacque il Collegio?  Roma si era gia posto il problema di come provvedere all’istruzione dei  figli dei profughi che sempre piu numerosi affluivano in Italia coi loro  genitori. Da varie parti si pensava di creare un’apposita  istituzione perche le famiglie  non potevano provvedere alle rette scolastiche e alle relative spese attinenti all’istruzione.
Esse dovevano lottare per sopravvivere, cosa abbastanza fattibile date le qualificazioni  dei nostri capifamiglia d’allora,  ad esempio se abitavano a Tortona che e vicina a Torino e Milano, a Chiavari prossima a Genova ma non certo a Laterina,  a Tirrenia, a Gaeta, a  Chieti, a Catania dove la fantasia del Ministero degli Interni e del relativo ministro,  aveva ben pensato a confinare i profughi senza darsi alcun pensiero dell’occupazione dei  padri. Pero essi non nutrirono  rancori. Eravamo pur sempre nella nostra Italia, eravamo liberi e si parlava qui quella  preclara lingua che tanto commuove il cuore con i suoi suoni e con le ardenti cadenze dei suoi poeti.
Si narra anche che l’iniziativa dell’apertura fu presa  in prima battuta dall’ex-direttore del seminario di Fiume, don Tamburini, coadiuvato  da un altro ex e cioe il professore del liceo scientifico della citta liburnica Troili, incaricato in seguito della direzione  del Collegio. Gli inizi furono  difficili perche il Collegio che  come edificio faceva parte della  Gil dimagrita nel frattempo  a Gi (Gioventu Italiana)  riceveva fondi assai scarsi per le necessita dell’Amministrazione anche perche l’Accademia Navale di Livorno che dal  1943 in poi aveva soggiornato in quelle mura aveva lasciato  in loco 22 inservienti che occorreva  pagare; e cio avveniva a carico dei 5 milioni messi a disposizione dallo Stato e che  pero dovevano eziandio bastare  per il cibo.
A questo proposito va considerato che i convittori erano pur sempre ragazzi compresi fra i quindici e i vent’anni ed oltre ed alcuni avevano avuto esperienze militari ed un difficile dopoguerra e pertanto il loro appetito dopo gli anni del conflitto e quelli susseguenti era robusto assai. Dicono che i menu si incentrassero molto sui ceci, sconosciuti nelle nostre lande e, ahime, spesso guardati con sospetto. Mentre, come sapete, sono eccellenti leguminose che, sebbene in misura minore, spadroneggiarono altresi nei tempi miei (1950-1952).
I primi passi
Quali furono i primi passi del Collegio?   Fu costruito appunto come collegio navale della Gil ed edificato, bisogna pur dirlo, in uno stile moderno ed arioso; le palazzine di abitazione  che contenevano altresi una  sala riunioni e una palestra costituivano piuttosto  dei corpi laterali a guisa di ali per riversarsi sull’ampio cortile che a sua volta si lanciava verso la pineta e il mare.
Sul finire della guerra venne,  come si diceva, adibita ad Accademia Navale che non ci lascerà  solo i 22 inservienti di  cui sopra ma anche attrezzi e suppellettili che ci furono di grande utilità . Ci lasciarono  anche un capocameriere che dicevano avesse qualche anno prima servito il re e la regina  rifugiatisi, come noto, nella citta pugliese. Uomo di grande distinzione, dava un certo tono alla nostra mensa.
Il nome scelto per il Collegio fu appunto quello di Niccoló Tommaseo di Sebenico che con il Dizionario della Lingua Italiana ed altre  pubblicazioni, oggi un po’ trascurate, e senz’altro il piu illustre scrittore delle nostre terre, almeno nell’Ottocento. Un uomo geniale, diviso tra  alti momenti etici e forti pulsioni carnali. Mentre si puó  dire invece che nel Novecento  viene Svevo.
Le testimonianze
Come arrivarono i primi  allievi? Lascio parlare  Lallo Cosatto (anni 88!):  "Ero fra i primi trenta  che andarono a Brindisi accom accompagnati dal prof. Troili. Partimmo dal Collegio Aricci di Brescia dove ci avevano collocato; a Milano - era fine settembre - ci misero in un vagone   tutto nostro e sbarcammo a Brindisi ventisette ore piu  tardi. Il motivo di un tale ritardo?   Vi erano interruzioni e difficoltà un po’ dappertutto  ma soprattutto laddove si era  attestata la linea Gotica e cioé  a Ortona. Arrivati a Brindisi  alle undici di sera dovemmo ancora scarpinare per tre  km fino al Collego; fu nostra fortuna il fatto che i bagagli erano ben leggeri, il che era dovuto alla poverta dei tempi.
Nei giorni successivi aiutammo Troili a sistemare un po’ il collegio e le camerate coadiuvati  dagli inservienti mentre le guardarobiere si dichiaravano pronte a cucire e a mettere in ordine i nostri abiti  che pero non c‘erano o erano  davvero sdruciti.
Tu mi chiedi se ci furono delle proteste per il vitto e indubbiamente se ne registrarono alcune ma i convittori mangiavano in quel   torno di tempo certamente meglio della maggior parte degli italiani≫.
Cosatto che ha avuto esperienze di combattimento e di campo di prigionia ritiene che il cibo fosse certamente  accettabile anche se in parte  scarso in relazione alla nostra  età e alle nostre abitudini ma  ben presto - aggiungo io - le nostre famiglie cominciarono ad inviare ai loro rampolli dei  pacchi, le cui derrate venivano in gran parte spartite, talora anche sottratte con audaci spedizioni notturne, ma che comunque nutrivano il lontano  figlio.
Un altro episodio di  quegli anni é dovuto al fatto  che molti convittori avevano ancora la loro famiglia oltrecortina e pertanto non sapevano  dove recarsi in estate e  pertanto il Troili organizzó  nella Sila un campo estivo che funzionó molto bene, salvo  il fatto che un fulmine colpi  due ragazzi di cui uno si rimise abbastanza rapidamente  mentre l’altro rimase purtroppo offeso ad una gamba e perse  quasi la vista.
Mentre il Collegio cominciava a funzionare con tranquilla regolarità qualche  problema sorse invece con la  direzione, affidata, come si  diceva, al prof. Troili amatissimo  dai convittori, e che fu invece rivendicata per i maggiori   titoli in suo possesso, da  un certo prof. Prandi. Sembra che il Prandi fosse di carattere puntiglioso e vendicativo e  che non gradisse troppo l’atmosfera aperta ed informale che si era instaurata al Niccoló  Tommaseo.
Si fini col  registrare delle vive tensioni con tentativi di allontanamento  da Brindisi di qualche collegiale, tensioni poi attenuatesi con l’ottenimento del  diploma da parte di parecchi convittori anziani che se ne andarono e col trasferimento del Prandi ad una consimile istituzione sorta a Grado e trasferitasi poi a Gorizia e cioé il Collegio Fabio Filzi.
Il suo successore prof. Prosperi era invece persona prudente e riservata. Non parlava molto con gli allievi e lasciava volentieri questo  compito  all’apparentemente  iracondo vicerettore prof. Pagliari che curava la disciplina e la faceva rispettare, ma senza calcare la mano, anche perché  amava e praticava lo sport  e pertanto si sentiva legato ai  ragazzi giuliani che quasi tutti eccellevano in qualche disciplina.
Gli allievi nel mondo
Nel Collegio erano  ospitate come scuole l’Istituto Nautico da cui sono usciti fior di nostri comandanti che ben presto si disseminavano nel mondo (a quel  tempo  come giovani  ufficiali,  si capisce),  e che mandavano  ai loro amici in collegio  splendide cartoline da Panama  o ad esempio dal Giappone e che facevano il giro del  Collegio. Si apriva cosi per  noi l’ampio mondo.
Il cortile  centrale, sede dei nostri dopocena, dove si udivano i  canti nostrani oppure, dall’altoparlante, le canzoni popolari italiane  del sud nonché  il parlottío di vari crocchi di amici, sembrava ampliarsi a  dismisura riempiendo la corte di effluvi esotici. Quest’aura  di paesi lontani dava peró  un  ulteriore prestigio agli allievi  del Nautico che sovente noi  denominavamo i ≪Signori  del Nautico≫ e che erano inquadrati  dagli istitutori piu  autorevoli come Decleva e  come Callochira,  che senza  motivo i titini avevano tenuto in carcere per cinque anni.
Nel Collegio c’erano comunque allievi di tutte le scuole, delle medie, delle magistrali, dei licei classico e scientifico. Quest’ultimo fu ospitato nel  collegio fino a giugno 1950 e si trasferi poi al centro di Brindisi.
Forse nel collegio lo Scientifico (che era la mia scuola) per certi aspetti stava meglio come ad esempio  per gli spazi, per l’aria e la  luce. Nell’intervallo si andava  sull’ampio campo sportivo e  si percepiva nel cielo il ronzio degli apparecchi militari di  addestramento. Volavano ben alto sulle nostre teste, credo  per scrutare appunto il futuro  che si celava dietro l’orizzonte.  Avranno visto molte cose che si conobbero solo dopo.
Nel 1951 il Collegio Tommaseo  fu disperso e gli allievi che abitavano al nord andarono a Gorizia e Trieste mentre  quelli del centro erano dirottati  sui Convitti Nazionali del  Centro Italia. Ma il Collegio  non fu chiuso e funzionó  ancora  per qualche anno anche  se gli eventuali ragazzi profughi  venivano dirottati altrove  e le Puglie sembravano avere  meno ragazzi sfaticati.
Poi il Collegio fu chiuso davvero ed e rimasto li abbandonato ció  che a noi dispiace molto.  E nessuno sa decidersi a fare  qualcosa.
Egone Ratzenberger



20 - Il Piccolo 03/01/14 Antonio Foscari, così si vive in un gioiello del Palladio
Antonio Foscari, così si vive in un gioiello del Palladio

Nato a Trieste, in “Tumulto e ordine” pubblicato da Electa ripercorre la storia della Malcontenta che ha ospitato Le Corbusier, Djaghilev, Rubinstein
di Elisabetta d’Erme
Una villa alle porte di Venezia, uno strano mènage a trois sullo sfondo dei turbinosi anni '20 e la favola di un immobile d'inestimabile valore che torna a quella stessa famiglia che l'aveva commissionato a un grande architetto quattro secoli prima. Questa la trama di “Tumulto e ordine. Malcontenta 1924-1939” (Electa, pagg. 246, euro 29) di Antonio Foscari che narra la biografia della Villa Foscari, detta La Malcontenta, progettata nel 1560 da Andrea Palladio per Nicolò e Aloysius Foscari. Dopo esser passata nei secoli per diverse mani, a inizio ’900 La Malcontenta era usata come granaio e così la videro nel 1924 l'anglo/brasiliano Bertie Landsberg, il suo compagno franco/greco Paul Rodocanachi e l'amica anglo/francese Catherine d'Erlanger. L'acquistarono e la trasformarono in un centro d'attrazione per i grandi artisti del tempo, la nobiltà europea e l'aristocrazia industriale americana. Una storia d'amore, d'arte, architettura, restauri, rispetto e sensibilità per la materia e il paesaggio, e di splendidi affreschi nascosti da uno strato di pittura bianca. Nell'irripetibile temperie culturale e artistica degli anni tra il 1924 e il 1939 la villa ospitò e vide passare Le Corbusier, Sergej Djagilev con i suoi Balletti Russi, Cole Porter e Arthur Rubinstein, ballerini come Serge Lifar, scenografi come Oliver Messel, politici come Winston Churchill, fotografi come Cecil Beaton e molti altri. Un mondo che la proclamazione delle leggi razziali del 1938 avrebbe disperso tra i continenti. Nel 1973 la Villa Foscari/Malcontenta, dichiarata Patrimonio dell'umanità dall'Unesco, venne infine “donata” ad Antonio Foscari da Lord Claud Phillimore, che a sua volta l'aveva ereditata da Bertie Landsberg. Nato a Trieste nel 1938, Antonio “Tonci” Foscari, si è laureato in Architettura all’Università di Venezia, dove è stato docente di Storia dell'Architettura. Oltre a quello della sua villa, ha curato il restauro di importanti edifici veneziani: Palazzo Grassi, il Teatro Malibran e Palazzo Bollani. È stato Presidente dell'Alliance Française di Venezia e fa parte del consiglio d’amministrazione del Louvre. È nato a Trieste, che legami ha con la città? «Anche mio fratello è nato a Trieste, all'epoca mio padre era dirigente della Società Cellina, poi ci trasferimmo a Padova ma, a seguito dei bombardamenti, nel 1943 andammo a Mira, in una villa di mia nonna, e da lì in bicicletta andavamo a far visita ai signori della Malcontenta. Di Trieste mi resta il soprannome Tonci, perché quando appena nato mi portarono in piazza Unità una signora chiese “come si chiama questo bambino?” e mia madre rispose “Antonio” e lei disse “Ah! Tonci”. Mio padre pensò che fosse molto bello esser stato battezzato per strada, così d'allora sono Tonci». I tre abitanti della Malcontenta nel '900 erano ricchi outsider, Rodocanachi, architetto mancato, Landsberg, poeta minore, la contessa d'Erlanger, pittrice dimenticata... «Come in un processo alchemico elementi non eccellenti possono combinarsi a formare un metallo prezioso, così quelli che lei chiama outsider hanno dato vita a una situazione - per alcuni versi effervescente e per altri drammatica - che a distanza di decenni ho ritenuto opportuno evocare. Dimenticati per anni, ora stanno uscendo libri su Misia Sert, Coco Chanel, Elsa Maxwell, Cole Porter e tutto l'entourage di Diaghilev, personaggi che appartenevano al loro giro d'amici, tutti passati per La Malcontenta. Racconto la storia d'una stagione veneziana di grande cosmopolitismo. Negli anni '20 Venezia era sotto il “governo” di Giuseppe Volpi, che aveva autorità e ricchezza illimitata. Più che un fascista era un vero capitalista. Voleva portare a Venezia la mondanità internazionale. Inventò il Festival del Cinema e la città e il Lido divennero il luogo ideale per la circolazione di avanguardie, aristocrazie sbandate, élite, eccentrici, ovvero il “terreno di coltura” del Moderno». Lei è ora il proprietario di questo gioiello, quale politica di conservazione ha adottato? «Bertie Landsberg si identificò con questo edificio in modo totale, lo amò d'un amore esclusivo e romanticamente ne accettava anche la rovina. Con mia moglie Barbara cerchiamo d'assicurare a questa fabbrica una conservazione ottimale. Come Bertie per l'illuminazione notturna usiamo quasi solo candele. Ma c'è una differenza: noi riconosciamo come qualità il decadimento, ma non il degrado; la solitudine ma non l'abbandono». Cosa significa abitare una villa palladiana? «Le case di Palladio erano abitate da molte persone e l'attuale vita domestica occidentale non potrà mai riprodurre l'alto grado di comunione che esisteva nel '500. Come i miei antenati mi divido fra la casa veneziana e La Malcontenta, casa di campagna. Ma noi non l'abbiamo però mai considerata un attrezzo domestico privato. Amiamo questo oggetto architettonico tanto prezioso da appassionati: le dedichiamo mille attenzioni e l'apriamo al pubblico. Per la mia famiglia che è sparsa per il mondo, tra New York e Buenos Aires, La Malcontenta è la casa in cui idealmente ci possiamo ritrovare».


21 - Corriere della Sera - La Lettura 19/01/14  I crimini dei collaborazionisti croati
Ex Jugoslavia
I crimini poco conosciuti dei collaborazionisti croati.
Genocidio nei Balcani .La violenza ustascia contro i serbi ortodossi
di CARLO VULPIO
Non c`è stato soltanto l`Olocausto degli ebrei. Il primo genocidio dell`età contemporanea è stato quello degli armeni, un milione e 200 mila persone (o forse due milioni) massacrate dagli ottomani. Poi ci sono stati i crimini staliniani, molti milioni di morti, che sono soltanto una parte della tragedia sovietica. Infine, c`è stato l`Olocausto dei serbi ortodossi, ancora oggi praticamente sconosciuto, in cui sono state eliminate 700 mila persone (o forse un milione).I carnefici di quest`ultima mattanza avvenuta durante il secondo conflitto mondiale e organizzata sul modello nazista- furono gli ustascia (letteralmente «ribelli») croati, guidati dall`ultranazionalista Ante Pavelic. Il quale si autoproclamò Poglavnik (Duce) dello Stato indipendente
di Croazia (in realtà, un satellite della Germania e dell`Italia) e attuò una politica di pulizia etnica nei confronti di «tutti gli altri», con particolare riguardo, naturalmente, verso zingari, ebrei e gli stessi croati che si opponevano agli ustascia, ma con speciale cura per i serbi. Non tanto e non solo perché costoro erano il nerbo della resistenza guidata dal comunista Tito, il maresciallo della futura Jugoslavia postbellica, ma soprattutto perché i serbi erano cristiani ortodossi e dunque, per un cattolico integralista fanatico come Pavelic, dovevano essere i primi della lista. E così, se agli ebrei toccò di essere «marchiati» con la stella gialla a sei punte, la stella di Davide, cucita sul bavero della giacca, i serbi furono contrassegnati da una fascia infilata al braccio con una lettera P di colore blu. P come pravoslavni, cioè ortodossi.
I lager degli ustascia, fatti costruire alle stesse vittime, erano disseminati per tuttala Croàzia, la Bosnia e l`Erzegovina, ma poiché il loro programma era quello di «eliminare quanti più serbi possibile nel minor tempo possibile», vennero utilizzati anche i lager che i tedeschi avevano costruito nel resto della ex Jugoslavia.
Soltanto negli ultimi anni però, e non dappertutto, si è cominciato a ricordare le vittime con testimonianze visibili, come il piccolo monastero alla memoria costruito a Herzeg Novi, in Montenegro, o la scultura che dal 2007 sorge a Banja Luka, Republika Srpska di Bosnia Erzegovina, significativamente chiamata Pioppo dell`orrore.Fino ad allora, fatta eccezione per il monumento del lager principale di Jasenovac (un enorme Fiore di pietra dello scultoreBogdan Bogdanovìc, ìnaugurato nel 1966), il genocidio serbo aveva trovato accoglienza soltanto nell`Holocaust Memorial Museum di Washington e, alcuni anni dopo, all`Holocaust Memorial Park di New York. Al di là dell`Oceano. Mentre èda questa parte, a un centinaio di chilometri da Zagabria, che si trova Jasenovac, centro e luogo simbolo dello sterminio (vi sarebbero state eliminate circa 8o mila persone), e tuttavia un nome che non dice niente se non lo si accompagna con la stolida definizione di «Auschwitz dei Balcani», quasi che, per essere riconosciuto, il male di casa a Jasenovac avesse bisogno diessere paragonato a quello di Auschwitz. Jasenovac era un «complesso» di otto campi di sterminio (cinque grandi e trepiù piccoli), con le camere di tortura e i boia, i quali impiccavano, accoltellavano, strangolavano, bruciavano vivi i deportati. O più «pietosamente» li abbattevano con un colpo alla nuca, senza distinguere tra adulti e bambini, donne e vecchi, ma facendo grande attenzione a eliminare i serbi in quanto serbi, come pure gli ebrei e i rom in quanto tali. Il tutto, spesso e volentieri, davanti a una cinepresa.
Oggi Jasenovac è un luogo silenzioso, impregnato di una tristezza che richiede solo contemplazione. Anche l`acqua dei quattro fiumi che la circondano (Sava, Trebeí, Una e Struga) e le fronde degli alberi che colorano la pianura sembrano non voler fare troppo rumore qui, dove persino le SS inorridivano dinanzi agli «eccessi criminali» degli ustascia, con i
quali i militari italiani si scontrarono più volte per frenarne la furia sanguinaria. Ma c`era poco da fare, quando nel lager di Jasenovac a dispensare la morte con le proprie mani era addirittura un frate francescano, Miroslav Filipovic-Majstorovic, soprannominato Fra` Satana (espulso dall`ordine appena vennero scoperti i suoi crimini), che guidò il campo dal 1942 e fu giustiziato nel 1945.
Ne nacque anche uno scontro fra la Jugoslavia di Tito e il Vaticano. La prima accusòl`arcivescovo di Zagabria, Alojzije Stepinac, di aver coperto e favorito gli ustascia e per questo lo condannò a 16 anni di carcere. La Chiesa di Roma rispose prima con Papa Pio XII, che nel 1953 nominò Stepinac cardinale, e poi con PapaGiovanni Paolo 11, che nel 1998 lo beatificò. Per chi lo accusa, Stepinac è stato un cinico favoreggiatore di Pavelic, che non avrebbe esitato financo a praticare la conversione forzata di massa dei serbi. Per chi lo difende, tutto questo sarebbe una montatura, come dimostrerebbero le testimonianze di perseguitati serbi, rom ed ebrei, che invece Stepinac avrebbe salvato anche attraverso lo stratagemma della «conversione».
Resta il fatto che il dolore e la rabbia per Jasenovac sono poi esplosi durante la guerra degli anni Novanta, che ha sancito la dissoluzione della Jugoslavia. Un dolore e una rabbia che ancora covano sotto la cenere, se è bastata, nei mesi scorsi, una intervista di Bob Dylan alla rivista «Rolling Stone» per scatenare una polemica feroce. «Se avete il Ku Klux Klan nel sangue, i neri possono sentirlo, anche oggi. Così come gli ebrei possono sentire il sangue nazista, e i serbi il sangue croato», ha detto Dylan. Parole che gli sono costate l`incriminazione per ingiurie e istigazione all`odio in seguito a una denuncia della Comunità dei croati francesi. Ma apparedifficile immaginare un Dylan razzista. Meravigliose canzoni a parte, il suo vero nome è Robert Allen Zimmerman e i suoinonni, ebrei ucraini, fuggirono in America per scampare alle persecuzioni antisemite della Russia zarista.

La Mailing List Histria ha il piacere di inviarVi la “Gazeta Istriana” sugli avvenimenti più importanti che interessano gli Esuli e le  C.I. dell' Istria, Fiume e Dalmazia, nonché le relazioni dell'Italia con la Croazia e Slovenia.
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it





 
MAILING LIST HISTRIA

RASSEGNA STAMPA SETTIMANALE

 a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri

N. 911 – 29 Marzo 2014
    
Sommario


151 -  Mailing List Histria Notizie 23/03/14 Verona - I vincitori della XII edizione del Premio intitolato dal Comitato veronese al Gen. Loris Tanzella
152 - La Voce del Popolo 24/03/14 Gorizia : Convegno - Beni abbandonati e ottica europea (Emanuela Masseria)
153 - Il Piccolo 21/03/14 Regione Istriana: Il Veneto partner privilegiato. E Flego incontra Zaia (p.r.)
154 - Il Piccolo 22/03/14 Trieste: Santin, ecco la statua: le vesti del vescovo sferzate dalla bora (Fabio Dorigo)
155 - La Voce del Popolo 15/03/14 Zara, porte aperte agli imprenditori (Krsto Babić)
156 - Varese News 20/03/14 Busto Arsizio: La signora Veronica Segon in Prodan compie 100 anni
157 - Il Piccolo 26/03/14 La Comunità degli italiani si rifà il look a Gallesano (p.r.)
158 - L'Indipendenza 28/03/14 Concorso sull'identità veneta, lo vince una scuola di Buje (Istria) (Luigi Possenti)
159 - Il Piccolo 16/03/14 Duemila gli esuli istriani che si rifugiarono a Grado
160 - La Voce in più Storia & Ricerca 01/03/14 Padova, Venezia e l'Istria appunti su legami secolari (Kristjan Knez)
161 - La Voce del Popolo 16/03/14 Jan Bernas Una sola «colpa», quella di essere italiani (Ilaria Rocchi)
162 -  La Voce di Romagna 25/03/2014 Maresciallo Antonio Farinatti , l'eroe dell'Istria


Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arenadipola.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.arcipelagoadriatico.it/



151 -  Mailing List Histria Notizie 23/03/14 Verona - I vincitori della XII edizione del Premio intitolato dal Comitato veronese al Gen. Loris Tanzella
Verona - I vincitori della XII edizione del Premio intitolato dal Comitato veronese al Gen. Loris Tanzella
Ecco l'elenco dei vincitori della XII edizione del Premio intitolato dal Comitato veronese al Gen. Loris Tanzella, e le relative motivazioni
 
Menzione d'Onore
Storia di Argo, di Maria Grazia Ciani
«Per aver dato espressione poetica, con tocchi essenziali, ma straordinariamente evocativi, al delicato rapporto degli esuli con il ricordo dei loro luoghi d'infanzia, alla loro dolorosa sospensione fra il desiderio di un ritorno e la consapevolezza della sua impossibilità».
 
Sezione Testimonianze
Primo Premio
In Istria prima dell'esodo. Autobiografia di un esule da Pola, di Lino Vivoda
«Dopo una copiosa produzione libraria sui temi dell'Adriatico orientale, l'autore presenta una testimonianza personale sulla vita in Istria prima dell'esodo. Nella prima parte infatti, parlando della sua famiglia e degli avi, fornisce un efficace affresco della quotidianità dell'epoca. Sempre con il consueto agile taglio giornalistico, ci fa conoscere pagine di storia e ci propone la lunga investigazione sull'immane tragedia di Vergarolla a Pola, nell'immediato dopoguerra. Il riferimento è ai documenti trovati presso il Servizio Segreto britannico di Londra. Con tali prove si è potuto risalire all'identità di alcuni attentatori e all'Intelligence jugoslavo come mandante. Questo atto terroristico contribuì al grande esodo della popolazione di Pola".
 
Sezione Testimonianze
Secondo Premio
L'esodo nei ricordi dei giuliano-dalmati di Padova. 1943-1954, di Francesca Fantini D'Onofrio, Italia Giacca Zaccariotto, Mario Grassi
"Il volume trae origine dalla preziosa memoria autobiografica dei protagonisti dell'esodo giuliano-dalmata di Padova, entrata a far parte del Patrimonio documentario dell'Archivio di Stato della città patavina. Il lavoro, corredato da una ricca documentazione fotografica risalente all'epoca degli eventi narrati, costituisce un apporto considerevole alla conoscenza del contesto storico in cui si consumò la tragedia che colpì le popolazioni del confine orientale".
 
Sezione Testimonianze
Menzione d'Onore
Ho trovato una fotografia della mia infanzia, di Luciana Rizzotti
 
Sezione Testimonianze
Menzione d'Onore
I miei ricordi di Dignano d'Istria, di Armando Delzotto
 
Sezione Testimonianze
Menzione d'Onore
Ricordo.Testimonianze dignanesi, di Maria Grazia Belci
 
Sezione Testimonianze
Menzioni d'Onore
Ieri e oggi. Testimonianze in dialetto polese, di Silvia Sizzi
 
Sezione Storia
Primo Premio
Storia della Congregazione delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù di Fiume, di Maria Gabriella Corva Fscg
«L'autrice, dopo aver trattato ampiamente la storia della città di Fiume, illustra l'origine della famiglia Cosulich e quindi presenta la figura di Madre Maria Crocifissa, fondatrice della Congregazione delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù. Le rilevanti opere religiose e sociali promosse subirono un'improvvisa battuta d'arresto con la II guerra mondiale. Quindi, l'abbandonare la città e la loro Casa Madre, per le sorelle della Congregazione non fu una libera scelta, ma un atto di obbedienza ad ordini superiori che comportò il trasferimento in territorio italiano. Tuttavia lasciarono nella loro terra d'origine numerose e significative opere a testimonianza del loro fervente apostolato»".
 
Sezione Storia
Secondo Premio
Istria, 1946: il plebiscito negato, di Paolo Radivo
"Dobbiamo mettere in luce l'impegnativo ed accurato lavoro svolto dall'autore nella ricerca archivistica e nella selezione di diverse fonti. Il materiale consultato è di grande interesse e porta alla conclusione che il plebiscito richiesto dalle popolazioni dell'Adriatico orientale in merito alla loro autodeterminazione, fu ostacolato e poi negato, nonostante i principi dell'ONU allora nascente, per opportunismi di politica nazionale ed internazionale".
 
Sezione Storia
Menzione d'Onore Speciale
Foibe, una tragedia annunciata. Il lungo addio italiano alla Venezia Giulia, di Vincenzo Maria de Luca
«La Giuria del Premio Letterario Nazionale "Gen. Loris Tanzella" ringrazia l'autore per l'assiduo ed appassionato lavoro di ricerca, di approfondimento e di divulgazione delle tematiche storiche del confine orientale e della tragedia delle foibe. Questa edizione dell'opera, di recente pubblicazione, riveduta ed ampliata rispetto alla prima, evidenzia l'accuratezza del ricercatore, la determinazione e il coraggio dello storico amante della verità».
 
Sezione Storia
Menzione d'Onore
La questione giuliana nei documentari cinematografici e Campioni giuliano-dalmati dello sport, diAlessandro Cuk
 
Sezione Poesia
Primo Premio
Raccolta di poesie, di Rita Mazzon
«Per l'intensità e la chiarezza con cui la sua poesia evoca lo smarrimento dell'esule, la perdita di identità e la ricerca angosciosa di capire il perché di una tragedia che continua ad interrogare la storia personale e nazionale degli italiani».
 
Sezione Poesia
Menzione d'Onore
La mia gente. La nostra storia, di Giorgio Tessarolo
 
Sezione Poesia
Menzione d'Onore
Riflessioni, di Anita Forlani
 
Sezione Poesia
Menzione d'Onore
Ahi, matrigna Italia, di Guerrino Kotlar
 
Sezione Poesia
Menzione d'Onore
Nostalgia, di Ettore Berni
 
Sezione Poesia
Attestato di partecipazione
I detriti necessarj, di Virgilio Atz
 
Sezione Narrativa
Primo Premio
Istria d'amore, di Ulderico Bernardi
«Istria: sulla battigia latina sono venute a spegnersi onde di trasmigrazioni millenarie. E' questa la matrice del variegato spirito istriano, che risente di molte e diverse vicende storiche, spesso violente e animose e che solo la Repubblica veneta ha saputo comporre per un millennio in una coinè di dialetti e di costumi. Ma l'Istria fa parte di una regione più vasta, con Aquileia, Venezia, Gorizia, Trieste, che ha quindi confini dall'Adda all'Adriatico».
«Nell'amplissimo e variegato orizzonte descritto dal Prof. Bernardi, spiccano la ricerca erudita e profonda dello storico, l'animo soave ed incantato dell'innamorato, il passo leggero del viandante (non del turista) che coglie e condivide tutte le sfaccettature dell'animo istriano. Il Prof. Bernardi non ha bisogno di presentazione: la sua opera parla per lui; ma qui ci è gradito premiarlo come fratello e amico delle nostre terre».
 
Sezione Narrativa
Secondo Premio
La batana FM 341 – Storia de pesca nel Quarnero, di Rodolfo Decleva
«Il lavoro, in dialetto fiumano, recupera la tradizione e il linguaggio dei pescatori del Quarnero, fornendo puntuali lezioni di tecnica della pesca con un linguaggio ricco di descrizioni minuziose e di precisazioni.
Pesca come risorsa, un tempo inesauribile, pesca come fonte di sopravvivenza e come baratto negli anni bui della guerra, pesca come legame indissolubile con un mare generoso, con la sua bellezza e le sue intemperie, rituale nella vita quotidiana della gente quarnerina. Anche i canti che accompagnavano la pesca sono riportati in questo curioso e interessante lavoro».
 
Sezione Narrativa
Menzione d'Onore
El roplan dei sogni di Roberto Stanich
 
Sezione Narrativa
Menzione d'Onore
Laura, di Tullio Binaghi
 
Sezione Linguistica
Primo Premio
Parlavimo e scrivevimo cussì in Casa Mocolo. Vocabolario del dialetto polesano-istriano, diRuggero Botterini
«In quest'opera è opportuno sottolineare la salvaguardia ed il recupero di un importante patrimonio culturale caratterizzante il territorio istriano ed in particolare la città di Pola. All'autore va un plauso particolare per la certosina ricerca dell'idioma istro-veneto, essenza di antichi valori culturali delle terre dell'Adriatico orientale».





152 - La Voce del Popolo 24/03/14 Gorizia : Convegno - Beni abbandonati e ottica europea

Beni abbandonati e ottica europea

Emanuela Masseria

GORIZIA | Doveva configurarsi come un convegno “tecnico”, per pochi addetti ai lavori, quello proposto nei giorni scorsi dall\'Anvgd nazionale a Gorizia sui beni abbandonati. In pratica è stato però un incontro piuttosto partecipato, che ha dato conto della magmatica e complessa situazione giuridica che attraversa il tema delle proprietà cedute nei territori che hanno più volte cambiato bandiera nel corso della storia. Tra gli ospiti che a vario titolo sono intervenuti si può però rintracciare una linea comune d’azione per l’immediato futuro: cominciare a lavorare per nuovi diritti e regole dentro a una cornice europea, pur nel rispetto e nelle interpretazioni dei Trattati e delle leggi nazionali.

Passi avanti e incertezze

Il convegno partiva dal caso dei beni nella Croazia entrata nell’UE, un Paese dove sembrano esserci stati notevoli passi avanti, pur in un clima di incertezza. La tavola rotonda, moderata dal professore emerito Giuseppe de Vergottini e da Davide Rossi, professore e avvocato, in questa sede ha affrontato, nelle pieghe del diritto comunitario, proprio la situazione di questa sostanziale impasse.

Piattaforma in Rete

Un secondo aspetto importante che si lega alla giornata è la realizzazione di una piattaforma Internet dove si potranno trovare e scaricare liberamente tutti i documenti utili a chi è interessato a questa materia. Anche la tavola rotonda è stata trasmessa in streaming, in diretta televisiva e prossimamente sarà visionabile in rete sul sito dell’Anvgd. Così ha sottolineato il vicepresidente nazionale dell’Associazione Venezia Giulia e Dalmazia, Rodolfo Ziberna, che ha parlato della possibilità di trovare anche i testi degli interventi del recente convegno, e, più in generale, molti documenti utili che riguardano una moltitudine di Paesi e situazioni, in considerazione dei tanti esuli che seguono la questione anche fuori dall’Italia e dal contesto europeo. L’obiettivo è, come sottolineato da Rossi, “rendere il portale un punto di arrivo ma anche punto di partenza per chi si occupa di queste questioni da vent’anni”.

Tutela e regole del potere

L’incontro, dopo i commenti introduttivi, ha visto la partecipazione in videoconferenza da Vienna di Ulrike Haider, figlia dell’ex governatore Jorg Haider e figura politica nascente nel contesto austriaco in vista delle prossime elezioni europee. Attualmente ricercatrice, la 37.enne Haider ha già collaborato con De Vergottini sul tema della tutela delle minoranze ed ha incentrato il suo intervento sulla situazione austriaca, guardando a dimensioni più teoriche e ampie. “Bisogna ripensare alla questione dei beni e degli esodi nei termini del diritto dell’Unione europea. Questo è un tema universale da trascendere, ma soprattutto da considerare sempre attuale e ancora da risolvere. Pensiamo, ad esempio, alla pulizia etnica nei Balcani negli anni ’90 o al Kosovo e, adesso, all’Ucraina. Questo è un tema che non potrà essere sradicato dalle regole del potere e da quelle degli Stati nazionali. I diritti delle minoranze – ha concluso – sono e restano una questione identitaria che si scontra con il potere. Non possiamo fare altro che chiedere chiarezza e tutele mirando a degli standard europei, che possano tener conto dei futuri allargamenti”.

Contatti tra gli Stati

Quello che Haider si è chiesta, alla fine, è: “Come proseguire?”. Alcuni chiarimenti sono poi stati avanzati da De Vergottini in merito alla notizia di una presa di contatto tra il presidente del Parlamento austriaco con quello croato sul tema dei beni abbandonati di soggetti austriaci. Ulrike ha riportato che il presidente del Consiglio austriaco ha in effetti avuto questo incontro dove è stata discussa una questione che “sta a cuore agli austriaci, ma manca l’ottica europea e delle possibili soluzioni”. Pare comunque che sia stato solo un contatto preliminare.

Diverse categorie d’intervento

Tornando invece alla questioni legate all’ex Jugoslavia, il prof. de Vergottini ha proseguito con il suo intervento dal titolo “La Commissione Leanza come base di partenza”, dove si è parlato di “un grosso pasticcio giuridico”. Nell’excursus del professore “una vicenda catastrofica andata avanti per anni” con la dissoluzione della Jugoslavia si è trasformata in un “un dibattito che dovrà riorientarsi nello stabilire diverse categorie di intervento, a seconda di cosa è stato effettivamente abbandonato”.

Nel corso della giornata sono poi intervenuti Paolo Sardos Albertini (La situazione dei beni abbandonati: un quadro generale), l’avv. Vipsania Andreicich (Le “eccezioni” ai Trattati), Anita Prelec (La giurisprudenza croata sui “Beni Abbandonati” ad un anno dall\'entrata nell\'U.E.) e Davide Lo Presti (La giurisprudenza della Corte dei Diritti dell\'Uomo in tema di espropriazione e nazionalizzazione).

Emanuela Masseria





153 - Il Piccolo 21/03/14 Regione Istriana: Il Veneto partner privilegiato. E Flego incontra Zaia
Il Veneto partner privilegiato. E Flego incontra Zaia

POLA Dei 320 progetti europei che l’Istria ha sinora realizzato, 88 sono stati portati a termine con partner italiani e, di questi, 19 con il Veneto.
Lo ha sottolineato il presidente della Regione Valter Flego durante la conferenza stampa al termine dell’incontro a Pola con il console generale d’Italia a Fiume Renato Cianfarani. «Questi numeri confermano il notevole peso dell’Italia nei nostri scambi economici e commerciali» ha aggiunto Flego spiegando d’aver discusso con il console dei prossimi bandi europei ai quali i partner italiani e croati intendono aderire congiuntamente. È dunque il Veneto la Regione partner privilegiata dell’Istria. Non a caso, proprio oggi, Flego si recherà a Venezia per un incontro con il governatore Luca Zaia teso a illustrare le peculiarità istriane ai potenziali investitori veneti. L’Istria, comunque, ha già sottolineato il ruolo della legge Beggiato per il recupero del patrimonio artistico e culturale lasciato dalla Serenissima. Legge, approvata nel 1994 in Veneto, che ha consentito di realizzare fino al 2011 101 progetti del valore complessivo di 2,5 milioni di euro. E non è finita. Dopo i dieci progetti portati a termine nel 2013 per 252.000 euro, quest’anno ne sono in cantiere cinque per 119.000 euro.
Dopo il Veneto, nella classifica delle regioni italiane più “vicine” in fatto di collaborazione europea, si piazza l’Emilia Romagna con 12 progetti.
Terzo il Friuli Venezia Giulia con 9 progetti. Cianfarani, intanto, sempre nel corso dell’incontro, ha definito eccezionali i rapporti in campo economico, commerciale e culturale con l’Italia: «L’Istria offre ulteriori possibilità di investimenti e in questo senso tentiamo insieme di individuare nuovi segmenti di cooperazione». Alla domanda se si sia parlato della Comunità nazionale italiana, Cianfarani ha risposto affermativamente:
«La Regione ha uno statuto eccellente - ha detto - che sancisce il bilinguismo e garantisce i diritti fondamentali a tutte le minoranze sul territorio». (p.r.)


154 - Il Piccolo 22/03/14 Trieste: Santin, ecco la statua: le vesti del vescovo sferzate dalla bora
Santin, ecco la statua: le vesti del vescovo sferzate dalla bora

L’Icmp ha firmato il contratto, lo scultore Bruno Lucchi mostra il bozzetto per il Molo IV: «Il vento l’idea vincente»

di Fabio Dorigo

L’idea della bora è stata quella vincente». Bruno Lucchi, scultore trentino (è nato a Levico Terme nel 1951, dove vive tuttora e lavora), è tranquillo. Il contratto per la realizzazione della statua di Monsignor Santin è stato firmato e spedito da Alfonso Maria Brigante, presidente dell’Istituto di cultura marittimo portuale (Icmp). Nel novembre scorso Lucchi si era aggiudicato per 79mila euro una gara a quattro per la statua che sarà collocata in testa al Molo IV a lato del Magazzino 1. Quattro erano le offerte ricevute dalla fondazione Icmp destinataria del finanziamento regionale da 110mila euro per realizzare, all’interno del Porto Vecchio, il monumento al vescovo “con gli speroni” originario di Rovigno che ha legato il suo nome al riscatto di Trieste. «Il presidente mi ha autorizzato a rendere pubbliche le immagini del bozzetto e mi ha comunicato che il mio punteggio era quattro volte superiore al secondo classificato» racconta con orgoglio Lucchi. Non c’è stata partita. Lo scultore di Levico Terme, che vanta al suo attivo più di 180 esposizioni personali e sculture disseminate in Italia (nessuna però in Friuli Venezia Giulia) e all’estero (molte a bordo delle navi di Costa Crociere), non ha dubbi sulla carta vincente della sua offerta. «L’iconografia più classica porterebbe più facilmente a pensare a una figura benedicente il mare, i suoi naviganti e i suoi abitanti, al fine di proteggerli dalle avversità meteorologiche che spesso colpiscono Trieste - racconta Lucchi - . La mia proposta è di realizzare una statua in bronzo di oltre tre metri che rappresenti Monsignor Santin in un atteggiamento un po’ desueto, per come siamo stati abituati a vedere rappresentato abitualmente un alto prelato». Niente di blasfemo, per carità. La Curia di Trieste può stare tranquilla, nonostante l’artista trentino sia particolarmente bravo a modellare ninfe, dee, nereidi, sirene dalle sembianze femminili. «Il Vescovo, dopo aver combattuto contro la povertà e la dittatura a difesa degli ebrei e di Pio XI - continua Lucchi - viene rappresentato in un momento del quotidiano e caratteristico della città: la lotta contro i problemi causati dalla bora. Benedice sì, ma in una situazione dove credo che a Trieste si ritrovi anche la gente normale in una giornata di bora».
Il vento gelido del nordest ha messo d’accordo tutta la commissione tanto da assegnare allo scultore trentino un punteggio quadruplo rispetto al secondo arrivato. Il bozzetto della statua di bronzo (che è alto 30 centimetri) mostra il vescovo Santin benedicente che si tiene il cappello e benedice la città in una giornata ventosa. Non si tratta di una scultura religiosa. «L’opera può ispirare non solo i praticanti cattolici, ma anche genti di culture diverse, avvicinandole a questo personaggio tanto amato dai triestini» racconta lo scultore che, nella sua ormai trentennale carriera, non ha mai rappresentato un vescovo, anche se non è nuovo a soggetti di carattere religioso. «Due anni fa a Brescia ho fatto due mostre per la settimana montiniana e ho interpretato il cardinal Montini (il futuro Paolo VI, ndr) a modo mio. Non si è trattato di una rappresentazione realistica» racconta l’artista. Nel caso del vescovo Santin la somiglianza ci sarà. «Il bozzetto non fa testo - racconta Lucchi -. Il problema è che non c’è molto materiale iconografico. Cercherò di farlo più somigliante possibile. Tenga conto che il volto sarà a un’altezza di sei metri e mezzo».
L’altezza è stato uno dei problemi della statua fin dall’inizio. Alla fine, grazie alle pressioni dell’artista e dell’architetto Antonella Caroli (direttore dell’Icmp) il piedistallo è stato quasi dimezzato: da 7 metri si è ridotto 4 metri. «Tre metri in meno», spiega lo scultore che avrebbe voluto una statua a dimensione più umana: «Per il mio spirito la scultura l’avrei messa a livello del terreno in modo che la gente la possa toccare. È importante colloquiare con l’opera. Le sculture su basamento diventano dei monumenti. Non sono vere sculture secondo me. Sono un’imposizione dall’alto al basso. E non credo che lo spirito del Santin fosse quello di guardare la gente dall’alto al basso». Il basamento, democratico o meno, ci sarà. E i tempi? «Ora che abbiamo le misure servirà un mese e mezzo per progettare il basamento e presentare il progetto definitivo - chiarisce Lucchi -. Dopo ci vorranno due o tre mesi di fonderia». Alla fine la statua di Santin sarà pronta ad affrontare davvero la bora del prossimo autunno.




155 - La Voce del Popolo 15/03/14 Zara, porte aperte agli imprenditori
Zara, porte aperte agli imprenditori

Krsto Babić


ZARA Bo�idar Kalmeta, classe 1958, è il sindaco di Zara, la città nella quale è nato e dalla quale è partito alla volta di Zagabria una prima volta per iscrivere la Facoltà di Agronomia. Conclusi gli studi è però ritornato nella sua città. Quello è stato tuttavia soltanto il primo dei suoi ritorni… La carriera politica lo ha infatti portato spesso a percorrere il tragitto tra la sua Zara e la capitale croata, un tragitto che soltanto negli ultimi anni scorre lungo un’arteria autostradale: quell’A1 la cui realizzazione ha seguito da vicino nel ruolo di ministro del Mare, del Traffico, dello Sviluppo e del Turismo, incarico che ha ricoperto per due mandati (2003-2011). Ma anche qui tutto parte da Zara, dove nel 1993 si candida al Consiglio comunale e dove viene eletto con il miglior risultato realizzato nella sua circoscrizione. A breve sarà nominato vicesindaco e già l’anno dopo è alla guida della sua città: è sindaco di Zara. Incarico che lascerà dopo essersi nettamente imposto alle elezioni parlamentari del 2003, e che è tornato a ricoprire dopo le ultimi elezioni locali e che lo hanno visto vincere alle elezioni dirette. Lo abbiamo incontrato per sentire quali sono i progetti in cantiere nella città che da molti è vista come un esempio di successo in termini di crescita e sviluppo. Ma trattandosi di Zara, città nella quale di recente dopo una lunga attesa è stato finalmente inaugurato un asilo italiano, non potevano mancare domande riferite al dialogo tra la Municipalità, la Comunità degli Italiani e gli esuli zaratini…

Negli ultimi 15 anni Zara ha registrato una straordinaria crescita sia economica, sia demografica. Qual è il segreto del vostro successo?

“Nel corso della storia, sia antica sia recente, Zara ha sempre saputo sfruttare appieno tutti i vantaggi della sua posizione geostrategica. Situata al centro delle vie di comunicazione nazionali e internazionali, Zara, anche in virtù del suo porto, ha sempre suscitato l’interesse di numerosi imprenditori. Negli ultimi 15 anni, soprattutto dopo la fine della guerra, Zara ha saputo creare tutti i presupposti indispensabili a garantire uno sviluppo veloce e organico della città. Grazie al completamento dell’Autostrada A1, alla ristrutturazione dell’aeroporto e all’avvio dei lavori di costruzione del nuovo porto, Zara ha saputo confermare nuovamente la sua importanza geostrategica.
Indubbiamente, la piena valorizzazione di Zara è impensabile senza un adeguato coinvolgimento del suo hinterland: il mare, le isole, l’entroterra agricolo, il Velebit... Si tratta di una realtà geografica che fa riferimento a Zara intesa come centro amministrativo di una regione più vasta, che si distingue per il costante rafforzamento del suo potenziale nei settori economico, municipale, sanitario, sociale e culturale.
Purtroppo, la crisi economica che investe tutti i settori ha prodotto effetti negativi anche sui programmi di sviluppo tesi a fare di Zara un centro urbano dotato di tutte le strutture che un centro europeo punta ad avere.”


Turismo, settore strategico

Zara è una delle più importanti mete turistiche dell’Adriatico. Oggettivamente, il benessere della città dipende in larga misura dall’andamento della stagione turistica. Cosa pensate di fare per consentirne il prolungamento?

“Per Zara il turismo è indubbiamente un settore strategico. Negli ultimi 10 anni il traffico turistico ha registrato risultati da record, tanto che le capacità ricettive esistenti ormai non bastano più a soddisfare la richiesta. Proprio per questo motivo stiamo pianificando e allestendo una serie di attività volte a consentire il prolungamento della stagione turistica attraverso lo sviluppo di forme selettive di turismo quali l’organizzazione di congressi o il turismo sanitario.
Grazie a un’attenta pianificazione del territorio siamo stati in grado di assicurare a ridosso del centro storico cittadino spazi destinati a ospitare nuove strutture alberghiere di fascia alta e di lusso. Inoltre, tutti gli anni ci adoperiamo al fine di migliorare e arricchire la nostra offerta turistica. Già oggi Zara è apprezzata dai turisti non soltanto per il suo patrimonio storico e culturale o per le bellezze naturali che contraddistinguono il territorio, ma anche per il suo essere una destinazione capace di garantire sempre di più un’esperienza unica, legata alle installazioni urbane, uniche nel loro genere.”

Arte e cultura

L’Organo marino e il Saluto al sole hanno lasciato senza fiato l’opinione pubblica croata e tantissimi ospiti stranieri. Avete in progetto di stupire la Croazia con nuove installazioni architettonico-artistiche?

“Per quanto ogni nuovo intervento architettonico nel centro storico susciti reazioni di vario tipo nell’opinione pubblica, la città di Zara, essendo una comunità aperta nella quale vivono e operano creativi e artisti di grande talento, sarà sempre pronta a esaminare nuovi progetti che saranno proposti all’attenzione della Municipalità. Con un po’ di fortuna anche eventuali interventi futuri potranno riscuotere lo stesso successo dell’Organo marino e del Saluto al sole.”

Il porto di Ga�enica è uno dei progetti economici più ambiziosi da realizzarsi in Dalmazia. Quali passi ha intrapreso la Città di Zara per agevolarne la realizzazione? Quando potrebbe diventare operativa quest’importante infrastruttura?

“Il porto di Ga�enica è il risultato del lavoro degli esperti, dell’impegno, nonché della capacità espressa dal mondo economico, politico e dall’opinione pubblica zaratini. Sostengo convintamente che si tratti di un progetto d’importanza strategica per lo sviluppo non soltanto di Zara e della sua Regione, bensì di tutta la Croazia. La mia è un’opinione condivisa pure dalle istituzioni europee, che hanno inserito il porto di Zara nei principali corridoi europei e che ne sostengono la realizzazione assicurando finanziamenti a condizioni molto vantaggiose. Sebbene si tratti di un’idea zaratina, il porto di Ga�enica è stato incluso già da tempo tra i progetti d’importanza nazionale, tanto che le istituzioni statali ne seguono la realizzazione. Lo sviluppo della Città di Zara poggia proprio sul nuovo porto e pertanto, nell’ambito delle sue competenze, la Municipalità ne sostiene convintamente il completamento, auspicando che il porto sia realizzato in tempi quanto più brevi possibile.
Con la realizzazione del porto non si svilupperanno soltanto le attività portuali, ma anche tutta una serie di altri servizi e attività produttive. Considerate le potenzialità del terminal passeggeri, confidiamo nel fatto che Ga�enica potrà assumere il ruolo di porto d’imbarco per le navi da crociera, dando così un nuovo impulso allo sviluppo dell’offerta turistica e di tutte le attività legate al turismo. Il porto esprimerà appieno le sue potenzialità in seguito alla realizzazione del terminal per la manipolazione delle merci.”

I collegamenti sono fondamentali

In generale, i collegamenti sono molto importanti per lo sviluppo di una città. Come giudica la situazione per quanto attiene ai collegamenti aerei e marittimi dei quali si può avvalere Zara?

“La realizzazione dell’autostrada ha assicurato un ottimo collegamento non soltanto tra Zara e Zagabria, ma anche tra Zara e tutti i principali centri dell’Europa centrale, ma, fatto questo, l’aeroporto di Zara ha rischiato il collasso. Si è reso pertanto indispensabile impostare strategie capaci di assicurare l’aumento del numero dei passeggeri. A tale proposito ci siamo avvalsi della collaborazione con le compagnie aeree a basso costo e con quelle specializzate nei voli charter per il turismo, che hanno riconosciuto le potenzialità di Zara quale destinazione turistica. A distanza di cinque anni posso affermare con soddisfazione che il numero dei passeggeri è cresciuto in modo costante e sono convinto che questo trend proseguirà anche in futuro.
Purtroppo non posso dire la stessa cosa per quanto attiene ai collegamenti marittimi internazionali. Nonostante il tragitto tra Zara e Ancona rappresenti la rotta più breve e veloce per unire le due sponde dell’Adriatico, i collegamenti con i vicini d’oltremare si mantengono solamente durante la stagione turistica.
Ci rallegra però l’aumento dei passeggeri diretti verso le isole dell’arcipelago zaratino. Rilevo con orgoglio che la linea Zara-Oltre (Preko) è la più trafficata a livello nazionale. Indubbiamente il completamento del porto di Ga�enica e la conseguente realizzazione di uno scalo passeggeri più moderno aiuterà i collegamenti marittimi a raggiungere i livelli di crescita registrati nel traffico aereo.”


Il potenziale economico

Ogni anno molti turisti stranieri visitano Zara, gli ospiti italiani sono tradizionalmente tra quelli più numerosi. In quale modo questo fatto influisce sull’interesse degli imprenditori italiani a investire nello sviluppo di Zara?

“Zara è tradizionalmente legata all’Italia. Rilevo con orgoglio che siamo gemellati con Padova e Reggio Emilia, città con le quali coltiviamo ottimi rapporti d’amicizia. Le collaborazioni migliori le abbiamo realizzate nel campo della cultura, della scienza e dell’istruzione, ma va detto che anche il settore economico offre un potenziale immenso. Questo deve essere sfruttato per realizzare progetti comuni. Al momento la collaborazione economica è visibile nel campo dell’industria alimentare, con particolare riferimento alla maricoltura e alla pesca. Siamo però consci di tutte le potenzialità riguardo ai possibili investimenti italiani nel nostro territorio. Colgo anche l’occasione di questa intervista per segnalare agli imprenditori italiani che Zara vanta un forte potenziale economico e che le porte della Municipalità per loro sono sempre aperte.”

Grande il contributo di Luxardo

Durante la II Guerra mondiale e nel secondo dopoguerra molti zaratini hanno dovuto abbandonare la propria Città natale. Missoni e Luxardo sono soltanto due delle dinastie imprenditoriali italiane originarie di Zara. Esistono contatti e collaborazioni di natura culturale o imprenditoriale tra la Città di Zara e le associazioni degli esuli zaratini?

“La Città di Zara coltiva buoni rapporti e una collaborazione costante con la Comunità degli Italiani di Zara e con la sua presidente Rina Villani. La Comunità collabora con le famiglie zaratine che durante la II Guerra mondiale hanno lasciato queste terre per recarsi in Italia. Molte di queste sono attive anche nell’associazione culturale Dante Alighieri, che è presente anche a Zara con una sua succursale. Entrambe le istituzioni, sia la Comunità degli Italiani sia la Dante Alighieri, promuovono eventi e manifestazioni coinvolgendo la Città di Zara nella loro organizzazione e invitandola a partecipare agli stessi. In questo contesto, inoltre, non posso non menzionare il contributo dato, nel 2003, dal signor Franco Luxardo e dai suoi collaboratori all’intensificazione dei rapporti tra Zara e Padova, e quindi al gemellaggio tra le due città. Inoltre, so che il signor Luxardo ha donato diversi libri di grande valore alla Comunità degli Italiani e al Dipartimento di Italianistica dell’Università di Zara. Il signor Luxardo ha contribuito anche all’organizzazione di diverse iniziative culturali realizzate sia a Zara sia a Padova. Zara è una città aperta anche per quanto concerne la collaborazione nella sfera imprenditoriale. Se qualcuno ci proporrà progetti realizzabili valuteremo con interesse le proposte progettuali e saremo felici di valutarne la fattibilità.”


Con la CNI ottima collaborazione

A Zara operano la Comunità degli Italiani e l’Asilo in lingua italiana “Pinokio/Pinocchio”. La Città sostiene le loro attività? In quale modo?

“Per diversi anni la Città di Zara ha assicurato dei finanziamenti, seppur modesti, a sostegno dei programmi culturali della Comunità degli Italiani. Allo stesso modo ha sostenuto anche i programmi promossi dalle associazioni delle altre minoranze nazionali attive nella Regione di Zara. Dopo aver inaugurato l’iniziativa denominata “Giornata internazionale della varietà culturale”, il cui svolgimento è fissato nel mese di maggio, e dopo aver avviato la pubblicazione della rivista Zadarski most prijateljstva (letteralmente: Il ponte zaratino dell’amicizia), in linea di principio abbiamo smesso di erogare sovvenzioni per i singoli programmi. L’idea era di concentrarci su queste due iniziative che accomunano l’attività di tutte le minoranze nazionali di Zara, e che scaturiscono dalle decisioni del Gruppo di lavoro per il coordinamento delle minoranze nazionali. Va detto però che, dal 1.mo dicembre 2013, la Città di Zara finanzia lo stipendio di due educatrici (15.200 kune al mese) impiegate presso l’asilo italiano Pinocchio.”



156 - Varese News 20/03/14 Busto Arsizio: La signora Veronica Segon in Prodan compie 100 anni
Busto Arsizio

La signora Veronica compie 100 anni

Due guerre, diverse nazioni, sette figli, 11 nipoti e 7 pronipoti: per nonna Prodan un compleanno centenario che corona una storia lunghissima e le gioie di una famiglia numerosa

Un compleanno centenario che corona una storia lunghissima e le gioie di una famiglia altrettanto numerosa: oggi la signora Veronica Segon in Prodan di Busto Arsizio compie 100 anni (nella foto di un anno fa al 99esimo compleanno).
Quando nacque, nel lontano 19 marzo del 1913, il mondo era completamente diverso: basti pensare che la sua casa natale, in territorio istriano, ricadeva sotto l'impero austro ungarico. Da allora quel posto ha cambiato nazionalità diverse volte e lei si è spostata con tutta la famiglia in un'altra nazione.
Veronica è nata 100 anni fa, ha vissuto due guerre mondiali delle quali non ha mai voluto raccontare nulla e ha conosciuto la paura e la povertà, ma anche le gioie e le soddisfazioni di una vita semplice ma condotta con la consapevolezza di chi ha una forte tradizione alle spalle.
La signora Veronica si è innamorata nel periodo tra le due guerre di Matteo Prodan, con il quale ha condiviso il resto della sua vita. Un momento felice ma anche segnato da tragedie e preoccupazioni. Nel 1936 è morta la prima delle sue figlie, alla tenera età di sei mesi. E qualche anno dopo il marito è dovuto partire per l'Africa con l'esercito italiano, da dove farà ritorno solo al termine della guerra.
Tra gli anni '40 e '50 è diventata madre per sei volte vivendo con i figli e il marito in una grande casa famiglia nel piccolo paese di Prodani, in Istria, dove si sopravviveva solo con il lavoro dei campi e l'allevamento degli animali.
Nel contesto di quell'epoca le donne come Veronica non avevano voce in capitolo sulle scelte importanti, che invece spettavano agli uomini, e fu così che nel 1966 il signor Prodan riuscì a portare tutta la famiglia in Italia, ad eccezione di uno dei suoi figli che decise di rimanere con la sua famiglia in Jugoslavia.
Poco dopo il trasferimento, però, il marito morì di malattia. E fu in quel momento che la signora Veronica, apparentemente fragile, ha preso da sola le redini della sua numerosa famiglia: oggi è molto grata al marito per la scelta di trasferirsi in Italia dove i suoi figli sono riusciti a trovare lavoro e costruirsi una famiglia.

Veronica Segon oggi festeggia il suo compleanno con gli amici, con i suoi figli, con i suoi 11 nipoti e i suoi 7 pronipoti. Riesce a malapena a camminare e la vista l'ha abbandonata ma è ancora molto lucida. Dice di sentirsi molto stanca e che, forse, «100 anni sono un po' troppi»: lei stessa si dice molto stupita della sua età e a volte se ne chiede il perché. In tutti questi anni si è dedicata molto alla preghiera. Per questo giorno speciale ha detto che non importa come si sarebbe festeggiato. «L'importante è che si stia ancora insieme».

La famiglia ha festeggiato presso l'abitazione della signora Veronica nel quartiere Redentore. Ai festeggiamenti hanno partecipato anche il parroco, il sindaco Gigi Farioli e la Balcon Band che ha suonato per la festeggiata.

 



157 - Il Piccolo 26/03/14 La Comunità degli italiani si rifà il look a Gallesano

A giugno la fine dei lavori

La Comunità degli italiani si rifà il look a Gallesano

GALLESANO Alla Comunità degli Italiani che porta il nome dell’antifascista Armando Capolicchio, sono in corso importanti lavori di ristrutturazione e ampliamento degli spazi di cui è stato fatto il punto nel corso di una recente conferenza stampa convocata dal presidente della Giunta esecutiva dell’Unione italiana Maurizio Tremul. Il costo è di 180mila euro stanziati dal governo italiano e la conclusione è fissata entro il prossimo giugno.
Come precisato dalla giovane presidente della comunità Moira Drandic, le attività sono in crescita, specie tra le generazioni più giovani, per cui si sentiva la necessità di spazi nuovi. Dei lavori ha parlato la progettista Vesna Gojak. Praticamente ha spiegato, l’intero edificio subirà una specie di face-lifting. Ma quel che più conta si otterranno due vani nuovi al piano superiore, uno dei quali sarà adibito a galleria d’arte e l’altro sarà polifunzionale. Inoltre vengono sostituiti tutti gli infissi, rifatti completamente il tetto con l’uso di una copertura isolante e gli impianti elettrico e del riscaldamento centrale. Se avanzerà qualche euro, all’intero edificio sarà applicato il mantello isolante per contenere i consumi energetici. Tremul ha voluto precisare che nel 2011 è stato avviato un intenso programma di ristrutturazione e costruzione a nuovo di comunità, scuole e asili. «La nostra strategia - ha spiegato -, è quella di portare a termine quanto prima tutti gli interventi nella sfera edilizia in modo tale da concentrare poi le risorse e gli sforzi sull’aumento delle attività sia sul piano della quantità che della qualità». Non è mancato il riferimento di Tremul alle pesanti critiche alla dirigenza dell’Unione italiana, da parte dell’opposizione interna. «Alle accuse gratuite nei nostri confronti - ha detto -, noi rispondiamo con i fatti, con il lavoro tangibile a favore delle nostre istituzioni». All’incontro stampa è intervenuta anche la vicesindaco di Dignano Luana Moscarda Debeljuh che ha ribadito la sensibilità dell’amministrazione municipale nei confronti della Comunità di Gallesano il cui ruolo ha detto, è oltremodo prezioso per la salvaguardia delle tradizioni e dell’identità del borgo. (p.r.)






158 - L'Indipendenza 28/03/14 Concorso sull'identità veneta, lo vince una scuola di Buje (Istria)
Concorso sull’identità veneta, lo vince una scuola di Buje (Istria)

di LUIGI POSSENTI

Mille e cento anni di storia non rappresentano una parentesi della storia, ma la storia stessa. L’Italia, semmai, ha l’aspetto della parentesi nella gloriosa storia della Repubblica Serenissima, finita fra le grinfie del Regno italiano solo grazie ad un plebiscito truffa (ormai ampiamente dimostratosi tale) svoltosi nel 1866.

Ma Venezia, il venetismo hanno radici profonde. Non solo su quel suolo che oggi è imprigionato nei confini italiani, ma anche in quelle terre che sono state parte della Repubblica di San Marco.

Ecco allora – come riporta il Gazzettino – che La scuola media superiore di Buje (Istria, Croazia) nel settore teatro con lo spettacolo “Una confusion de comedia” ha vinto il concorso fra i ben 150 progetti presentati da 126 istituti scolastici di ogni ordine e grado da tutto il Veneto e dalla Slovenia e Croazia durante la Festa del popolo veneto celebrata nella Scuola grande di San Giovanni Evangelista.

In Istria e non in Veneto i vincitori? Capito quanti danni ha fatto la scuola italiana? Par tera, par Mar… evviva San Marco.





159 - Il Piccolo 16/03/14 Duemila gli esuli istriani che si rifugiarono a Grado
Delle vicende di 65 anni fa si è parlato nell’incontro dedicato a quanti si stabilirono sull’Isola o nella frazione di Fossalon. Oggi rappresentano l’8% dei residenti

Duemila gli esuli istriani che si rifugiarono a Grado

di Antonio Boemo Circa 120 profughi istriani trovarono ricovero a Grado esattamente 65 anni fa. Alloggiarono tutti (anche cinque o sei per stanza) a Villa Teresa, che proprio in questo periodo – dopo diversi anni di chiusura – viene ristrutturata mantenendone intatto l’aspetto architettonico. Di quanto accadde 65 anni fa se n’è parlato anche in occasione dell’ “Incontro istriano”, dedicato a quelli che sono residenti a Grado, svoltasi alcuni giorni fa. Ricordi, quelli legati a Villa Teresa, portati alla luce da una delle persone, Tullio Svettini, che allora trovarono alloggio proprio in quell’edificio. Frammenti del passato che si collegano oggi con quelli degli istriani che emigrarono in Australia, la cui partenza proprio in questi giorni viene ricordata a Trieste. A Grado esuli istriani trovarono alloggio, oltre che a Villa Teresa, anche in diversi altri edifici come le ville Aida, Alga, Santina, Istria e Minerva. Allora transitarono per Grado circa duemila profughi. Di questi un migliaio si stabilì definitivamente nell’Isola o a Fossalon.
Oggi si calcola che a Grado ci siano ancora circa 500 istriani (circa l’8 per cento della popolazione). L’arrivo degli esuli avvenne in più tornate e in periodi diversi. Un primo “sbarco” avvenne nel 1947, seguito da altri fra il 1949 e il 1950. L’ultimo fu nel 1954 quando, a seguito del memorandum di Londra, Trieste tornò all’Italia e contestualmente tantissimi istriani lasciarono Buie, Cittanova, Umago e altre località passate all’ex Jugoslavia. Questi ultimi trovarono sistemazione in particolare a Fossalon, dove peraltro c’è anche una piccola comunità di esuli veneti. Di quest’ultimo esodo istriano a Grado ne narra anche Fulvio Tomizza nel libro “Il bosco di acacie”.
Il perché della scelta di Grado sta essenzialmente nel fatto che è una località di mare per certi versi simile a quelle istriane. «Credo – dice Tullio Svettini – che mai avremo pensato di essere accolti così bene dalla gente di Grado. Certo, tutti hanno dovuto fare dei sacrifici ma tutti noi siamo riconoscenti». Villa Teresa ospitò gli istriani sino al 1958 quando nella proprietà subentrò la famiglia Mariannini, che la condusse sino al 1993. Era allora l’ultima casa di Grado, oltre c’era la palude.
Tra gli abitanti di Villa Teresa molti erano rovignesi. «Nel 1949 – ricorda Svettini” – la mia famiglia arrivò a Grado esule da Rovigno d’Istria , dopo un brevissimo periodo passato al campo profughi di Udine. Io e mio fratello Claudio, mio padre Mario, mia madre Eufemia e mia nonna Emilia, ci siamo sistemati in una stanza in affitto in Villa Teresa. Fra tutti gli altri - aggiunge - ricordo la famiglia Burla con le quattro sorelle: Lucia, Erasma, Letizia e Ilda, le “piccole donne”. Nei campi retrostanti la villa facevamo salire gli aquiloni di pascoliana memoria, fatti con canne, carta colorata e colla di farina». Da Villa Teresa la famiglia Svettini, così come altre famiglie di profughi istriani, si trasferì in Colmata, vicino a quella che oggi è la spiaggia della Costa Azzurra ma che allora – parliamo del 1954 – vicino alle abitazioni si presentava come una distesa di fango, sabbia e acquitrini.





160 - La Voce in più Storia & Ricerca 01/03/14 Padova, Venezia e l'Istria appunti su legami secolari

Riflessioni

Padova, Venezia e l'Istria appunti su legami secolari

di Kristjan Knez

Dai tempi antelucani, i rapporti tra il Veneto e l’Istria rappresentano una costante. Nel corso della protostoria, la cultura di Este, che si era sviluppata nell’età del ferro, si riflesse anche sulla penisola adriatica.
Quella popolazione era solita costruire gli abitati sulle parti alte delle sommità; i castellieri, questo è il nome di tali villaggi, conservano le prove palesi di queste antiche relazioni, come la necropoli venetica portata alla luce a Nesazio, l’antica capitale degli Istri. Questo fugace riferimento, che ci rimanda alle epoche più remote, rivela inequivocabilmente il percorso comune dei territori finitimi, i cui popoli entrarono in contatto, sviluppando scambi resi possibili dagli scali di Adria e Spina.

Dopo la vittoria navale riportata su Cleopatra e Antonio ad Azio, che decretò la conquista dell’Egitto e pose fine alle guerre civili, fu Ottaviano Augusto, ormai padrone dell’Impero, a dare una nuova organizzazione territoriale alla penisola italica, suddividendola in undici regioni. La decima, la Venetia et Histria, comprendeva il nord-est e la penisola d’oltre Adriatico, dal Po all’Arsa, fiume che segnava il confine d’Italia, che prima del 12 d.C. correva lungo il Risano.

Ebbe inizio un periodo di stabilità e prosperità. Il crollo dell’edificio imperiale d’occidente per opera delle popolazioni che avevano oltrepassato i limiti di Roma, non rappresentò una cesura per le terre dell’alto Adriatico, il regno di Teodorico, infatti, comprendeva sia l’Italia centrale e settentrionale sia l’Istria e la Dalmazia. Gli Ostrogoti acquisirono la maggior parte delle istituzioni politiche ed economiche dell’Urbe, come pure la sua lingua e cultura.

L’andirivieni di nuovi popoli, che misero a ferro e fuoco una vasta area geografica, non ebbe fine e i risultati furono deleteri. Centri urbani fiorenti si trasformarono in spettri, e le collettività degli stessi cercarono riparo in direzione di approdi più sicuri. Quella fu la sorte di Aquileia, emporio e città tra le più importanti dell’Impero romano, saccheggiata dagli Unni; non diversa quella di Padova, piegata sotto i colpi dei Longobardi, i cui abitanti trovarono riparo a Monselice.

Tra la terraferma e la laguna, in mano ai Bizantini che contrastavano l’avanzata longobarda verso il mare, il braccio di ferro perdurò fino al collasso del sistema difensivo che correva da Oderzo a Padova. Il precipitare della situazione costrinse i superstiti a cercare una nuova dimora sugli isolotti lagunari, che furono vivificati, mentre precedentemente erano stati per lo più delle zone di transito o di pesca e in buona parte disabitati. Si assistette a una traslazione di uomini e di istituzioni, che dettero vita a nuovi agglomerati, come Civitas nova, la futura Eraclea. E le ondate di profughi non si arrestavano, continuavano verso Torcello, Caorle, Malamocco. Il ducato bizantino delle Venezie scomparve sulla terraferma, ma serebbe continuato nelle lagune, con i fuggiaschi che portarono seco il retaggio della romanità, conservato con particolare attenzione e in seguito nuovamente irradiata. Vi giunse nuova linfa, mentre con l’andare del tempo uno slancio inedito avrebbe trasformato quell’ambiente nella culla di una civiltà vigorosa e grazie alla sua posizione geografica e al suo essere una cerniera tra oriente e occidente, che inizialmente faceva riferimento a Bisanzio, furono gettate le basi di quella mediazione che contraddistinse la fortuna e la strategia di Venezia, anche una volta affrancatasi dalla Roma d’Oriente. Terminato il dissidio franco-bizantino, il cui punto di frizione passava proprio ai margini della laguna, nell’840 l’imperatore Lotario confermava gli accordi precedenti, ridando a quelle comunità la libertà e l’indipendenza. Il centro dell’unità politica e territoriale si polarizzò a Rialto. La potenza del centro lagunare crebbe soprattutto grazie ai traffici, ai commerci che portarono le sue navi nei porti dell’intero Adriatico e del Mediterraneo. L’afflusso della ricchezza permise poi l’allestimento di una flotta militare e quindi di contrastare la pirateria, un problema ormai endemico che rendeva difficile la navigazione e bloccava gli scambi. Ormai stiamo parlando di Venezia, che in due secoli circa, tra il IX e X secolo, si sviluppò in un agglomerato urbano. Dalla difesa si passò all’idea di conquista. Nell’anno Mille il doge Orseolo compì la spedizione in Dalmazia ottenendo l’omaggio di quelle comunità, le promesse di fedeltà, di cooperazione e di collaborazione quale segno di gratitudine per aver contrastato le insidie provenienti dal mare e la minaccia dei principi slavi. Si stava tracciando una nuova politica, che aveva dei precedenti importanti, come l’accordo firmato con Capodistria nel 932.
Allo scadere del secolo undecimo, l’ancella di un tempo offerse il suo aiuto ai Bizantini, impegnati nel basso Adriatico in duri scontri con i Normanni.
I successi riportati furono di straordinaria importanza per i traffici
veneziani, ampliati esponenzialmente al tempo delle crociate. l’influenza politica e militare della Repubblica era viepiù maggiore.

Era una protagonista a tutti gli effetti, fu proprio questa che mediò la pace tra l’imperatore Federico I Barbarossa e papa Alessandro III, firmata nella città di San Marco nel 1177. Si arrivò anche alla IV crociata, nel 1204. I navigli veneziani avevano trasportato gli uomini armati non in Terrasanta ma a Costantinopoli, che fu saccheggiata decretando il crollo temporaneo di quell’impero. Le enormi risorse trafugate e l’occupazione di punti strategici nel Mediterraneo orientale rappresentarono il punto di svolta della sua talassocrazia. Contemporaneamente andò a cozzare contro le repubbliche marinare di Pisa e Genova, anch’esse interessate ai commerci in quel settore che fruttavano generosi guadagni.

Nella seconda metà del XIII secolo, complice la crisi che interessava il Patriarcato d’Aquileia, che aveva alimentato le bramosie dei comuni istriani e il loro spirito autonomistico, specie di Capodistria, il patriarca dovette ricorrere all’aiuto del conte di Gorizia, Venezia, invece, puntò lo sguardo sull’Istria. Sarà Parenzo a rivolgersi ad essa per evitare di cadere nell’orbita giustinopolitana.

Era il 1267. Ebbe così inizio l’espansione marciana su quella sponda, in poco più di un quindicennio tutte le cittadine della costa occidentale (esclusa Muggia e la Polesana) e Montona nell’interno finirono sotto la sua egida. Nel 1331 fu la volta di Pola e del suo ampio contado; sul finire di quel secolo la Repubblica acquistava anche alcune posizioni importanti, come Grisignana e Raspo. Nel Quattrocento, nel corso delle guerre contro il patriarca e l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, venuto meno il suo appoggio perché impegnato nella Boemia infuocata dallo scontro religioso, la Dominante abbatté quella struttura ormai pericolante. Estese il dominio all’intero Friuli e a diverse zone istriane: Muggia, Portole, Fianona, Albona, Pinguente, Pietrapelosa, ancora prima Buie. Era il 1420-21.

La sentenza di Trento del 1535, dopo anni di guerre, che avevano sconvolto la penisola italica, coinvolgendo pure l’Istria, cercò di fissare un confine accettabile con la Casa d’Austria, che dal 1374 possedeva la Contea di Pisino, mentre nel 1584, con l’istituzione del Magistrato di Capodistria con funzioni di corte d’appello, furono gettate le basi dell’organizzazione provinciale di quel possedimento. L’Istria, lo scudo della Serenissima,
rappresentava la propaggine della laguna e assieme ad essa costituiva un tutt’uno. L’area costiera, facilmente raggiungibile attraverso le vie del mare, lo era senz’altro. Questa osmosi secolare, questo dare ma anche ricevere, hanno scandito la storia di queste contrade, pertanto non deve stupire se nel 1797, spentasi la Repubblica oligarchica e costituita la Municipalità democratica, le comunità della sponda opposta avevano deciso di dedicarsi spontaneamente, e alcune inviarono le loro delegazioni in laguna, per rimarcare le antiche corrispondenze ed evitare di recidere il cordone ombelicale. Gli accadimenti volsero diversamente e le truppe asburgiche entrarono negli ex possedimenti di S. Marco e dopo ci fu il Trattato di Campoformio. Nonostante ciò, il ricordo rimase vivo. A Perasto, nelle Bocche di Cattaro, con un commiato della comunità, il gonfalone fu deposto sotto l’altare della chiesa; a Pirano, invece, abbattuto il vecchio palazzo comunale ed eretto quello nuovo, nel 1879, sulla facciata dell’edificio neoclassico, che rimanda al gusto architettonico proveniente da Vienna, si volle ricollocare il leone alato, considerato un simbolo imperituro.

Rapporti economici, culturali, artistici, spirituali e umani avevano forgiato un ambiente unitario, che già per ragioni storiche antecedenti era stato contraddistinto da una comunanza di elementi. Se a Venezia arrivava il sale, il legname, la pietra, l’olio d’oliva, dalla capitale giungevano gli influssi culturali, le tele, le pale d’altare, i libri, le idee, i prodotti di lusso, come pure le granaglie e più tardi il caffè o il cioccolato, che si consumavano nelle famiglie patrizie di Capodistria.

Le corrispondenze culturali, poi, annoverano una storia particolarmente importante, rappresentano il cemento dei rapporti tra le terre bagnate da un mare comune.

Monaldo da Capodistria, frate francescano del XIII secolo, fu autore della Summa de iure canonico, opera nella quale sono trattati argomenti economici, come l’analisi del mercato e la sua eticità o la simonia. Il manoscritto più antico oggi conosciuto si conserva a Padova, alla Biblioteca Antoniana, e risale al 1293. Nicolò d’Alessio, esponente di una famiglia modesta di Capodistria, si laureò in legge all’Università di Padova, nellaloro idee di libertà s’opposero al governo asburgico, il docente perdette la cattedra e dovette trasferirsi a Milano, seguito da Combi stesso. Nel capoluogo lombardo dettero il loro contributo fondando giornali e scrivendo articoli per i fogli patriottici. Combi nel 1851 rifiutò di diventare assistente di filosofia a Padova per non giurare fedeltà alle autorità di Vienna.
L’isolano Domenico Lovisato si laureò in matematica e scienze naturali, fu geologo di fama mondiale e garibaldino (nel 1866).

Le guerre risorgimentali decretarono la fine del Lombardo-Veneto; la guerra del 1866 rappresentò anche una cesura per le terre dell’Adriatico orientale.
Il Veneto passò nel Regno d’Italia e al tempo stesso si ruppe il legame intrinseco esistente con l’Istria e la Dalmazia, che di fatto era continuato anche nel periodo napoleonico. Con quell’annessione la popolazione della sponda dirimpettaia si trovò privata della possibilità di completare l’istruzione superiore nella propria lingua madre. Sorgeva la questione universitaria italiana, che da subito appassionò i liberalnazionali, che in Trieste avevano individuato la sede ideale per un ateneo che avrebbe accolto i giovani connazionali.

Rappresenterà un problema per tutta la seconda metà dell’Ottocento, ripreso con veemenza ai primi del Novecento. Non se ne fece nulla. D’altra parte gli alti funzionari asburgici erano intenzionati ad ostacolare quell’aspirazione, già nel 1866 il luogotenente di Trieste, Kellersperg, aveva dissuaso l’istituzione di un istituto universitario italiano.
città natale fu notaio, mentre tra il 1360 e il 1380 fu cancelliere di Francesco da Carrara, signore della città del Santo.

La celeberrima università, le cui origini risalgono agli anni Venti del XIII secolo, istituzione che raccolse le menti migliori e i giovani di varia provenienza, fu frequentata da numerosi studenti istriani e dalmati, compresi i ragusei. Nomi eccellenti, di grande spessore intellettuale, si formarono in questo ateneo.

Non possiamo ricordarli tutti in questa sede, anche perché l’intervento diverrebbe un’elencazione con centinaia di nomi. I capodistriani sono i meglio rappresentati. L’umanista e pedagogista Pier Paolo Vergerio il Vecchio frequentò quell’università e ottenne il dottorato in arti, medicina nonché diritto civile e canonico.

Ottonello de Belli, che si laureò in legge nel 1589, è autore di un poemetto satirico Lo Scolare (1588) nel quale presenta la vita mal costumata degli studenti universitari a Padova, soffermandosi sulle loro malefatte nei confronti delle matricole, ma anche sulla loro strategia adottata per procurarsi il denaro presso genitori e parenti.

Nel 1585 Girolamo Vida scrisse la Filliria favola boscareccia, un’imitazione dell’Aminta di Torquato Tasso, rappresentata dapprima a Capodistria e subito dopo a Padova.

Santorio Santorio quivi addottoratosi (1582), nel 1599 si stabilì a Venezia ove ebbe rapporti con la famiglia Morosini, con Paolo Sarpi, con Galileo Galilei. Grazie a questa frequentazione applicherà ai suoi studi la ricerca sperimentale. Nel 1611 fu chiamato alla cattedra di medicina teorica nello Studio di Padova (che tenne sino al 1624).

Nel 1675 con l’approvazione del Senato veneziano, a Capodistria fu fondato il Collegio dei nobili; decenni prima, nel ospitato un seminario laico ma ebbe vita effimera, la guerra contro gli arciducali prima e la preste degli anni Trenta successivamente, contribuirono ad eclissare l’istituzione, che non ebbe una ripresa, nonostante le premure del patriziato locale e dei rappresentanti istituzionali della città di San Nazario. Questa struttura deputata all’istruzione, voluta dalla nobiltà ma destinata non solo ad essa, divenne un punto di riferimento per l’intero Adriatico orientale, che ospitava i giovani provenienti dal Friuli alle isole Ionie, ma anche dalle terre asburgiche.

Dal 1699 l’insegnamento fu affidato all’ordine dei padri scolopi delle Scuole pie, con sede a Roma. Divenne la tappa obbligatoria nella formazione prima di passare a Padova, nella stragrande maggioranza dei casi.

Nell’età dei lumi, nella città veneta si formarono Alessandro Gavardo, Girolamo Gravisi, suo cugino Gian Rinaldo Carli, che intraprese gli studi di giurisprudenza e si fece subito notare per la sua erudizione, proprio per questo fu ammesso, ventenne, nell’Accademia dei Ricovrati. Tra il 1745 e il 1750 ebbe a Padova il lettorato di teoria dell’arte nautica. Oltre ad essere uno studioso di vasti orizzonti, in grado di occuparsi di materie tra le più disparate, sarebbe divenuto un funzionario di rilievo nella Milano teresiana, nel 1765 fu nominato presidente del neocostituito Supremo Consiglio di economia e consigliere per gli studi nel ducato di Milano.

Giuseppe Tartini, che in patria studiò materie umanistiche e si dilettava alla musica, soprattutto al violino, a Padova studiò lettere e filosofia e oltre alla passione per lo strumento musicale si dedicava alla sciabola e ai duelli. A Padova ebbe una carriera importante; nel 1721 divenne primo violino e capo di concerto dell’orchesta di Sant’Antonio. Nel 1723 fu chiamato a Praga per l’incoronazione dell’imperatore Carlo VI.

A Padova, centro culturale di prim’ordine, Girolamo Gravisi conobbe le opere teatrali di Carlo Goldoni che rappresentarono uno stimolo per la stesura della sua tragedia Merope e della commedia, appena abbozzata, L’uomo per se stesso.

Nel primo Ottocento a Padova si laurearono il capodistriano Francesco Combi, l’isolano Pasquale Besenghi degli Ughi, che studiò giurisprudenza ma è conosciuto per essere il maggiore poeta del suo secolo. Il piranese Vincenzo de Castro in quell’ateneo era professore di estetica e letteratura classica, qui giunse anche il figlioccio Carlo Combi; per le Un altro isolano, Attilio Degrassi, insigne storico antichista ed epigrafista, si formò a Vienna, ebbe una carriera impostante; nel 1949 vinse la cattedra di storia greca e romana all’Università di Palermo, ma scelse Padova, dove si era liberata la stessa cattedra, e nel 1956 si trasferì a Ftoma. Queste note sparse sono la testimonianza più schietta della presenza reale di una componente, che ha prodotto cultura, si è adoperata a formare i propri giovani e ha dato vita a una fitta rete di relazioni. Mai dimenticando l’amore per la lingua e la cultura italiana. D’altronde il contributo della piccola penisola e di Capodistria in particolare, l’“Atene dell’Istria”, allo sviluppo civile in senso lato del Bel Paese e non solo è stato considerevole nel corso dei secoli, per quanto oggi, e da più parti, si tenda a misconoscerlo.

Con la lodevole iniziativa dedicata a Giuseppe Tartini, possiamo dire, con larga soddisfazione, di aver ricordato una gloria istriana, italiana, europea “ante litteram” evidenziando, ancora una volta, la concreta potenza della cultura, vettore straordinario che unisce le persone, getta ponti e crea legami. Conosciamo le lezioni del passato, perciò riprendiamo a ripercorrere gli antichi sentieri e le rotte già segnate. Ne trarremo grande beneficio. Tutti!

Testo presentato il 15 febbraio 2014 nella chiesa di Santa Caterina d’Alessandria a Padova durante la cerimonia d’inaugurazione del busto dedicato al violinista piranese, intitolata “Giuseppe Tartini e i secolari lagami culturali tra l’Istria e Padova”.





161 - La Voce del Popolo 16/03/14 Jan Bernas Una sola «colpa», quella di essere italiani
Una sola «colpa», quella di essere italiani

Ilaria Rocchi

FIUME – Senza grossi paroloni, senza retorica, senza quell’enfasi che spesso contraddistingue i politici, così un vecchio di Pola, esule in Italia, narra il dolore dell’abbandono della propria terra: “Pensate a casa vostra, al vostro quartiere, alla vostra città. Gli odori, i colori, le vie, la gente. In ogni angolo risuonano voci e rumori. È la vostra terra. Ne riconoscete quasi per istinto il respiro. Dialetti, tradizioni e modi di dire. Feste, canti e luoghi di ritrovo. Luoghi d’amore, che vi dicono chi siete e da dove venite. Ecco, provate ora a immaginare il silenzio. La vostra città, i suoi vicoli, le sue piazze, le sue chiese senza più rumori, odori, parole, senza più la sua gente. Vuota. Silenziosa. Deserta. Un silenzio irreale che avvolge e ovatta tutto. Il vostro mondo diventa altro. Lentamente si spoglia di voi. E voi di lui. Altri se ne appropriano. Altri prendono il vostro posto. Quelle vie che erano la vostra stessa identità, oggi, rivedendole lasciano nell’animo solo un’innaturale senso di estraneità.” Ora, immaginate di passare per queste stesse calli e piazze – luoghi in cui siete nati e cresciuti, e prima di voi i vostri genitori e nonni, e chissà ancora quante generazioni addietro – e non solo sentirvi maledattamente stranieri a casa propria, ma di venir additati con il marchio infame di “fascisti”. Perché italiani. In Istria, a Fiume (e macroregione), in Dalmazia. Esuli e rimasti: due voci di una tragedia comune; due voci che da tempo stanno gridando l’ingiustizia subita sessanta e passa anni fa. Per decenni nessuno le ha ascoltate e, per certi versi, alcuni continuano, in parte, ancor sempre a ignorare, a far finta che non esistano, oppure a sentire una sola delle due. Quella più insistente, o semplicemente quella più capace di ottenere quell’amplificazione necessaria affinché la si percepisca nella maniera più incisiva.

Di libri sulle foibe e sull’esodo degli istriani, giuliani e dalmati, ne abbiamo ormai a disposizione parecchi. Dopo il Giorno del Ricordo (10 febbraio), che rende omaggio, in Italia, alle vittime di queste vicende dimenticate, oltraggiate da un silenzio colpevole, si sono moltiplicate documentazioni, racconti, ricostruzioni storiografiche sulle sofferenze di 350mila persone costrette a lasciare le loro case dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Una voce, quella degli esuli, che dunque si sta facendo strada anche tra il più vasto pubblico da qualche anno a questa parte.

 Presentazioni a Fiume e Trieste

Trasversalmente, dà spazio anche “all’altra voce”, quella dei rimasti, uno dei libri freschi di stampa sull’argomento, “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani”, di Jan Bernas, edito da Ugo Mursia (Milano 2010, 192 pp., 16 euro), con una coraggiosa prefazione a firma di Walter Veltroni. Il volume verrà presentato venerdì prossimo a Palazzo Modello, con la partecipazione di Jan Bernas, nell’ambito di un incontro promosso dall’Unione Italiana in collaborazione con la Comunità degli Italiani Se ne parlerà anche a Trieste, il giorno prima, nella sala di lettura della libreria “Minerva” (via S. Nicolò, ore 18), su iniziativa del Circolo di Cultura istro-veneta “Istria”, con l’intervento dell’autore, di Livio Dorigo, presidente del Circolo, e del giornalista Ezio Giuricin. Jan Bernas, giornalista italiano di origine polacca, nasce a Roma nel 1978 e attualmente lavora per l’agenzia di stampa Apcom, occupandosi dell’Europa Centro-Orientale e balcanica. Scrive per “Il Messaggero” e collabora con la Fondazione Farefuturo, con il blog “Il Cannocchiale” e con la rivista di geopolitica “Equilibri”. Laureato all’Università di Bologna in Scienze Internazionali e Diplomatiche, ha conseguito un master in European Policy presso il College of Europe.

Un’opera che, tra cronaca e storia, ricostruisce tassello dopo tassello l’intero mosaico, il dramma comune di un popolo. L’Unione Italiana l’ha definita “meritevole di essere distribuita” nel territorio dell’insediamento storico degli italiani che ne sono protagonisti, tra le Comunità degli Italiani, le scuole e le istituzioni dei rimasti, la Comunità Nazionale Italiana. Nel motivare la proposta di acquistare, dalla casa editrice, duecento copie del libro (con uno sconto del 35 per cento, per cui il valore complessivo dell’operazione è di 2.130,46 euro al lordo, comprese le spese di imballaggio e di spedizione), la Giunta esecutiva dell’UI rileva che l’autore, con questa pubblicazione, “ha voluto presentare sotto una diversa luce, fatta di testimonianze, una pagina di storia italiana troppo spesso dimenticata”, e ha intervistato e raccolto le testimonianze di diversi connazionali rimasti: Claudio Ugussi (Buie), Giovanni Radossi (Rovigno), Anita Forlani (oggi a Dignano, ma originaria di Fiume), Tullio Vorano (Albona), Nella Smilovich (Pola), Laura Marchig, Elvia Fabianić e Maria Schiavato (Fiume). Le loro, le nostre storie, si affiancano e intrecciano a quelle degli esuli Bruno De Bianchi (Cittanova), Mafalda Codan (Parenzo), Sergio Bormé (Rovigno), Livio Dorigo, Myriam Andreatini e Lino Vivoda (Pola), Abdon Pamich, Franco Gaspardis, Federico Falck ed Erio Franchi (Fiume), nonché all’esperienza di Dino Zanuttin, di Gradisca d’Isonzo, uno dei tanti italiani del cosiddetto controesodo che nell’allora Jugoslavia, nei campi di concentramento titini, vedrà infrangersi il sogno di una società più giusta e migliore.

 Un «mea culpa»

Il libro in Italia ha avuto eco soprattutto per una sorta di “mea culpa”, messo nero su bianco, da Veltroni. Per l’ex segretario del Partito democratico, quello che portò alla tragedia delle foibe fu “un odio alimentato dall’ideologia, in questo caso soprattutto dall’ideologia comunista”. “La verità – aggiunge il politico italiano, che già in passato aveva sottolineato responsabilità e silenzi della sinistra italiana sulla tragedia delle foibe – è che nessuna costruzione ideologica, di nessun tipo e di nessun colore, può giustificare la violenza, la privazione della libertà la persecuzione e l’uccisione di migliaia di persone. E non c’è niente, né un se, né un ma, che possa far dimenticare il modo orribile in cui questo avvenne”. Veltroni con le sue parole chiarisce gli equivoci su “quell’ondata di violenza antitaliana” e non nasconde le responsabilità di quella rimozione: “Di quelle sofferenze e di quello sconvolgimento, infatti, l’Italia e la Repubblica non hanno colto né allora, né per tanto tempo dopo, la portata e il significato nazionale. Anche per colpa di una parte importante della cultura della sinistra, prigioniera dell’ideologia e della guerra fredda”. Una sinistra che troppo spesso ha minimizzato la portata di quello che avvenne, giustificandola con la crudeltà dell’occupazione fascista dei territori sloveni e croati: “Ma questo nulla toglie al dovere che tutti hanno di riconoscere che nessun rancore storico, nessuno spirito di vendetta può giustificare quel che avvenne, e il modo barbaro in cui avvenne. Ad alimentare l’espansionismo nazional-comunista di Tito fu un intreccio perverso di odio etnico, nazionale e ideologico. Un odio che colpì, come mette bene in luce l’autore, fascisti, antifascisti, persone senza una precisa posizione politica”.

 Oltre le foibe

Brevi capitoli dedicati alla storia, poi Jan Bernas cede il passo alla voce dei protagonisti: ricorda gli italiani, quelli costretti ad andarsene e quelli rimasti – goccia in un mare slavo – a difendere con ostinazione la propria autoctonia. Gli esuli, “dimenticati da una patria matrigna, che dopo oltre sessant’anni ancora fatica a riconoscere dignità e onore a migliaia di suoi figli, sacrificati per lavare gli errori e gli orrori di una guerra sciagurata”; i rimasti, abbandonati di fronte all’avanzare delle truppe jugoslave di Tito alla fine della Seconda guerra mondiale. Come sottolinea l’autore, “paradossalmente, tutti subirono la stessa accusa: fascisti! Gli esuli perché in fuga dal paradiso socialista. I rimasti perché italiani”. Questo libro, spiega Bernas, vuole andare ben oltre le foibe, diventate nell’immaginario collettivo simbolo di una vicenda assai più complessa. Perché nell’ascoltare le tante storie riportate, emerge che donne e uomini, spesso di fede politica opposta, sono accomunati dalla stessa sorte e dalla stessa accusa: “Fascisti!”.

 Situazioni paradossali

A differenza dei numerosi testi finora pubblicati su tale argomento, “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani” non si limita a riportare vicende passate, ma offre una prospettiva presente, raccontando le difficoltà e le condizioni, spesso al limite dell’assurdo, in cui vive da sessant’anni la CNI, spesso affiancando e confrontando le esperienze di italiani che, oltre a essere connazionali, sono stati in un certo senso anche concittadini. Non per “autismo”, ma semplicemente per dare rilievo a una “storia che nella storia è stata doppiamente obliata, riportiamo le parole dei “rimasti”. Esordisce il pittore e scrittore di Buie (nato a Pola), Claudio Ugussi: “Siamo cresciuti portandoci sulle spalle il peso di un marchio di fuoco, indelebile: ‘Italiani fascisti’. (...) Tutto quello che era italiano era fascista. Era automatico. Il paradosso era che in Italia, noi che avevamo deciso di restare e di non abbandonare la nostra terra, siamo stati, e a volte lo siamo ancora, tacciati di essere comunisti. O peggio, amici di Tito. Qui, i croati invece ci urlavano: ‘Fascisti!’. Uno strano destino, il nostro. Fascisti in Croazia, comunisti in Italia.”

Anche il rovignese Giovanni Radossi illustra quanto è stato difficile essere, rimanere italiani a casa propria, mantenendo la propria dignità e l’onestà morale e intellettuale: “In città (Rovigno, nrd) non c’era un atteggiamento pregiudiziale antiitaliano, a condizione che gli italiani fossero assolutamente e dichiaratamente a favore dell’annessione dell’Istria alla Jugoslavia. Una discriminante fondamentale a quei tempi. Noi italiani, ancor prima della fine della guerra, eravamo distinti nell’ottica slava tra buoni e cattivi. I ‘buoni italiani’, così ci descrivevano i giornali slavi dell’epoca, erano coloro che in qualche modo avevano accettato o per paura o per convinzione il progetto di annessione e di slavizzazione dell’Istria da parte della Jugoslavia. Nella categoria ‘italiani cattivi’ rientravano, invece, tutti quelli che (...) avevano avuto legami diretti con lo Stato e le istituzioni italiane, anche se non compromessi con il fascismo. (...) Una distinzione che è rimasta ancora ai giorni nostri.”

 Astio e repulsione

Restare non era impossibile, sebbene difficile, e non di rado significava soffrire, sopportare angherie. La fiumana Elvia Fabijanić (Fabianich, nel libro), all’epoca diciassettenne, finì in carcere, in cella con le prostitute, per una bravata, l’aver strappato dal libro la foto di Tito. E non fu (non è piacevole) sentirsi sempre e comunque “diversi”; stranieri in patria, ma stranieri anche in Italia, dove c’è stata una voluta rimozione della memoria, un oblio collettivo che “ha relegato noi e queste terre nel rifiuto e nella vergogna per il fascismo”, confessa Laura Marchig, di Fiume, che nella sua testimonainza parla anche di “scontro di culture”: “Il mondo croato (e quello slavo in generale) è sicuramente più aggressivo del nostro. E noi italiani di fronte a questa aggressività di solito soccombiamo.”

Ma non senza lottare. Un grosso peso fu sostenuto – e continua ad essere sostenuto – dalla scuola, dagli insegnanti che salvarono/salvano le istituzioni dalla loro chiusura, dallo svilimento. Come narra Anita Forlani: “Era una lotta quotidiana contro i soprusi e i più svariati tentativi di ridurre gli spazi delle tradizioni e della cultura italiana. Insieme ad altri professori ci battemmo perché la lingua italiana fosse insegnata anche nelle sezioni croate. (...) Scoppiò una specie di rivolta. Gli alunni croati uscivano dall’aula quando iniziava l’ora di italiano. Insegnanti, colleghi ci chiamavano fascisti. Ci facevano il saluto romano quando passavamo. Non fu facile da sopportare. Erano umiliazioni continue. Sono certa che nei giovani di allora, oggi oltre la quarantina, è rimasto un sentimento di astio, di repulsione verso gli italiani, pur avendo imparato e utilizzato la nostra lingua. (...) Nonostante tutto, alla fine siamo riusciti con determinazione e coraggio a mantenere vive le nostre tradizioni e a salvare la scuola, da allora punto di riferimento importante per la comunità italiana, che comunque resta debole ed emarginata.”

Altrove la scuola italiana non si salvò. Ad Albona il decreto Peruško comportò il trasferimento forzato dei ragazzi con cognomi che terminavano in “ich” nelle scuole croate e, conseguentemente, la chiusura degli istituti italiani. Un provvedimento che ha irrimediabilmente compromesso la continuità storica della presenza italiana nell’Albonese. “La comunità degli italiani qui è molto piccola. Non ha speranza di sopravvivere. Non c’è neanche una scuola di lingua italiana. Non riusciamo ad avere quadri dirigenziali. (...) Quel poco che è rimasto dell’italianità ad Albona è destinato a scomparire negli anni. Sarà rintracciabile solo nei monumenti o nei libri di storia”, afferma Tullio Vorano.

Rimanere: non sempre fu una scelta e, anche se lo fu, seppur fatta consapevolmente, non fu semplice convivere con le conseguenze di tale scelta. Fu giusta o sbagliata? Un dilemma che, ne siamo convinti, accomuna esuli e rimasti. Ci fu chi partì per l’Italia ma tornò indietro. Nella Smilovich, polese, cita l’esempio di suo padre: “Non riusciva ad abituarsi all’idea di vivere lontano dalla sia terra. Così decidemmo di tornare a casa nostra, a Pola. Non ci volle molto tempo per capire che avevamo commesso un grave errore. La nostra, si era trasformata in una città fantasma. (...) Anche noi, tornando, ci eravamo di colpo trasformati. Nella Jugoslavia di Tito non eravamo più italiani, ma italiani fascisti. (...) Optammo due volte per la cittadinanza italiana, per tentare di ripartire nuovamente. Ma questa volta le autorità slave non ci lasciarono andare e così fummo costretti a rimanere.” Era cambiato il contesto: se nell’inverno del 1947 vi era tutto l’interesse, da parte degli jugoslavi, di ritrovarsi con una presenza etnica italiana ridotta al lumicino, anche al fine di legittimare l’annessione dell’Istria, più tardi, consolidato il nuovo potere, le dimensioni dell’esodo rischieranno di “offuscare” l’immagine che il regime – e quella decantata “fratellanza di popoli” – voleva dare di sé.

 
Dimenticare/recriminare

Microstorie, piccole vicende personali che fanno la Storia, che portano a galla tutte le sfaccettature di questo mosaico di dolori. A lungo gli Stati coinvolti – la stessa Italia, per non parlare della Jugoslavia, poi della Slovenia e della Croazia – hanno cercato di rimuovere questa pagina di storia. Qualcuno dei protagonisti, a livello personale, avrà cercato anche di dimenticare, di reprimere i sentimenti, i ricordi. Per poter andare avanti. C’è anche chi ha cristianamente perdonato. C’è chi non ce la fa. “Non posso. A chi dice oggi che bisogna dimenticare tutto, che dobbiamo andare verso una riconciliazione, vorrei rispondere: ‘Troppo facile. Avresti dovuto esserci anche tu lì con me a Goli Otok, per capire quello che ci hanno fatto, riducendoci a bestie e distruggendo quel che c’era di umano nell’uomo’. Gli slavi li ho odiati e li odierò per sempre”, ammette Sergio Bormé, esule di Rovigno.

Riconciliazione impossibile? “Io, da rimasta, ho sempre recriminato contro chi se n’era andato. Non riuscivo ad accettare il fatto di essere rimasti così pochi. Se gli esuli non avessero lasciato queste terre forse avremmo potuto avere, seppur all’interno della Jugoslavia, più forza e una certa forma di autonomia. (...) Quando, dopo la caduta della Jugoslavia, si sono organizzate le prime riunioni, i primi incontri tra gli esuli e noi rimasti, è apparsa evidente la differenza. Ricompattarci, tornare ad essere un unico popolo come eravamo, era ed è illusorio. Sono passati tanti anni, troppi. Io mi considero da sempre irredentista, anche se so benissimo che non rivedrò mai più il tricolore sventolare di nuovo a Fiume. A noi rimasti, non resta altro che tentare di trasmettere e difendere il ricordo dell’identità italiana di Fiume. Ma siamo destinati a scomparire”, conclude Maria Schiavato.

Parole sconsolanti che denotano tristezza per un destino che la Storia ha voluto diverso da quello sperato, da quello che sarebbe stato giusto; amarezza per le tante, troppe incomprensioni, da parte di tutti; forse anche un po’ di stanchezza nel vedere che le tante battaglie portate avanti sono destinate a svanire sotto i colpi di quell’assimilazione “naturale” che colpisce un po’ tutte le minoranze, anche in assenza di un preciso disegno politico di emarginazione ed annientamento. Ormai tutto è compiuto: non ci resta che piangere? E seppure tra le lacrime continuare a ripetere che Koper è Capodistria, Rijeka è Fiume, Zadar è Zara...

 Ilaria Rocchi




162 -  La Voce di Romagna 25/03/2014 Maresciallo Antonio Farinatti , l'eroe dell'Istria

LA GUARDIA DI FINANZA DEDICA AL MARESCIALLO LA CASERMA DELLA SEZIONE AEREA DI RIMINI

Antonio Farinatti, l’eroe dell’Istria

A PARENZO comandava la Brigata litoranea. Dopo l’8 settembre era rimasto al suo posto assieme al collega dell’Arma dei carabinieri per tutelare i cittadini

Arruolatosi giovanissimo nella Regia Guardia di Finanza, Antonio Farinatti nell’ottobre 1941 era stato assegnato al comando della brigata litoranea di Parenzo (oggi Porec in Croazia), alle dipendenze della compagnia di Pirano (oggi Piran in Slovenia). Ed è proprio a Parenzo, dove la popolazione era in maggioranza italiana, che il maresciallo Farinatti viene sorpreso dall’8 settembre. Vista la situazione drammatica, un gruppo di cittadini di sentimenti italiani aveva dato vita a un Comitato di salute pubblica con l’obiettivo di difendere Parenzo e i suoi abitanti. Solo i finanzieri e i carabinieri erano rimasti al loro posto dando vita a un Comitato di sicurezza pubblica con il compito di recuperare le armi lasciate dai militari che si erano allontanati e di assicurare l’ordine pubblico. Ricostituito il presidio militare con i pochi uomini rimasti, il Comitato aveva potuto fare fondamento sui soli comandanti delle forze dell’ordine, il maresciallo Farinatti e il collega dell’Arma dei carabinieri, Torquato Petracchi, toscano. La figura del maresciallo Farinatti è stata ricostruita dal capitano Gerardo Severino, direttore del Museo storico della Guardia di Finanza; sul sito ufficiale del Corpo, nelle sezioni dedicate al Giorno della Memoria e al Giorno del Ricordo, è possibile trovare una serie di interessanti e documentate notizie sull’attività e il sacrificio delle Fiamme Gialle rispettivamente in difesa degli ebrei e delle popolazioni istriane. Da tempo il Comando generale della Guardia di Finanza, attraverso il Museo storico, è impegnato nel fare ottenere riconoscimenti alla memoria dei propri appartenenti morti nei lager nazisti o nelle foibe istriane, come appunto il maresciallo Farinatti. Alla memoria del maresciallo dei carabinieri Petracchi, da tempo era stata conferita la medaglia d’Argento al Valor militare. Tornando nella Parenzo del post 8 settembre, i due sottufficiali, scrive Gerardo Severino, rimasero al loro posto anche dopo l’arrivo delle forze partigiane del maresciallo Tito avvenuto il 14 settembre. Farinatti e Petracchi con grande coraggio fecero di tutto per mitigare la situazione ed evitare spargimenti di sangue. Dopo aver assistito al saccheggio delle rispettive caserme, i due marescialli cercarono di indurre alla ragione i partigiani slavi, lo stesso aveva fatto monsignor Raffaele Radossi, ultimo Arcivescovo di Parenzo e Pola italiane. Farinatti verrà prelevato dalla sua abitazione nella notte tra il 20 e il 21 settembre, qualche giorno dopo condivideranno la sua stessa sorte Petracchi e tanti altri cittadini di Parenzo e delle località limitrofe. Farinatti verrà fatto salire sulla famigerata corriera della morte, caratterizzata come hanno raccontato diversi esuli istriani dai finestrini oscurati; il mezzo durante la notte faceva la spola tra Parenzo e Pisino (oggi Pazin in Croazia), dove nei sotterranei del castello di Montecuccoli, reso celebre dal romanzo di Giulio Verne “Matias Sandorf”, aveva sede il “tribunale del popolo” presieduto da Ivan Motika, soprannominato il “boia di Pisino”. Antonio Farinatti, condotto nelle secrete del castello, subirà una serie interminabile di torture e umiliazioni fino ai primi giorni di ottobre, per poi venire trasferito, di notte e sempre a bordo della famigerata corriera della morte, nei pressi di Albona, precisamente a Vines dove si trova una delle tante foibe istriane, nota con il toponimo “dei colombi”. Il maresciallo verrà fatto precipitare nella cavità, profonda circa 146 metri, con i polsi legati da filo di ferro e accoppiato ad altri due sventurati. Dalla testimonianza di altri reclusi nel castello di Pisino poi rilasciati, emerge che il sottufficiale aveva sempre mantenuto un contegno sprezzante verso i suoi aguzzini, riaffermando la propria italianità e rifiutando qualsiasi compromesso che avrebbe potuto salvargli la vita. Il corpo del valoroso sottufficiale è stato recuperato assieme a quello degli altri sventurati grazie all’opera dei Vigili del fuoco di Pola guidati dal maresciallo Arnaldo Harzarich, che in quel periodo, superando difficoltà di ogni genere, si erano resi protagonisti di altre analoghe imprese. A Vines, Harzarich e i suoi uomini, supportati dalla squadra di soccorso delle Miniere dell’Arsa, avevano riportato in superficie 84 cadaveri, di alcuni è stata possibile l’identificazione. Da ricordare che la Guardia di Finanza a Trieste ha fornito un importante contributo al successo dell’insurrezione proclamata dal Comitato di liberazione nazionale giuliano il 30 aprile 1945. Gli uomini delle Fiamme Gialle, in quelle drammatiche giornate, avevano aderito spontaneamente all’appello lanciato dai patrioti antifascisti della città, ma il 2 maggio verranno disarmati dalle formazioni filo jugoslave e incarcerati. Sono 97 quelli arrestati nella caserma di Campo Marzio che non hanno fatto più ritorno a casa; gli sventurati non finirono i loro giorni nella Foiba di Basovizza, come si era sempre creduto, ma presumibilmente, secondo studi più recenti, nei pressi di San Pietro del Carso, oggi Piuka in Slovenia. Tra i 97 finanzieri arrestati a Trieste non ci sono romagnoli. Era di Bondeno (Ferrara) Dino Pisani, classe 1924, mentre veniva da Crespellano (Bologna) Enzo Genasi, promosso sotto (oggi vice) brigadiere per la sua partecipazione all’insurrezione del 30 aprile. Sono comunque diversi i militari delle Fiamme Gialle originari dell’Emilia –Romagna caduti in Istria o nell’ex Jugoslavia. E’ il caso degli appartenenti al presidio di Matteria (oggi Materija in Slovenia) a pochi chilometri da Trieste, come il comandante, il brigadiere Serafino Ricci Lucchi nato a Lugo. I militari, attirati in una trappola con la scusa di una festa in una casa colonica nelle immediate vicinanze, sono stati certamente gettati in qualche foiba o cavità della zona. Da ricordare anche l’impresa iniziata il 12 settembre 1943 per l’evacuare l’ospedale militare di Zaravecchia, località nella zona di occupazione italiana, non lontana da Zara. Per portare in salvo i militari assediati da un lato dalle truppe tedesche, dall’altro dai partigiani titini, era stata utilizzata un’imbarcazione condotta dal capitano marittimo Angelo Simoncelli, di Cattolica. La barca, carica di viveri era stata avvistata e intercettata dalla Guardia di Finanza mentre si dirigeva verso il canale di Pasmano. Simoncelli aveva detto ai finanzieri che il carico era destinato all’ospedale di Zaravecchia, rimasto completamene isolato e saccheggiato dai partigiani. Dopo una serie di trattative condotte dal sottotenente delle Fiamme gialle Silvio Stella, il locale comando partigiano aveva autorizzato l’evacuazione dei degenti. L’imbarcazione riuscirà a raggiungere il 13 settembre, dopo un’avventurosa traversata dell’Adriatico, Porto San Giorgio.

Aldo Viroli

Il Comando generale della Guardia di Finanza, lo scorso 20 marzo, ha intitolato la caserma della Sezione aerea di Rimini al maresciallo capo Antonio Farinatti, nato nell’attuale comune di Fiscaglia il 7 febbraio 1905 e trucidato nella foiba di Vines, nei pressi di Albona d’Istria (oggi Labin in Croazia), nell’autunno 1943. Alla solenne cerimonia erano presenti tra gli altri il generale di Corpo d’Armata Michele Adinolfi, comandante interregionale della Guardia di Finanza per l’Italia centro settentrionale, e la signora Stefania Farinatti, figlia del sottufficiale. Alla memoria dell’eroico maresciallo, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha conferito la medaglia d’Oro al merito civile. La bandiera di Guerra della Guardia di Finanza ha ricevuto la medaglia d’Oro al merito Civile quale attestazione di riconoscenza per l’opera svolta a difesa delle comunità italiane e slave della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, sia per l’elevato numero di vittime subite dalle Fiamme Gialle sul confine orientale nel periodo che va dal 1943 al 1945. Sono diversi i finanzieri nati in Emilia - Romagna caduti o dispersi sul confine orientale; da tempo “Storie e personaggi” si sta occupando degli appartenenti al presidio di Matteria, località all’epoca in provincia di Fiume.


Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it



 

a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri

N. 910 – 15 Marzo 2014
    
Sommario


138 -  La Voce in più Dalmazia 08/03/14 Dalmazia: si respira un aria nuova, positivi gli echi della visita di Cianfarani a Zara. (Dario Saftich)
139 – La Voce del Popolo  14/03/14  «Magazzino 18»: è l'ora di Fiume (giemme)
140 - Giornale d'Italia 14/03/14 Magazzino 18 e la memoria con (divisa)…da partigiano (Cristiana Di Giorgi)
141 - L'Arena di Pola 12/03/14 Rivolgiamoci a un uditorio più vasto (Silvio Mazzaroli)
142 - Il Piccolo 12/03/14 Parenzo -  Vince la battaglia per la carta d'identità in italiano e croato (p.r.)
143 - Il Piccolo 10/03/14 La ministra fa ritorno "a casa". In Istria (p.r.)
144 -  Il Piccolo 13/03/14 Visinada- La Comunità italiana attende la nuova sede (p.r.)
145 – La Voce di Romagna 04/03/14 La vicenda del faentino Sauro Ballardini: Il Topo e la rottura Tito – Stalin (Aldo Viroli)
146 - Corriere della Sera Brescia 12/03/14 Gabre Gabric, cent'anni da record (Luciano Zanardini)
147 - Il Piccolo 12/03/14 Il dialetto rovignese rivive in un vocabolario (p.r.)
148 – East Journal 13/04/14 Scipio Slataper, “Tu sai che io sono slavo, tedesco e italiano”
149 - Il Piccolo 13/03/14 Lubiana dovrà risarcire i "cancellati" (m.man.)
150 - Il Piccolo 10/03/14 Ci voleva una guerra per fermare il massacro dell’inferno balcanico (Pietro Spirito)





Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arenadipola.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.arcipelagoadriatico.it/

138 -  La Voce in più Dalmazia 08/03/14 Dalmazia: si respira un aria nuova, positivi gli echi della visita di Cianfarani a Zara.
REGIONE di Dario Saftich

POSITIVI GLI ECHI DELLA VISITA DI CIANFARANI A ZARA

Dalmazia: si respira un aria nuova

In Dalmazia si respira davvero un’aria nuova. Lo ha confermato anche la recente visita a Zara del console generale d’Italia a Fiume, Renato Cianfarani. La missione di Cianfarani in terra dalmata è arrivata sulla scia dell’apertura dell’asilo italiano a Zara, che ha rappresentato sicuramente il segno più tangibile che i tempi stanno cambiando.
A dire il vero nel frattempo c’è stata la chiusura del consolato d’Italia a Spalato, per cui la Dalmazia è rientrata nell’ambito della circoscrizione consolare fiumana. Ma questo, come confermato da Cianfarani, non significa che Roma abbia abbandonato gli italiani della regione al loro destino: la Nazione Madre troverà il modo anche in futuro di aiutarli e sostenerli nella loro preziosa opera tesa al mantenimento della lingua e delle tradizioni italiane in una terra in cui per lunghissimi decenni essere italiani è stato a dir poco difficilissimo.

A Zara il console generale d’Italia a Fiume, oltre ai connazionali, ha incontrato anche le autorità, in primis il presidente della Regione, Stipe Zrilic e il sindaco Bozidar Kalmeta. Si è trattato di colloqui che sono andati al di là della pura cortesia.

Le dichiarazioni rilasciate dalle autorità zaratine hanno dimostrato uno spirito d’apertura verso la collaborazione con l’Italia, verso il riconoscimento pieno della presenza culturale italiana che lasciano ben sperare. Quando si tratta di minoranze la retorica usata non è mai fine a sé stessa. Ebbene quello che si è potuto sentire a Zara ricorda quanto ormai da decenni siamo abituati a udire nell’Alto Adriatico, ovvero in una zona in cui la presenza pubblica della Comunità nazionale italiana è ormai una realtà consolidata. Non è il caso ovviamente di farsi soverchie illusioni.
Il peso della storia, di un passato tormentato, in Dalmazia si farà ancora sentire molto a lungo. Non per niente proprio in questa regione nell’Ottocento lo scontro nazionale è stato particolarmente virulento e a rimetterci è stata proprio la componente italiana, poi definitivamente marginalizzata (a dir poco) dopo il secondo conflitto mondiale. Ma ora bisogna guardare al futuro, consapevoli che i tempi cambiano e che certi tabù a piano a piano stanno cadendo. Dopo Zara Cianfarani ha annunciato altre visite, a Sebenico, Spalato, Ragusa (Dubrovnik).
A Zara il console generale d'Italia a Fiume, la cui circoscrizione è stata estesa alla Dalmazia, ha incontrato il presidente della Regione, Stipe Zrilic, il sindaco Bozidar Kalmeta e i connazionali. Ha fatto pure visita all'asilo italiano aperto recentemente

La missione nella città di San Donato sicuramente è stata di buon auspicio.
Oltremodo soddisfacenti anche l’incontro con i connazionali e la visita all’asilo italiano, dove il console generale d’Italia a Fiume ha avuto l’opportunità di toccare con mano una realtà nuova, ma già estremamente vitale. Quello che conta è soprattutto il fatto che i genitori dei bimbi che frequentano la scuola materna dimostrino grande apprezzamento per il lavoro svolto dall’istituzione prescolare in lingua italiana. Questa è la migliore garanzia per il futuro.




139 – La Voce del Popolo  14/03/14  «Magazzino 18»: è l'ora di Fiume
«Magazzino 18»: è l’ora di Fiume

Tutto pronto per il grande evento di domenica sera, quando sulle tavole del TNC “Ivan de Zajc” di Fiume sarà di scena (ore 19.30) “Magazzino 18”, di Simone Cristicchi. Il noto cantautore romano sarà impegnato in un monologo in cui narra dei tragici fatti legati all’esodo, alle foibe, al controesodo ma anche al popolo dei rimasti, passando da un registro vocale all’altro con costumi, atmosfere musicali, in una forma di spettacolo che si può definire “musical-civile”. L’appuntamento a Fiume – che in qualche modo continua la trasferta istriana iniziata l’anno scorso con spettacoli a Pirano, Pola e Umago – è stato reso possibile grazie ai finanziamenti dell’Università Popolare di Trieste, ma anche grazie al Dramma Italiano e allo “Zajc”, che si sono fatti carico delle spese legate all’aspetto logistico, organizzativo, mano d’opera e propagandistico della trasferta fiumana.

La rappresentazione, scritta dal cantautore romano insieme a Jan Bernas e diretta dalla mano esperta di Antonio Calenda, sarà presentata in una forma simile a quella originale del debutto a Trieste, con in scena il Coro dei bambini del Friuli Venezia Giulia, ma senza l’orchestra dal vivo. Per questo evento sono stati distribuiti gratuitamente tutti i biglietti del Teatro, ossia oltre 600, esauriti in poco tempo. Alla serata sono attese le Comunità degli Italiani dell’area quarnerina, ma anche gli allievi e i professori delle Scuole Italiane di Fiume e altre istituzioni appartenenti alla nostra realtà comunitaria.

“Magazzino 18” sarà corredato da sottotitoli in lingua croata curati da Ana Varšava, che ha già realizzato la traduzione di altri lavori del DI, come “Kafka” e “Il barone rampante”.
Il Dramma Italiano, esortato dalla redazione de “La Voce del Popolo”, ha invitato all’evento teatrale pure alcuni storici e intellettuali fiumani di diverso pensiero. Il fine è quello di proporre un quadro su come l’élite intellettuale della maggioranza consideri l’allestimento, la storia, a cui noi non mancheremo di chiedere le impressioni. È il caso dello storico e giornalista Goran Moravček, che si è occupato a fondo degli anni del dopoguerra a Fiume e della sorte degli italiani, narrando meticolosamente le tristi vicende, l’esodo, le fughe, le case abbandonate, le foibe, i negozi chiusi e i posti di lavoro delle fabbriche lasciati vacanti. E poi Theodor de Canziani Jakšić, noto conoscitore della storia fiumana e del suo patrimonio culturale, che insegna arte figurativa alla Scuola di medicina e cura e custodisce la Biblioteca-raccolta memoriale Mažuranić-Brlić-Ružić, presso la Villa Ružić di Pećine. Infine, lo storico e accademico Petar Strčić, primo responsabile dell’Istituto fiumano per le Scienze storiche e sociali dell’Accademia croata delle Scienze e delle Arti (HAZU), autore di numerosi saggi e libri, tutti più o meno legati all’area quarnerina. Alla serata sono attesi inoltre l’Assessore alla cultura, Ivan Šarar e altri personaggi illustri di Fiume.
In linea con il suo carattere polemico-pubblicitario, Simone Cristicchi ha voluto attribuire all’appuntamento fiumano una carica storico-nostalgica. Nella sua pagina ufficiale Web e in quella dei Social Network, riferisce che lo spettacolo “Magazzino 18” è in programma al “Teatro Giuseppe Verdi/Ivan de Zajc” di Fiume. Forse era il caso di informarlo che il celebre compositore fiumano Ivan de Zajc, usava firmarsi originariamente con la dicitura di Giovanni Zaytz e che tra le quattro mura di casa parlava in lingua italiana.
Dopo l’appuntamento fiumano, “Magazzino 18” sarà presentato al Teatro “Antonio Gandusio” di Rovigno il 9 aprile (ore 19,30). I biglietti verranno distribuiti gratuitamente dalla Segreteria della locale Comunità degli italiani a partire da lunedì 24 marzo. (giemme)




140 - Giornale d'Italia 14/03/14 Magazzino 18 e la memoria con (divisa)…da partigiano
Magazzino 18 e la memoria con (divisa)…da partigiano
Teatri stracolmi e grande successo. Ma ai negazionisti il lavoro di Simone Cristicchi e Jan Barnas non piace
La risposta degli autori alle pesanti critiche ricevute dalla sinistra militante: “Lasciamo al pubblico la libertà di farsi un’opinione”
Dopo gli anni di colpevole silenzio o, nel peggiore dei casi, di voluto e consapevole occultamento, la vicenda delle foibe e dell’esodo di istriani, giuliani e dalmati è in questi mesi al centro di numerosi commenti e discussioni. Tale ritrovata attenzione è in gran parte dovuta a Simone Cristicchi e Jan Barnas, autori dello spettacolo teatrale “Magazzino 18”. Un lavoro che ha l’indiscutibile merito di aver fatto conoscere al grande pubblico una ‘pagina strappata’ della storia d’Italia.
Un’opera la loro della quale si è detto e scritto molto, non sempre in maniera corretta sia nella forma, sia nei contenuti. Non si può purtroppo non concordare con chi sostiene che nel nostro paese, ancora oggi, ci sono persone, anche di cultura, per le quali ci sono vittime di serie A e vittime di serie B. Gente che non accetta nemmeno che si parli di memoria condivisa, ritenendo coloro che si adoperano in tal senso fautori di una “ri-narrazione della storia italiana che finge di voler mettere d’accordo tutti, siano essi oppressori od oppressi, sfruttatori eredi di sfruttatori o sfruttati eredi di sfruttati”. Così è scritto sul blog Wu Ming, che ospita una delle ultime recensioni di “Magazzino 18” a firma di Piero Purini.
Uno scritto, quello dello studioso negazionista, che comincia con l’accusare lo spettacolo di essere “un’operazione teatrale molto furba con uno scopo politico più che evidente: fornire uno strumento artistico efficace per propagandare la cosiddetta memoria condivisa secondo cui tutti gli italiani devono riconoscersi in una storia comune. Questa finalità prettamente politica – scrive Purini – è andata decisamente a scapito del valore artistico dello spettacolo. Un mix nazionalpopolare piuttosto noioso e stucchevole”, per giunta “permeato di ambiguità”. Quella che invita a non dimenticare la tragedia delle foibe e dell’esodo, per ricordare la quale “Cristicchi non esita a dimenticare o trascurare completamente altri eventi” che Purini elenca dettagliatamente: la contestualizzazione storica (la spiegazione effettivamente presente, scrive, è “troppo breve, superficiale, inesatta e piena di luoghi comuni, talmente sbrigativa che sembra essere stata inserita al solo scopo di prevenire eventuali accuse di scarsa obiettività e dare un’apparenza bipartisan allo spettacolo”. E anche sul termine “italiani” a detta di Purini si esagera: a suo dire si tratta di “popolazioni che parlavano il dialetto istroveneto della zona”); gli altri esodi prima dell’Esodo (ovvero gli “spostamenti forzati” di popolazione causati dalla presenza italiana in quelle terre); l’incendio di Narodini Dom, appena citato e in modo alquanto “discutibile”; il poco spazio dato alle politiche attuate in quelle terre successivamente all’avvento del fascismo nei riguardi dei non italiani; la spiegazione delle vicende belliche, trattate in maniera “corretta storicamente, ma troppo sbrigativa: quelle che sono le cause principali di foibe e deportazioni sono liquidate in poche frasi”.
E poi l’esodo, “banalizzato” (secondo Purini dovuto alla “paura di un sistema economico – politico demonizzato dal fascismo e dalla Dc”: non fuga per l’italianità quindi, ma fuga dal socialismo). E ancora critiche sul modo in cui si parla di controesodo, ‘rimasti’ e soprattutto foibe, che nello spettacolo di Cristicchi “è un coacervo di luoghi comuni e dimenticanze. Sorvolo – scrive Purini - sul caso Norma Cossetto, sulla descrizione della foiba (che sembra tratta pari pari dal racconto del sedicente sopravvissuto Graziano Udovisi) e sulla strage di Vergarolla, in quanto Cristicchi le interpreta come avvenimenti sicuri, ma dimentica di segnalare che si tratta invece di singoli episodi sui quali sono cresciuti a dismisura racconti mai corroborati da prove, o al massimo si sono fatte ipotesi investigative”. La recensione si conclude con un “Non dimenticare, caro Simone. Anzi, magari la prossima volta per non dimenticare cerca di informarti meglio”.
A tale articolo, che si inserisce perfettamente nella serie di episodi, provocazioni e attacchi negazionisti di cui Cristicchi è stato oggetto, gli autori di Magazzino 18 hanno risposto con una nota sulla pagina facebook dello spettacolo. Uno scritto che ribatte punto su punto quello di Purini: “quello che avrei dimenticato – dice il cantautore romano – sono dettagli. Che sono in realtà materia più da storici che da artisti. E poi, anche restando ai dettagli storici, c’è da farsi venire qualche dubbio sulle critiche di Purini”, marcatamente ideologiche oltre che contrastanti con le posizioni di storici autorevoli, non soltanto italiani.
E per quanto riguarda l’affermazione secondo cui lo spettacolo “sarebbe per lui (come per gli altri sulla sua stessa lunghezza d’onda) uno dei sintomi più che evidenti di una riabilitazione del fascismo, nel segno di un revisionismo storico omologante”, Cristicchi e Barnas lasciano all’intelligenza di tutti il giudizio su una cosa del genere. Come anche sul linciaggio di cui sono vittime da mesi, legittimato anche da articoli come quello di Purini. “Il mestiere dell’artista non è fare politica, ma è quello di raccontare delle storie, limitandosi a constatare anche l’esistenza di alcune zone grigie di una storia molto complicata e intricata, per poi lasciare al pubblico la libertà di farsi un’opinione in merito, o di approfondire l’argomento una volta fuori dal teatro. Se i contestatori, magari mossi dalle ragioni della propria ideologia, non lo capiscono, non è un problema nostro”. Questo dicono i due autori di ‘Magazzino 18’ a chi li accusa di ignoranza e malafede.
Un’accusa che, chiunque abbia visto lo spettacolo ed abbia letto libri e testimonianze sull’argomento, può senza esitazioni rispedire al mittente e a coloro che hanno pubblicato il suo articolo ed i commenti relativi, tutti sullo stesso tono. “Questo blog – scrivono - è aperto ai contributi e alle vedute di molti, ma non di tutti. Potete scrivere quel che volete, fatta salva la discriminante antifascista. Camerati e affini hanno molti altri luoghi dove spandere i loro liquami. Questo è uno spazio bonificato”. Una dichiarazione che non merita commenti.
Cristina Di Giorgi


141 - L'Arena di Pola 12/03/14 Rivolgiamoci a un uditorio più vasto
Rivolgiamoci a un uditorio più vasto

Un altro Giorno del Ricordo, il decimo dalla sua istituzione, è stato celebrato. Si è così raggiunto un traguardo importante in merito al quale è opportuno spendere qualche parola.

E' innegabile che qualche passo avanti è stato compiuto. Le Istituzioni ed il Paese vi hanno dedicato una maggiore attenzione, non solo per il numero delle celebrazioni tenute in tante località bensì anche per le forme e per i contenuti di talune di esse. Difficile dire se si sia trattato di un effettivo processo di maturazione dell'opinione pubblica nazionale, come indubbiamente è nelle nostre aspettative, o solo dell'esito, senz'altro positivo ed assai apprezzabile ma di incerta durata, del particolare momento mediatico promosso dallo spettacolo di Simone Cristicchi che ha acceso i riflettori sulle vicende del Confine orientale e sulla nostra storia. Lo stesso passaggio della celebrazione “principe” dal Quirinale al Senato, percepita da qualcuno come una diminu-tio, può essere interpretata come una crescita, ovvero come segno che la considerazione nei nostri confronti non è più individuale, del solo Presidente della Repubblica, bensì collettiva, dell'intera Nazione e dei suoi rappresentanti popolari. Anche gli “spazi” dedicatici dalla TV di Stato sono stati meno discutibili che in passate edizioni; Vespa, a Porta a porta, pur non brillando per calore nei nostri confronti, è risultato meno contraddittorio e gli interventi dei suoi ospiti, esclusivamente esuli tra cui la nostra Lucia Bellaspiga, hanno conferito spessore alla trasmissione. Indicativo anche il fatto che la RAI, ravvisando la deprecabile gaffe dell'aver trasmesso “Magazzino 18” quasi in “notturna” ma ciò nonostante con un elevatissimo indice d'ascolto, abbia già annunciato che lo riproporrà più avanti (probabilmente in tarda estate) in “prima serata”, con un edizione speciale avente per location lo stesso magazzino. Infine, anche le scontate, odiose contro-celebrazioni sono sembrate aver un impatto minore sull'opinione pubblica e sono risultate perlopiù “ghettizzate” nei ben noti ambienti dell'estrema sinistra e dei cosiddetti centri sociali, perché certe verità non si possono più negare e certe giustificazioni si possono addurre solo se si è ottusamente di parte.

Ciò premesso, è doveroso sottolineare che la gran parte degli atti formali non è uscita dalla consueta ritualità, da tempi e modalità esecutive che risultano ormai inadeguati. A ricordare non bastano più i giorni a cavallo del solo 10 febbraio. I tempi devono essere dilatati sino a coprire, possibilmente, l'intero arco dell'anno. I riferimenti temporali non mancano: marzo, fine dell'esodo da Pola; aprile e maggio, i terribili giorni di occupazione titina di Trieste, Gorizia e Pola; agosto, la strage di Vergarolla; settembre e ottobre, mesi cruciali dei primi infoibamenti, dell'effettiva cessione dell'Istria alla Jugoslavia e del ritorno di Trieste all'Italia; novembre e dicembre, firma del Trattato di Osimo e secondo esodo, tanto per citarne alcuni. Di certo, a fornire utili spunti di approfondimento, di confronto e di dialogo ci sono anche altri momenti inclusi quelli che, in un'ottica di obiettività storica, potrebbero essere proposti da quanti oggi risulterebbe più costruttivo considerare interlocutori piuttosto che “nemici”. Lo stesso accento sulle nostre vicende dovrebbe gradualmente essere spostato da “L’Arena di Pola” 1945-47: le foibe, oggi decisamente facenti parte del passato, all'esodo ed alle sue conseguenze tuttora d'attualità anche in considerazione del fatto che, quasi estintasi la prima generazione di esuli, i loro discendenti, in particolare quelli che hanno vissuto le tristi esperienze dei campi profughi e le difficoltà, dovute alla propria “profuganza”, dell'integrazione nel nuovo contesto nazionale o della successiva emigrazione, hanno un'età con ancora davanti un discreto orizzonte di vita.

Anche il modo di ricordare dovrebbe essere in qualche misura modificato. I testi scritti non sono più il solo, o comunque il migliore, sistema di comunicare, di tramandare la storia e di fare cultura; ci sono altre espressioni come la televisione, il cinema, il teatro... e la stessa “rete”, per quanto da “prendere con le pinze” per le sue tante intemperanze, che inducono conoscenza, non solo attraverso il nozionismo bensì, soprattutto, attraverso l'emozione; quella tempesta di sentimenti che fa sì che ciò che si apprende si radichi nei nostri cuori e nelle nostre menti. Ancora, non dovendo solo più squarciare la cappa di silenzio che per troppo tempo ci ha oppressi, bensì piantare dei saldi “paletti”, ovvero far emergere “verità” incontestabili, con cui riscrivere una certa storia sarebbe opportuno passare dalla memorialistica, basata sulle testimonianze dei protagonisti di allora, alla ricerca e pubblicazione di una probante documentazione in merito ai tanti fatti che sono tuttora oggetto di contestazione.

Tutto questo il nostro “Libero Comune di Pola in Esilio” l'ha capito da tempo ed è in questa innovativa ottica che si è mosso per dare corpo alle sue ultime iniziative. In ordine di tempo: la ristampa anastatica delle Arene '45-'47 che intende far rivivere le atmosfere in cui i fatti che vi sono descritti si sono svolti aiutandone la comprensione; il filmato Istria addio che, rivolto alle scuole, non vuole essere una lezione di storia bensì provocare emozione per indurre docenti e studenti ad approfondire la materia del Confine orientale avviando così un processo di autoformazione idoneo a radicare in essi la consapevolezza di ciò che è stato; la ricerca in atto, presso gli archivi di Belgrado, di documenti riguardanti i fatti di Vergarolla che è volta a fare, per quanto possibile, chiarezza sulle responsabilità di quel tragico episodio e porre fine alle illazioni che ancora lo connotano.

Ma non è tutto. C'è ancora una cosa che bisogna fare: smetterla di essere autoreferenziali e di parlarci addosso. Non solo i tempi, come suddetto, vanno dilatati, ma anche il numero di chi ci presta ascolto dev'essere ampliato rivolgendoci in primis ai giovani. Il nostro uditorio principale dev'essere costituito dalle scuole. Entrarci non è mai stato facile ma oggi lo è un po' di più; il farlo dipende anche da noi, anzi soprattutto da noi, dalla nostra determinazione e da quanto siamo in grado di proporre che, per essere coinvolgente, dev'essere attualizzato e proiettato nel futuro. Ed ancora non basta. Se andiamo ad una nostra manifestazione o partecipiamo ad una nostra iniziativa non dobbiamo andarci da soli, portiamoci anche un amico, un conoscente che non sia “gente nostra” soprattutto se scettico nei confronti di ciò che ci riguarda. Se comperiamo un libro che parla di noi, prendiamone anche un altro da regalare a chi non sa. Può sembrare poca cosa ma non lo è affatto; servirebbe quantomeno a raddoppiare il numero di coloro che sanno.

Silvio Mazzaroli


142 - Il Piccolo 12/03/14 Parenzo -  Vince la battaglia per la carta d'identità in italiano e croato
Vince la battaglia per la carta d’identità in italiano e croato

PARENZO Quello che le istituzioni gli hanno negato è riuscito a ottenerlo con un escatomage di cui non vuole rivelare i particolari. L’oggetto del desiderio non ha valore materiale, ma affettivo sì. È la carta d’identità bilingue, anzi trilingue, con le diciture croata, inglese e italiana, alla quale secondo le norme non avrebbe diritto in quanto non appartenente alla Comunità nazionale italiana. Protagonista della vicenda è Goran Prodan, giornalista del quotidiano croato Glas Istre, da sempre amico degli italiani e sostenitore delle loro battaglie per l’affermazione dei diritti minoritari. Prodan non si è rassegnato al fatto che nella sua Parenzo in cui vige il bilinguismo ufficiale, non vengano più rilasciate le carte d’identità bilingui ai non italiani, come invece avveniva fino a qualche tempo fa. All’epoca il criterio base per la loro assegnazione era il bilinguismo del territorio, ora invece si tiene conto dell’appartenenza nazionale del singolo. Alla richiesta di spiegazioni i ministeri degli Interni e dell’amministrazione gli hanno risposto che al documento bilingue hanno diritto solo i cittadini di nazionalità italiana. Ha poi riformulato la richiesta dicendo di essere di nazionalita istriana, per cui come tale è portatore anche di lingua e cultura italiana. Gli hanno risposto che gli istriani come categoria etnica ufficialmente non esistono. Goran Prodan si lamenta per non aver ricevuto alcuna risposta alla richiesta di spiegazioni ne da parte del sindaco Edi Stifani„, né da parte del presidente della regione Valter Flego. Non ha atteso a lungo invece la risposta del deputato italiano al Sabor Furio Radin, al quale si è rivolto anche in qualità di presidente della Commissione parlamentare per i diritti umani e minoritari. Le disposizioni di legge - gli ha scritto Radin - le conosciamo, anche se formalmente ritengo che il diritto ai documenti bilingui debba essere esteso a tutti i cittadini che risiedono sul territorio bilingue, indipendenemente dall’appartenenza nazionale. Radin poi ricorda che questa prassi vigeva ai tempi del defunto presidente Tudjman quando a comandare nel paese era l’Hdz. Pur essendo un partito collocato a destra spiega, al lato pratico era molto più sensibile alle istanze degli Italiani rispetto ai socialdemocratici che governano ora.( p.r.)


143 - Il Piccolo 10/03/14 La ministra fa ritorno "a casa". In Istria
La ministra fa ritorno “a casa”. In Istria

POLA «Sono istriana. E me ne vanto». Un ministro istriano nel governo croato non fa notizia ma in quello italiano certamente sì. Beatrice Lorenzin, titolare della Salute nel governo Renzi, ha le radici a Medolino dove è nato il papà, esule dal 1947, e ne è orgogliosa. Il ministro lo ha detto subito nell’incontro con i rappresentanti istituzionali della Comunità nazionale italiana che, sabato sera, sono accorsi a Pola per incontrarla. All’appuntamento c’era anche il ministro croato del Turismo, Darko Lorencin, che è cugino di terzo grado di Beatrice ed è pure lui originario di Medolino: decisamente curioso che una località così piccola abbia “generato” due ministri quasi coetanei in due Stati diversi. Non solo legami familiari, però. Lorenzin, reduce dalla visita a Gorizia, è infatti venuta a Pola per illustrare ai vertici di Regione istriana, Comune e Unione italiana quella che ha definito «la prima direttiva comunitaria di carattere sociale», ovvero l’assistenza sanitaria transfrontaliera: «È una grande opportunità per tutta l’Europa e consentirà ai pazienti di accedere più liberamente verso i luoghi di cura di eccellenza» ha spiegato. E ha subito aggiunto: «Tale direttiva consentirà di concentrare le forze e di far circolare di più le informazioni e le best practice in caso ad esempio di malattie rare o patologie molto complesse». Non è ovviamente mancato chi ha chiesto al ministro la possibilità di instaurare una corsia preferenziale per gli istriani in direzione degli ospedali d’eccellenza che si trovano nel Nord Italia. Lorenzin ha risposto che tutto dipenderà dalla capacità e dalla volontà dei Paesi coinvolti di stipulare appositi accordi. Al riguardo, in riferimento alla prossima costruzione dell’ospedale di Pola, il presidente della Regione istriana Valter Flego ha espresso il desiderio di poter avviare una collaborazione con l’ospedale triestino di Cattinara. Il ministro croato Lorencin, invece, ha auspicato collaborazioni scientifiche in campo medico. Ha sottoscritto e rilanciato il vicepresidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia Paride Cargnelutti, presente nella delegazione italiana guidata dal coordinatore regionale di Nuovo centrodestra Isidoro Gottardo, mentre l’eurodeputato Antonio Cancian ha esortato l’Istria e l’intera Croazia a usufruire con decisione e incisività dei fondi comunitari In un incontro separato i presidenti dell’Unione Italiana Furio Radin e della Giunta esecutiva Maurizio Tremul hanno illustrato agli ospiti la posizione della Comunità italiana soffermandosi sui problemi della scuola e sulla lacunosa applicazione delle norme sul bilinguismo. Da Pola, gli ospiti si sono trasferiti a Rovigno, al Centro di Ricerche Storiche dove sono stati accolti dal direttore Giovanni Radossi, dal vicesindaco Marino Budicin e da altre autorità. (p.r.)


144 -  Il Piccolo 13/03/14 Visinada- La Comunità italiana attende la nuova sede
VISINADA

La Comunità italiana attende la nuova sede

L’opera di restyling costata 375mila euro dovrebbe finire entro il 2014

PARENZO Gli italiani di Visinada, una delle località a maggior concentrazione di vigneti in Istria, hanno imboccato il rettilineo che presto porterà al raggiungimento di un traguardo storico: l'inaugurazione della loro Comunità dopo un lungo percorso iniziato praticamente nel 2002.
All'epoca l'Unione Italiana aveva acquistato dal Comune lo stabile ubicato nel centro della località. E subito era stato eseguito un primo intervento di restauro per renderlo almeno parzialmente agibile. Nel 2009 come ci racconta la Presidente della Comunità Neda Sain›i„ Pilato, una parte dell'edificio era crollata per cui si era dovuto intervenire per metterlo in sicurezza e nell'occasione era stato rifatto il tetto. Ieri dunque a conclusione del complesso iter procedurale è stato aperto il cantiere per la seconda e conclusiva fase ella ristrutturazione, che l' azienda appaltatrice si impegna a completare entro 140 giorni. Il valore del progetto come precisato da Maurizio Tremul presidente della Giunta esecutiva dell'Unione Italiana che figura come committente dei lavori è di 375.000 euro, che vanno ad aggiungersi ai 200.000 spesi precedentemente. Ha voluto sottolineare che questa seconda fase viene eseguita utilizzando i mezzi residui o meglio i risparmi delle molteplici gare d'appalto per gli investimenti degli anni scorsi. Tremul ha quindi esposto un dato molto importante, ossia nel 2013 sono stati portati a termine investimenti del valore di oltre 5 milioni di euro per la ristrutturazione o costruzione a nuovo di edifici scolastici e Comunità degli Italiani. Alla simbolica cerimonia ha assistito Antonio Boccati, uno degli artefici della fondazione della Comunità, avvenuta agli inizi degli Anni '90. E c'era anche il giovane sindaco Marko Ferenac, che ha rimarcato il notevole ruolo nella vita culturale e pubblica di tutto il comune. Intanto fino all'inaugurazione dell'edificio rimesso a nuovo, che potrebbe avvenire prima dell'estate oppure in autunno, la Comunità continuerà a svolgere le sue attività negli ambienti messi a disposizione dal Comune e dalla locale scuola elementare. Il fiore all'occhiello degli italiani del posto è la grande banda d'ottoni cui ultimamente hanno aderito 20 nuovi esecutori, la filodrammatica, i cantanti solisti e i minicantanti dalle cui fila provengono Cristina Lubiana e Ivan Bottezar che si stanno facendo strada anche a livello nazionale. (p.r.)



145 – La Voce di Romagna 04/03/14 La vicenda del faentino Sauro Ballardini: Il Topo e la rottura Tito - Stalin

LA VICENDA DEL FAENTINO SAURO BALLARDINI INCARCERATO A SREMSKA MITROVICA

Il Topo e la rottura Tito - Stalin

PUBBLICATO in serbo il libro di Giampaolo Pansa “I prigionieri del silenzio”, uscito nel 2004, dove si parla dell’odissea degli italiani presenti in Jugoslavia nel 1948

Lasciata l’Italia per sfuggire alla cattura, ha vissuto a Sarajevo e a Fiume, dove subisce il primo arresto nel 1950

Nel 2004, dopo l’uscita de “I prigionieri del silenzio”, Storie e personaggi aveva a sua volta incontrato Ballardini, che ha anche un passato calcistico. Quando giocava ala sinistra nel Faenza, veniva chiamato ‘il Topo’. L’ala destra, ‘Topolino’, era invece il futuro commissario tecnico della nazionale Edmondo Fabbri. Quel soprannome Ballardini se l’è portato dietro anche nella Resistenza. Partito da Faenza, assieme a un gruppo di coetanei nell’ottobre del 1943 con la chiamata alle armi della classe 1925, arriva successivamente al campo di aviazione di Bologna: “Là c’erano anche altri faentini, ricordo Unico Cimatti e l’architetto Locatelli. Ero di antica famiglia repubblicana e non volevo assolutamente saperne di servire l’esercito di Salò. Per mia fortuna incontrai subito uno dei responsabili della Resistenza bolognese, Bruno Corticelli, e non fu difficile conoscere Franco Franchini, capo dell’allora nato distaccamento della 7a Gap di Castelmaggiore, di cui io divenni commissario politico”. Franchini e Ballardini in quel periodo hanno incontrato l’ex gerarca Leandro Arpinati, che dopo la caduta in disgrazia si era stabilito nella tenuta di Malacappa di Argelato, dove il 22 aprile 1945 verrà poi assassinato assieme all’avvocato Torquato Nanni, suo fraterno amico e nota figura dell’antifascismo romagnolo. “Arpinati - continua il racconto di Ballardini - cercava il contatto con il Comitato di liberazione di Bologna, esattamente con il Cumer. Gli venne garantita l’incolumità ma negata la collaborazione pur sapendo che aveva rifiutato di aderire alla Rsi. Gli abbiamo detto che c’erano troppe pagine bianche nella sua storia e che avrebbe dovuto riempirle. A giudicarlo sarebbe toccato ai tribunali incaricati di far luce su quanto da lui commesso. Sul mio incontro con Arpinati esiste la documentazione presentata da Luciano Bergonzini con tutte le relative testimonianze e verifiche”. Dopo la morte di Franchini caduto combattendo contro i tedeschi a Castelmaggiore il 14 ottobre 1944, a Ballardini verrà ordinato di raggiungere a Bologna la base dei Gap che si trovava a Porta Lame. “Dopo le battaglia di Porta Lame, alla quale presi parte, e il proclama di Alexander, facemmo rientrare alla spicciolata tutto il nostro distaccamento nella base di partenza. Arrivò il combattimento alla Bolognina, tutta la zona era bloccata, assieme ad un ragazzo andai a piedi da Bologna a Faenza. Allora avevo preso le responsabilità dell’Anpi di Faenza e attraversai il fronte tre volte”. Nella primavera del 1945, con l’ultima offensiva alleata, Ballardini è tra i primi a entrare nella Bologna liberata. Nel 1946 viene a sapere di essere ricercato, così per evitare l’arresto decide di espatriare; il Pci sceglie la Jugoslavia e gli dà un nuovo nome, Atos Bovina, un caduto della Resistenza. “La prima volta andai a Sarajevo, avevo il compito di aiutare i cosiddetti monfalconesi (i comunisti italiani che nel dopoguerra andarono in Jugoslavia per fronteggiare l’esodo degli istriani, fiumani e dalmati, ndr)”. Poi Ballardini decide di tornare in Italia passando clandestinamente il confine. “Sono arrivato a Bologna e ho raggiunto la mia base. Dopo i risultati delle elezioni del 1948 sono tornato nuovamente a Sarajevo”. Ballardini dice di aver avuto, una volta rientrato in Jugoslavia, un certo sentore che ‘qualcosa non funzionasse’; poi da Sarajevo si trasferisce a Fiume, dove viene arrestato una prima volta nel 1950 nell’ambito della retata legata alla cosiddetta cellula di Bonelli (un amico di Scano). Ballardini tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno del 1948 aveva cercato, invano, di attivare un contatto con il Partito in Italia. Allora inizia a Belgrado il giro delle ambasciate dei paesi comunisti. In quella della Romania riesce a parlare con il ministro degli Esteri, Anna Pauker, nella capitale jugoslava per una conferenza. La Pauker trasporta sul suo aereo quattro partigiani italiani, altri vengono fatti espatriare con l’aiuto dell’ambasciata della Bulgaria. Ma, sottolinea Pansa, la vera sorpresa per Ballardini arriva dall’ambasciata dell’Urss, dove così viene liquidato da un funzionario: “Se siete dei veri comunisti rimanete in Jugoslavia a combattere quel fascista di Tito!”. Tornato a Fiume, vi rimane a insegnare disegno alla scuola media italiana. Nel 1951 arriva il secondo arresto che lo porterà a trascorrere, in attesa del processo, due anni e mezzo in isolamento nel famigerato carcere di via Roma. Dopo il processo e la condanna, Ballardini è tradotto a Sremska Mitrovica, in Serbia, dove subirà il lavoro forzato fino al 1957, anno della liberazione. ‘A Sremska Mitrovica - racconta - eravamo in cento dentro una cella che avrebbe potuto ospitare al massimo una trentina di persone. I reclusi erano di varie nazionalità, alcuni erano deportati istriani, conobbi anche un prete croato che aveva preso parte a un corso per sacerdoti destinati ai paesi socialisti. Mentre stavamo lavorando in una fabbrica di mattoni ci chiese se potevamo aiutarlo, voleva celebrare la Messa. La nostra risposta, visto che era un prigioniero politico come noi, fu affermativa. Ogni volta facevamo un muro per proteggerlo e in caso di pericolo battevamo un colpo”. Ballardini riacquista la libertà nel 1957; non potendo rientrare in Italia va a Praga, dove consegue la laurea all’Accademia delle Belle Arti. “Sono stato docente all’Accademia per il restauro e l’arte monumentale. Ho lasciato a Praga molte opere che i faentini sono venuti a visitare; sono miei i mosaici nelle stazioni della metropolitana e così il grande mosaico di 45 metri quadri nella hall del palazzo delle Comunicazioni internazionali”. E’ rientrato a Bologna nel 1971. Del processo di Fiume che ha portato sul banco degli imputati Ballardini e altri cominformisti, parla Giacomo Scotti in ‘Goli Otok - italiani nel gulag di Tito’ edito da Lint; la prefazione della seconda edizione, uscita nel 1997, è di Giampaolo Pansa. Scotti è un giornalista e scrittore napoletano che nel dopoguerra aveva scelto la Jugoslavia di Tito e si era stabilito a Fiume. A sostenere la pubblica accusa, Ivan Motika, detto il boia dell’Istria, responsabile dell'uccisione di numerosi italiani. Scotti riporta la cronaca della ‘Voce del Popolo’, il giornale della Comunità italiana di Fiume dove si legge che ‘il Topo’ era accusato di aver tentato di organizzare gruppi controrivoluzionari allo scopo di abbattere l’ordinamento socialista. “L’imputato - scrive il cronista - ha avuto più volte nel corso dell’interrogatorio un contegno quanto mai provocatorio che ha più volte provocato espressioni di sdegno da parte del pubblico”. Quel contegno costerà a Ballardini, per il quale era stata chiesta inizialmente la pena di morte, l’aumento della condanna da 12 a 14 anni.

Aldo Viroli

Chi è il protagonista
Ha avuto un ruolo nella liberazione di Bologna

Grazie alla collaborazione tra la Società di Studi Fiumani e la casa editrice di Belgrado Novoli stampa, è realtà la pubblicazione in lingua serba del libro di Giampaolo Pansa “I prigionieri del silenzio”, apparso per la Sperling & Kupfer nel 2004. Il libro è dedicato alla vicenda di Andrea Scano, un pescatore sardo che negli anni Trenta sceglie di diventare comunista. Scano, dopo aver preso parte alla Resistenza, per evitare l’arresto dovrà espatriare. Sceglierà la Jugoslavia proprio nel periodo della rottura tra il maresciallo Tito e il Cominform, l’organismo politico internazionale di informazione e collaborazione tra i partiti comunisti europei, che avrebbe dovuto ereditare il ruolo della terza Internazionale. Scano si troverà a vivere l’infernale esperienza del lager di Goli Otok, la tristemente nota isola Calva. Pansa per avere notizie sulla permanenza di Spano a Fiume, divenuta Rijeka, aveva incontrato a Bologna l’artista Sauro Ballardini, nativo di Faenza. Ballardini, che aveva preso parte attiva alla Resistenza, venuto a sapere di essere ricercato dai carabinieri, nel 1946 aveva deciso di espatriare; il Pci aveva scelto per lui la Jugoslavia, attribuendogli un nuovo nome, quello di Atos Bovina, un partigiano caduto. Sauro Ballardini è morto a Bologna nel novembre 2010.



146 - Corriere della Sera Brescia 12/03/14 Gabre Gabric, cent'anni da record
Personaggio Le Olimpiadi, le nozze con Calvesi, l'insegnamento. E un obiettivo: il primato mondiale di pentathlon Master

Gabre Gabric, cent'anni da record

2 Le Olimpiadi alle quali Gabre Gabric ha preso parte, come lanciatrice del disco: quelle di Berlino del 1936 e quelle di Londra del 1948

4 Le medaglie d'oro nel lancio del disco conquistate ai Campionati italiani (1937,1939,1940,1942). Vanta record mondiali nelle categorie over 90 e over 95

Canottaggio

Potrebbe essere il testimonial dello sport come elisir di lunga vita. Nella sua storia agonistica ci sono due Olimpiadi e molti titoli italiani, nella sua vita affettiva il matrimonio con Sandro Calvesi (1913-1980) e in quella profes­sionale 50 anni di insegnamento.

La biografia di Gabre Gabric non risolve l'enigma della data di nascita: nel 1914 0 nel 1917? L'ipotesi più accreditata è il 1914. La sua terra natale si chiamava Austria, poi Italia e, infine, «gli italiani hanno regalato tutto ai croati». L'alfabetizzazione è stata in inglese con il padre austro­ungarico che l'aveva portata in America dallo zio Phil («credevo fosse mio padre»): «Mia madre morì a 21 anni e mio papà, uffi­ciale di carriera, che se ne faceva di me? A13 anni decise di ripor­tarmi in Italia», in un Paese per lei sconosciuto («non capivo nulla»). L'assenza di legami con il passato è il suo rammarico: «Quando sono arrivati i titini hanno preso tutti i nostri ricor­di... è la guerra».

 

Lanciatrice del disco, nel 1936 prese parte alle Olimpiadi di Ber­lino, che passarono alla storia per la mancata stretta di mano di Hitler all'americano di colore Jesse Owens. «No, quella — mi corregge subito — è una storia inventata di sana pianta». Berlino e poi Londra. «Nel 1948 non avevamo niente da mangiare, ci davano un brodino nero che non ho mai capito che cosa fosse, al­lora andavamo a chiedere la carne ai sudamericani».

In mezzo, nel 1937, conobbe il tecnico degli ostacoli Alessandro Calvesi. «Era sempre in mezzo ai piedi. All'inizio pensavo solo alla scuola e alla sport, ma lui cocciu­to ha avuto ragione e mi ha fatto capitolare». Calvesi che ha alle­nato, tra gli altri, Guy Drut (oro alle Olimpiadi di Montreal 1976), chiamò a Brescia grandi interpreti. Con molti c'era «una frequentazione fuori dal campo: Armando Filiput (oro agli Europei 1950) suonava pensando di essere un grande pianista, ma era un vero supplizio».

La Gabric avrebbe potuto ci­mentarsi anche sui 400, «ma mio marito non ha mai voluto: O lanci O niente». Quattrocento metri come la lunghezza del ponte di Zara che percorreva di corsa con l'amico d'infanzia Ottavio Missoni. Dopo la guerra ha inse­gnato educazione fisica per 50 anni («non sono mai mancata») e ha sempre seguito tutti gli sport, diversamente dal marito «innamorato solo della sua atletica». In verità c'è una parentesi: quando nel 1952 prese in mano la preparazione atletica del Brescia, penultimo in classifica, e lo portò allo spareggio per la serie A poi perso uno a zero contro la Triestina.

La Gabric oggi allena (per un problema di salute è a riposo) due volte alla settimana nella pa­lestra della Forza e Costanza. Ginnastica, giochi, rilassamento yoga («rischiano di addormen­tarsi») e gesti che coinvolgono anche la mente «perché lo sport mantiene fisico e testa». E per ogni evenienza ci sono due me­dici tra i 30 corsisti («pantere» e «panterini» che vanno dai 50 agli 88 anni). Nel tempo libero legge, ricama e gioca a burraco. L'atletica le ha dato «la voglia di vivere così come tutto lo sport».

Oggi guarda con occhio criti­co il mondo dell'atletica italiana che ha attraversato anni bui do­po i fasti degli anni Cinquanta/ Sessanta. «Gli ostacoli vanno an­cora benino, ma si è rotto qual­cosa 0 forse hanno incominciato a girare i soldi... Non capisco perché si facciano gareggiare i bambini: i bambini devono giocare e basta. Ho visto mio nipote Carlo che dopo la prima gara non ha più voluto saperne dell'atletica... E poi c'è il problema degli stadi». Ci sono impianti come il Calvesi... «Sem­bra che la situazione si possa sbloccare, speriamo. Brescia ha sempre avuto atleti forti».

Il prossimo obiettivo? «Poter tornare in pista (si prepara ad abbattere il record mondiale pentathlon e lanci di categoria detenuto da un'australiana di 100 anni, ndr), magari». Un con­siglio? «L'educazione fisica, se fatta bene, avvicinerebbe i ra­gazzi all'atletica».

Luciano Zanardini


147 - Il Piccolo 12/03/14 Il dialetto rovignese rivive in un vocabolario
Benussi, docente in pensione, ha coronato vent’anni di ricerche minuziose pubblicando l’opera con un contributo del ministero degli Esteri italiano

Il dialetto rovignese rivive in un vocabolario

ROVIGNO Ha colto un po’ alla sprovvista i presenti in sala l’affermazione di Franco Crevatin, Docente di linguistica presso l’Università degli Studi di Trieste che ha definito ideologica e quindi da respingere, la designazione di istroromanzo per l’insieme dialettale dell’Istria meridionale. «Essa - ha spiegato - presuppone l’originaria indipendenza dall’Italia nord orientale di tale insieme, che però l’evidenza smentisce». «E qui c’è stato lo zampino della politica nazionalista - ha aggiunto Crevatin concludendo - che la politica passa mentre la scienza resta». Franco Crevatin originario di Buie è autore della prefazione del Vocabolario italiano–rovignese, presentato al Centro multimediale alla presenza di un pubblico molto numeroso. Nel suo interessantissimo intervento ha praticamente illustrato la carta dialettale dell’Istria partendo dall’epoca romana per arrivare al vernacolo rovignese. Ed ha reso merito a Libero Benussi autore del volume, per il rigore e la metodologia scientifica usati nella stesura. «Di opere come queste in Italia ce ne sono pochissime - ha concluso - per cui i rovignesi possono andar fieri del Vocabolario». Con la pubblicazione del volume edito dalla Comunità degli Italiani, con il contributo finanziario del ministero degli Esteri, Libero Benussi noto operatore scolastico ora a riposo, vede cosi coronare oltre 20 anni di capillari e minuziose ricerche. «Ho riportato - spiega - 15.500 vocaboli italiani con il corrispettivo significato rovignese tante volte accostati a sinomini che sono circa 30.000. In più il libro contiene un’ appendice di 2.400 recuperati, non compresi nel Vocabolario precedente di Giovanni e Antonio Pellizzer uscito nel 1992». Sfogliando il vocabolario vediamo che “vigliacco” in rovignese si può dire “cagainbraghe” oltre che “vigliaco”. La tipica parlata rovignese è sempre presente nella creatività letteraria specie poetica e musicale, sta del tutto sparendo invece nella comunicazione giornaliera. Ormai la usano solo pochi anziani, mentre i giovanissimi parlano in istroveneto. La preside della Scuola elementare italiana “Bernardo Parentin”, Gianfranca Suran ci spiega che in classe si tengono dei corsi di dialetto ben frequentati e che comunque i ragazzi sono in grado di produrre canzoncine e scenette di vita quotidiana usando appunto l’idioma dei nonni.

(p.r.)


148 – East Journal 13/04/14 Scipio Slataper, “Tu sai che io sono slavo, tedesco e italiano”

Scipio Slataper, “Tu sai che io sono slavo, tedesco e italiano”

Ho sempre subito il fascino di tutti i luoghi di frontiera. Il confine orientale italiano poi, ha sempre suscitato in me un misto di curiosità e suggestione che ancora non so motivare razionalmente. Forse perché quello orientale è sempre stato, almeno negli ultimi 250 anni,  un confine mobile e perennemente conteso,  dove si sono plasmati i destini di migliaia di persone. Sul confine orientale italiano forse troppo si è deciso dell’attuale assetto politico europeo.  Di Slataper ricordo che a colpirmi fu subito il cognome: l’onomastica friulana, così “esotica” proprio per le componenti eterogenee che contiene, mi ha anch’essa sempre affascinata; il mio incontro con Scipio Slataper avvenne all’università,  mentre seguivo il primo corso di letteratura italiana moderna e contemporanea. Il programma di quell’anno era dedicato agli intellettuali de “La Voce”, la rivista culturale e politica fondata da Giuseppe Prezzolini nel 1908 e pubblicata fino al 1916 non senza subire cambiamenti e svolte editoriali e/o tematiche. La Voce resta in ogni caso, una delle riviste più importanti del Novecento italiano che nelle diverse fasi della sua storia, annoverò tra i suoi collaboratori più importanti , intellettuali del calibro di  Salvemini, Croce, Papini, Slataper appunto, Palazzeschi, Cardarelli, Cecchi e molti altri.

Nato nel 1888 da padre slavo e madre italiana, ultimo di 5 fratelli, Scipio Slataper crebbe nella Trieste austro-ungarica. Il capoluogo friulano insieme a Trento fu città dell’irredentismo, un movimento i cui membri provenivano soprattutto dalla classe borghese, la cui  aspirazione era l’annessione delle città al regno d’Italia.  L’irredentismo fu il nodo centrale del pensiero di Slataper, che subì diverse modifiche nel corso degli anni, soprattutto dopo alcuni avvenimenti che cambiarono le sue prospettive.

Dopo un’infanzia trascorsa tra Trieste e l’incontaminato Carso triestino, Scipio frequentò il liceo comunale della città ed entrò subito in contatto con l’ambiente patriottico:  le idee di Mazzini e di Garibaldi fecero immediatamente breccia nel suo animo neoromantico e vigoroso, “l’amor patrio” lo pervadeva e Scipio cominciò così  ad immergersi nel dibattito  sul pro o contro l’irredentismo.  Nonostante la frequenza dei suoi slanci e gli stravolgimenti di alcune sue opinioni però, Scipio si mostrò sempre refrattario ad ogni tipo di collocazione politica, e ad ogni banalizzazione o massificazione del suo sentire politico e sociale: nel corso della sua breve ma intensa vita,  il suo animo anarcoide rimase sempre fedele a se stesso.

Terminati gli studi superiori, Scipio si ritirò per qualche mese nel Carso triestino a causa di un esaurimento nervoso che lo costrinse ad un periodo di isolamento. L’incontro ravvicinato con i contadini slavi che abitavano quelle zone, spesso offesi in città con epiteti poco gradevoli, dunque il contatto ravvicinato con la comunità slovena, si rivelò fondamentale per la maturazione delle sue idee: dopo questo periodo  il giovane fu  improvvisamente folgorato da un’idea che con forza si impose sulle convinzioni fino ad allora sostenute: Slataper comprese che sarebbe stato impossibile pensare Trieste senza il nutrito milieu di culture che la componevano, che era quindi   la storia di Trieste ad insegnare la sua unicità, la sua diversità rispetto alle altre città italiane, poiché in essa, nel suo humus si erano sedimentati secoli di passaggi, di combinazioni, di fusioni.

Con questa nuova utopia di una Trieste internazionalista, la cui italianità  non implicasse  per forza alla città di legarsi in un’associazione politico-economica con la nazione,  Scipio Slataper si trasferì a Firenze “a diventar classico”, e si iscrisse alla facoltà di Lettere. Arrivato nel capoluogo fiorentino collaborò con La Voce, dove non mancò di esprimersi sull’italianità di frontiera a lui tanto cara, della sua città.  ”Il mio Carso” è l’unica opera completa che Slataper abbia lasciato, benché siano molti i suoi scritti giornalistici sparsi su riviste e quotidiani del tempo. Gianni Stuparich inoltre, dopo la morte di Slataper ne pubblicò postuma la  tesi di laurea dedicata ad Ibsen e curò inoltre l’edizione di  un suo epistolario.

“Il mio Carso” edito dai “Quaderni della Voce” nel 1912, non ha ancora trovato una precisa definizione da parte dei critici della letteratura né tanto meno si è stati in grado finora, di ricondurre l’opera ad un genere letterario adeguato: la natura de “Il mio Carso”  è certamente frammentaria, si comprende sin dall’inizio, e somiglia, a voler trovare una collocazione, ad un diario, un taccuino di impressioni e memorie non sempre trascritti in base ad una logica temporale ben definita; al centro di quest’ sperienza scrittoria completa, emergono gli elementi fondamentali del suo pensiero e i tratti più importanti della sua personalità.

La tematica centrale dibattuta nell’opera  è senza dubbio quella del senso di appartenenza  alla sua Trieste, città compromessa dai dissidi etnici ed in particolare ai tempi di Slataper, dilaniata da un contrasto ormai accesissimo tra popolazione italiana e slava. Come molti altri intellettuali triestini, anche Slataper aveva tentato di interpretare inizialmente in maniera costruttiva la particolare situazione della propria città e più in generale della frontiera orientale italiana, provando dunque ad intravedere una sorta di rovescio della realtà triestina, colma di elementi culturali e politici eterogenei, compromessa da sospetti e risentimenti tipici delle zone di confine.

Anche Slataper fu  inconsapevolmente e sempre impregnato di tale eterogeneità, soprattutto dal punto di vista culturale e più precisamente letterario:  a Trieste gli stimoli letterari furono largamente europei, stimoli che invece nel medesimo periodo non  avevano ancora raggiunto altre aree del nostro paese, né tanto meno  ambienti intellettuali delle città  italiane più attive, almeno sotto l’aspetto culturale. Il contatto con Firenze, poi con Amburgo dove fu per un anno lettore di italiano all’Università e poi con Roma, dove lavorò come cronista de “Il Resto del Carlino”  se da un lato arricchirono e ampliarono le conoscenze e le prospettive di Slataper, dall’altro acuirono quel dualismo (il  tentennamento sul pro o contro l’irredentismo) che lo tormentò  fino alla morte avvenuta prematuramente nel 1915 sul Monte Podgora. Slataper, convinto interventista, come molti altri intellettuali del periodo, all’entrata in guerra dell’Italia si arruolò nei granatieri e fu colpito dal proiettile di un soldato austro-ungarico.

Negli ultimi tempi, complici anche gli eventi bellici, il pensiero di Slataper subì un ulteriore modifica: quello che fino al 1914 Slataper chiamò il proprio “irredentismo culturale”, in merito al quale lo scrittore affermava che ogni triestino potesse vivere esclusivamente in una dimensione internazionalista, in una sorta di vagheggiata federazione tra  popoli, fu sostituito negli ultimi mesi di vita dello scrittore, da una convinta superiorità della stirpe italica sulle altre. Se Slataper avesse vissuto ancora, se fosse sopravvissuto alla guerra, avrebbe rivisto di nuovo le sue posizioni? L’identità composita del giovane scrittore accolse ed inglobò in sé tutte le componenti tipiche della cultura triestina; fu forse proprio il suo eclettismo di fondo a renderlo incapace  nel corso della sua breve vita,  sia di accettare che di abbandonare il proprio essere “impuro”, un dualismo eterno che probabilmente non gli avrebbe mai consentito di scegliere.




149 - Il Piccolo 13/03/14 Lubiana dovrà risarcire i "cancellati"
Lubiana dovrà risarcire i “cancellati”

TRIESTE La Corte europea per i diritti dell’uomo ha deciso all’unanimità che la Slovenia deve pagare, entro tre mesi, 240mila euro di indennizzo per i danni materiali ai sei “cancellati” (coloro che sono rimasti senza cittadinanza alla proclamazione dell’indipendenza) che hanno fatto ricorso alla Corte stessa. Ricorso che è stato proposto nel 2006 da 11 cancellati. A sei di questi la Corte ha riconosciuto il diritto di ricevere 20mila euro a testa per i danni non materiali. Ora il senato della Corte stessa ha deciso relativamente ai danni materiali. Così la Slovenia dovrà versare 72.770 euro a Alij Berisha, 52.240 euro a Ani Mezga, 30.300 a Zoran Mini„, 30.150 a Ilfan Sadik Ademij, 30mila a Tripun Ristanovi„ e 29.400 a Mustafi Kuri„.
Tutti e sei dovranno anche essere risarciti delle spese legali sostenute in Slovenia pari a 339,42 euro ciascuno e 5mila euro per le spese sostenute alla Corte europea per i diritti dell’uomo. Il calcolo del risarcimento è stato effettuato per l’arco di tempo che va dall’entrata in vigore nel 1994 in Slovenia della Convenzione per i diritti dell’uomo alla normalizzazione dello staus dei “cancellati”. Per quanto riguarda i danni materiali i giudici europei hanno stabilito che questi ammontano a 150 euro per ogni mese di “cancellazione”. Un risarcimento è stato altresì garantito anche per i figli dei “cancellati” pari a 80 euro per ogni mese di “cancellazione”.
Tale importo è stato inserito in quello stabilito che quindi è cumulativo.
Il ministero degli Interni sloveno ha accolto con soddisfazione la decisione dei giudici della Corte europea visto, si legge in un comunicato, che la somma di 150 euro mensili combacia perfettamente con quella stabilito dal cosiddetto “schema per i cancellati” elaborato dal governo di Lubiana. (m.man.)




150 - Il Piccolo 10/03/14 Ci voleva una guerra per fermare il massacro dell’inferno balcanico
Ci voleva una guerra per fermare il massacro dell’inferno balcanico
di Pietro Spirito
 La sera del 28 agosto 1995, alle 20, poche ore dopo la seconda strage al mercato di Markale, a Sarajevo, con 37 morti e 90 feriti, il generale Sir Rupert Smith, comandante delle forze Onu schierate in Bosnia-Erzegovina, senza prima consultarsi con i vertici delle Nazioni Unite, né con gli Stati i cui soldati erano impegnati nelle forze Unprofor, chiamò il comandante delle Forze Alleate del Sud Europa della Nato. I due militari si trovarono immediatamente d’accordo sul fatto che la misura era ormai colma, e che se davvero si voleva dare una svolta al processo di pace nella ex Jugoslavia era ora di dare la voce alle armi. Alle 3 del mattino del 30 agosto ebbe inizio l’operazione battezzata Deliberate Force. Nel corso della prima notte di combattimenti la Forza di reazione rapida dell’Unprofor martellò le postazioni serbo-croate con seicento colpi di grosso calibro e di esplosivo ad alto potenziale, mentre i cannoni dell’Unprofor schierati sul Monte Igman aprirono il fuoco a forcella su diciannove postazioni serbo-bosniache colpendole con precisione devastante, mentre dal cielo gli apparecchi della Nato eseguivano non meno di tremila incursioni contro almeno sessanta obiettivi terrestri. Durante tutto il periodo delle operazioni le trattative di pace proseguirono, in un crescendo della pressione militare da parte delle forze Onu e Nato, fino al decisivo e distruttivo lancio di tredici missili Tomahawk contro le postazioni di difesa antiaerea serbo-bosniaca a Banja Luka. Gli attacchi «dimostrarono che le forze serbo-bosniache erano poco più di una tigre di carta», e il 21 settembre l’operazione Deliberate Force ebbe ufficialmente fine, spianando la strada una volta per tutte alle trattative di pace. C’era voluta una decisa azione di guerra per fermare la guerra nei Balcani, ma la domanda è: perché non era stato fatto prima? Perché aspettare tanto tempo e migliaia di vittime civili per arginare il massacro balcanico? A queste e altre domande tenta di rispondere Alastair Finlan nel libro “Le guerre della Jugoslavia 1991-1999” (pagg. 141, euro 16) tradotto da Mauro Pascolat e appena uscito per la Libreria Editrice Goriziana nella collana della Biblioteca di arte militare (Bam). Esperto di strategia e storia militare, pur senza mai perdere d’occhio il contesto politico e diplomatico Finlan analizza i quasi dieci anni di guerre balcaniche sotto un profilo squisitamente militare, studiando le forze in campo, le formazioni impiegate nel conflitto, gli armamenti, le strategie ecc. Con una questione assillante che attraversa tutte la pagine del saggio: com’è possibile che, seppure di fronte a un conflitto dai connotati prevalentemente etnici le cui radici l’autore individua nell’«occupazione tedesca» cui seguì «un’aspra guerra civile», e per quanto inserito in un contesto dai delicati equilibri internazionali, siano potuti accadere tanti e tali massacri nei confronti dei civili? Com’è stato possibile un tale inumano macello (Finlan lo definisce «di tipo medievale») nell’epoca delle armi super sofisticate e delle tecnologie d’avanguardia? Si calcola, nota Finlan, che negli anni Novanta almeno 250mila persone «rimasero uccise nei feroci scontri etnici, mentre la comunità internazionale assisteva incredula al ripresentarsi del genocidio in un’era di modernità». A differenza delle altre guerre più recenti, nota ancora l’autore, «dominate dall’impiego di armi altamente tecnologiche usate a distanza contro il nemico, in Jugoslavia si combatteva sostanzialmente una guerra corpo a corpo, in cui conoscenti si uccidevano fra di loro, il vicino ammazzava il proprio vicino, spesso con armi usate negli scontri sulla breve distanza come il fucile». Dopo aver analizzato i prodromi della dissoluzione della Jugoslavia, e il ruolo dei maggiori attori in campo - da Tuðman a Miloševi„ - Finlan passa a esaminare la cronologia degli scontri e le forze coinvolte sul campo. Che furono almeno tredici: fra queste «il conflitto impegnò croati bosniaci, bosniaci musulmani (...) e serbi bosniaci, croati, serbi croati, kosovari, macedoni, montenegrini, serbi, sloveni, nonché combattenti dalla Voivodina, senza dimenticare gli uomini delle forze Nato e di quelle dell’Onu». Tutti attori a loro volta inquadrati in milizie, formazioni regolari, bande mercenarie e/o criminali, agenzie non governative. Analizzare il patchwork costituito da queste forze armate, dimostra Finlan, spiega molte cose, ad esempio perché la Jna, l’Armata popolare jugoslava, appoggiò da subito Miloševi„, in barba alla «sua lunga tradizione di neutralità e lealtà politiche alla federazione piuttosto che a una singola nazione». Con 180mila uomini, duemila carri armati, centinaia di automezzi corazzati per il trasporto truppe, seimila mortai, tremila cannoni contraerei e molto altro, di fatto «era evidente a tutti i belligeranti che in Croazia e in Bosnia-Erzegovina i serbi e i bosniaci erano molto più efficienti in termini di potenza di fuoco garantita da velivoli, artiglieria e carri armati rispetto ai loro nemici regionali». Una superiorità che non bastò a dare una svolta decisiva al conflitto, ma fu sufficiente a consentire il mantenimento delle conquiste iniziali e punire le forze d’opposizione. E fu proprio questo squilibrio «di carattere puramente militare» a causare «immense sofferenze fra i civili delle nazionalità coinvolte nella lotta fra i belligeranti». In definitiva, fu la mancanza di una vittoria da parte di chi era militarmente “più forte” a innescare «una spirale di caos, violenze e - secondo alcuni osservatori - di pura barbarie che si trascinarono per diversi anni». Questa specie di distonia bellica fu evidente sin dalla prima scintilla del conflitto, la secessione della Slovenia. Gli sloveni, sottolinea Finlan, erano preparati a fronteggiare la minaccia dell’Armata popolare jugoslava, grazie anche a una massiccia campagna avviata allo scopo di screditarla dentro e fuori i propri confini. Pertanto, quando «la Jna ricevette l’ordine di entrare in azione, le forze slovene avevano già messo a punto un piano di neutralizzazione contro l’invasore; fu adottata una strategia semplice ma molto efficace: le colonne dell’Armata sarebbero state circondate e i loro movimenti, avanti e indietro, bloccati da ostacoli come per esempio alberi abbattuti». A quel punto gli sloveni - molti dei quali appartenevano alle Forze di difesa territoriale -, «avrebbero aperto il fuoco contro le colonne intrappolate. i cui uomini erano in molti casi riservisti spaventati e tutt’altro che entusiasti di raggiungere la meta che li attendeva». La guerra-flash della Slovenia durò una settimana, e gli Accordi di Brioni generarono «l’errata convinzione che la diplomazia sarebbe riuscita a fermare i combattimenti nell’ex Jugoslavia senza il ricorso alla forza». L’aspetto più tragico del fallimento della prima e decisiva fase della crisi, mentre si apriva il fronte in Croazia, «è che esso si ripercosse sulla popolazione civile, in quanto la guerra avrebbe condannato a una morte lenta e brutale migliaia di persone
l’autore
Esperto di forze speciali e lotta globale al terrorismo Alastair Finlan, esperto di strategia e storia militare , ha insegnato in varie università fra cui Keele, Plymouth e l’Università americana del Cairo, oltre che all’accademia militare del Britannia Royal Naval College. È fra l’altro membro dell’ International Institute for Strategic Studies. Le sue ricerche spaziano in diversi campi, dagli studi strategici alla cultura e dottrina militare, fino alle forze speciali e alla guerra globale contro il terrorismo. In particolare i suoi studi sulle forze speciali intendono analizzare il ruolo delle unità segrete nel più ampio quadro degli studi strategici. Ha pubblicato saggi sulla Guerra nel Golfo e sull’Afghanistan .


Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it
 
 
a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri

N. 909 – 08 Marzo 2014
    

Sommario


125 – Corriere della Sera 28/02/14 Italia si', Italia no: Cristicchi (Aldo Cazzullo)
126 -  Giornale d'Italia 02/03/14 Squarciato le gomme dell'auto di Cristicchi (Cristina Di Giorgi)
127 - Nove da Firenze 06/03/14 Firenze - Foibe: no allo spettacolo di Simone Cristicchi nelle scuole
128 - Il Piccolo 05/03/14  Beni abbandonati, i fondi non vanno usati altrimenti (Silvio Delbello)
129 - Il Piccolo 03/03/14 Gorizia: Foibe e polemiche, il dopoguerra non è finito (ro.co.)
130 -  Mailing List Histria Notizie 03/03/14 Comunicato Stampa -  Cessare ogni contributo finanziario della Regione Friuli Venezia Giulia a chi nega l'esistenza delle foibe
131 -  La Voce del Popolo  01/03/14 Busalla rende merito ai Dalmati Luxardo
 (Rodolfo Decleva)
132 - Panorama Edit 28/02/14 Agenda - Furio Radin e Maurizio Tremul preoccupati per il taglio dei finanziamenti
133 – La Voce del Popolo  06/03/14 Pola - Ornella Smilovich : «Lo scopo era intimorire gli italiani» (Gianfranco Miksa)
134 - La Voce del Popolo  03/03/14  Albona - Nuova luce sulla sciagura di Arsia (Tanja Škopac)
135 - La Voce del Popolo 07/03/14 Asilo italiano: grande interesse a Zagabria (Marin Rogić)
136 – L’Osservartore Romano 06/03/14 Per i giusti di tutto il mondo (Anna Foa)
137 - Il Fatto Quotidiano 05/03/14 Anche gli irredentisti triestini tifano per lo "zar": nostalgia d`impero (Alessandro Cisilin)



Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arenadipola.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.arcipelagoadriatico.it/


125 – Corriere della Sera 28/02/14 Italia si', Italia no: Cristicchi
 Italia si', Italia no: Cristicchi
Aldo Cazzullo
Si' Simone Cristicchi è bravissimo.
La contestazione che ha subito è preoccupante ma per certi versi interessante.
È il segno di uno scontro tra una nuova generazione ideologizzata, sia pure non nelle forme organizzate del marxismo (o del fascismo) ma in quelle volatili dei social e della rete, e la generazione precedente, cresciuta in un mondo postideologico.
Per cui si può essere di sinistra e riconoscere che gli istriani hanno subito un torto orrendo, pagando per il solo fatto di essere italiani il conto per un`intera nazione. Gli spettacoli di Cristicchi sono preziosi. "Magazzino i8" è già un caso, ma anche l`ultimo, "Mio nonno è morto in guerra", è teso, commovente, pieno di poesia. Che fortuna, vivere in un Paese che ha artisti così.

126 -  Giornale d'Italia 02/03/14 Squarciato le gomme dell'auto di Cristicchi
Le gomme dell'auto di Simone Cristicchi squarciate da vandali

Il cantautore romano:“Siete relitti di una ideologia sepolta. A noialtri ci tocca sopportare i vostri ragli da asini, oltre che i tagli”
 
Numerosi messaggi di solidarietà e incitamenti a continuare sulla seguitissima pagina facebook dell'interprete di Magazzino 18
Quando si tratta di dare lezioni di democrazia e di cultura la sinistra sembra non avere rivali. Ma solo a parole. Già, perché se da un lato gli antifascisti doc si dichiarano contro ogni forma di violenza e unici depositari della verità storica, sbandierando ai quattro venti il loro impegno contro le mistificazioni nazifasciste, dall’altro si comportano da figli arroganti di un’ideologia che spesso e volentieri li induce a comportamenti che nella migliore delle ipotesi sfiorano il ridicolo.

Come quello degli esponenti dei centri sociali che a Scandicci hanno interrotto Magazzino 18 volendo denunciarne la faziosità (senza averlo peraltro visto). E come gli ignoti che, molto probabilmente di questa stessa mentalità, hanno inciso le gomme dell’auto di Simone Cristicchi con un taglierino. La risposta del cantautore romano, che sulla sua seguitissima pagina facebook (gli iscritti sono più di cinquantamila) ha commentato l’accaduto, è di quelle che non lasciano spazio ad alcun dubbio: “Siete relitti di una ideologia sepolta. A noialtri ci tocca sopportare i vostri ragli da asini, oltre che i tagli”. Parole durissime che, di fronte all’ennesimo sfregio che ha il gusto amaro della minaccia e dell’idiozia, sono l’ulteriore testimonianza della correttezza di un uomo che, pur avendo più volte dichiarato di appartenere ad un determinato orientamento politico, non ha paura di denunciarne apertamente le mele marce – o meglio, decomposte – che non sanno far altro che criticare aprioristicamente il suo lavoro.

Un lavoro che, vale la pena ripeterlo nuovamente, ha l’unica “colpa” di aver portato all’attenzione del grande pubblico il dramma delle Foibe e degli esuli istriani, giuliani e dalmati. In che modo la ricerca della verità può essere considerata di parte è un mistero che neanche Einstein potrebbe risolvere. Molto meno misteriosa è invece – purtroppo – la mentalità di una certa sinistra che ha la radicata e radicale abitudine di misurare tutto in maniera strumentale sulla base del proprio interesse di parte.

“Il problema – scrive l’artista – è che più Magazzino 18 avrà successo, e più questi relitti nostalgici alzeranno i toni, istruendo la loro bassa manovalanza che agirà scompostamente. Poi, ovviamente, da vigliacchi come sono, si tireranno indietro, pur non prendendo le distanze da simili gesti”. Poi l’amaro commento: “Se le ricerche storiche di Cernigoi, Kersevan, Purina, Volk portano a questo, mi tengo volentieri il mio buon Gianni Oliva”. In altre parole: se i risultati degli studi compiuti dai revisionisti che negano o giustificano quanto avvenuto sul confine orientale italiano in quegli anni difficili generano atteggiamenti come quelli di questa sinistra, molto meglio gli studiosi che hanno cercato di capire come sono andate veramente le cose. Al di là – come i veri storici dovrebbero sempre fare – di ogni connotazione ideologica e politica.

A Simone Cristicchi sono giunti moltissimi messaggi di stima e solidarietà non solo di chi ha visto lo spettacolo, ma anche – e soprattutto – da parte di coloro che le vicende a cui il cantautore romano ha dato esemplare e poetico riconoscimento le hanno vissute sulla loro pelle. Persone che gli hanno rivolto messaggi di stima, ringraziamento e incitamento a non mollare. Sulla pagina di Magazzino 18 si leggono però – non molti per fortuna – anche messaggi senza vergogna di chi insiste nel negare l’evidenza. Come quello in cui si legge: “il tuo spettacolo è totalmente antistorico e carente. Torna a studiare, tu e i tuoi fans”. Ecco. Un consiglio questo che ci sentiamo di condividere: si Cristicchi, torna a studiare. Magari grazie ai tuoi eccellenti e documentati sforzi, ci regalerai ancora una volta pagine di Storia e Verità fino ad ora dimenticate!

Cristina Di Giorgi






127 - Nove da Firenze 06/03/14 Firenze - Foibe: no allo spettacolo di Simone Cristicchi nelle scuole
FIRENZE
Foibe: no allo spettacolo di Simone Cristicchi nelle scuole

"Quello spettacolo non s'ha da fare! Così il PD e le altre forze di sinistra presenti in commissione pace hanno bocciato una mozione che chiedeva di inserire lo spettacolo dell'artista Simone Cristicchi, 'Magazzino 18', sul dramma dell'esodo dei giuliano-dalmati e degli istriani sul finire della seconda guerra mondiale, ne 'Le Chiavi della Città', ovvero nei percorsi didattici per le scuole fiorentine. Le motivazioni? Le più svariate: da 'nelle scuole di foibe e di esodo si parla già' fino a 'quello spettacolo è di parte e Cristicchi non è uno storico'". Questo quanto dichiarato dal consigliere comunale di Fratelli d'Italia - Alleanza Nazionale, Francesco Torselli.
 "Dopo le ignobili contestazioni subite da Simone Cristicchi a Scandicci - spiega Torselli - ad opera di qualche esaltato dei centri sociali che ancora oggi vorrebbe celare nel silenzio il dramma patito dagli italiani di Istria, Venezia Giulia e Dalmazia sul finire della seconda guerra mondiale e dopo che lo stesso sindaco, oggi premier, Matteo Renzi aveva raccolto il nostro invito a chiamare Simone Cristicchi a Firenze per mettere in scena 'Magazzino 18', avevamo pensato di chiedere l'inserimento dello spettacolo ne 'Le Chiavi della Città', ovvero in quell'offerta didattica che il Comune mette a disposizione delle scuole per affiancare le linee didattiche tradizionali". "Purtroppo e con grande sorpresa - prosegue l'esponente di Fratelli d'Italia - Alleanza Nazionale - questa mattina in Commissione Pace il Partito Democratico e le altre forze di sinistra hanno ritirato fuori ritornelli ideologici, che sinceramente credevamo ormai ampiamente superati, secondo i quali, del dramma delle foibe e dell'esodo 'si parla già sufficientemente' oppure 'quando si parla di queste cose, occorre dare una lettura fatta da ambo le parti', e successivamente la mozione è stata bocciata, senza neppure ascoltare il parere della Direzione Comunale competente, invitata in commissione, ma solo quando la mozione era già stata respinta". "Per l'ennesima volta e se ancora ce ne fosse bisogno - spiega ancora il consigliere - abbiamo visto tutto il bagaglio ideologico della sinistra fiorentina: una sinistra che di fronte al dramma di 30.000 infoibati e di 350.000 esuli, ancora pensa di dover dare una lettura 'da ambo le parti della vicenda'. Ma quali sarebbero queste parti che avrebbero pari dignità? Una quella degli infoibati e degli esuli e l'altra quella dei boia titini? Dirsi sconcertati di fronte a queste prese di posizione è davvero troppo poco. Credevamo fosse ormai lontano nel tempo quel 2008 in cui esponenti della sinistra istituzionale scesero perfino in piazza insieme a chi inneggiava agli infoibatori di Tito, tanto da essere redarguiti perfino dal Sindaco Domenici. Purtroppo dobbiamo riscontrare che questi tempi non sono poi così lontani". "Nel ribadire tutta la nostra stima - conclude Torselli - ad un'artista come Simone Cristicchi, che sappiamo non essere certo vicino a noi politicamente, per aver realizzato un'opera tanto lucida quanto toccante, in grado di raccontare i drammi delle foibe e dell'esodo meglio di 100 libri, non ci resta che auspicare che il consiglio comunale si ravveda e ribalti il voto di una commissione che, stamattina, più che una commissione consiliare, sembrava una riunione del Partito Comunista dei primi anni '50 (e siamo certi che dicendo questo, non offendiamo nessuno dei presenti, anzi...)".

Approfondisci:
http://www.nove.firenze.it/vediarticolo.asp?id=b4.03.06.21.38#ixzz2vMugjjrs


128 - Il Piccolo 05/03/14  Beni abbandonati, i fondi non vanno usati altrimenti
Beni abbandonati, i fondi non vanno usati altrimenti

l’intervento di  SILVIO DELBELLO *          
 
Dal resoconto dell’incontro tenutosi il 17 ottobre 2013 al ministero degli Esteri tra i dirigenti della Federazione degli Esuli, la viceministro Marta Dassù e il ministro plenipotenziario Francesco Saverio De Luigi, apprendiamo fra l’altro che la “FederEsuli ha riproposto di costituire una fondazione che, riunendo tutti i sodalizi e i centri studi stabiliti dalla legge 72/2001, possa beneficiare dei finanziamenti statali finora assegnati da questa ai singoli soggetti con l’aleatoria procedura del rifinanziamento triennale. Secondo Federesuli, parte del debito in dollari dovuto da Slovenia e Croazia all’Italia ai sensi dell’Accordo di Roma potrebbe essere devoluto dal governo a tale fondazione. Sarebbe questa una forma di compensazione indiretta, considerando che l’Accordo del 1983 non obbligava il nostro governo a trasmettere agli espropriati aventi diritto la cifra percepita dall’allora Jugoslavia”.

Nel comunicato emesso a seguito di una riunione datata 13 gennaio 2014 a Padova, l’esecutivo nazionale della FederEsuli comunica che “l’esecutivo ha deliberato di procedere sollecitamente alla costituzione della Fondazione degli Italiani di Istria, Fiume e Dalmazia...” La fondazione è aperta a tutti gli organismi associativi che ne condividono le finalità. Ispirandosi alla legge 92 del 2004, nota come legge sul “Giorno del ricordo”, si impegna a costruire un futuro a partire dalla memoria rappresentata e custodita dalle associazioni, unitamente all’esperienza delle foibe e dell’esodo che ha distrutto vite, sradicato persone e messo in dubbio la sopravvivenza di un popolo intero. La fondazione vuole essere il luogo dove questa memoria sia custodita, studiata e tramandata alle nuove generazioni. La Federazione ha ritenuto che l’istituzione della fondazione sia il miglior strumento a livello nazionale ed internazionale per perseguire l’azione attuata dalle associazioni degli esuli in difesa dei loro diritti, valori e delle loro aspirazioni. Le notizie riportate sono ricavate dal sito dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia e alcune domande sorgono spontanee su quanto si riferisce.

La prima, e mi sembra la più importante, è su come la Federesuli possa pensare di arrogarsi il diritto di decidere che soldi dei beni abbandonati possano essere destinati ad altro scopo se non quello di risarcire parzialmente chi i beni gli ha abbandonati e quindi persi. Che un organismo rappresentativo degli esuli possa mettere in dubbio che il nostro governo non sia obbligato a trasmettere agli esuli aventi diritto i soldi avuti dagli Jugoslavi , mi sembra veramente fuori da ogni logica e buon senso da parte di chi gli esuli pretende di rappresentare.

Appare poi veramente stravagante l’idea di formare un nuovo ente quando esiste già proprio la Federazione degli esuli: se questa non funziona o non è in grado di assolvere ai compiti per cui era stata costituita si prendano opportune inizative per superare l’impasse. L’altra considerazione riguarda l’esistente, cioè le associazioni, le istituzioni e gli enti che già esistono e stanno operando nel senso indicato per la Fondazione: l’Irci (l’Istituto triestino che sta allestendo il Museo della Civiltà istriana fiumana dalmata), il Crt (il Centro raccolta profughi di Padriciano), il Museo fiumano di Roma ed altre realtà in varie parti d’Italia. Perché si dovrebbe sacrificare o restringere quanti sino ad oggi hanno svolto egregiamente e come hanno potuto, il loro compito. Se c’è da migliorare si intervenga, si consigli, si aiuti ma non si umili pur di creare un nuovo carrozzone sottraendo agli esuli quegli spiccioli che, pur se pochi, valgono anche come riconoscimento.

* Presidente della Famiglia Umaghese



129 - Il Piccolo 03/03/14 Gorizia: Foibe e polemiche, il dopoguerra non è finito
Foibe e polemiche, il dopoguerra non è finito
Alla presentazione di un libro alla Leg le storiche Kersevan e Cernigoi hanno negato l’esistenza
 All’approssimarsi del centenario della Prima guerra mondiale non resta che prendere atto che a Gorizia (e nella Venezia Giulia) il secondo dopoguerra non è ancora finito. L’ennesima, deprimente conferma, l’altro pomeriggio alla Leg dove è stato presentato il libro di Giuseppina Mellace “Una grande tragedia dimenticata. La vera storia delle foibe». Il titolo, come ha ammesso l’autrice, che insegna storia a Roma, non è pertinente con il contenuto improntato, soprattutto, al tragico destino di molte donne uccise e buttate nelle foibe da parte dei partigiani di Tito. Mellace propone un’ampia ricognizione sulla storia di queste terre dagli anni Venti al dopoguerra. Talvolta la trattazione è approfondita. Altre meno. Ma il volume ha il pregio di fornire a chi non conosce la nostra storia le coordinate per poterla meglio esplorarla. Nella presentazione si è inevitabilmente parlato delle foibe, delle vittime che hanno inghiottito e del motivo per cui i partigiani di Tito hanno agito con tale efferatezza. Mellace cita fonti e archivi da cui ha attinto le informazioni. Come è noto non mancano i contributi di collaudati storici anche giuliani, non politicizzati, che hanno sviscerato in lungo e largo l’orrore delle foibe. A un certo punto della serena presentazione, seguita da un folto pubblico, è intervenuta la storica Claudia Cernigoi, che per Kappa Vu ha pubblicato diverse ricerche dalle quali ella evince, citando fonti e archivi consultati, che le foibe sono sostanzialmente un’invenzione e gli unici corpi ritrovati appartenevano a soldati. Secondo Cernigoi è un’invenzione anche la foiba di Basovizza che dal 1992, per decreto del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro (ultimo giudice italiano ad aver emesso una condanna a morte) è monumento di interesse nazionale. Mellace ha opportunamente invitato Cernigoi a rivolgersi a Napolitano affinché revochi quanto decretato dal predecessore se è vero che nella foiba di Basovizza, come nelle altre, non è finita nessuna vittima civile. A dar man forte a Cernigoi sono intervenuti anche Alessandra Kersevan, autrice e coordinatrice della casa editrice Kappa Vu, e Bruno Maran autore del libro “La lunga scia color cenere. Fatti e misfatti del regio esercito ai confini orientali”. Cernigoi e Kersevan hanno sostanzialmente negato quanto proposto dalla maggioranza degli storici, ovvero che le foibe sono state un micidiale strumento di pulizia etnica dei partigiani jugoslavi. Più pacato Maran, anch’esso però schierato sul fronte non dei negazionisti, non dei riduzionisti, ma su quello dei “in fondo se la sono meritata”. Cernigoi e Kersevan sono riuscite perfino a smentire che la strage di Vergarolla a Pola sia stata opera della polizia segreta jugoslava. A Maran, infine, suggeriamo la lettura del libro “Un debito di gratitudine” scritto da Menachem Shelah, professore emerito dell’università di Gerusalemme. Al termine di un dibattito del genere ci si chiede quando si potrà serenamente discutere di questa storia. Non disperiamo comunque. (ro.co.)
130 -  Mailing List Histria Notizie 03/03/14 Comunicato Stampa -  Cessare ogni contributo finanziario della Regione Friuli Venezia Giulia a chi nega l'esistenza delle foibe
GRUPPO CONSILIARE REGIONALE

FORZA ITALIA

REGIONE AUTONOMA FRIULI VENEZIA GIULIA

Il Vice Presidente


COMUNICATO STAMPA

Cessare ogni contributo finanziario della Regione a chi nega l’esistenza delle foibe, come disciplinato dall’art. 414 del Codice penale, e tra queste anche alle signore Claudia Cernigoi e Alessandra Kersevan

 Sono trascorsi solo pochi giorni dalle celebrazioni del Giorno del Ricordo dell’esodo e delle foibe, la cui legge istitutiva è giunta al decimo anno dalla sua approvazione da parte di tutto il Parlamento nazionale, fatta eccezione per una manciata di parlamentari dell’estrema sinistra, che il fronte dei negazionisti o giustificazionisti fa nuovamente sentire la sua voce, destinata a provocare ulteriori sofferenze ai famigliari delle migliaia di vittime delle foibe.
               I media di oggi danno notizia di una nuova (e non sarà certamente l’ultima) provocazione delle signore Claudia Cernigoi e Alessandra Kersevan, le quali hanno partecipato sabato scorso, presso la Librerai Editrice Goriziana, alla presentazione del libro di Giuseppina Mellace “Una grande tragedia dimenticata. La vera storia delle foibe», mediata dal responsabile della redazione goriziana de Il Piccolo, Robereto Covaz.
               Dalla cronaca si apprende che “a un certo punto della serena presentazione, seguita da un folto pubblico, è intervenuta la signora Claudia Cernigoi, che per Kappa Vu ha pubblicato diverse ricerche dalle quali ella evince, citando fonti e archivi consultati, che le foibe sono sostanzialmente un’invenzione e gli unici corpi ritrovati appartenevano a soldati. Secondo Cernigoi è un’invenzione anche la foiba di Basovizza che dal 1992, per decreto del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro è monumento di interesse nazionale. A dar man forte a Cernigoi è intervenuta anche Alessandra Kersevan, autrice e coordinatrice della casa editrice Kappa Vu. Cernigoi e Kersevan hanno sostanzialmente negato quanto proposto dalla maggioranza degli storici, ovvero che le foibe sono state un micidiale strumento di pulizia etnica dei partigiani jugoslavi. Sono riuscite perfino a smentire che la strage di Vergarolla a Pola sia stata opera della polizia segreta jugoslava.”
               Tra i tanti a rimanere offeso e sconcertato è stato il Vice Presidente del Gruppo di Forza Italia in Consiglio regionale, Rodolfo Ziberna, a fronte di questa ennesima provocazione delle due signore, “le quali – afferma Ziberna - vogliono negare, minimizzare o giustificare l’uso delle foibe, che come universalmente noto sono state invece usate quale strumento di lotta politica e di pulizia etnica, che offende una volta di più le migliaia di vittime delle foibe ed i loro familiari.”
               Ecco perché il consigliere regionale azzurro ha preso carta e penna ed ha presentato una urgente interrogazione alla Presidente Serracchiani ed all’Assessore regionale Torrenti con cui innanzi tutto fa rilevare come in moltissimi paesi stranieri la negazione di qualsiasi genocidio costituisca reato. In Italia l’articolo 414 del codice penale aggrava la pena nel caso in cui il reato di istigazione o apologia di un reato di delitti di terrorismo o crimini contro l'umanità la pena è aumentata della metà.
               Ciò premesso ha chiesto se direttamente o indirettamente le signore Cernigoi e Kersevan percepiscano contributi da parte della Regione, o se ne percepiscano soggetti privati (case editrici, associazioni culturali, ecc.) di cui esse fanno parte a diverso titolo ed a quanto ammontano dette eventuali contribuzioni. Inoltre vuole sapere se ritengano che con dette risorse la Regione, contribuendo direttamente o indirettamente a promuovere le tesi negazioniste, le sostenga nell’eventuale consumazione del reato di cui all’art. 414 o comunque nel diffondere tesi destinate ad alimentare ingiustificato dolore e sofferenza, foriero di odii e rancori. Ed infine chiede se condividano la necessità di sospendere ogni contributo finanziario e di qualsiasi altra natura a beneficio di soggetti pubblici e privati che direttamente o indirettamente concorrano – perché pubblicano loro opere o perché le invitano a svolgere conferenze - nel diffondere azioni volte a configurare il reato di cui all’art. 414, anche attraverso la negazione delle foibe.




131 -  La Voce del Popolo  01/03/14 Busalla rende merito ai Dalmati Luxardo

Busalla rende merito ai Dalmati Luxardo

Venerdi scorso si è svolta a Busalla nel capiente Salone “Elidio Roberto” della Società di Mutuo Soccorso “Liberi Operai” (g.c.) con l’intervento di autorità genovesi e locali, studenti e docenti dell’Istituto “Primo Levi” e della Scuola Media “Vito Scalfidi”, e un buon numero di esuli, giunti anche da Genova e da Savona, l’ottava edizione del Giorno del Ricordo. Davanti al palco - dove erano esposti i Gonfaloni della Regione Liguria e del Comune di Busalla, scortati da Vigili in alta uniforme - l’assessore all’Istruzione di questo Comune dell’entroterra ligure, Antonello Barbieri, ha rivolto ai convenuti il saluto dell’amministrazione busallese, mettendo in evidenza che questa, che era l’ottava edizione della ricorrenza giuliano-dalmata, è stata imperniata sul tema del coraggio e della forza di ricominciare, in riferimento ai fondatori e propietari della fabbrica di liquori “Luxardo”, produttori del celeberrimo “Maraschino”, fondata nel 1821 a Zara da Girolamo Luxardo e riavviata dopo la fine della Seconda guerra mondiale a Torreglia, nel Padovano. Dopo che negli anni passati Busalla aveva voluto rendere merito ai campioni sportivi giuliani - tra cui Nino Benvenuti, l’ammiraglio Agostino Straulino, Abdon Pamich, Ottavio Missoni, Ulderico Sergo - e all’indimenticato Sergio Endrigo, quest’anno è stata la volta del Dr. Franco Luxardo, oratore ufficiale, che ha raccontato la storia dell’azienda che ebbe la felice intuizione di lavorare le ciliegie marasche dalmate facendo del “Maraschino” un marchio conosciuto in tutto il mondo.

Fondata da un ligure dalmata    

Fu Girolamo Luxardo, originario di Santa Margherita Ligure, che la fondò nel 1821 e fu Francesco Giuseppe, Imperatore d’Austria e Ungheria, che concesse all’industria zaratina dei privilegi imperiali a tutela della sua creazione, indicando nella sua ragione sociale la dizione “Privilegiata Fabbrica Maraschino Excelsior” che la ditta mantiene tuttora.
Al termine della prima guerra mondiale successero dei contraccolpi, dovuti soprattutto alla perdita del ricco mercato russo in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre, che vennero superati “lavorando in silenzio, con serietà e secondo il passo della gamba”, come nello stile dei Luxardo. Con l’annessione all’Italia vennero ripristinati i contatti con i mercati esteri e la manodopera occupata raggiunse le 250 unità con ampliamento della fabbrica su 12mila metri quadrati. Le vendite aumentavano anche perché l’azienda aveva adottato una pratica innovativa di relazioni pubbliche per quei tempi denominata “visite guidate in azienda” riservate a scelti clienti potenziali. Nel secondo conflitto, gli Alleati furono sollecitati da Tito a bombardare il coriandolo di terra della città di Zara, che subì ben 54 bombardamenti che provocarono la distruzione del 92 per cento del patrimonio edilizio cittadino compreso lo stabilimento “Luxardo”, in fiamme per una settimana. L’arrivo delle truppe titine, nel 1944, portò in seguito al sequestro e alla nazionalizzazione delle attività “Luxardo” e l’esodo fu inevitabile. La famiglia noleggiò un peschereccio che, navigando di notte per paura dei mitragliamenti inglesi, fece rotta per l’isola di Selve (attuale Silba), Lussino, Pola e quindi Trieste, non senza aver perduto per strada due parenti vessati dai Tribunali popolari di Tito e probabilmente annegati nelle acque dell’Isola Lunga (Dugi Otok).

Come l'araba fenice    

I Luxardo decisero in seguito di continuare la stessa attività in Italia e per stabilire la zona agricola più idonea alla maturazione delle ciliegie marasche si rivolsero al prof. Alessandro Morettini, grande esperto di coltivazioni arboree, docente dell’Università di Firenze, che già anni prima aveva fatto uno specifico studio sull’azienda “Girolamo Luxardo” a Zara e sulla coltivazione delle marasche. Egli indicò la zona dei Colli Euganei come la più idonea, scartando la zona di Pesaro nelle Marche, e fece donazione di una ventina di piante originali che egli aveva prelevato a Zara durante la sua visita di studio avvenuta anteguerra.
Si dovette attendere 5 anni perché le nuove coltivazioni arrivassero a frutto ed avere la materia prima per produrre il Maraschino, ma nel frattempo l’azienda era decollata creando la nuova clientela con altri tipi di liquori, compreso il “Sangue Morlacco”, altra specialità dei Luxardo così immortalata da Gabriele D’Annunzio.
Attualmente nello stabilimento di Torreglia, vicino a Padova, la “Girolamo Luxardo”, giunta ormai alla settima generazione, esporta il 70 per cento dei propri prodotti in ben 72 Paesi del mondo.

Pranzo Fiumano per 104    

A Busalla a salutare i presenti e gli ospiti a nome della Regione Liguria e della Provincia di Genova sono stati rispettivamente il consigliere Aldo Siri e il Dr. Augusto Roletti, mentre il Dr. Claudio Eva ed Emerico Radmann, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’ANVGD di Genova, hannno rievocato la tragedia delle foibe e l’esodo. La cerimonia si è conclusa con l’esibizione del Gruppo musicale di Arma di Taggia “Bruti e Boi”, che ha eseguito brani in dialetto genovese e in istriano, tra cui l’ormai internazionale “Mula de Parenzo”. Ha fatto seguito il tradizionale “Pranzo Fiumano” che quest’anno ha registrato il record di 104 coperti. I nomi degli artefici di questo apprezzato gesto di ospitalità giuliano-dalmata: Fernanda Celli, Uccio Prischich, Giuliano Bobbio, Claudia Celli, Rosanna Milanolo, Maria Tozzi, Nuccia Lovrich e Cesare Bassi, detto Rino. Congedandosi da Busalla il Dr Franco Luxardo, molto commosso per l’accoglienza, ha detto: “Non ho mai visto una cerimonia così sentita e partecipata. Tanti studenti con i professori e tanto popolo. Sentire che il sindaco comunista della Busalla del 1946 Antonio Cervetto e l’assessore socialista agli Alloggi, Paolo Martignone, definirono i profughi con l’appellativo di “sventurati fratelli” e invitarono i concittadini ad accoglierli nelle loro ville, villette e case sfitte, è un grande conforto al ricordo dei momenti bui di quei tempi, quando altrove venivamo contestati. E questo spiega il perché del pranzo e dei dolci fiumani preparati per gli intervenuti dagli esuli residenti a Busalla”.

Rodolfo Decleva



132 - Panorama Edit 28/02/14 Agenda - Furio Radin e Maurizio Tremul preoccupati per il taglio dei finanziamenti
Furio Radin e Maurizio Tremul preoccupati per il taglio dei finanziamenti

Un colloquio molto amichevole in un momento delicato per il governo italiano. Questo il giudizio del presidente UI, Furio Radin, dopo l’incontro alla Farnesina - assieme al presidente della Giunta, Maurizio Tremul - con il viceministro degli Esteri, Marta Dassù.

I responsabili UI hanno espresso gratitudine a Marta Dassù per averli voluto incontrare nel momento in cui il mandatario Matteo Renzi (che nel frattempo ha avuto l’incarico, ndr.) era impegnato nelle consultazioni per la formazione del nuovo governo.

All’incontro si è parlato della situazione inerente alla CNI in Croazia e in Slovenia affrontando pure la situazione venutasi a creare alla Casa editrice Edit. Ad inserire l’argomento in agenda sono stati proprio i responsabili UI i quali hanno rilevato di essersi trovati, per la prima volta in 24 anni, di fronte ad una situazione incresciosa che mai prima si era verificata né presso le istituzioni né presso le associazioni della CNI come lo sono per esempio le Comunità degli Italiani.
Soddisfatto degli esiti del colloquio Maurizio Tremul al rientro da Roma ha ricordato che la viceministro Dassù è stata, durante il suo mandato, molto vicina alla CNI ed è stata presente a Zara all’inaugurazione dell’asilo italiano. Parole di grande apprezzamento sono state espresse anche perché è riuscita ad inquadrare molto bene e comprendere il ruolo culturale della comunità italiana dell’Istria del Quarnero e della Dalmazia e il valore che questa rappresenta per l’Italia. Tremul ha espresso il desiderio che la Dassù venga riconfermata alla Farnesina vista anche l’ottima conoscenza e l’attenzione che ha rivolto alla CNI.
Un po’ di preoccupazione è stata espressa in riferimento al recente taglio degli stanziamenti destinati alla CNI per un ammontare di circa 400.000 euro.


133 – La Voce del Popolo  06/03/14 Pola - Ornella Smilovich : «Lo scopo era intimorire gli italiani»
«Lo scopo era intimorire gli italiani»

Gianfranco Miksa

Andò a lavarsi il viso alla fontana, scampando così a quell’immensa carneficina che in un attimo provocò la morte di oltre 70 polesi e centinaia di feriti, come ricorda oggi quella che a Vergarolla è stata la persona più vicina al luogo dell’esplosione a rimanere miracolosamente viva, illesa, praticamente se la cavò senza un graffio. Ornella Smilovich quella domenica del 18 agosto 1947 scampò alla strage. Sposata Mihaljević, è nata a Pola nel 1934 e all’epoca era una ragazzina di 13 anni. Ma quella giornata se la ricorda molto bene. L’abbiamo raggiunta per raccogliere la sua testimonianza. E siamo tornati insieme sul luogo della tragedia di quasi settant’anni fa.

“Ricordo che era una giornata d’agosto soleggiata e calda, afosa – esordisce Ornella Smilovich –. I motoscafi dalla riva verso Vergarolla erano gratuiti. E ciò a causa delle gare natatorie per la Coppa Scarioni, organizzata dalla Società dei canottieri ‘Pietas Julia’ (da rilevare che venerdì prossimo a Trieste, al Civico Museo della Civiltà istriana, fiumana e dalmata s’inaugura una mostra sul club, ndr). L’evento aveva richiamato tantissima gente, intere famiglie, genitori, figli, anziani e bambini. Tutti riuniti in una giornata da trascorrere al mare con serenità. Questa gita rappresentava per me la prima volta che mi recavo a Vergarolla. Prima di allora, infatti, non avevo mai messo piede in quella zona di Pola. La mia famiglia preferì mettersi al freddo sotto una pineta. Per chi si trovava invece lungo la spiaggia, nelle vicinanze dell’esplosione, non vi fu alcuna salvezza”.

Dove si trovavano le mine?

“Le mine marittime, una ventina, erano accatastate sulla spiaggia. Erano state disinnescate dagli artificieri e non potevano scoppiare senza detonatori. L’innesco era stato quindi rimosso, ma contenevano ancora tritolo, ben 9 tonnellate. Molti usavano posare sopra i cilindri metallici dell’ordigno il proprio abbigliamento per farlo asciugare sotto i raggi del sole. Alcuni persino riposavano alla loro ombra, mentre i bambini ci giocavano sopra. Agli occhi dei polesi erano dunque inoffensivi, perché disinnescati dai militari alleati, verso i quali gli italiani di Pola avevano grande fiducia e stima”.

Un boato assordante

Come avvenne l’esplosione?

“Accadde tutto in pochi secondi. Rimasi viva perché mi recai a prendere dell’acqua alla fontana. Desideravo, infatti, lavarmi il viso dal sale che mi dava un prurito fastidioso. Nel tragitto verso la sorgente passai a pochi centimetri dalle mine. Alcuni istanti dopo accadde l’esplosione. Ci fu un boato assordante che scosse l’intera baia. Tutto si tinse di nero come la notte. Dalla spiaggia si alzò un’altissima, impressionante colonna di fumo nero. Mio padre, che assieme al resto della famiglia si era salvato perché si trovava un po’ più in alto dalla spiaggia, corse a cercarmi”.
Io rimasi fortunatamente illesa. Ero, invece, interamente ricoperta dalla carbonella. Nelle orecchie ce n’era tanta che, addirittura, dopo tre giorni sentivo ancora il suo sapore in bocca”.

Un mattatoio

Come si presentava la spiaggia dopo l’esplosione?

“Un mattatoio. La terra era arsa, mista al colore del sangue. Corpi dilaniati con arti, gambe e braccia staccate e sparse ovunque. C’erano corpi addirittura che galleggiavano sull’acqua. Il mare era tinto di rosso. Fu una strage tra i bagnanti. Urla, lacrime e lamenti. Tutti gridavano, soprattutto gli agonizzanti. Ricordo una signora che implorava aiuto, con in braccio i propri figli, uno esanime e l’altro moribondo. Mio padre non poté che metterlo all’ombra. Non so che cosa sia successo di lui. Perirono oltre settanta polesi, di cui 59 furono identificati. Gli altri furono letteralmente polverizzati e quindi non identificabili. A loro va aggiunto un numero imprecisato di feriti gravi e leggeri”.

Cosa accadde in seguito?

“Iniziarono ad arrivare i soccorsi con le sirene urlanti delle autoambulanze. Era un correre frenetico su e giù, una continua spola tra l’ospedale e Vergarolla. Al ‘Santorio Santorio’ si lavora al limite delle possibilità umane. Una storia che venni a sapere parecchio tempo dopo è quella legata al dottor Giuseppe Micheletti, triestino, che riconobbe tra le salme delle vittime i suoi due figli. Nonostante l’enorme tragedia continuò a prestar aiuto ai feriti tutta la notte, senza mai allontanarsi dal tavolo operatorio. Mio padre riuscì a organizzare un trasporto con un carro, e via terra tornammo finalmente a casa. Alcuni giorni dopo l’esplosione, quando riuscii a rimettermi dallo shock, raccolsi i miei modesti risparmi e andai a donarli alla Chiesa di Sant’Antonio in segno di gratitudine per essere rimasta illesa”.

Un trauma da rimuovere

E nei giorni successivi?

“Tutti ci chiedevano notizie sull’accaduto. Io ero titubante a parlarne, non volevo più sentire parlare di Vergarolla. Ero scossa, era un trauma da dimenticare e infatti non ne parlai per tantissimi decenni. Fino a pochissimo tempo fa nessuno sapeva che fossi una sopravvissuta alla strage. Ho iniziato a ricordare solo di recente”.

Come mai?

“Per quasi cinquant’anni, in Jugoslavia prima e in Croazia poi, non si parlò della strage di Vergarolla. Era un argomento tabù, come le foibe. Questo che era stato il più cruento fatto avvenuto nella storia di Pola in tempo di pace, e sottolineo questo aspetto, non trovava spazio nella memoria di una città che era mutata nella composizione etnica rispetto al ’46”.

Qualcuno parlò di incidente, più recentemente si è affermata l’ipotesi che si sia trattato di un attentato, come emerso da certi documenti custoditi negli archivi dell’intelligence britannica.

“Non è un’ipotesi. È stato un attentato per intimorire la componente italiana della città. La mina è stata attivata a distanza. Si sanno anche i nomi delle persone coinvolte nel triste accaduto. Molti dei quali sono gente di Pola, comunisti, partigiani italiani”.

Il suo episodio è stato raccontato anche nel libro “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani” di Jan Bernas e messo in scena, in forma di spettacolo teatrale, dal cantautore romano Simone Cristicchi.

“Circa sei anni fa mi contattò lo storico Jan Bernas e gli raccontai la mia vicenda legata alla strage e le mie parole sono state utilizzare anche da Cristicchi in ‘Magazzino 18’”.

Che sensazione ha provato nel vedere l’episodio nello spettacolo?

“Un misto tra emozione e tristezza”.




134 - La Voce del Popolo  03/03/14  Albona - Nuova luce sulla sciagura di Arsia
Nuova luce sulla sciagura di Arsia

Tanja Škopac
 
ALBONA “Non si doveva dare la più grande miniera di carbone d’Italia, attrezzata come le migliori di Europa, in mano a tecnici che in questo genere di miniere erano dei veri principianti”.

Era stata questa la risposta che l’ingegnere Augusto Batini, dirigente della miniera di Arsia negli anni Trenta dello scorso secolo, dette al pretore di Pinerolo il 26 marzo 1940, parlando delle principali cause della tragedia avvenuta ad Arsia il 28 febbraio di quell’anno.

A citare le parole di Batini venerdì scorso nella Biblioteca civica di Albona, all’ottava edizione della cerimonia commemorativa dedicata ai minatori morti nella sciagura mineraria di 74 anni fa, è stato Tullio Vorano, presidente del Comitato esecutivo della Comunità degli Italiani di Albona e profondo conoscitore del passato minerario albonese.


A Batini subentra «un imbecille presuntuoso»

Secondo quanto ha esposto Vorano nella sua relazione intitolata “Nuova luce sulla tragedia mineraria del 1940 ad Arsia” e compilata in base alla documentazione nell’archivio di Batini, messa a disposizione dalla figlia dell’ingegnere, Cesira, a perdere la vita nella sciagura, causata probabilmente dall’esplosione del metano e della polvere di carbone, furono 187 minatori, due in più rispetto a quanto si credeva fino a poco tempo fa.
Parlando della dirigenza di Batini, Vorano ha sottolineato l’aumento della produzione e quello del numero dei minatori negli anni ‘30: le poco meno di 290.000 tonnellate prodotte nel 1934 erano state portate a oltre 850.000 nel 1937, mentre negli stessi anni il numero degli addetti era aumentato da 1.237 a 6.467. Secondo Vorano, i principali artefici di questo straordinario sviluppo furono Batini, che proveniva da S. Giovanni alla Vena, nelle vicinanze di Pisa ed era “uomo di straordinarie capacità organizzative, profondo conoscitore dell’arte mineraria e nel contempo molto umano, per cui godeva anche la stima e l’affetto degli operai”, e Guido Segre, cui “si deve la costituzione dell’Azienda Carboni Italiani (A.Ca.I.) nel 1935, che significò l’unificazione delle miniere a livello nazionale e la congiunzione delle miniere istriane a quelle sarde, e che commissionò all’architetto Gustavo Pulitzer Finali la progettazione e la costruzione dell’abitato di Arsia”.
Durante la dirigenza Batini l’incidente più grave fu quello avvenuto nella notte tra il 6 e 7 settembre 1937, quando persero la vita 9 minatori. La sicurezza nelle miniere di Arsia peggiorò con le leggi razziali del 1938, dopo le quali il direttore dell’A.Ca.I., Segre, in quanto ebreo, dovette andarsene, mentre arrivò la nuova dirigenza, “persone incapaci - a dire dell’ingegnere capo del Distretto di Firenze del Corpo reale delle Miniere, Luigi Gerbella - che diedero la miniera in mano a un certo Bechi”.
“Poco tempo dopo, la nuova dirigenza dell’A.Ca.I. votò la sfiducia a Batini, perché egli si rifiutava di incrementare la produzione oltre alle possibilità effettive della miniera. Batini era contrario all’aumento della produzione nella Camera 1, dove più tardi avvenne la tragedia. Egli stesso aveva organizzato la preparazione di detta Camera, perché ricca di carbone, ma secondo lui era necessario ancora congiungerla al nuovo pozzo (Littorio), che era in costruzione, nonché al pozzo Paolo, per migliorare l’aerazione della Camera. Inoltre, essa avrebbe avuto bisogno di un efficiente armamento e di un impianto idrico per l’innaffiamento della polvere di carbone”, ha sottolineato Vorano parlando del motivo per cui Batini fu sostituito. Egli considerava il suo successore “un imbecille presuntuoso”, incapace di gestire la miniera, anche perché Bechi era ritenuto moralmente responsabile della morte per annegamento di 14 minatori nella miniera di lignite di Ribolla. Nel presentare le numerose lettere inviate a Batini dai suoi ex collaboratori in seguito alla tragedia, Vorano ha menzionato quella in cui Giulio Milo gli conferma i 187 morti, come pure la lettera del cognato di Batini, Piero Millevoi, in cui tra le cause della sciagura cita “troppa fretta, troppo poca sorveglianza, troppo poca conoscenza della miniera”.

«Arsia, la bianca città del carbone»

Oltre alla relazione di Vorano, molto interessante pure la presentazione del libro “Arsia, la bianca città del carbone”, dell’architetto triestino Francesco Krecic, della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del Friuli Venezia Giulia. Tramite i dati attinti dai documenti conservati in diversi archivi in Italia e in Istria, tra cui quello di Pisino e l’Archivio storico della Soprintendenza in parola, e osservazioni personali, Krecic racconta la storia di Arsia e ricostruisce le vicende che hanno portato alla nascita della cittadina dove, secondo l’idea originale, sarebbe dovuto nascere un villaggio operaio come quello a Vines o Stermazio, ma, alla fine, “per una serie di coincidenze favorevoli”, fu progettata una città per duemila operai.
“Mi aveva colpito il fatto che su Arsia c’erano praticamente solo alcuni articoli e testi che riportavano le stesse notizie dell’epoca fascista, secondo le quali Arsia sarebbe stata realizzata per volontà di Mussolini. Invece, Arsia è una vicenda molto più complessa, che affonda le radici negli anni ’20 e che vede come protagonisti l’imprenditore di origini torinesi Guido Segre e l’architetto Pulitzer Finali, oltre ad alcuni altri architetti”, ha detto Krecic. Parlando della chiesa di Arsia, Krecic ha rilevato di non condividere l’opinione secondo la quale l’edificio associa alla forma di un carrello minerario capovolto. Sarebbe, invece, un’interpretazione dell’architettura che Pulitzer aveva avuto l’opportunità di ammirare durante il suo studio a Monaco di Baviera.
Oltre a Krecic e agli esponenti della CI di Albona, tra cui la presidente Daniela Mohorović, a presenziare alla cerimonia sono stati pure Livio Dorigo e Fabio Scropetta, rispettivamente presidente e vicepresidente del Circolo di cultura istro-veneta “Istria” di Trieste, in collaborazione con cui la CI ha organizzato la serata. Presenti pure i sindaci delle autonomie patrocinanti, Albona e Arsia, Tulio Demetlika e Glorija Paliska Bolterstein, come pure Luigi Silli, della Società operaia di mutuo soccorso “Onorato Zustovi” di Trieste. Con il Circolo di cultura triestino è venuto ad Albona pure Tetsutada Suzuki, un ricercatore giapponese che a Trieste studia le tematiche di confine. Suzuki ha regalato a Vorano una pubblicazione con le fotografie di una miniera di carbone giapponese. Nella parte musicale della serata si sono esibiti Hrvoje Puškarić e Roni Bertoša, rispettivamente insegnante e allievo della Scuola elementare di musica “Matko Brajša Rašan” dell’Università popolare aperta di Albona.





135 - La Voce del Popolo 07/03/14 Asilo italiano: grande interesse a Zagabria
Asilo italiano: grande interesse a Zagabria

Marin Rogić

ZAGABRIA | Il 14 febbraio scorso sul nostro quotidiano abbiamo scritto del sondaggio promosso dalla Comunità degli Italiani di Zagabria e dalla sua presidente Daniela Dapas, volto a testare l’interesse per un eventuale apertura di un asilo italiano nella capitale croata. La presidente si era detta fiduciosa dell’esito e oggi possiamo dire che la sua fiducia era ben riposta. Il sondaggio è stato svolto su un gruppo imparziale di 175 intervistati e consisteva in cinque domande le quali sono rimaste on line per una decina di giorni. L’analisi dei dati ha mostrato che il 98% degli intervistati ha espresso l’interesse per l’apertura dell’asilo italiano a Zagabria, sottolineando che iscriverebbero il loro figlio/nipote all’asilo. Inoltre, la maggioranza (l’80%) vorrebbe anche che l’asilo fosse bilingue. Per quanto riguarda invece l’ubicazione della scuola materna, il 46% ha risposto che vorrebbe che l’asilo fosse ubicato in centro città, mentre il 40% lo vorrebbe situato nella parte occidentale della capitale. “Sono felice che i risultati del sondaggio siano estremamente positivi, anche se dall’interesse dei soci questo esito era prevedibile. Zagabria è una capitale europea, una città che richiede la presenza di un asilo italiano sia per gli italiani in loco, come pure per tutti coloro che desiderano che i loro figli frequentino un’istituzione prescolare di questo tipo. In futuro si potrebbe sperare anche di una scuola elementare” – ha commentato Daniela Dapas -. Questo è un primo passo molto importante. Nei prossimi mesi si farà un quadro delle necessità finanziarie e si cercherà il sito più adeguato per poter ospitare l’asilo in lingua italiana. “Il progetto è stato pianificato in linea con le norme di legge. Il prossimo passo sarà rappresentato dal reperimento dei finanziamenti. Sono ottimista. Credo in questo progetto!”

Libro sugli i italiani a Zagabria

Altra novità proveniente dalla CI zagabrese è l’avvio di un nuovo progetto che dovrebbe dare vita ad un libro sulla storia degli italiani a Zagabria, dal titolo “Gli italiani a Zagabria”. Se tutto andrà secondo i piani, dovrebbe uscire dalle stampe entro la fine dell’anno. Stando a quanto scritto nella bozza dal ricercatore Filip Škiljan, il testo sarebbe suddiviso in alcuni capitoli che verrebbero sistemati in ordine cronologico a partire dall’epoca medievale, ovvero dalle prime tracce della presenza di popolazione italiana, ovvero dei primi abitanti provenienti dalle zone dove si parlava l’italiano, fino al giorno d’oggi. Il libro sarà stampato in italiano e croato.




136 – L’Osservartore Romano 06/03/14 Per i giusti di tutto il mondo
Per i giusti di tutto il mondo 

(Anna Foa) Il 6 marzo si celebra in tutta Europa, per il secondo anno, la giornata europea dei giusti. Questa giornata è stata istituita dal Parlamento di Strasburgo nel gennaio del 2012, su iniziativa dell’Associazione Gariwo di Milano di cui è presidente lo storico e scrittore Gabriele Nissim, nell’intento di ricordare quanti «hanno salvato vite umane nel corso di tutti i genocidi e omicidi di massa e degli altri crimini contro l’umanità commessi nel ventesimo e ventunesimo secolo» e di rammentare «tutti coloro che hanno salvaguardato la dignità umana durante i periodi totalitari del nazismo e del comunismo».

Tra le iniziative italiane, quella di Roma il 3 marzo alla Camera dei Deputati, e quella di Milano il 6 marzo nel giardino dei Giusti di tutto il mondo, a Monte Stella. Tra quelle europee, quella di Varsavia e quella di Sarajevo, due luoghi simbolicamente assai significativi.
In mezzo a tanto fervore di iniziative, come quelle organizzate nella giornata della memoria da poco trascorsa, questa rappresenta una novità importante. In primo luogo perché, pur prendendo le mosse dall’istituzione israeliana dei Giusti delle Nazioni non vuole in nessun modo limitarsi al caso della Shoah e ai salvatori degli ebrei, ma si propone di allargare questo tema e questo riconoscimento a tutti coloro che, di fronte a stermini, genocidi, violenze di ogni tipo hanno messo a rischio la loro vita, con una scelta libera e un’alta ispirazione etica, per salvare delle vite umane in pericolo. Torna così alla ribalta il Rwanda, con Françoise Kankindi, fra i relatori di Roma. E tornano i nomi di Jan Karski, Anna Politkowskaia, e di alcuni salvatori della terribile tragedia di Sarajevo. Le vittime e i salvatori della Shoah trovano posto accanto a quelli del Rwanda, della Bosnia ed Erzegovina, e ci auguriamo domani possano essere accostati a quelli dell’Unione Sovietica, della Cambogia di Pol Pot, dell’Istria delle foibe. E a tanti altri di questo secolo dello sterminio appena trascorso e del XXI secolo che ci scorre veloce dietro le spalle e che già si caratterizza per altri orrori.

Si tratta di un’iniziativa non solo per promuovere memoria e riconoscimento, ma anche per abbattere le barriere che frenano gli studi storici e limitano il confronto fra fenomeni simili, quali ad esempio i genocidi del Novecento. È chiaro che, a differenza di quanto accade a livello della memoria dei Giusti, dove il filo rosso conduttore è quello della responsabilità morale, nel caso della storiografia ci troviamo di fronte a problemi più complessi, a confronti e distinzioni che debbono tener conto delle somiglianze dei fenomeni, quali ad esempio quelli riconosciuti come genocidi, e non fare di tutt’erba, sia pur un’erba assai avvelenata, un fascio. Che la memoria dei genocidi, a cominciare dall’invenzione stessa del termine “genocidio” nel 1944 ad opera del giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, sia stata fondata sulla Shoah è un dato di fatto. Che la Shoah metta insieme, anche con molti elementi non rinvenibili altrove, tutte le caratteristiche dell’esperienza estrema e del genocidio, è un altro dato di fatto. Ma questo non implica né deve implicare chiusura, semmai la massima apertura verso il resto degli stermini, delle violenze. Proprio perché non accada più. A nessuno.

La strada intrapresa da Gariwo e dalla giornata dei Giusti dell’umanità porta in quella direzione. Non lasciamola cadere, traiamone spunto e vitalità.



137 - Il Fatto Quotidiano 05/03/14 Non solo Crimea -  Anche gli irredentisti triestini tifano per lo "zar": nostalgia d`impero
NON SOLO CRIMEA

Anche gli irredentisti triestini tifano per lo `zar`: nostalgia d`impero

di Alessandro Cisilin

A Trieste, come ovunque, c`è una "via Roma". Conduce idealmente il cuore della città alla capitale, ovvero verso la stazione ferroviaria che la collega. Con un paio di complicazioni. Quel "cuore" è il Borgo Teresiano - lascito asburgico. E quella stazione ha dinanzi la statua di Sissi, Imperatrice d`Austria - lascito dell`ex sindaco "asburgico" Illy. I simboli hanno un valore e aiutano a spiegare una catena di paradossi che suonano come l`ennesima conferma esotica all`armamentario letterario locale.
Tra i paradossi spunta quello di un esteso movimento indipendentista, esploso con la crisi da un contesto politico dove la Lega non ha mai attecchito, stretta da una destra nazionalista ("italianissima", quindi) molto robusta come sempre accade nelle frontiere erette dalle guerre. Ora, "Trieste Libera" guarda con interesse alla Crimea e sogna anche per sé l`approdo di Putin. "Molti sperano nell`intervento russo per essere liberati
dall`Italia", ha scritto il movimento nella sua pagina ufficiale. Perché, si chiede il leader Roberto Giurastante, la Russia, potenza vincitrice della Guerra mondiale, deve esser esclusa "dall`usufrutto di un porto strategico a vantaggio dell`Ue?" Qui sta il nodo, e ha un precedente.

PUTIN È GIÀ STATO A TRIESTE, a novembre. Incontrò l`ex premier Letta, al quale scappò un "Viva Trieste Libera". Forse una gaffe, forse un assist all`interlocutore e a qualche appetito locale. Il fatto è che si parlava, alla presenza dell`ad Eni Scaroni, di South Stream, il gasdotto che, dal mar Nero e lungo i Balcani, dovrebbe approvvigionare l`Europa bypassando l`Ucraina. Nell`involontaria convergenza tra Cremlino e separatisti alabardati c`è il correlato nodo del rigassificatore, inviso a entrambi. Fin qui gli interessi. Il resto sono le mitologie storico-politiche trasversali. Si rievoca il Trattato di Parigi del 1947, che sottrasse la città all`Italia, nonché un sistema "tax-free" che fa

INTERESSI E MITOLOGIE

Simpatizzanti della destra nazionalista e filosloveni sognano di poter fare del porto di confine una "Sebastopoli adriatica" gola alla "renditizia" borghesia locale, in parte slovena, tant`è che il movimento, benché gradito a pezzi dell`estrema destra, usa insegne bilingui. Si muove da poco più di
due anni nei tribunali, tra ricorsi contro Equitalia ed esposti all`Onu contro gli "occupanti", mentre la magistratura indaga su una ventina di attivisti per una manifestazione non autorizzata: oltre al folclore c`è la piazza, affollata da migliaia di simpatizzanti in due occasioni lo scorso autunno. L`"ultimatum all`Italia", lanciato per il 10 febbraio (al ricorrere del Trattato), è scaduto.


Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :

http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it

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