Rassegna Stampa

  MAILING LIST HISTRIA
RASSEGNA STAMPA SETTIMANALE

a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri

N. 908 – 01 Marzo 2014
    
Sommario


110 -  Corriere della Sera Style 25/02/14 Fenomeni - Un cantante, il teatro, le foibe (P.Luigi Battista)
111 – Mailing List Notizie 24/02/14 Comunicato stampa dalla regione Veneto: Lo spettacolo di Criticchi: "Sia visto da tutti gli studenti del Veneto"
112 - Mediapolitika 24/02/14 Intervista a Jan Bernas, autore del Magazzino 18 di Cristicchi (Vincenzo Arena)
113 - Il Piccolo 24/02/14 Pola capitale istriana: il via libera del Sabor fa arrabbiare Pisino (p.r.)
114 - La Voce di New York 19/02/14 - Foibe: i buchi (carsici) della memoria (Ludovica Martella)
115 – Corriere di Novara 27/02/14 Cultura -  Novara: Raccontando il “confine difficile“ (Eleonora Groppetti)
116 – Il Resto del Carlino 25/02/14 Bologna: Foibe: non dimenticare, ma ricordare e tramandare
117 - Il Piccolo 22/02/14 Gorizia:  La II B della media "Ascoli" premiata da Napolitano per un libro sull'Istria
118 - Il Piccolo 28/02/14 Cianfarani debutta come “superconsole” con una prima missione a Zara (a.m.)
119 - La Voce del Popolo 24/02/14 Zara, una città nello spazio e nel tempo
120 - Il Piccolo 21/02/14 Sergio Cionci, lo 007 che spiava Tito (Roberto Covaz)
121 - Il Piccolo 21/02/14 Aldo Moro e la ferita del Trattato di Osimo (Massimo Bucarelli)
122 – La Voce di Romagna 25/02/14 Nello Rossi: “Il ricordo dei morti unisca i vivi” (Aldo Viroli)
123 - Avvenire 23/02/14 Lettere - La tragedia della miniera nell'Istria allora italiana (E.Pastrovicchio)
124 - Rinascita 26/02/14 Lettere - Il papa e le foibe (Maria Renata Sequenzia)




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http://www.arenadipola.it/
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110 -  Corriere della Sera Style 25/02/14 Fenomeni - Un cantante, il teatro, le foibe
FENOMENI
SIMONE CRISTICCHI AFFRONTA QUESTI TEMI A TEATRO.

DI PIERLUIGI BATTISTA

UN CANTANTE, IL TEATRO, LE FOIBE

DOPO 70 ANNI LA TRAGEDIA

DELLE FOIBE È ANCORA TABÙ.

E insieme con essa anche l`esododegli istriani, accolti in Italia come reazionari e «nemici del socialismo».

Alcuni invasati hanno interrotto il suo spettacolo, Magazzino 18.
Il pregiudizio ideologico da noi non muore mai,

Fa molta impressione che in Italia si tenti di interrompere con metodi sbrigativi lo spettacolo di Simone Cristicchi, Magazzino 18, dedicato alla tragedia delle foibe e all`esodo della popolazione dell`Istria e della Dalmazia in fuga dai comunisti di Tito. Fa molta impressione che se ne debba scrivere ancora oggi, all`inizio del 2014. Fa molta impressione constatare come tanti giovani, che di quei fatti hanno una conoscenza sommaria e distorta, siano ancora prigionieri di un incantesimo ideologico che impedisce loro di vedere gli orrori e anche i motivi per cui quegli orrori siano stati per tanto tempo occultati.

Fa molta impressione che sia considerato normale, «progressista», «antifascista», fare irruzione nei teatri per impedire che sia realizzato uno spettacolo di cui si dice – si asserisce, si vocifera - sarebbe intollerabile il contenuto politico. Fa molta impressione che Simone Cristicchi, per placare la furia degli invasati che vorrebbero censurare con la forza il suo spettacolo, sia costretto a ribadire che non vuole minimizzare i crimini commessi dal fascismo in quelle terre.

Fa molta impressione che ancora le foibe, queste gole in cui furono gettati migliaia di italiani assassinati dalle truppe di Tito, facciano paura e debbano essere un tabù. Fa molta impressione che ancora gli italiani non abbiano fatto i conti con la loro storia. E che riaffiori di tanto in tanto il rigagnolo sommerso dei pregiudizi. Si capisce l`omertà quando i fatti sono vicini, le passioni ancora accese. Ma a settant`anni di distanza? Fa così fatica ammettere che a Trieste e dintorni, attorno all`aprile del 1945 (e anche prima) un numero imprecisato di italiani, non solo fascisti ma anche partigiani non comunisti,. Funzionari dello Stato, imprenditori, cittadini comuni vennero prelevati con la forza dagli uomini di Tito dalle loro case, fucilati senza processo sui bordi delle foibe, legati l`uno all`altro con il fil di ferro, scaraventati e ammassati senza vita nel fondo di quelle cavità?

Veramente un artista come Cristicchi, dopo tanti anni, deve ancora giustificarsi per
aver affrontato in uno spettacolo teatrale lo sfondo umano di quella immane tragedia?
E l`esodo degli istriani: perché tanta fatica a ricordare quelle centinaia di migliaia di italiani che scapparono dalle loro case, spogliati di tutti i loro beni dal nuovo regime, e accolti in Italia dalla sinistra comunista come traditori, presi a sassate, denigrati, bollati come «reazionari» e «nemici del socialismo»?

Sembra incredibile che non ci si renda conto della sofferenza di quei profughi, del debito che come comunità nazionale dovremmo ancora pagare nei loro confronti.
In Italia le ferite storiche non si cicatrizzano mai. La memoria storica è ancora selettiva, dettata dagli imperativi della politica. Pochi decenni fa lo storico Renzo De Felice fu addirittura accusato di voler «riabilitare» il fascismo: un`accusa assurda. Oggi non pare assurdo che non si possa allestire ín tranquillità uno spettacolo teatrale su fatti così lontani? Il passato non passa mai, in Italia.

Quando passerà?




111 – Mailing List Notizie 24/02/14 Comunicato stampa dalla regione Veneto: Lo spettacolo di Criticchi: "Sia visto da tutti gli studenti del Veneto"
FOIBE ED ESODO. ASSESSORI DONAZZAN E GIORGETTI ALLO SPETTACOLO DI CRISTICCHI:

“SIA VISTO DA TUTTI GLI STUDENTI DEL VENETO”

Comunicato stampa N° 472 del 21/02/2014

Gli assessori della Regione Veneto Elena Donazzan e Massimo Giorgetti hanno assistito ieri sera, al Teatro Nuovo di Verona, allo spettacolo di Simone Cristicchi tratto dal suo libro “Magazzino 18”.
Il cantautore, attraverso parole e musiche inedite eseguite dal vivo, ha raccontato le drammatiche vicende di Foibe ed Esodo che hanno segnato la storia del popolo italiano.
Uno spettacolo emozionante e coinvolgente - con il teatro veronese gremito - che può essere definito a tutti gli effetti come un reportage storico in chiave musicale.
“Seguo da anni le vicende della sofferenza degli Italiani di Istria, Fiume e Dalmazia – afferma l’assessore Donazzan – ho letto molto, ho incontrato tanti esuli, ne ho ascoltato le storie, gli aneddoti, ho seguito il viaggio della memoria e della nostalgia. Quello che è riuscito a fare Cristicchi è stato un capolavoro. È entrato nella storia drammatica con intelligenza e sensibilità – conclude – e il risultato è stato un applauso interminabile e tante lacrime. Dovrebbero vederlo tutti gli studenti del Veneto”.






112 - Mediapolitika 24/02/14 Intervista a Jan Bernas, autore del Magazzino 18 di Cristicchi
Intervista a Jan Bernas, autore del Magazzino 18 di Cristicchi:

“Raccontiamo foibe ed esodo con il democraticissimo punto interrogativo”

di Vincenzo Arena

Magazzino 18, piece teatrale interpretata da Simone Cristicchi e scritta con il giornalista Jan Bernas, ha avuto un merito indiscutibile: portare all’attenzione del grande pubblico – nei teatri, da qualche settimana nelle librerie, in tv (con la seconda serata di Rai Uno il 10 febbraio e oltre un milione di telespettatori) – il dramma delle foibe e dell’esodo dei giuliano-dalmati. Un risultato che nessun’altra iniziativa artistica o di onesta memoria storica, nel passato recente, era riuscita a raggiungere.
Sugli organi di informazione e sul web si è scatenato, sin dalla prima dello spettacolo a Trieste il 22 ottobre 2013 e forse ancor prima della prima, un vespaio di polemiche e attacchi. Non sono mancati, proprio in occasione delle celebrazioni per il Giorno del Ricordo, duri attacchi a Simone Cristicchi e al suo spettacolo.
Al Teatro Vittoria di Roma, Cristicchi – che doveva portare in scena lo spettacolo Mio Nonno è morto in guerra, è stato accolto dal mureales “Boia revisionista”; a Mestre altra simpatica scritta: “Cristicchi, solo i fasci sono nelle foibe”. Per non parlare degli episodi di apologia più generalizzati sui muri di altre città come “W Tito” o “I love Foiba”. Odio ideologico, ignoranza, disonesta analisi storica. Tutte motivazioni nobili per questi episodi. Probabilmente anche la più scontata ma sempre efficace “la mamma dei cretini è sempre incinta” andrebbe bene.
Il tutto condito dalla notizia, riportata da Il Tempo il 7 gennaio scorso, secondo cui la Onlus Cnj sostieneva di aver raccolto adesioni di singoli partigiani e dei loro eredi per espellere Cristicchi dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, “in quanto reo di alimentare a livello mediatico e diffusivo a mezzo web una propaganda politica anti-partigiana”.

Per approfondire questi episodi, ma soprattutto per approfondire, ancora una volta, la storia degli infoibati, degli esuli e dei rimasti – come avevamo annunciato nelle scorse settimane – abbiamo raggiunto telefonicamente per un’intervista il giornalista Jan Bernas, autore di Magazzino 18 e del libro da cui è tratto lo spettacolo “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani”.


Dottor Bernas, nel 2010 pubblica con Mursia “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani”. Il titolo del suo libro-inchiesta sull`esodo dei Giuliano-Dalmati denuncia subito l`equivoco in cui tanta storiografia sembra cadere nell`approcciare queste vicende. Foibe ed esodo, dal 1943 al 1947, furono risultato di una vendetta contro l`italianizzazione forzata fascista o una pulizia etnica a tutti gli effetti dei comunisti Titini contro gli italiani?


Non è possibile fornire una risposta univoca a questa domanda. Furono entrambe le cose. Non è possibile dare una interpretazione storica con gli schemi del bianco e del nero. Foibe ed esodo dei giuliano-dalmati sono state un momento tragico in una tragedia più grande, la Seconda Guerra Mondiale. E’ innegabile storicamente il tentativo nazionalista di Tito di annettere quelle terre di confine, ritenute di appartenenza jugoslava. La scusa della vendetta contro gli abusi pre-guerra dei fascisti è stato un modo per coprire gli evidenti tentativi di espansione nazionalista di Tito. L’obiettivo di Tito era arrivare più ad ovest possibile. Non a caso i Titini prima di occupare Zagabria decidono di marciare su Trieste e di occuparla. In questo quadro, gli italiani tutti, non i fascisti, rappresentavano un ostacolo verso la slavizzazione di Istria e Dalmazia. Per raggiungere questo obiettivo, bisognava annientare in tutti i modi possibili le popolazioni italiane, che vivevano da secoli in quelle terre.


Nel suo libro raccoglie storie di testimoni e sopravvissuti, dà o presta voce agli infoibati, agli esuli in viaggio verso l`Italia, ai contro-esuli, ai rimasti. Racconta le violenze e le torture, i campi di prigionia, i campi profughi. Ci dice qual è stata la storia che intimamente l`ha colpita di più e che potrebbe dire emblematica?

Le storie dei rimasti sono le storie a cui sono più legato. I rimasti spesso, nel racconto di queste vicende, non vengono ricordati. I rimasti vengono rimossi, dimenticati. Loro hanno subito una doppia violenza: hanno scelto di rimanere minoranza nelle proprie città occupate e invase, vedendo calpestare inermi la propria identità e le proprie tradizioni e sono stati accusati dagli stessi esuli di complicità con i Titini e di tradimento.
I rimasti hanno rappresentato – rappresentano in un certo senso tuttora – la resistenza di una stoica minoranza italiana fuori dai confini nazionali e dentro confini assolutamente inospitali dopo la guerra. Una signora di Fiume mi faceva riflettere su come anche solo la battaglia per la preservazione della lingua italiana fosse per i rimasti una battaglia quotidiana: “noi la battaglia per la preservazione della lingua italiana l’abbiamo combattuta ogni giorno”. In un contesto in cui, culturalmente e linguisticamente, gli italiani erano diventati ormai minoranza al cospetto di una maggioranza slava schiacciante.

In collaborazione con Simone Cristicchi, ha trasformato il suo libro in una pièce teatrale di grande impatto emotivo, Magazzino 18. Ci racconta la genesi di questo musical civile che ha fatto irrompere nei teatri italiani le foibe e l`esodo?


Simone Cristicchi era rimasto colpito dal mio libro “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani”. Mi ha contattato ed è iniziata la nostra collaborazione che ha portato all’adattamento del testo per il teatro fino a Magazzino 18. Del Magazzino 18, deposito delle masserizie degli esuli nel porto vecchio di Trieste, parlavo già nel mio libro. E partendo da questo che oggi è un luogo della memoria, è cominciata la collaborazione con Simone.
Una collaborazione non semplice, dura e stimolante per entrambi. Abbiamo tentato di approdare ad un testo teatrale equilibrato e conciso, ma comunque ricco di dettagli e articolato nella narrazione. Se racconti la storia partigiana alcune cose, alcune vicende storiche le puoi dare per scontate, perchè la storia della lotta partigiana la studi a scuola. L’obiettivo, in questo caso, l’obiettivo non semplice, era di conciliare la concisione, utile ad un prodotto culturale spendibile, ma non prescindendo da una necessità di completezza e dettaglio che un storia poco conosciuta come quella delle foibe e dell’esodo richiedeva. Abbiamo perseguito l’obiettivo di un racconto equilibrato e non di parte. Speriamo di averlo centrato questo obiettivo, scegliendo la formula dello spettacolo teatrale che ha una potenza narrativa particolare, più dei libri e di altre forme artistiche.

Magazzino 18 è diventato da poche settimane un libro, edito da Mondadori…


Sì, è diventato un libro già alla sua seconda edizione in pochi giorni. Abbiamo dovuto effettuare dei tagli rispetto allo spettacolo per ragioni di spazio. Questo libro contiene anche una folta documentazione fotografica che ho curato direttamente. Ci sono le foto dei compiti a scuola dei ragazzi, degli utensili da lavoro, si possono ricostruire intere storie, intere vite attraverso questi oggetti dimenticati per anni in questo magazzino impolverato.


Perché la storia degli italiani infoibati e dell`esodo dei 350.000 fa ancora paura? A chi fa paura? E perché lo spettacolo di Cristicchi è accompagnato da così tante resistenze e così tante polemiche, da accuse di revisionismo e di nazionalismo?


Ci aspettavamo le polemiche su questioni così delicate. Ma le prime critiche sono arrivate già prima che lo spettacolo fosse pronto. Su facebook abbiamo ricevuto i primi attacchi prima che lo spettacolo arrivasse nei teatri. Le polemiche sono cominciate prima del debutto dello spettacolo e si sono protratte fino a episodi come quello dell’occupazione del palco da parte dei centri sociali a Scandicci. Ci sono ancora minoranze rissose che interpretano la storia con la prospettiva del bianco e del nero, della distinzione ideologica fascisti/comunisti. Osare raccontare macchie nere della resistenza, non è mettere in discussione la resistenza. Chi polemizza non lo capisce. Se, dunque, revisionismo è raccontare una storia che non è mai stata raccontata, mi definisco provocatoriamente un revisionista. Ma sinceramente penso che la storia non possa essere utilizzata come una clava da opporre gli uni contro gli altri. Siamo contrari a tutte le strumentalizzazioni: per certa sinistra di foibe ed esodo non si può parlare perchè raccontare queste storie significa mettere in discussione la resistenza; per certa destra foibe ed esodo, invece, rappresentano la prova della cattiveria comunista. Nè l’una nè l’altra interpretazione, che vengono da presupposti ideologici e dogmatici, sono condivisibili.

Riuscirà Magazzino 18 a sottrarre all`oblio la storia dell`esodo giuliano-dalmata? E soprattutto riuscirà a strappare queste vicende alle strumentalizzazioni di parte e al pregiudizio ideologico?


Magazzino 18 e il nostro lavoro non penso possano scalfire l’odio ideologico. Chi polemizza non ha nessuna volontà di confrontarsi su questi argomenti, si ritiene custode di una verità storica inattaccabile. Niente può scalfire queste posizioni dogmatiche. Noi ci siamo approcciati a questa storia con la prospettiva del dubbio, della domanda, con la volontà di approfondire. Insomma con “in mano” uno strumento democraticissimo: il punto interrogativo. I nostri detrattori sono sostenitori di un’interpretazione delle storia da punto esclamativo, dogmatica e inattaccabile. Volevamo semplicemente rendere omaggio con Magazzino 18 a chi ha vissuto e subito questa tragedia. Speriamo di aver fatto piccoli passi avanti verso una più solida consapevolezza. Ci basta aver aperto gli occhi a chi questa storia non la conosceva. Ci basta aver fatto scoprire a tanti che Rovinj è anche Rovigno, Pulj è anche Pola, Kopar è anche Capodistria.
E la trasmissione di Magazzino 18 su Rai Uno, nella seconda serata del 10 febbraio, come la giudica?
Un buon contributo. Sarebbe stato meglio averlo in prima, ma meglio che niente. I dati di ascolto sono stati comunque incoraggianti e non è detto che il prossimo anno non si arrivi in prima serata.


113 - Il Piccolo 24/02/14 Pola capitale istriana: il via libera del Sabor fa arrabbiare Pisino
Il Lunedì 24 Febbraio 2014 14:18, mariarita <Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.> ha scritto:

Pola capitale istriana: il via libera del Sabor fa arrabbiare Pisino

Approvata in prima lettura la proposta del deputato Boljun›i„ Dieta democratica in difficoltà. Il sindaco Krul›i„: «Uno scippo»
·         -
POLA. Forse questa sarà la volta buona, dopo alcuni tentativi andati a vuoto nel recente passato. Stiamo parlando dell’iniziativa intesa a riconoscere il maggior centro istriano, ossia Pola, capoluogo regionale, invece di Pisino ritenuta una forzatura, anzi un capriccio del defunto presidente croato Franjo Tudjman che agli inizi degli anni Novanta l’aveva proclamata capitale dell’Istria come premio per la sua “croaticità”. Ebbene il Sabor in prima lettura ha appoggiato la proposta del deputato dietino Valter Boljun›i„ che ora ha sei mesi di tempo per presentare in aula la bozza definitiva delle modifiche alla Legge sulla geografia amministrativa della Croazia.
«Pola deve diventare capoluogo - spiega - in quanto è il centro economico, culturale e scientifico dell’Istria. Si tratta più che altro di una questione di prestigio, per gli istriani in sostanza cambierà ben poco». L’Assemblea regionale continuerà a riunirsi a Pisino e i vari dipartimenti dell’amministrazione regionale rimarranno dislocati un po’ in tutta la penisola, il presidente della Regione continuerà ad avere sede a Pola.
Ovviamente l’iniziativa non è stata gradita dal sindaco di Pisino Renato Krul›i„ che definisce la cittadina centro-istriana «capitale storica dell’Istria», ricordando che qui hanno sede varie istituzioni e uffici tra cui la Revisione di stato e l’Agenzia per lo sviluppo rurale dell’Istria. Il primo cittadino sostiene che «cambiando le cose Pola non guadagnerebbe niente ma che Pisino perderebbe tanto». Krul›i„, che parla di «scippo bello e buono», non intende arrendersi senza sparare alcun colpo e annuncia la possibilità di indire un referendum sulla scottante questione.
C’è il pericolo a questo punto di spaccature all’interno della Dieta democratica istriana che governa sia Pola sia Pisino. L’iter prevede che sulla questione si pronunci l’Assemblea generale e, visto il rapporto delle forze in campo, l’esito della votazione appare scontato. Per bocca di Pedja Grbin presidente del Comitato parlamentare per la Costituzione e l’assetto politico, il Partito Socialdemocratico fa sapere che in Parlamento appoggerà quanto deliberato a livello regionale. Voto libero, insomma, secondo coscienza. (p.r.)





114 - La Voce di New York 19/02/14 - Foibe: i buchi (carsici) della memoria
Foibe: i buchi (carsici) della memoria

di Ludovica Martella

Come delle Atlantidi perdute nel mare della storia italiana, le storie delle popolazioni giuliane sotto il regime di Tito sono state per troppo tempo dimenticate. Al consolato di New York, ci celebra il ricordo delle vittime delle foibe e degli esuli istriani, dalmati e fiumani

 
Un momento dello spettacolo dedicato alla storia degli esuli giuliani,

Non tutti conoscono la storia dei giuliani nel mondo. È stato solo dieci anni fa, infatti, che il Parlamento italiano ha riconosciuto loro un “giorno del ricordo”, consacrando il 10 febbraio giornata dedicata a un dramma troppo spesso dimenticato. Quel giorno, nel 1947, un’Italia appena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale firmò la pace con gli alleati e lasciò alla Jugoslavia, allora sotto la dittatura del comunista Tito, la parte dell’Adriatico Orientale, come prezzo da pagare dopo il conflitto. Ciò che è successo in quelle terre è ancora oggi poco documentato. Anni ed anni di violenze inflitte agli italiani che vivevano in quelle zone sono stati nascosti per troppo tempo. L’associazione Giuliani nel Mondo è nata proprio con lo scopo di ricordare e rendere note queste violenze..-

È così che il 18 febbraio al Consolato generale di New York, l’associazione Giuliani Nel Mondo  del New Jersey ha commemorato, con un leggero ritardo dovuto alle bufere di neve che hanno colpito New York negli ultimi giorni, la memoria delle catastrofi inflitte agli italiani delle zone di Fiume, Zara, delle isole del Quarnaro e della Dalmazia, di gran parte dell'Istria, del Carso triestino e goriziano, e dell'alta valle dell'Isonzo sotto il controllo jugoslavo.

“Il giorno del ricordo è diventato un’occasione per condividere e per capire, dopo anni di silenzio, la tragedia delle foibe e dell’esodo, uno dei momenti più tristi della storia del nostro Paese – spiega il Console Generale di New York, Natalia Quintavalle – Non sono tanto i numeri, che sono ancora incerti, a misurare la portata di questa tragedia, ma la drammaticità di quell’orribile vicenda è nella strage di popolazioni indifese, nell’inserirsi della violenza politica programmata su un terreno di contrapposizioni etniche e ideologiche fra le popolazioni dell’area dell’Adriatico orientale”.

 
Il Console Generale Natalia Quintavalle

Ciò che caratterizza questa giornata del ricordo, infatti, spiega il console, “è la memoria storica che ogni popolo ha il dovere di coltivare e raccontare per rafforzare la propria identità anche sulle tracce della sofferenza del passato, la ricerca della verità e della consapevolezza di ciò che è accaduto”.

È il console generale aggiunto, Roberto Frangione, spiega Quintavalle, che durante gli anni, insieme a Eligio Clapcich, presidente dell’associazione Giuliani nel mondo del New Jersey, continua a portare avanti la tradizione della commemorazione della giornata del ricordo a New York, iniziata da una collaborazione con il predecessore di Frangione, il console aggiunto, Laura Aghilarre. “Per rispetto delle generazioni future abbiamo il compito di trasmettere la conoscenza della storia, una realtà che, se pure dolorosa, ci consente di ripartire e di costruire un futuro dove l’odio dei popoli sia solo un ricordo – commenta Frangione sulla missione di questo evento.

Eligio Clapcich, presidente dell’associazione Giuliani nel mondo

L’esodo di istriani, dalmati e fiumani è un evento che non molti conoscono come delle Atlantidi scomparse nel mare. Negli ultimi tempi a fare un po' di luce sulle catastrofi di quegli anni è stato lo spettacolo Magazzino 18, ideato dal cantante romano Simone Cristicchi. Magazzino 18 è il nome di un magazzino del porto di Trieste, “dove venivano raccolte le masserizie degli esuli in partenza dall’Italia” spiega Frangione. Il musical è andato in scena in Italia e in Croazia, nella città di Pola, e in entrambi i casi ha provocato reazioni forti: alcune positive, altre meno. Lascia perplessa la reazione dell’Italia: dopo essere stato mandato in onda dalla Rai, lo spettacolo è stato censurato “a causa di critiche da parte di centri sociali come l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani”, spiega Clapcich. Sono state necessarie petizioni mondiali e nazionali per mandare nuovamente in onda il musical il  10 febbraio scorso.

Magazzino 18 ricorda le storie di chi con speranza di tornare, lasciò oggetti di ogni tipo, da pianoforti, quaderni, piatti, divani, nei magazzini del porto di Trieste. Lo spettacolo mette in luce anche la tragedia delle foibe, le quali anni fa erano riconosciute sui dizionari come “cavità carsiche”. Nel video mostrato durante la commemorazione al Consolato, la voce narrante di Cristicchi, racconta invece come in queste cavità “a forma di imbuto rovesciato”, venissero gettati in massa italiani, alcuni connessi ai fascisti, altri no, dopo essere stati torturati e violentati dai militari titini. All’evento erano presenti i coniugi Fides Monti e Ferruccio Gerin, originari di quei luoghi. Entrambi persero il padre nella tragedia delle foibe. “Mio padre lasciò cinque figli – racconta Fides Gerin – ci dissero di andare a Pola ma presto ce ne dovemmo andare anche da lì”.

All'evento a sorpresa è arrivato Piero Fassino, sindaco di Torino, che, in visita a New York, è intervenuto per portare la sua solidarietà alle comunità Giuliano-Dalmate: “C’è stato un periodo della mia vita politica, tra il ‘96 e il ‘98, dove sono stato incaricato di restituire identità storica alle vicende della Dalmazia. Credo che questa scelta di costituire la giornata del ricordo sia stata particolarmente giusta perché questa tragedia per un lungo periodo è stata ignorata e negata per ragioni di realpolitik. Non è vero che le tragedie quando si consumano creano di per se gli anticorpi per cui non si ripetono. I Balcani sono stati nella metà degli anni ‘90 territorio devastato da pulizie etniche tremende”.

“La celebrazione di oggi vuole cercare di chiarire nei limiti del possibile e dare un volto a quello che successo — conclude Quintavalle — Non possiamo pensare di costruire la nostra società e il futuro per i giovani, senza capire quello che è successo, non assumendoci la nostra responsabilità, perchè quello che è successo alla fine della Seconda Guerra Mondiale non si ripeta più”.






115 – Corriere di Novara 27/02/14 Cultura -  Novara: Raccontando il “confine difficile“

CULTURA

ALL’ARCHIVIO DISTATO LA MOSTRA “SALUTI DALLA VENEZIA GIULIA”. TRA FRANCOBOLLI E CARTOLINE

“ Raccontando il “confine difficile “

Francobolli e cartoline raccontano la storia del confine orientale d’Italia e la presenza di una numerosa comunità di esuli istriani, fiumani e dalmati sul territorio novarese. Fino al 28 febbraio all’Archivio di Stato di Novara, nella ex chiesa della Maddalena, è allestita la mostra “Saluti dalla Venezia Giulia” promossa dall'Istituto Storico della Resistenza “Piero Fornara” in occasione del Giorno del Ricordo. Organizzata grazie al contributo di Roberto Piantanida, collezionista dell'Associazione filatelica e numismatica novarese, e di Roberto Perovich, l’esposizione gode dell'appoggio dalla Provincia di Novara e del Comitato novarese dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. «Fare rete - ha sottolineato all’inaugurazione Maria Marcella Vallascas, direttore dell’Archivio di Stato -significa anche avvicinare i cittadini a temi di grande rilievo come questo. Temi che sottolineano l’importanza della, custodia della memoria con l’obiettivo di trasmetterla alle nuove generazioni affinché conoscano la storia e non la dimentichino. Con questa iniziativa si consolida la collaborazione tra l’Archivio di Stato e l’Istituto Storico». Una «mostra rara e particolare - ha aggiunto Giovanni Cerutti, direttore scientifico dell’Istituto Storico - e che nasce grazie al contributo di due collezionisti che hanno messo a disposizione il loro materiale. Un modo diverso di celebrare il Giorno del Ricordo attraverso lo studio di fonti che hanno un valore assoluto dal punto di vista del collezionismo ma che offrono anche la possibilità di una cavalcata nella storia per approfondire le sovranità che si sono avvicendate in quell’area: dalla fine dell’Ottocento, passando per la prima guerra, il Regno d’Italia, l’offensiva dell’esercito italiano per allargare i confini, poi l’armistizio, l’arrivo dei Tedeschi e i nuovi confini arrivando fino agli anni Ottanta del Novecento. Attraverso un documento concreto come la cartolina e il francobollo che sono “strumenti” di storia a tutti gli effetti. È un altro modo di guardare la mostra quello che ci porta' a leggere la storia per mezzo della corrispondenza: qui vengono alla luce gli argomenti della vita quotidiana e anche la volontà di mantenere i contatti con chi è rimasto in patria. Un modo per sottolineare quanto quella storia sia complicata, evitando semplificazioni e riduzioni a schemi astratti». Roberto Piantanida, collezionista novarese che ha reso possibile la mostra, sottolinea che «la storia postale permette di leggere la storia dei nostri tempi» e, richiamando l’importanza di alcuni pezzi esposti, porta alla luce anche una curiosità, come «l’imposizione di so-vraprezzi ai francobolli al fine di recuperare soldi con tariffe più alte. Sono rari sulla corrispondenza perché limitati a pochi mesi». O ancora «la data di occupazione della città impressa sui documenti dagli alleati per rimarcare la propria presenza». Per Roberto Perovich si tratta di documentazione preziosa che consente di ricostruire i rapporti tra chi si era dovuto separare allontanandosi di chilometri». Paolo Cattaneo, vice presidente dell’Istituto Storico, sottolineando la sinergia tra i soggetti in campo culturale, porta alla luce ricordi personali: «Mio padre era assessore ai Lavori pubblici, durante il mandato del sindaco Allegra, quando è nato il Villaggio Dalmazia. Non era stato qualcosa di dovuto, ma un intervento sentito dalla città ancora oggi. È sempre stato un gioiellino. Mai isolato o considerato periferia, ma inglobato nella città».

Eleonora Groppetti

" Un percorso “visivo " tra i documenti

■ Un filo conduttore e tante facce. «Abbiamo voluto ampliare lo spettro di indagine del confine orientale - ha spiegato Antonio Leone, membro del Comitato Scientifico dell'Istituto Storico e curatore dell'esposizione -, anche affrontando tematiche a volte apparentemente distanti rispetto ai temi centrali che ruotano attorno alle commemorazioni ufficiali del Giorno del Ricordo, come le foibe e l'esodo. Ci siamo occupati degli aspetti puramente storici, attraverso la raccolta e lo studio delle fonti orali e materiali, della produzione letteraria dei cosiddetti "rimasti", ma anche della salvaguardia della memoria e della situazione attuale della comunità italiana residente in Slovenia e in Croazia. Oggi per parlare di quello che viene considerato dalla storiografia come il “confine diffìcile” abbiamo pensato di chiedere una mano al mondo del collezionismo postale e della filatelia. Con una serie di cartoline illustrate, alcune di assoluto valore sia artistico che filatelico (annulli e francobolli), esposte assieme ad altro materiale postale, e stato costruito un percorso "visivo" attraverso i luoghi più suggestivi dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia e dei territori del Regno di Jugoslavia occupato dalle nostre truppe. La storia postale ha un vantaggio, si muove con la grande storia. Cambiano i francobolli che hanno anche un valore propagandistico. Prima l’imperatore, poi il Regno d’Italia, quindi Mussolini e Hitler, anche con emissioni speciali a sancire l’alleanza. La filatelia e la storia postale sono considerate una fonte minore. Spesso gli storici non sono interessati tanto al mezzo quanto al
contenuto, ma anche questi documenti ci consentono di ricostruire un percorso».

La prima parte, che racchiude il periodo tra le due guerre mondiali, è preceduta da una sorta di prefazione dedicata alla corrispondenza relativa al periodo austro-ungarico (di grande interesse illustrativo, filatelico e di storia postale), nonché a quella proveniente dai territori occupati dai nostri militari a partire dal novembre 1918.

Nella parte successiva è esposto materiale che ha viaggiato durante le varie occupazioni militari:    da quella italiana della Dalmazia e di parte della Slovenia dall'aprile del 1941 a quella titina di Fiume, per finire a quella relativa ai territori sottoposti al Governo Militare Alleato (in particolare la citta di Pola). «La sezione conclusiva, dedicata alla Zara tra gli anni Sessanta e Ottanta, -ancora Leone - sebbene non abbia un assoluto valore dal punto di vista artistico e filatelico, è importante perché testimonia il legame mantenuto negli anni all'interno della famiglia Perovich tra chi scelse di partire verso l'Italia e coloro che decisero di rimanere, nonché il vincolo affettivo mantenuto con i luoghi della propria storia da parte degli "andati"».

E nelle bacheche, oltre alla rivista “Novara è..che alla comunità di esuli ha dedicato un articolo lo scorso anno, anche una serie di pubblicazioni consigliate e sempre in tema con la mostra aperta fino al 28 febbraio (orario 9/15): per richiedere una visita guidata scrivere all’indirizzo Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..






116 – Il Resto del Carlino 25/02/14 Bologna: Foibe: non dimenticare, ma ricordare e tramandare


Foibe: non dimenticare, ma ricordare e tramandare

Paura, diffidenza e campi profughi: grazie al diario di Maria Lucidi rivive la tragedia istriana

IN REDAZIONE

Le classi coinvolte nel progetto sono IA IB IC ID IIA IIB IIC
Coordinate dalle professoresse Tiziana Agus, Amabile Bellucci, Stefania Ruggeri e Maurizia Sabbioni.

«...UN MOTO di odio e di furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947 e che assunse i sinistri contorni di una ‘pulizia etnica’». (Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica italiana, Roma, 10 febbraio 2007).

Queste le parole del Presidente della Repubblica in occasione della commemorazione delle vittime dei massacri delle foibe. Dopo la ‘Giornata della Memoria’ per le vittime della Shoah, il 10 febbraio si celebra il ‘Giorno del Ricordo’ istituito con la legge 30 marzo 2004. Tale giornata ha l’intento di conservare e rinnovare la memoria dei cinquemila italiani uccisi in Istria, Dalmazia e Venezia Giulia tra il 1943 e il 1945 dai partigiani di Tito. Questa commemorazione non è solo dedicata alle vittime delle foibe, ma anche alla tragedia dei profughi giuliani costretti a lasciare le loro case e i loro beni per fuggire in Italia dove, però, furono ma- E’ QUESTA, un’altra pagina dolorosa della nostra recente storia scritta dallo spirito di vendetta che ha seminato morte e costretto migliaia di persone all’esilio, «...nessuno di noi parlava, per non attirare l’attenzione... Il nostro sguardo era fisso sul lato bello della vita...». Chi scrive è Maria Lucich, una ragazzina come noi e come tanti altri giovani della nostra età. Così si apre quel suo diario che lei definisce ‘Diario di un ricordo’ in cui dolori e speranze si alternano e si susseguono con ritmo incessante. Maria è una nostra coetanea, ma è nata nel 1933 a Fiume, la sua adorata Fiume, come la definiva lei. Per tutti la guerra è male, ma per i bambini di più. Per una bambina di dieci anni sentire gli adulti che urlavano: «È la fine del mondo, non si salva più nessuno» era qualcosa di orrendo. E la guerra finì, ma non con essa i dolori. «Frequentavo la scuola media e ogni giorno dai banchi veniva a mancare qualche alunno... Eravamo nel 1948 e Fiume era appena stata occupata dai comunisti con in testa il loro maresciallo Tito... Erano anni di paura, di diffidenza, di controlli continui da parte delle autorità. Diventammo profughi, insieme a 350.000 italiani... Le speranze di molti giovani si sparpagliarono per il mondo intero».

CAMPO profughi di Gaeta. Mancava l’acqua e la luce era «razionata» e l’unico calore che poteva confortare era quello del triste inno «Profughi siamo figli del dolor, senza casa e focolar...», ma Maria affronterà con forza e coraggio il suo difficile percorso di vita. Maria ci ha insegnato come, nonostante le sofferenze, sia possibile mantenere saldi e forti i grandi valori di un vivere civile, quali l’amore, il rispetto, la fraternità; valori di cui ancora oggi abbiamo bisogno e, proprio noi giovani, dobbiamo imparare, coltivare e radicare in noi per poi trasmetterli alle generazioni future.






117 - Il Piccolo 22/02/14 Gorizia -  La II B della media "Ascoli" premiata da Napolitano per un libro sull'Istria
CERIMONIA A PALAZZO MADAMA
 
La II B della media “Ascoli” premiata da Napolitano per un libro sull’Istria
 
La classe della II B della scuola media “G. I. Ascoli” dell’Istituto comprensivo di Gorizia 1 è risultata tra i vincitori del concorso indetto dal Ministero dell’Istruzione e legato all’iniziativa, “Mito, fiaba e leggenda dell’Adriatico orientale”, con la stesura di un libro che hanno deciso di intitolare “L’Istria sotto l’albero”. La premiazione, nell’ambito del Giorno del ricordo, si è tenuta a Roma nella sede del Senato, a Palazzo Madama. Gli studenti in questo loro lavoro sono stati coordinati dall’insegnante di lettere, professoressa Barbara Sturmar . Alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - e dei presidente delle due Camere, Pietro Grasso, Laura Boldrini - nel corso dell’evento, trasmesso in diretta televisiva, hanno preso inizialmente la parola Antonio Ballarin, presidente Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Luciano Monzali, professore dell’Università di Bari, e Marta Dassù, vice ministro degli Esteri, ricordando l’importanza della legge 92 del 30 marzo 2004, che ha istituito il Giorno del ricordo, e sottolineando il trauma vissuto dagli esuli espulsi dalla loro terra. Si tratta di sofferenze soprattutto psicologiche, che hanno segnato i profughi per tutta la loro vita. Successivamente gli alunni goriziani sono stati premiati dal Presidente della Repubblica, dal Presidente del Senato e dal sottosegretario del Miur: il loro progetto è stato molto apprezzato perché, trattando il tema dell’esodo giuliano dalmata, i ragazzi hanno saputo presentare «una pregevole rielaborazione di antiche leggende apprese recuperando la memoria orale degli anziani». Con grande emozione Francesco Marzini, Caterina Michelin e la professoressa Barbara Sturmar hanno ritirato la targa consegnata dal presidente della Repubblica. Si è trattato di una giornata eccezionale per gli studenti goriziani, conclusasi al Ministero dell’Istruzione, dove la II B della “Ascoli” è stata nuovamente premiata dal Sottosegretario del Miur Marco Rossi Doria e dalla direttrice dell’Ufficio scolastico del Friuli Venezia Giulia, Daniela Beltrame.




118 - Il Piccolo 28/02/14 Cianfarani debutta come “superconsole” con una prima missione a Zara
Cianfarani debutta come “superconsole” con una prima missione a Zara
  Con la recente soppressione del consolato italiano a Spalato, quello generale di Fiume copre anche la Dalmazia. Così si è inquadrata la visita a Zara, la prima, del console generale d'Italia a Fiume, Renato Cianfarani. Ha incontrato le massime autorità locali, tra cui il sindaco Božidar Kalmeta, riferendo di colloqui avvenuti in un clima piacevole di collaborazione. Quindi ha fatto tappa alla locale Comunità degli Italiani (circa 250 soci), ricevuto dalla presidente Rina Villani. Cianfarani ha parlato di Comunità storica, molto importante, anche perché isolata e che nella travagliata storia della città dalmata ha saputo comunque mantenere viva l'identità e la cultura italiana. Ha fatto visita anche all'asilo italiano Pinocchio, costruito grazie ai mezzi di Roma e con il contributo dell'Unione italiana e del sodalizio dei connazionali. Cianfarani ha sottolineato che sono state gettate le basi per iniziative commerciali e culturali tra Italia e Zaratino.
(a.m.)




119 - La Voce del Popolo 24/02/14 Zara, una città nello spazio e nel tempo
Zara, una città nello spazio e nel tempo
 
Le prime testimonianze storiche su Zara risalgono al IV secolo a. C., quando la città era una colonia dell’antica tribù illirica dei Liburni. All’epoca era conosciuta con il nome di Jader e nel corso dei secoli questo cambiò più volte da Idassa (di origine greca) a Jadera (di origine romana), da Diadora a Zara (durante il governo veneziano e italiano), fino a arrivare all’odierna Zadar. Nel 59 a. C. viene eretta a municipio romano, circa dieci anni dopo diventa colonia, i cui abitanti ottengono il grado di cittadini romani.
 
È durante il periodo romano che Zara acquisisce la tipica conformazione urbana: viene infatti dotata di una rete stradale, una piazza centrale, il foro, accanto al quale si trovava il campidoglio elevato con un tempio. Nel VII secolo diventa la capitale della provincia bizantina della Dalmazia, nel X secolo inizia la colonizzazioneda parte dei croati, nel 1202 venne dapprima bruciata e poi conquistata sia dai crociati e sia dai veneziani.
 
Dopo il periodo della Serenissima, Zara verrà governata dagli Austriaci (1797), per un breve perioso dai fancesi (dal 1806 al 1813), quindi nuovamente sottomessa al governo austriaco, che durerà fino al 1918. Con il Trattato di Rapallo Zara passerà sotto il Regno d\'Italia, mentre solo dopo il Trattato di Pace di Parigi del 1947 entrerà a far parte della Federazione iugoslava nell’ambito della Repubblica di Croazia, nazione autonoma dal 1991.).
 
Oggi la città di Zara è una città monumento, la cui forma odierna è il risultato dei diversi periodi storici e culturali attraversati dalla città. Da non dimenticare che nel corso della Seconda guerra mondiale Zara subì numerosi, durissimi bombardamenti e che dal settembre del 1943 la popolazione italiana cominciò ad abbandonare la città, rifugiandosi a Trieste, in altre parti d’Italia e del mondo.
 
È "figlio" dell\'esodo anche lo zaratino Franco Marussich. Sua madre, Lina Marussich Ziliotto, fuggì dalla città proprio ne \'43 con lui e il fratello Paolo e Franco, mentre il marito e il figlio maggiore, Luigi, erano prigionieri in Africa, sia per sottrarsi ai bombardamenti anglo-americani che alla “caccia” degli italiani in Dalmazia. Franco Marussich, che oggi vive in Francia, è autore del volume “Zara: una città nello spazio e nel tempo” (Luglio Editore, San Dorligo della Valle – Trieste), che verrà presentato oggi (ore 19) al Civico Museo della Civiltà istriana fiumana e dalmata di Trieste. Ne parlerà la professoressa Chiara Motka, della Fondazione scientifico culturale Eugenio Dario e Maria Rustia Traine di Trieste. Sarà presente l\'autore. L\'evento è organizzato in collaborazione dall\'Istituto regionale per la Cultura istriano-fiumano-dalmata e dalla Fondazione Rustia Traine.





120 - Il Piccolo 21/02/14 Sergio Cionci, lo 007 che spiava Tito
Sergio Cionci, lo 007 che spiava Tito

Andrea Romoli ricostruisce la storia dell’agente segreto goriziano attivo durante la Guerra fredda
 
 di Roberto Covaz

La strage di Vergarolla pianificata dall’Ozna, la polizia segreta jugoslava, che il 18 agosto del 1946 provoca la morte di un’ottantina di persone segna il punto di non ritorno: Pola e gran parte dell’Istria sono destinate a diventare Jugoslavia. Nel Cln di Pola si comincia l’organizzazione dell’esodo, ma c’è chi guarda oltre. Si ritiene indispensabile che in città rimanga qualcuno di fidato, capace, una volta che il maresciallo Tito avrà il pieno potere, di trasmettere all’Italia notizie di prima mano su quanto succede in Istria. La scelta cade su un 24enne, già allievo ufficiale della Regia aeronautica e partigiano nelle formazioni antifasciste in Istria. Un ragazzo sveglio, capace di dialogare e farsi rispettare da tutte le parti coinvolte in quei drammatici giorni. Si chiama Sergio Cionci. Qualche giorno dopo la strage di Vergarolla giunge a Pola, sotto le mentite spoglie di dottore, tale Alberto Aini. Ha un primo contatto con Cionci. Lo convoca per un successivo colloquio a Padova. Aini denuncia un’aria dimessa, sembra quasi uno straccione e gira tenendo stretta una lisa borsa da impiegato. Aini non è un dottore qualsiasi. È un tenente colonnello del Servizio segreto militare. Nella borsa, oltre ad alcuni documenti, c’è una busta gialla contenente 30 mila lire. Cionci la prende e da quel momento e fino al 1952 diventa l’agente segreto Mario Casale, direttore dell’Ufficio corrispondenti delle Venezia, unico domicilio conosciuto la Casella postale Gorizia 72. Palpitante, intrigante, capace di lasciare il lettore con il fiato sospeso è il libro “L’ultimo testimone. Storia dell’agente segreto Sergio Cionci e degli istriani nella Guerra fredda” (editore Gaspari, pagg. 175, 15 euro). L’ha scritto il giornalista goriziano della Rai, Andrea Romoli, che proprio a Gorizia ha scovato questo eccezionale testimone muto degli anni più bui del Novecento giuliano.

Non un libro-intervista, forse una confessione, certamente non completa per Cionci, oggi ancora in forma, che ammetterà a Romoli, a stesura completata, di non aver vuotato tutto il sacco dei segreti. Stimolato a dovere, lo potrebbe fare oggi alle 17.30 nella sala Della Torre della Fondazione Carigo in via Carducci 2 a Gorizia dove, a cura dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, verrà presentato il libro. Con l’autore e il testimone dialogherà lo storico Gianni Oliva che ha curato un efficace prefazione. Introduzione di Maria Grazia Ziberna dell’Anvgd di Gorizia. Le testimonianze di Cionci raccolte e inquadrate storicamente con chiarezza da Romoli svelano retroscena della Guerra fredda capaci di far riflettere e porsi una semplice domanda: quante volta siamo stati ignari della piega ancora più drammatica che avrebbe potuto prendere l’esistenza della popolazione della Venezia Giulia? L’attività di spionaggio di Cionci-Casale spazia dall’Istria, a Trieste e a Gorizia. Lo 007 è presente nel capoluogo isontino domenica 13 agosto 1950 quando prende corpo uno degli avvenimenti di popolo più straordinari: la Domenica delle scope. A migliaia i goriziani - e non solo - rimasti “di là” varcano il confine per ritornare nella vecchia cara Gorizia. Al termine della giornata, quasi tutti rientreranno a Nova Gorica, in Jugoslavia; le donne acquisteranno in massa scope di saggina. Quel giorno Cionci scatta delle fotografie che il libro di Romoli ripropone. Si tratta di un documento rarissimo. Cionci è abilissimo a muoversi sul terreno minato delle delazioni. Non sarà facile per lui reinventarsi una vita normale. Lo sfondo delle vicende è rappresentato dal drammatico periodo dell’esodo. In mezzo a tanta gente disperata per essere stata costretta a lasciare Istria, Quarnero e Dalmazia, si mescolano spioni della peggior risma. Conclude amaramente ma opportunamente la sua prefazione Oliva: «La lettura di questo bellissimo volume, che apre uno squarcio ulteriore sulla vicenda del confine nordorientale, lascia un senso di amarezza morale, ben sintetizzata da una delle tante vicende raccontate, quella di Dino Benussi, capo sicurezza nei cantieri di Monfalcone, “italiano” convinto, che s’impicca quando nel 1975 la firma del Trattato di Osimo rende irreversibile il confine del dopoguerra».







121 - Il Piccolo 21/02/14 Aldo Moro e la ferita del Trattato di Osimo
Aldo Moro e la ferita del Trattato di Osimo
Un convegno mette a fuoco a Trieste i motivi che spinsero lo statista a mettere chiarezza nei rapporti tra Italia e Jugoslavia
 di MASSIMO BUCARELLI
Nel secondo dopoguerra, le relazioni politiche e diplomatiche tra l’Italia e la Jugoslavia furono caratterizzate da incomprensioni, ostilità e polemiche, dovute soprattutto - anche se non esclusivamente - alla questione di Trieste, il lungo e sofferto contenzioso territoriale che per molti anni divise i due paesi adriatici. Dopo la sconfitta subita dall’Italia e il tentativo jugoslavo di impossessarsi di Trieste e di gran parte dalla Venezia Giulia, il trattato di pace del 1947 stabilì che tutto il territorio italiano ad Est della linea Tarvisio - Monfalcone fosse assegnato alla Jugoslavia ad eccezione di una ristretta fascia costiera comprendente Trieste (zona A), occupata dagli anglo-americani, e Capodistria (zona B), sotto occupazione jugoslava. In base al trattato, questa fascia costiera avrebbe costituito il Territorio Libero di Trieste, Tuttavia, lo scoppio della guerra fredda e la divisione dell’Europa in blocchi politici contrapposti resero impossibile la costituzione del Tlt.
 
La successiva rottura tra Tito e Stalin e il conseguente avvicinamento di Belgrado al blocco occidentale spinsero gli anglo-americani a favorire una soluzione di compromesso provvisoria sancita dal Memorandum di Londra del 5 ottobre 1954, che di fatto stabiliva la spartizione del Tlt. Fu solo negli Sessanta, dopo l'avvio in Italia della stagione dei governi di centro-sinistra, che Roma e Belgrado, rimaste per anni arroccate sulle proprie posizioni, iniziarono a dialogare dando vita al lungo negoziato che dal 1968 in poi, attraverso varie fasi e battute d'arresto, portò alla firma degli accordi di Osimo del novembre 1975. All’interno della nuova maggioranza di governo, confluirono forze e personalità politiche della sinistra non comunista, attente ai progressi del socialismo jugoslavo, e sensibili alle esigenze di sicurezza e di crescita economica della vicina Federazione, paese non allineato, diventato una sorta di Stato «cuscinetto» tra l'Italia e il blocco sovietico. Alla luce dell'importanza politica e strategica del regime di Belgrado, divenuta ancor più evidente dopo le vicende cecoslovacche del 1968, con l'ingresso a Praga delle truppe del Patto di Varsavia, i socialisti e i socialdemocratici italiani (soprattutto, i rispettivi leader Pietro Nenni e Giuseppe Saragat) ritenevano che ormai fosse giunto il momento di chiudere la vertenza territoriale e stabilizzare il confine, per consolidare il regime di Belgrado, minacciato dal riemergere dei contrasti nazionali interni. Tuttavia, la vera novità della politica italiana, in grado di cambiare definitivamente l’andamento negativo dei rapporti bilaterali, fu la presenza nei governi di centro-sinistra di Aldo Moro, leader del principale partito della coalizione, la Democrazia Cristiana, nonché presidente del Consiglio dei Ministri e ministro degli Esteri a più riprese tra il 1963 e il 1976.
 
Contrariamente a quanto affermato dai suoi predecessori sia alla guida del governo, che del suo stesso partito, secondo i quali l’intero Tlt o, in alternativa, la maggior parte di esso sarebbe dovuto tornare all’Italia data la provvisorietà dell’intesa raggiunta nel 1954, Moro era convinto che la sistemazione territoriale stabilita dal Memorandum di Londra fosse ormai «non modificabile con la forza» e «non modificabile con il consenso». Per il leader Dc e per i diplomatici italiani che ne sostennero l'azione, lo status giuridico e territoriale fissato dal Memorandum andava rispettato senza apportare cambiamenti e le «sfere territoriali» risultanti da esso (che configuravano la spartizione di fatto del Tlt) erano «fuori questione» e «fuori discussione». Moro, però, si rendeva anche conto che una soluzione della questione di Trieste basata sulla divisione del Tlt lungo la linea di demarcazione del 1954 avrebbe suscitato numerose reazioni contrarie, sia a livello locale (anche all’interno della stessa DC triestina), che a livello nazionale, negli ambienti dell’estrema destra. Per questo, riteneva necessaria l'adozione graduale e meditata di una «soluzione globale», che non solo tenesse conto degli aspetti territoriali e confinari, ma che prevedesse anche misure in grado di garantire concreti vantaggi economici per le popolazioni italiane di confine e di rilanciare lo sviluppo locale, unico corrispettivo possibile per la perdita definitiva della Zona B. In conclusione, l’accordo con la Jugoslavia – secondo Moro - non doveva essere visto come una rinuncia italiana alla zona B, perché non si poteva rinunciare a qualcosa che ormai non apparteneva più al paese dai tempi della guerra e del trattato di pace, ma come l’acquisizione di un vantaggio non solo territoriale (la città di Trieste, che il trattato del ’47 aveva lasciato al di fuori dei confini nazionali), ma anche strategico, politico ed economico, attraverso la stabilizzazione dei confini orientali e dell'area adriatica, e il rilancio della partnership italo-jugoslava.
 
Dentro gli archivi tutti i passaggi dell’odiato accordo
 TRIESTE A quasi 40 anni dal Trattato di Osimo gli archivi si aprono e quella vicenda che tante reazioni suscitò a Trieste, dando il via al movimento del Melone, può finalmente diventare oggetto di una ricostruzione critica. È questo l’intento che si propone il convegno “Osimo: lo stato degli studi” che si tiene oggi dalle 15.30 alle 18.30 alla Biblioteca Statale di Trieste, in largo Papa Giovanni XXIII 6. Il convegno è organizzato dal Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università con l’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia. Massimo Bucarelli, dell’Università del Salento, e Saša Mišic, dell’Università di Belgrado, metteranno a confronto la strategia negoziale italiana e quella jugoslava. Luciano Monzali, dell’Università di Bari, si soffermerà sull’ultima fase delle relazioni italo-jugoslave. I lavori saranno introdotti e coordinati da Raoul Pupo, dell’Università di Trieste.












122 – La Voce di Romagna 25/02/14 Nello Rossi: “Il ricordo dei morti unisca i vivi”

NELLO ROSSI E IL SUO IMPEGNO PER DARE CRISTIANA SEPOLTURA AI COMMILITONI TRUCIDATI

“Il ricordo dei morti unisca i vivi”

MAGGIO 1945 A Tolmino i bersaglieri del Battaglione Mussolini si arrendono ai partigiani slavi che non mantengono l’impegno di consegna agli alleati

La promessa al cappellano padre Cesario,nato a Villa Verucchio, che ha vissuto gli orrori del lager di Borovnica, “l’inferno dei morti viventi”

Avevamo 17 / 20 anni- racconta Nello Rossi-, abbiamo abbandonato le nostre case e le nostre famiglie cantando “Mamma non piangere se mi vedrai partire, vado alla guerra per vincere o morire”. E’ difficile capire questa nostra decisione di partire volontari con i bersaglieri; per noi ragazzi non fu un revival fascista, ma solo una storia di sentimenti e di Ideali di un tempo che fu; uno slancio oggi incomprensibile, perché oggi non ha più alcun significato, è solo un’espressione che deve restare solo come “Memoria” per insegnarci a vivere meglio nel futuro”. Il Battaglione Mussolini nell’aprile 1945 resta al suo posto. Il 30 aprile inizia per il frate di Villa Verucchio e migliaia di militari della Repubblica sociale che si trovavano sul confine orientale una lunga odissea che per molti andrà avanti fino al 1947 se non oltre. Con l’avanzata dei partigiani slavi le truppe italiane cercano di raggiungere Caporetto nella speranza poi di arrivare a Cividale e Udine. Giunti a Caporetto i militari si rendono conto di essere stati accerchiati dai partigiani. Nella speranza di evitare spargimenti di sangue, gli ufficiali prendono una decisione: se necessario saranno loro a pagare per tutti. Così il Mussolini si arrende, ma i partigiani non manterranno la promessa: i prigionieri non verranno consegnati agli alleati. Da Caporetto i militari vengono condotti nella piccola località di Luico, dove vengono fucilati alcuni ufficiali, e a Tolmino, dove subiranno sulla piazza ogni forma di dileggio. A Tolmino si verifica l’eccidio di una sessantina tra ufficiali e semplici soldati; tra le vittime c’erano anche dei romagnoli. Gli sventurati verranno uccisi in una grotta i cui imbocchi saranno poi fatti saltare. Da Tolmino riusciranno a fuggire alcune decine di prigionieri ma solo pochissimi riusciranno a mettersi in salvo. I prigionieri verranno poi trasferiti con durissime marce forzate verso i campi di concentramento. A Vipacco arriva una colonna di prigionieri, si tratta di ex internati in Germania che stanno tornando a casa. Poco importa ai partigiani di Tito se venivano dai lager nazisti, erano colpevoli di essere italiani. Padre Cesario durante le lunghe marce sarà testimone di efferati episodi di crudeltà ai danni dei prigionieri, a volte commessi da donne. Da Prestrane il viaggio prosegue in treno a bordo di carri bestiame, la destinazione è Borovnica, dove è stato allestito un campo di concentramento per i prigionieri adibiti in particolare alla ricostruzione del viadotto ferroviario sulla linea che da Trieste porta a Lubiana. Il campo di Borovnica verrà definito da monsignor Antonio Santin, indimenticabile Vescovo di Trieste, “l’inferno dei morti viventi”, con al seguito una denuncia all’Autorità Italiana. Un rapporto se pur dettagliato e documentato ma inutile, lo fanno la Croce Rossa, i Servizi segreti inglesi e pure il Patriarca di Venezia Adeodato Giovanni Piazza. Non è mai stato possibile quantificare esattamente i morti di stenti o i fucilati per i più futili motivi. Non veniva permesso al cappellano di avvicinarsi ai condannati a morte, padre Cesario poteva dare loro l’assoluzione solo da lontano. I carcerieri si mostravano particolarmente sadici verso chi trasgrediva le regole del campo. La punizione era il palo al centro di uno spiazzo: il prigioniero veniva legato con il filo di ferro, con le estremità sollevate diversi centimetri da terra, in modo tale che il corpo era sostenuto dal filo di ferro che stringeva le braccia unite dietro al corpo. Il dolore era tale che nessuno riusciva a resistere più di due e tre ore. La crudeltà dei carcerieri si accanirà anche su un cane adottato da alcuni bersaglieri nella valle del Baccia. L’animale, di nome Gip, aveva voluto seguire i suoi amici fino a Borovnica, dove un giorno puntò verso i reticolati, così una delle sentinelle cominciò a divertirsi con il tiro a segno. A proposito di Borovnica , Nello Rossi cita Joze Pirjevec docente di storia all’Università del Litorale Koper/ Capodistria, membro dell’Accademia slovena delle Scienze e delle  Arti: “Nel suo libro “Foibe una storia d’Italia” edito nel 2009 da G. Einaudi, lascia ampio spazio (quarantanove pagine) alla ricercatrice storica slovena Nevenka Troha, dove dalla pagina 282 alla 291 descrive anche la situazione del campo di Borovnica, parla dei vivi e dei morti con molta obiettività, e su Borovnica si può leggere: “ E’ stato uno dei più bestiali campi di concentramento di tutta la Jugoslavia, … fu il più disorganizzato, il più crudele, quello che inflisse le più alte perdite agli italiani prigionieri in Jugoslavia e particolarmente a quelli ivi concentrati e sfuggiti prima ai massacri durante la marcia. Nessuna legge, nessun regolamento governò soprattutto nel primo periodo la vita  del campo dove l’arbitrio, le barbarie, il furore anti-italiani ebbero libero sfogo”. Nel mese di luglio gli ufficiali verranno separati dalla truppa e trasferiti a San Vito di Lubiana, dove padre Cesario incontrerà altri bersaglieri del Mussolini. Padre Cesario, che ha concluso la sua esistenza terrena nel 1996, è stato liberato nel giugno 1947. Nello Rossi, finché le forze lo sosterranno, non smetterà di impegnarsi nella ricerca dei resti dei suoi sventurati commilitoni trucidati a Tolmìno. “Nel  2005 – dice - volevo risolvere questo problema da solo, con la collaborazione di un ex nemico grande invalido del IX° Corpus; ne ha parlato ampiamente la stampa sia italiana che slovena, ma gli interessi di “bottega” hanno prevalso, imponendoci di seguire e sottostare solo alle linee Costituzionali”. Lo scorso anno sono stati eseguiti degli scavi per la ricerca dell’apertura della caverna dove è avvenuta la strage, che però non hanno dati i risultati sperati. “Gli scavi del 19 marzo 2013 - spiega Nello Rossi – come del resto quelli successivi del 27 marzo sono stati un fallimento in parte programmato. Hanno sì finalmente usato per la prima volta un’attrezzatura adeguata, purtroppo con insuccesso forse dovuto al terreno che dopo tanti anni può aver subito delle modifiche, compreso forse quello dello stesso sentiero. Hanno sì operato nel pieno rispetto del capitolato con il Governo sloveno, ma volendo o no, si sono dimenticati di inserire nel capitolato due delle tre parti da noi richieste. Si tratta del trincerone, e, a fianco, le mura dell’Ossario tedesco, sollecitate dal geologo professor Aldino Bondesan poco prima di iniziare i lavori. I due siti dimenticati o ignorati erano stati programmati da me e Franco Librini con il generale Arturo Zandonà e il colonnello Marco Bisiak già il 1° ottobre 2008 in un incontro voluto da Onorcaduti”. Il lavoro di Nello Rossi continua con la contessa Francesca Paola Montagni Marchiori, rappresentante dei familiari dei caduti e nipote del tenente Gino Marchiori, ucciso a Tolmino.


Aldo Viroli

Chi è il protagonista
Da anni si batte anche contro la burocrazia
Lo ha promesso al suo cappellano, Padre Cesario, al secolo Guerrino Fabbri da Villa Verucchio, che prima di morire aveva espresso un desiderio: “Chiedere che siano aiutati coloro che cercano le salme degli uccisi e che sulle foibe e sulle caverne sia almeno messa una croce che ricordi i morti accatastati in quei luoghi”. Non è la prima volta che Storie e personaggi parla della vicenda di Nello Rossi, padre dell’attore Paolo, bersagliere del Battaglione Mussolini e sopravvissuto al campo di concentramento di Borovnica, definito dal Vescovo di Trieste monsignor Antonio Santin “l’Inferno dei morti viventi”. Rossi da anni cerca di recuperare i poveri resti dei commilitoni trucidati a Tolmino (oggi Tolmin in Slovenia) malgrado si fossero arresi con l’assicurazione di venire consegnati agli alleati. Così padre Cesario incitava i suoi uomini: “Bersaglieri, ricordatevi che sempre e in ogni momento la nostra coscienza deve essere a posto con Dio e con gli uomini”. Nella fase terminale del conflitto, i bersaglieri del Mussolini erano dislocati lungo la ferrovia transalpina nei pressi di Santa Lucia d’Isonzo, (oggi Most na Soci) per difenderla dagli attacchi dei partigiani jugoslavi del IX Corpus. Arriva il 1945, verso la metà di aprile la situazione precipita, i reparti italiani cominciano a ritirarsi verso Udine.




123 - Avvenire 23/02/14 Lettere - La tragedia della miniera nell'Istria allora italiana
LA TRAGEDIA DELLA MINIERA NELL’ISTRIA ALLORA ITALIANA

 Gentile direttore, il 28 febbraio 1940 nel bacino minerario di Arsia-Istria ,allora Italia, si consumò la più grande tragedia mineraria. I morti ac­certati furono 185 e oltre 100 i feriti. I mi­natori deceduti erano prevalentemente i­taliani istriani, croati, sloveni e immigra­ti provenienti da molte regioni, come To­scana e Sardegna.

Credo che siano pochi coloro che conoscono questa tragedia, come quella che abbiamo celebrato nel Giorno del ricordo il 10 febbraio. L'Italia, allora, si preparava alla guerra; il carbo­ne era necessario e per estrarlo si veniva meno alle misure di sicurezza . Molti e­suli istriani poi ospitati a Novara e in tut­to il Piemonte erano minatori in Arsia.

Per ricordare bisogna conoscere, altri­menti le cerimonie diventano retoriche. Bene ha fatto a tutti noi lo spettacolo "Ma gazzino 18" di Simone Cristicchi, andato in onda su Rai 1 (purtroppo in tarda serata): l'artista è stato bravissimo nel raccontare con equilibrio la tragedia degli i-istriani, fiumani e dalmati. Opportuno sarebbe riproporlo in prima serata TV e ne-le scuole.

E. Pastrovicchio
esule istriano­






124 - Rinascita 26/02/14 Lettere - Il papa e le foibe
l papa e le foibe
      
di Maria Renata Sequenzia

Caro Direttore, ho avuto l’insperato piacere di ascoltare la registrazione del suo incontro a Teramo con Fiorini e un terzo partecipante, di cui mi è sfuggito il nome.
Mi sono fatta così un’idea delle sue  gradevoli fattezze,e soprattutto ho trovato conferma alla ampiezza della   visione storica con cui ha citatato riferimenti a vicende di svariate epoche del passato delle nostre perdute terre di  confine come di quelle più recenti-da cui sono abitualmente assenti, secondo  schematiche ricostruzioni ideologiche, degli amici di Tito,che non si riescono a eliminare.
Il Movimento Nazionale Istria Fiume Dalmazia oggi più che mai continua a rimpiangere l’unica tribuna da cui poteva far di quando in quando risuonare qualche richiamo a eco di pagine cancellate come  queste, che invio e che certamente Rinascita apprezzerà, qualunque uso ritenga farne.
Forse si è ancora in tempo di riprendere quella autentica revisione, almeno dal 1915 in poi, del corso dei principali eventi che hanno deformato e stravolto lo sviluppo della Nazione Italiana massacrandone  l’esito fino ai risultati sfrenati sotto i nostri occhi.
Le mando la lettera inviata a Papa Francesco. Ho pensato di farlo dopo aver inteso la sua osservazione, contenuta in un passo della sua esposizione di Teramo,in cui Lei citava, tra i momenti salienti dello sviluppo  economico europeo la sopraffazione dell’indirizzo protestantante  da imporre a quello cattolico con  il nuovo sistema  usuraio finanzario capitalistico, primo anello della degenerazione. Come non pensare allo IOR? Come non pensare a CHIESA VIVA, a Padre Villa, alla missione affidatagli da Padre Pio? Mi fermo a questo punto,in attesa di comprendere quale attenzione riscuotano in Lei queste annotazioni.Con i migliori saluti e il più vivo apprezzamento per il testo dell’intervento di Teramo, che ho segnalato a Trieste. Andrebbe diffuso .  
 
Ecco alcuni stralci della lettera a papa Francesco inviata da Guido Macutz, esule da Zara, pubblicata da Trieste Informa.
“Santità, è con profondo dolore e con devota e rispettosa cristianità, ma con i nostri cuori gonfi di dolore che desideriamo esprimere la delusione per quanto notato domenica 9 c. m. in Piazza San Pietro. Un gruppo di esuli istriani, fiumani e dalmati, accompagnati dai loro figli e discendenti, coordinati dall’esule istriano Romano Cramer, assieme ad una delegazione dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, guidata dal Presidente Antonio Ballarin e dalla signora Eufemia Giuliana Budicin, del Comitato Provinciale di Roma dell’A.N.V.G.D. e addetta stampa della Mailing List Histria, ha atteso all’Angelus, con cristiana serenità e con tanta trepidante speranza, una Sua tanto desiderata benedizione assieme all’auspicato ricordo dei nostri corregionali eliminati nelle cavità carsiche (foibe) – tra il 1943 e il 1946 – in Istria, Trieste e Gorizia, a Fiume ed in Dalmazia (istituito nel 2004, il 10 febbraio 2014 è stato celebrato il “Giorno del Ricordo”)… Purtroppo abbiamo rivissuto la delusione già avuta nel 2000 quando, riuniti in Piazza San Pietro, in occasione del Giubileo, il Santo Padre Giovanni Paolo II, dopo aver salutato due gruppi di pellegrini, l’uno di sloveni e l’altro di croati, ha ignorato il nostro… Assieme a tutti i Cattolici anche noi esuli abbiamo accolto con entusiasmo e speranza l’ ascesa al soglio di San Pietro di Papa Francesco Bergoglio.
Certi di poter affidare le anime dei nostri morti alla preghiera di Sua Santità, e noi di poter contare sulla Sua parola di conforto, non demordiamo e chiediamo umilmente un gesto della Sua mano benedicente”.


Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it

 
MAILING LIST HISTRIA

RASSEGNA STAMPA SETTIMANALE

a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri

N. 907 – 22 Febbraio 2014
    
Sommario


96 – La Voce del Popolo 17/02/14 Attraverso l'esodo giuliano-dalmata si riflette il dramma di milioni di profughi (Ilaria Rocchi)
97 - L'Arena di Pola 17/02/14  Ricordare per risanare (Paolo Radivo)
98 - Alto Adige 17/02/14 Il  ”ricordo”  in un citta' di esuli (Paolo Campostrini)
99 - Avvenire 14/02/14 Lettera di Piero Tarticchio
100 - Il Giornale 18/02/14 Veneziani: Dalle colpe dei padri alle vergogne dei figli (Marcello Veneziani)
101 - Il Piccolo 11/02/14 Gorizia: Romoli: «Ci dicano dove sono i resti dei goriziani», la drammatica testimonianza dell'esule Vivoda (Marco Bisiach)
102 - Il Gazzettino 11/02/14 Orietta Politeo sovrintendente alla conservazione del cimitero di Zara: "Così mi prendo cura dei nostri morti"
103 – La Voce del Popolo  15/02/14  Cultura .  Fiume: «Magazzino 18» andrà in scena in Teatro (Ileana Rocchi)
104 – La Voce del Popolo  18/02/14 Cultura - Dramma umano che simboleggia le condizioni di tutti gli esuli (Ilaria Rocchi)
105 - Il Piccolo 18/02/14 Portoré: Fondi Ue per il restauro del castello di Frangipane (Andrea Marsanich)
106 – La Voce del Popolo  17/02/14 Isola Calva, il progetto stenta a decollare
107 - Il Piccolo 18/02/14 Serracchiani a Napolitano: «Onoriamo anche gli italiani caduti con la divisa austroungarica»
108 – La Voce di Romagna 04/02/14 Pepi e l'affondamento del CB 21 (Aldo Viroli)
109 – La Voce di Romagna 11/02/14 Giovanni Ruzzier: Prigioniero dell’Udba a 15 anni il ritorno di Trieste all’Italia il 26 ottobre 1954 (Aldo Viroli)

Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arenadipola.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.arcipelagoadriatico.it/


96 – La Voce del Popolo 17/02/14 Attraverso l'esodo giuliano-dalmata si riflette il dramma di milioni di profughi
Attraverso l’esodo giuliano-dalmata si riflette il dramma di milioni di profughi

Ilaria Rocchi
 
È febbraio. Ed era febbraio in quel lontano 1956, quando la piccola Marinella, profuga in fasce, moriva assiderata nel campo di Padriciano. E anche se oggi fuori, tutto sommato, non fa freddo, dentro, al Magazzino 18 nel Punto Franco Vecchio del Porto di Trieste, la punta del naso pizzica e il fiato gela. Dalla bocca di Piero Delbello, che parla e parla con foga, è come se si elevassero delle nubi, si materializzasse in un certo senso lo spirito del luogo che, in qualità di direttore dell’Istituto regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata, spiega ai visitatori. Ed è quasi come se acquistassero una qualche forma di vita implicita i volti senza nome e apparentemente senza storia degli esuli giuliano-dalmati, le cui fotografie sono appese all’ingresso, le loro cose misere e preziose al contempo, cose morte, dimenticate, polverose.

Grazie all’iniziativa dell’IRCI, quasi sessant’anni dopo la perdita della sorella Marinella, la signora Fiore Filipaz è potuta entrare in questo che è il luogo del ricordo per antonomasia della tragedia degli esuli giuliano-dalmati. E come lei tanti che quel dramma lo hanno vissuto in prima persona, oppure indirettamente, attraverso il racconto – spesso solo parziale, frammentario – di genitori, nonni, zii, parenti. Un giovane della Guardia di Finanza, dall’accento chiaramente del sud, accompagnato da un collega, ha voluto fare pure lui il tour al Magazzino 18, forse per recuperare alcuni rami delle sue radici “bumbare”, dei Delton.
La gente da quel luogo ne esce commossa, provata; fa un certo effetto completare il percorso: c’è chi ha le lacrime agli occhi, chi rimane ammutolito, chi bisbiglia sommessamente “Grazie, Piero”, chi addirittura dimentica di ritirare all’uscita i propri documenti. E sono ancora in tanti – oltre 1.500, in crescendo – in attesa di poter visitare questo “museo”, la cui apertura è stata prorogata ancora a questa settimana, e chissà (è la speranza) forse anche oltre... L’organizzazione è impeccabile, direttore e volontari dell’IRCI si preoccupano che tutto fili liscio, i gruppi vanno e vengono portati a destinazione da un pulmino-navetta dell’Autorità portuale.

Un serpente a più teste

Il percorso inizia dalla sala dei ritratti fotografici, singoli o di gruppo (come quell’dell’Associazione mutilati e invalidi di guerra 1915-1918, Sezione di Capodistria), i più coperti dal velo dell’anonimato, ma ricchi di messaggi. È una sorta di prologo. Dalla normalità si passa all’inizio dell’odissea, alle immagini di gente con la valigia in mano che lascia per sempre la propria terra. Come la giovanissima Egea Hefner, oggi in Alto Adige, figlia di un usciere della Prefettura di Fiume, portato via dai partigiani e mai più ritornato. Delbello disegna l’esodo come un serpente a “tre-quattro teste”.

La prima (anche se per la Dalmazia tutto era incominciato ancora molto addietro, a fine Ottocento e dopo la Prima guerra mondiale) è l’esodo che inizia all’indomani dell’Armistizio, con gli infoibamenti del settembre-ottobre 1943, 500 morti accertati, tra cui anche innocenti, come la giovane Norma Cossetto, violentata e straziata nel corpo da diciassette di partigiani titoisti, perché figlia di un proprietario terriero italiano di fede fascista. La seconda “testa” sono le partenze del maggio 1945, soprattutto da Fiume, all’arrivo dei partigiani e del loro insediamento al potere. Un’altra è quella del ‘47, dopo il Trattato di Pace di Parigi, che svuota le cittadine dell’Istria e anche la Pola operaia, che in un sistema come quello jugoslavo avrebbe dovuto sentirsi “nel paradiso socialista”; la quarta e l’ultima “testa” riguarda il ‘54, quando dopo il Memorandum di Londra se ne vanno migliaia di italiani dell’ex Zona B del Territorio Libero di Trieste.

Il dramma dello sradicamento

Il viaggio prosegue: gli esuli arrivano in Italia. L’accoglienza sarà glaciale, quella dei campi profughi – l’ultimo chiuso appena nel 1975 –, casermoni (e persino l’ex lager Risiera) in cui ricostruirsi un’esistenza normale, in condizioni al limite dell’umano, dentro recinti guardati a vista dalla polizia civile, tra stracci e giacigli di fortuna, con coperte come muri divisori... Ricominciare è difficile, c’è un marchio che pesa come un’onta, c’è la vergogna della miseria, la depressione e la certezza dell’identità  perduta... Molti finiscono in Argentina, Canada, Uruguay, Stati Uniti... lasciandosi per sempre alle spalle i resti di una vita. Con l’esodo si formano cataste di masserizie accumulate nei magazzini portuali, che verranno fatte confluire a Trieste, capitale morale dell’esodo.
La luce è fioca, si percorrono gli stretti corridoi del magazzino 18, corridoi e spazi immensi, con tonnellate di mobilio (letti, armadi, tavole, sedie, credenze, specchiere, cassapanche, bare, addirittura un gabinetto portatile...) attrezzi da lavoro, libri, quaderni di scuola, quadri, ritratti, fotografie, sacchi di carte e documenti personali, piatti, posate, bicchieri, stufe a legna o carbone e suppellettili di ogni tipo e valore, medicine, carretti, bilance, macchine per cucire. Si può ricostruire la vita domestica di molte famiglie: stanze, cucine, laboratori artigiani, negozi, una scuola.

La storia di milioni di profughi nel mondo

Su tutto si staccano le cataste di sedie. “La sedia è l’anima delle masserizie – spiega Delbello –, perché è l’oggetto che accompagna la vita di un uomo ed è quello che rappresenta il senso dell’esistere come essere umano. Sulla sedia ci si siede di mattina, appena svegliate, a pranzo, a cena, dà il senso della casa”. E per questo gli esuli si portarono dietro ciascuno la propria sedia.
Le masserizie nel 1978 erano destinate alla distruzione, ma dopo un ultimo appello prefettizio ai proprietari, vennero invece donate all’IRCI. Sistemate alla belle buona al Magazzino 22, quando questi venne demolito per far posto all’Adria Terminal – e sotto i colpi delle ruspe andò persa una parte degli oggetti – vennero prima portate al magazzino 26 e infine al Magazzino 18, qui ordinate per tipo dai volontari, allestendo una sembianza di percorso espositivo.
Forse è giunto il momento di raccogliere questi testimoni muti in un museo (magari il restaurato magazzino 26), una specie di Ellis Island che – a differenza del Civico Museo di via Torino 8, che raccoglie le tracce della cultura, della civiltà istriana, fiumana e dalmata – possa raccontare l’esodo, le fasi della permanenza nei campi profughi, questa pagina di storia italiana e al contempo di milioni di profughi di tutto il mondo senza nome, “costretti a lasciare la propria terra, per sfuggire alla povertà, all’odio, alla guerra”, come conclude Simone Cristicchi nel suo spettacolo sul Magazzino 18.

Intanto, è in preparazione un altro percorso guidato, stavolta a Padriciano: sarà un viaggio nella dura realtà dei campi di accoglienza. Prenotazioni all’IRCI.

Ilaria Rocchi



97 - L'Arena di Pola 17/02/14  Ricordare per risanare
Ricordare per risanare

Il decennale del Giorno del Ricordo ha suscitato in tutta Italia, ma anche all'estero, una marea di iniziative, riscontrando un'attenzione dei media e dell'opinione pubblica superiore al passato. Per la prima volta la cerimonia nazionale ha avuto luogo nell'aula del Senato, invece che al Quirinale. Tale soluzione ha consentito una maggiore affluenza di pubblico in una cornice altrettanto prestigiosa e suggestiva. Erano presenti le massime autorità istituzionali assieme alle delegazioni dei sodalizi degli Esuli e ai vincitori del concorso scolastico frutto del Gruppo di lavoro istituito al Ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca. Non dunque un declassamento, un passo indietro, un disimpegno, bensì un rilancio. Del resto era logico che fosse uno dei due rami del Parlamento, la “Camera alta”, a celebrare solennemente i dieci anni di una legge, la 92/2004, che ha senza dubbio costituito una svolta.
Il Presidente Pietro Grasso, seconda carica dello Stato, ha svolto la sua funzione cerimoniale non solo con grande impegno, ma anche con sincero coinvolgimento emotivo, tanto da aggiungere poi una visita a Trieste, ovvero alla città rimasta italiana che conobbe direttamente le tragedie di 70 anni or sono, per un triplice omaggio alla Foiba di Basovizza, in Prefettura e in Municipio. Le allocuzioni di Grasso e delle altre autorità sia a Roma sia a Trieste si sono rivelate tutt'altro che di circostanza e hanno confermato che con il Giorno del Ricordo la Repubblica Italiana sta davvero reintegrando gli Italiani d'Istria, Fiume e Dalmazia nel corpo sociale della Nazione e che ne sta facendo conoscere storia e caratteristiche a tutti gli altri connazionali, dopo decenni di autentico ripudio.
E' un'opera di lungo periodo che, come ha rilevato Grasso, non può certo compiersi il solo 10 febbraio, ma va estesa a tutto l'anno. Ed ha una valenza duplice: se da un lato fa sentire agli Esuli che la loro Patria non li rinnega più, dall'altro restituisce a tutti gli Italiani il senso di essere Nazione nel riconoscere questi loro confratelli troppo a lungo rinnegati. Insomma: la parte si riconosce nel tutto e il tutto si riscopre nel ritrovare una sua parte dimenticata.
La lettura dei discorsi istituzionali riportati alle pagine 2 e 4 crediamo risulterà confortante per chi ha sofferto l'oblio forse più ancora dell'esilio stesso. Le pagine 5 e 16 forniscono inoltre solo un piccolo assaggio dell'impressionante mole di manifestazioni che hanno connotato questo Giorno del Ricordo davvero particolare. Per mancanza di spazio non abbiamo potuto citarne che alcune, ripromettendoci di informare su altre nel prossimo numero, consapevoli che dar conto di tutte sarà impossibile. Amministrazioni di ogni latitudine e colore politico, insieme ai sodalizi degli Esuli e ad organismi della società civile, hanno celebrato questa solennità civile di tutta la Nazione con più solennità e minore imbarazzo del solito. E finalmente ciò è avvenuto anche in Istria.

La pagina 3 evidenzia poi l'inedito interesse dimostrato dalle tv (ma anche da radio e giornali, per tacere di Internet), nonché la maggiore accuratezza dei servizi giornalistici, senza più indulgenze verso giustificazionisti e minimalisti. A non pochi ascoltatori è giunto così il messaggio che gli Infoibati non erano criminali di guerra, ma vittime di un regime rivoluzionario teso a sbarazzarsi di tutti i suoi potenziali oppositori, e che gli esuli non erano fascisti in fuga dalla giustizia popolare o dal paradiso dei lavoratori, ma cittadini italiani di vario orientamento politico costretti ad abbandonare la propria Piccola Patria per rimanere tali.

Un Giorno del Ricordo così sentito e solenne non poteva che suscitare il disappunto di pochi residui fanatici, che hanno sfogato la loro intolleranza non solo contro alcuni simboli gremita durante la cerimonia  memoriali, ma anche contro Simone Cristicchi, che da mesi si sta esponendo come forse nessun altro mai a favore della causa giuliano-dalmata con spirito umanitario. Il guaio per questi bellicosi ultra-comunisti è che lo sta facendo con grande successo e persuasività presso un vasto pubblico, venendo a ragione identificato come il Redentore degli Esuli. Da ciò gli insulti e le minacce, che però squalificano solo i responsabili e confermano che il cantante-attore-scrittore ha davvero colpito nel segno. Le note stonate, in un'Italia che sta appena cominciando a metabolizzare la questione giuliano-dalmata, non potevano dunque mancare. Ma non sono state numerose, a fronte delle tante intonate, e hanno spesso ricevuto la condanna delle autorità come pure di alcuni media.

Altamente apprezzabile ci è parsa la nota dalla Presidente della Camera Laura Boldrini, eletta nelle liste di Sinistra Ecologia e Libertà: «Con questa giornata le istituzioni compiono un atto riparatore perché quell'orrore è stato per troppo tempo rimosso e perfino negato. Migliaia di italiani vennero privati dei loro diritti, dei loro beni e della loro stessa vita. Tanti furono costretti a fuggire. A loro va la nostra gratitudine. Ricordare è essenziale affinché non si ricada più nella spirale dell'odio e della violenza». Ammirevole anche la dichiarazione della deputata Tamara Blazina, appartenente alla minoranza slovena ed ex comunista: «Nulla di ciò che accadde al confine orientale può essere giustificato: né la repressione di sloveni e croati da parte del fascismo, né la violenza subita dalla comunità italiana con l'uccisione di tanti cittadini innocenti; né soprattutto può avere giustificazione il drammatico e forzato esodo di gran parte della comunità italiana».
Nell'esprimere soddisfazione per l'esito complessivamente fruttuoso di questo Giorno del Ricordo, non ci vogliamo tuttavia nascondere le questioni ancora aperte. Bene ha fatto il rappresentante delle associazioni degli Esuli Antonio Ballarin a ricordare a Palazzo Madama che lo Stato italiano ha ancora un conto in sospeso con molti Esuli: quello delle loro proprietà arbitrariamente sottratte da Tito e poi usate da Roma per completare in natura il pagamento dei danni di guerra alla Jugoslavia. Se il promesso indennizzo equo e definitivo suona ormai come una chimera, non dovrebbe essere difficile per il Governo italiano, in un clima di relazioni mai così buone con Croazia e Slovenia, ottenere la restituzione dei 679 beni in libera disponibilità previsti da un accordo del 1983 e aprire anche ai cittadini italiani esclusi dai trattati la possibilità di beneficiare delle leggi croate e slovene sulla restituzione dei beni espropriati in epoca jugoslava.

Ma di questioni insolute ve ne sono anche altre: si pensi solo ai persistenti “errori” di carattere anagrafico o al mancato riconoscimento dei lavori forzati cui furono costretti non pochi istriano-fiumano-dalmati sotto il tallone jugoslavo. E c'è altresì l'esigenza strategica di far sopravvivere la cultura istriano-fiumano-dalmata di lingua italiana non solo fra le comunità degli Esuli e dei loro discendenti, ma anche nell'Adriatico orientale, dove è stata ridotta ai minimi termini.
L'auspicio è che il Giorno del Ricordo appena trascorso stimoli la risoluzione anche di queste problematiche, abbia cioè una valenza risarcitoria, terapeutica, volta a risanare le ferite. Resta insomma ancora molto da fare, ma i progressi compiuti ci incoraggiano a proseguire con serenità.

Paolo Radivo



98 - Alto Adige 17/02/14 Il  ”ricordo”  in un citta' di esuli
IL «RICORDO» IN UNA CITTÀ DI ESULI
Paolo Campostrini
In fondo, siamo una città di esuli. Non ci sono solo i Benussi, fuggiti da Fiume, o Salghetti, un dalmata. Tutti sono stati cacciati da qualcosa. Durnwalder ha detto di sentirsi austriaco, anche lui vive lo strappo di tanti sudtirolesi. Il fondatore della Svp, Friedl Volgger, era un optante, ma optare voleva dire comunque dividersi in due e lasciare altrove una parte di sé. Nove decimi degli italiani hanno le tombe di famiglia lontane, di nonni o padri. Mezza Bolzano è andata, tornata, fuggita, restata, avanti e indietro dai confini. Per questo la "giornata del ricordo" in memoria dei martiri delle foibe e dei profughi istriani, di qualche giorno fa, merita una riflessione.
Per due ragioni. La prima. Non viene più nascosta. Non è più una commemorazione di destra, di chi sventola il Tricolore come un bastone. Così come il muro del Lager non è più un altare della sinistra. Le tragedie vanno e vengono e i responsabili hanno sempre facce diverse. Bolzano ha capito che è inutile dividerle per colore, meglio tenerle insieme e trovare le comuni radici nel dolore chi è rimasto, nel ricordo degli scomparsi e nel rifiuto di guerre e dittature. Questo è stato importante in generale, ma lo è stato per Bolzano in particolare. Anche la giornata in memoria della Shoah ha avuto un significato simile. Ma questa, del ricordo, tocca molto da vicino la comunità italiana, che tra Trento, Trieste, Fiume, lingue da difendere ha spesso trovato nelle ingiustizie vissute sul confine orientale un modo per guardare a questo confine abbastanza di sbieco. E' stata una giornata vissuta in comune, con le stesse facce di chi aveva commemorato poco tempo prima l'immane disgrazia del Lager e del nazifascismo. La seconda ragione è più trasversale. E tocca tutti. Italiani e tedeschi. Non si dovrebbe mai smettere di riflettere su quanto è sottile il tratto di strada che divide la pace (pur malsopportata) dalla guerra. Quanto avrebbe potuto essere simile la sorte del Brennero e dell'Alto Adige a quella del confine italo-sloveno. Sarebbe bastato un niente. Uno spostamento di qualche chilometro nello scacchiere strategico negli ultimi anni di guerra, un cambiamento d'umore dei vincitori, un voto di troppo o di meno nel corso delle trattative di pace. E allora chi sarebbe rimasto di qua? O di là? I tedeschi o gli italiani? Oppure : una bomba di troppo negli anni bui, o una repressione brutale e l'Alto Adige poteva balcanizzarsi. Il giorno del ricordo ci aiuta, infine, anche a relativizzare. Le opzioni? Un dramma. E le foibe? E 400 mila italiani senza più una casa, via dai loro campi, dalle loro proprietà secolari? C'è sempre un modo peggiore di stare al mondo. In conclusione. Questo "giorno" può suggerirci una considerazione. Non sarebbe male accettare una volta per tutte di non essere una città come le altre. Bolzano non è mai stata etnicamente pura, è sempre stata sospesa tra il voler essere qualcosa di diverso e il timore di non farcela. E' una città esule. Come fosse alla ricerca di una patria senza se e senza ma e non la trovasse mai. Anche l'autonomia, vista coi tempi lunghi, potrebbe costituire un modo per definire una diversità, uno stato di perenne, ma strutturata, precarietà. A pensarci, non è un brutto stare: costringe a essere vigili, leggeri, a non fermarsi sugli allori  e a guardare le cose in un modo diverso. Esuli ma non più in fuga.       



99 - Avvenire 14/02/14 Lettera di Piero Tarticchio

Lettera di Piero Tarticchio

Caro direttore,
Sono un testimone dell’immane tragedia che si abbatté sulla Venezia Giulia e sulla Dalmazia all’arrivo delle bande slavo comuniste di Tito nel 1943 e nel 1945.
Nella mia famiglia sette familiari, a cominciare da mio padre sono stati infoibati con la sola accusa di essere italiani. La Giornata del Ricordo di quest’anno (anche per merito di Avvenire, che tra tutti i giornali italiani ha dato maggior risalto alle nostre storie) ha visto più attenzione da parte dei media. Peccato che il Sindaco di Milano Giuliano Pisapia non si sia presentato alla cerimonia ufficiale tenuta il 10 febbraio presso il cippo di Largo Martiri delle foibe mandando a dire, da un suo rappresentante, che proprio non ce la faceva venire perché non aveva tempo.
In quella occasione io ho preso la parola a nome di tutti gli esuli giuliano dalmati soffermandomi sulle ingiurie deliranti a noi rivolte della frangia più estrema della sinistra Italiana, quest’anno affiancata anche dai Centri sociali, la quale continua a perseguire un programma di disinformazione ritornando su vecchie tesi negazioniste, ormai abbandonate da trent’anni.
Il 10 febbraio, un Consigliere di Rifondazione comunista della zona 9 di Milano, “sinistra per Pisapia”, tale Leonardo Cribio di anni 29, ha scritto su Facebook la frase farneticante “… nelle foibe c’è ancora posto”. Dopo essersi scusato Cribio ha rincarato la dose dicendo “… quattro fascistelli mi hanno fatto togliere il post solo perché ho detto la verità sulle foibe”. Duole sapere che Pisapia si sia limitato a un semplice biasimo nei confronti del suo rappresentante di zona 9. Se le stesse parole fossero state rivolte agli ebrei nei giorni della Shoa sostituendo le foibe con i forni crematori sarebbe scoppiato uno scandalo nazionale.

Piero Tarticchio
Nessun titolo accademico ma solo esule istriano, figlio di un infoibato
    





100 - Il Giornale 18/02/14 Veneziani: Dalle colpe dei padri alle vergogne dei figli
Dalle colpe dei padri alle vergogne dei figli

di Marcello Veneziani

I ragazzi stanno uscendo dal liceo classico «Colletta» di Avellino e Antonio Sicuranza, magistrato, è in auto in attesa che esca suo figlio Michele, terzo liceo. Vede assembrarsi un capannello
di ragazzi intorno a suo figlio.

Aria minacciosa e sguardi truci, suo figlio impassibile, quando un ragazzo spalleggiato da altri due gli molla un ceffone in pieno viso. Il magistrato scende dall`auto, chiede spiegazioni ma l`autore della bravata gli dice che non si deve intromettere perché «quello» non deve parlare. «Ah sì... e
perché non deve?». Risposta secca: «Perché è un fascista e già altre vo lte si è permesso di commentare con le sue idee da fascista, cosa che non deve fare».

L`insolenza di Michele è di aver letto in bacheca l`orrenda frase «nelle foibe c`è ancora posto» e di aver commentato con un post: «Ho i brividi».

Il magistrato obietta all`aggressore che un conto sono le idee, un altro alzare le mani, aggiungendo che «quel fascista» era suo figlio. La risposta è secca: «E non vi vergognate di avere un figlio così?».

L`altra settimana bisognava vergognarsi dei propri padri, ora la vergogna si sposta sui propri figli. Bella semina.

Il magistrato mi ha scritto precisando il nome dell`autore della sciagurata frase sulle foibe, l`aggressore è suo fratello. Ometto i nomi, di famiglia-bene, per non alimentare spirali
di intolleranza. Ma se fossero i due fratelli a doversi vergognare a vicenda?
Piccola cronaca, come tanti casi analoghi, da un Paese che perde tutto - lavoro, fiducia, ideali, amore – meno l`odio.








101 - Il Piccolo 11/02/14 Gorizia: Romoli: «Ci dicano dove sono i resti dei goriziani», la drammatica testimonianza dell'esule Vivoda
Romoli: «Ci dicano dove sono i resti dei goriziani»
L’appello del sindaco alla cerimonia dell’Anvgd in occasione del Giorno del ricordo. Consegnati dal prefetto Zappalorto i riconoscimenti ai parenti delle vittime.
 La drammatica testimonianza dell’esule Vivoda
di Marco Bisiach
 «Dobbiamo fare il possibile per sapere ancora dove sono stati infoibati i nostri concittadini e i nostri cari, per poter avere un luogo dove portare un fiori». Così, con un auspicio per il futuro, il sindaco di Gorizia Ettore Romoli ha chiuso ieri sera il suo intervento alla cerimonia per il Giorno del Ricordo che si è svolta alla Fondazione Carigo di via Carducci, a Gorizia. Un intervento nel quale il sindaco si è detto onorato di aver fatto parte del Parlamento che votò per l'istituzione di questa giornata tanto significativa.
All'incontro organizzato come ogni anno dall'Anvgd hanno preso parte tutte le autorità civili e militari della città e al microfono si sono alternati per un saluto e un intervento la presidente goriziana dell'Anvgd Maria Grazia Ziberna, il presidente nazionale Rodolfo Ziberna – che ha ricordato come ancora oggi sui libri di scuola la storia delle foibe e dell'esodo non trovi adeguato spazio – e il presidente della Lega Nazionale di Gorizia, Luca Urizio.
Poi il prefetto Vittorio Zappalorto ha consegnato i riconoscimenti ai discendenti delle vittime delle foibe: gli insigniti di quest'anno sono stati Valentino Andaloro, in memoria del nonno Giuseppe, carabiniere catturato dai partigiani e presumibilmente infoibato a Tarnova, Chiara Bregant in memoria del nonno Ciro Di Pietro, guardia carceraria deportata in Jugoslavia e mai più tornata, e Giannetto Solinas, in memoria del padre Giovanni, militare prelevato dai titini a Gorizia e infoibato a Comeno.
Ma uno dei momenti più toccanti della cerimonia è stato senz'altro l'intervento dello storico e giornalista Lino Vivoda, esule di Pola che ha ricordato il dramma di quegli anni vissuto sulla sua pelle. Da quel giorno del 1943 in cui sono iniziati i rastrellamenti dei tedeschi (ai quali scampò per un pelo), alla strage di Vergarolla che costo la vita, tra i tanti, al suo fratellino di soli otto anni. «E poi l'odissea dell'esodo, con l'interminabile viaggio che mi ha portato a La Spezia, dove ho vissuto per otto anni nel campo profughi che, infine, sono riuscito a far chiudere dopo sedici anni. Dal ’92 mi impegno per riallacciare i rapporti tra gli esuli e coloro che sono rimasti a Pola e parlo spesso nelle scuole, dicendo ai giovani quanto è assurda la guerra e quanto sono fortunati a vivere in quest'Europa che avrà anche tante contraddizioni, ma non ha più confini».
La serata si è chiusa con la proiezione di alcuni filmati sull'esodo e le foibe dell'Istituto Luce, mentre il pomeriggio si era aperto con due cerimonie ufficiali: prima, alle 16.30, il questore Piovesana ha deposto una corona d'alloro ai piedi della lapide collocata in Questura e dedicata agli agenti deportati e trucidati nel maggio 1945, poi alle 16.45 tutte le autorità cittadine hanno reso omaggio al monumento di Largo Martiri delle Foibe.


102 - Il Gazzettino 11/02/14 Orietta Politeo sovrintendente alla conservazione del cimitero di Zara: "Così mi prendo cura dei nostri morti"
LA STORIA Orietta Politeo sovrintende alla conservazione del cimitero di Zara
«Così mi prendo cura dei nostri morti»

Orietta Politeo è nata a Zara, ma risiede a Padova da oltre 60 anni. «Da bambina, insieme con i miei familiari, ho affrontato molte difficoltà e ho conosciuto la tristezza di abbandonare la mia terra, il mio mare, la mia città. Da Zara, insieme ad altre famiglie di italiani, siamo scappati con poche valigie, per arrivare in un piccolo paese della provincia di Feltre. Da profughi, abbiamo risieduto in diverse località del Veneto, fino a stabilirci a Padova». Il legame tra le famiglie degli esuli è rimasto molto forte e, per tener viva la memoria delle loro tristi vicende, si sono riunite in sodalizi. Orietta Politeo è segretaria dell'Associazione Dalmati Italiani nel mondo, presieduta da Franco Luxardo, e presidente del "Madrinato Dalmatico per la conservazione del cimitero degli italiani di Zara", cimitero che per bellezze artistiche e monumentali è il secondo dell'attuale Croazia. Con le sue tombe salvate, restaurate e conservate è una piccola parte del più vasto cimitero di Zara, ma storicamente la più antica e importante perché documenta la storia della città. «Ogni anno, il 2 novembre, per la commemorazione dei defunti, il Madrinato Dalmatico organizza un pellegrinaggio a Zara dove, oltre alla visita al cimitero, viene officiata una messa in lingua italiana, in ricordo di tutti gli innocenti che morirono nei tragici momenti della guerra e di tutti i nostri concittadini che dormono il sonno eterno a Zara e nei cimiteri sparsi in tutto il mondo».














103 – La Voce del Popolo  15/02/14  Cultura .  Fiume: «Magazzino 18» andrà in scena in Teatro
Fiume: «Magazzino 18» andrà in scena in Teatro

Ileana Rocchi

Sarà proposto sul grande palcoscenico del Teatro nazionale croato “Ivan de Zajc” di Fiume (ex Teatro comunale “Giuseppe Verdi”) lo spettacolo “Magazzino 18”, scritto dal cantautore romano Simone Cristicchi insieme con il giornalista Jan Bernas, interpretato dal cantautore, diretto da Antonio Calenda e prodotto dal Teatro Stabile del Friuli e Venezia Giulia e da Promo Music.

Il cambio di sede – inizialmente era previsto che andasse in scena alla Casa croata di cultura (HKD) di Sušak – ci è stato confermato ieri da Laura Marchig, direttrice del Dramma Italiano del TNC “Zajc”, che organizza la trasferta fiumana in collaborazione con l’Unione Italiana, l’Università Popolare di Trieste e la Comunità degli Italiani di Fiume.
Si modifica anche la data dell’evento, ossia da 15 viene spostata a domenica 16 marzo, alle ore 19.30.
Previsti anche i sottotioli in lingua croata.
Intanto il 19 febbraio nel capoluogo giuliano la prof.ssa Cristina Benussi, dell’Università di Trieste, presenterà il libro “Magazzino 18. Storie di italiani esuli d’Istria, Fiume e Dalmazia” (Arnoldo Mondadori Editore). L’evento è organizzato in collaborazione con L’Università degli Studi di Trieste, l’Università Popolare di Trieste e Starhotels Savoia Excelsior Palace, e si terrà presso quest’ultimo alle ore 19.
L’opera, 158 pagine, propone un percorso storico-emotivo sulle drammatiche vicende giuliano-dalmate del ’900, partendo da montagne di sedie aggrovigliate come ragni di legno, legioni di armadi, testiere di letti, utensili, lettere, fotografie, pagelle, diari, reti da pesca, pianoforti muti, martelli ammucchiati su scaffalature imbarcate dall’umidità e innumerevoli altri oggetti d’uso quotidiano che riposano nel Magazzino 18 del Porto Vecchio di Trieste. Oltre sessant’anni fa tutte queste masserizie furono consegnate al Servizio Esodo dai legittimi proprietari, gli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, un attimo prima di trasformarsi in esuli.
Cristicchi le ha fatte uscire da questo luogo dimenticato, spalancando le sue porte per portare sotto i riflettori questa immensa tragedia a molti sconosciuta, eppure a portata di mano e soprattutto abbondantemente documentata. Anche delle testimonianze mute delle masserizie, che parlano eccome, provocando lacrime di commozione in chi le vede, come attestato nelle reazioni di chi esce dal Magazzino 18, aperto a visite ancora la prossima settimana. L’interesse è enorme: in lista d’attesa oltre 1.500 prenotazioni e l’elenco si allunga di giorno in giorno.
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104 – La Voce del Popolo  18/02/14 Cultura - Dramma umano che simboleggia le condizioni di tutti gli esuli
Dramma umano che simboleggia le condizioni di tutti gli esuli

Ilaria Rocchi

In principio fu una sedia, anzi una catasta di sedie, quelle ammassate in un luogo abbandonato e (quasi)dimenticato da tutti: il magazzino 18, quello delle masserizie degli esuli giuliano-dalmati. Parte da questi oggetti così comuni, quotidiani, eppure ricchi di simbolismo, il viaggio conoscitivo di Simone Cristicchi nella complessa vicenda del confine orientale d’Italia, in particolare della drammatica pagina delle foibe e dell’esodo.

Il cantautore, lontano dalla pretesa di raccontare la storia, tutta la storia nelle sue molteplici sfaccettature, ha trasformato in uno spettacolo le sue impressioni, le emozioni provate di fronte alle masserizie, le sue riflessioni sulle miserie umane. E soprattutto prendere coscienza e ricordare, con serenità e con un messaggio di pace una delle tragedie del ’900.

E mentre a grande richiesta (nonostante certe contestazioni) calca le scene dei teatri italiani con il suo monodramma, esce il libro “Magazzino 18. Storie di italiani esuli d’Istria, Fiume e Dalmazia” (Arnoldo Mondadori Editore, Collana Strade blu, pagine 158, disponibile anche in e-book), scritto con Jan Bernas, curato da Simona Orlando, con prefazione di Gian Antonio Sella.

Il volume verrà presentato domani all’Hotel Savoia di Trieste (ore 19), dal critico e storico letterario Cristina Benussi, professore ordinario di Letteratura italiana dell’Università degli Studi di Trieste. Ci sarà pure Simone Cristicchi, come annuncia dalla sua pagina Facebook, e insieme con lui l’attrice Maria Grazia Plos e il direttore dell’Istituto regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata, Piero Delbello.

L’evento è organizzato in collaborazione con L’Università degli Studi di Trieste, l’Università Popolare di Trieste e Starhotels Savoia Excelsior Palace. Apprendiamo ufficiosamente che Cristicchi verrà ricevuto il 20 febbraio dal sindaco di Fiume (lo spettacolo verrà proposto al Teatro “Ivan de Zajc” il 16 marzo).

Passiamo al libro. “Archiviata”, ma solo dopo aver deglutito (a fatica) il groppo-groviglio di sentimenti suscitato dalla sua pièce, vediamo che effetto fanno le pagine scritte. Sono tanti capitoletti che, sostanzialmente, ripercorrono il “musical-sociale”, l’odissea di un archivista un po’ burino, Duilio Persichetti, impersonato dallo stesso Cristicchi, alle prese con masserizie e sorci e con una storia che lui, come milioni di italiani, fino ad allora ignorava.

Una storia che pare ’na matrioska

Una storia che “pare ’na matrioska”, conclude Persichetti:

“C’erano ’na volta un inglese, un americano, e uno jugoslavo. No, nun è ’na barzelletta Dottò, anche se inizia e finisce uguale. Senta qui, lo racconta un tale Arrigo Petacco. Questi tre, l’inglese, l’americano, e lo jugoslavo, erano ingegneri che facevano le misurazioni. Stavano lì, carcolavano e contestavano. Er sergente americano diceva ’na cosa e l’ufficiale slavo je piantava la grana. Contava pure i fili d’erba, i centimetri de corteccia. Dieci metri alla Jugoslavia, quattro all’Italia. E i contadini de quella terra, poveracci, stavano cor core in gola. Era successo che pe’ risolve la questione triestina, er 5 ottobre 1954, a Londra i governi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia e Jugoslavia avevano firmato il memorandum d’intesa: dal 26 ottobre il Territorio Libero di Trieste sarebbe stato diviso in due zone: la A, italiana, la B jugoslava. La A e la B, come la metro a Roma, no? Ma la stazione Termini ‘ndo stava? Ossia, la linea precisa di demarcazione qual era? Ai governi nun je cambiava granché, invece un metro in più o meno ai contadini je scombinava la vita. Quelli che avevano capito l’antifona se sbrigarono a tajà er grano anzitempo, fecero la vendemmia co’ l’uva acerba. Ma poi capitò peggio: ar Sor Umberto, che un anno prima s’era indebitato pe’ comprà lo chalet La Caravella, je la portarono via. La casa de Luca fu tagliata a metà: cucina e camera da letto in Italia, salotto e magazzino in Jugoslavia. Ar vicino je spettò la casa in Italia, ma er pollaio oltreconfine. Ce fu pure qualche miracolato: ’na famiglia che stava a finì er trasloco perché la casa era finita alla Jugoslavia, all’ultimo seppe che l’esperti s’erano sbajati de venti metri e ritornarono a casa, in Italia. Er sor Giovanni, che faceva l’agricoltore, a un certo punto non ce la fece più e tirò arrabbiato er cappello contro l’ufficiale jugoslavo: ‘E adesso come faccio? C’ho la casa in zona A e il podere in zona B!’.

Er villaggio di Chiampore fu diviso esattamente a metà. All’Italia rimasero la chiesa, la scuola e poche case. Dall’altra parte, le case, senza scuola e chiesa. In totale all’Italia furono strappate 27 borgate, 2.941 persone. L’hanno chiamata ‘Operazione Giardinaggio’.”

Tragedia in cinquanta sequenze

L’autore ovviamente sintetizza e semplifica – ma senza sconti per nessuno –, alle volte senza ripettare nella narrazione la cronologia dei fatti, per inquadrare le varie sequenze. E questo è il libro, fotogrammi di tragedie, in tutto quasi cinquanta.

Si parte da lontano, dal ’42-’43, con i crimini commessi dai fascisti e dai nazisti, le vittime del campo d’internamento di Campora, sull’isola di Arbe, e quelle della Risiera di San Sabba, unico lager in Italia provvisto di forno crematorio. Un’ondata di violenza, con i primi infoibamenti, all’indomani dell’Armistizio, la fine cruenta di Norma Cossetto e di tanti altri uomini finiti “nella buca”. Due momenti delle esecuzioni sommarie attuate dai partigiani jugoslavi, quello dell’Istria del settembre ’43 e quello degli arresti del maggio ’45: vendette verso i fascisti e vecchi rancori? Si parla del fascismo, che si rese colpevole di violenze antislave (citati l’incendio del Narodni Dom del 1920, il cambiamento forzato dei cognomi e dei toponimi, l’impedimento di parlare nella propria lingua, l’invasione della Jugoslavia nel 1941, i campi di internamento per civili), da cui l’equazione “italiano = fascista”.

Ma quando cominciano a sparire anche carabinieri, podestà, guardie forestali, farmacisti, maestri, postini, impiegati statali, sacerdoti, donne e gente che con la politica non c’entrava niente, persino antifascisti e comunisti, è chiaro, conclude Cristicchi, che c’è anche qualcos’altro di mezzo. L’epurazione di quanti potevano ostacolare il sogno di Tito di realizzare una sola grande regione, una grande Jugoslavia.

Ecco allora la fuga per mettersi in salvo, la partenza dall’Istria e la miseria dei campi profughi, l’ultimo chiuso a metà anni Settanta. Gente sradicata. Alcuni però fecero fortuna: Sergio Endrigo, Nino Benvenuti, Abdon Pamich, Mario Andretti, Ottavio Missoni, Uto Ughi, Laura Antonelli, Fulvio Tomizza, Enzo Bettiza e Alida Valli, che però viveva a Roma già prima della guerra.

Non si dimenticano i “rimasti”, il contro-esodo, il gulag dell’isola di Goli Otok... Alla fine Persichetti archivia tutto, tranne una pratica, una pratica “che vale pe’ trecentomila”; una pratica che vorebbe riassumere le tragedie degli esodi, di tutti gli esodi.

“Io non ho un nome, ma potrei averne trentamila. Come gli italiani che ancora oggi vivono in Istria, a Pola e a Fiume. Io non ho un nome, ma potrei averne milioni. Come i profughi di tutto il mondo, costretti a lasciare la propria terra, per sfuggire alla poverà, all’odio, alla guerra”, finisce il libro. L’importante è non negare, non relativizzare, non pesare gli orrori, il sangue versato. E non dimenticare. Soprattutto insegnare agli italiani che Pula è Pola, Novigrad è Cittanova, Rijeka è Fiume e via di seguito, e ciò fin dai tempi più remoti.

Ilaria Rocchi





105 - Il Piccolo 18/02/14 Portoré: Fondi Ue per il restauro del castello di Frangipane
PORTORÉ

Fondi Ue per il restauro del castello di Frangipane

  di Andrea Marsanich

VEGLIA Denaro europeo per la salvaguardia di due monumenti storici nella Regione del Quarnero, il castello dei Francopani o Frangipane di Portorè (Kraljevica) e la Torre austriaca posizionata nel maniero dei Francopani di Veglia città. I mezzi stanziati grazie al progetto Hera, nell’ambito della collaborazione transfrontaliera adriatica (IPA Adriatic CBC), ammontano a 8 milioni e 800 mila euro, di cui 473 mila euro a fondo perduto saranno destinati alla Contea litoraneo–montana, che ha Fiume per capoluogo. Questa somma costituirà, così da Palazzo regionale a Fiume, l’85 per cento dei mezzi complessivi da investire nel restauro dei due castelli che anche i turisti stranieri, soprattutto gli italiani, conoscono bene. A Portorè i visitatori potranno beneficiare di una mappa virtuale, che li porterà a conoscere tutti i castelli dei Francopani presenti nella regione quarnerina, come pure la storia di questa nobile e potente famiglia romana, stanziatasi probabilmente nel XII secolo nelle regioni orientale dell’Adriatico. Per quanto concerne la rocca vegliota, questa fu costruita a partire dal 12esimo secolo quale difesa dell’antica città, con i lavori che andarono avanti – ristrutturazioni comprese – per tre secoli ancora. La torre austriaca si trova nella parte sudorientale del complesso ed ha probabilmente preso questo nome in base all’ultimo restauro, portato a compimento ai tempi dell’Impero austroungarico. Data la sua posizione, viene ritenuta una specie di garitta di vedetta. La sua parte superiore comprende una finestrella romanica da cui si osserva il mare, mentre sul lato ovest c’è una porta murata che anticamente consentiva alla guardie e ai soldati l’accesso ai bastioni. Il maniero appartiene alla Diocesi di Veglia e solo in tempi recenti è stato finalmente aperto ai visitatori. Secondo gli addetti ai lavori, questo complesso offre notevoli opportunità turistiche, finora scarsamente sfruttate.



106 – La Voce del Popolo 17/02/14 Isola Calva, il progetto stenta a decollare
Isola Calva, il progetto stenta a decollare

ZAGABRIA | Ancora un nulla di fatto per il progetto “Luogo del ricordo Goli Otok/Isola Calva”. Neanche quest’anno riuscirà a prendere il via anche se sono ne sono passati ormai otto da quando la Commissione parlamentare per i diritti dell’uomo e delle minoranze ha avviato questa importante iniziativa. Mentre dal ministero della Cultura fanno sapere che mancano i fondi, dall’associazione degli ex internati dell’Isola Calva, “Ante Zemljar”, dicono che se il dicastero non è disposto a finanziare il progetto, allora sono pronti loro ad avviare una propria raccolta fondi. Il ministero ha fatto sapere che nel loro piano economico di quest’anno non vi è la voce relativa alla Legge che darebbe vita al “Luogo del ricordo Isola Calva”, anche perché di simili progetti devono prendersi cura le amministrazioni locali. La Commissione parlamentare per i diritti dell’uomo e delle etnie ha invitato così il governo a inviare con urgenza al Sabor la proposta di legge, ricordando che finora sono state avviate tutte le procedure necessarie per avviare l’iniziativa. La storia nasce nel 2005 quando l’associazione “Ante Zemljar” si è rivolta alla Commissione per proporre l’iniziativa concordata poi dal Consiglio direttivo della Commissione, dai rappresentanti della Città di Arbe, da quelli della Regione Litoraneo-Montana, dall’Associazione degli architetti della Croazia, dallo studio UP di Zagabria e dal Centro multimediale di Fiume, con l’appoggio della Società croata dei detenuti politici.

Il presidente della Commissione Furio Radin ha dichiarato che questo organismo ormai da tre mandati esorta invano il governo a risolvere la questione dell’Isola Calva:

 “Le vittime meritano un degno ricordo”, ha detto Radin, sottolineando che non manca la volontà politica per risolvere la questione. “Nell’ambito della Commissione in tutti e tre i mandati non è mai stato messo in dubbio il progetto del Luogo del ricordo sull’Isola Calva”, ha evidenziato il parlamentare della CNI. I membri della Commissione sottolineano di essere perfettamente coscienti della dura crisi economica che attanaglia la società, ma ricordano che in questo caso, fin dall’inizio si è cercato di trovare una soluzione all’interno delle istituzioni museali e delle altre istituzioni competenti, statali e comunali. A detta dei deputati, l’investimento economico potrebbe essere coperto attraverso la valorizzazione turistica del progetto.










107 - Il Piccolo 18/02/14 Serracchiani a Napolitano: «Onoriamo anche gli italiani caduti con la divisa austroungarica»

Serracchiani a Napolitano: «Onoriamo anche gli italiani caduti con la divisa austroungarica»

Lettera della governatrice del Fvg al presidente della Repubblica Napolitano: «Importante trovare in occasione del centenario della Grande Guerra quella lista perduta a Roma: solo così la riappacificazione sarà completa»

In una lettera indirizzata al presidente della Repubblica, la governatrice del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, ha chiesto l’interessamento di Giorgio Napolitano per rendere accessibile «lo schedario degli italiani delle nuove Province», ovvero l’elenco di quei militari di etnìa italiana che nella Prima Guerra Mondiale hanno combattuto nelle file dell’esercito austroungarico, perdendo la vita.

La presidente nella sua lettera ha sottolineato la «ferma volontà di onorare la memoria di tutti i caduti della Grande Guerra, a prescindere da quale fosse all’epoca la loro divisa o la loro nazionalità». L’elenco dei soldati di etnìa italiana che morirono indossando la divisa dell’esercito austroungarico è ancora largamente incompleto. Pertanto, secondo Serracchiani, «per ricordare in modo degno il sacrificio anche di quei caduti», per favorire «un’opera di riconciliazione e di consolidamento di una memoria comune sul confine orientale, per fare in modo che le cerimonie di commemorazione della Prima Guerra Mondiale che la Regione si appresta a promuovere ed organizzare siano più aderenti possibile alla verità storica», occorre «poter recuperare quell’elenco».

Nella lettera Serracchiani ricorda che lo schedario degli italiani delle nuove Province fu istituito negli anni Venti e Trenta dello scorso secolo e inizialmente collocato presso l’Ambasciata italiana a Vienna. Nel ventennio fascista venne utilizzato per la gestione delle pratiche di pensione che l’Italia riconosceva alle vedove dei soldati austroungarici nativi delle terre divenute italiane. Successivamente, «a quanto risulta il documento venne però secretato dalla politica di propaganda di allora e tale sembra essere rimasto fino a oggi».

«Sono certa che condividerà il significato altamente simbolico racchiuso in quell’elenco», conclude Serracchiani, raccomandandosi al Capo dello Stato per «il positivo esito di questa ricerca».








108 – La Voce di Romagna 04/02/14 Pepi e l'affondamento del CB 21
Storie e Personaggi

GIUSEPPE MAKUC, NATO A GORIZIA MA RIMINESE D'ADOZIONE, È UNA DELLE DUE VITTIME
Pepi e l'affondamento del CB 21
Silvio Tasselli ha ricostruito i fatti del 29 aprile 1945. La piccola unità colpita dai tedeschi mentre tentava di dirigersi a Ancona per consegnarsi agli Alleati

I contatti tra il giovane marò e la famiglia si interrompono nel maggio 1944. E' noto il luogo dove si trova il relitto, a 37 metri di profondità

La vicenda si svolge in territorio allora italiano. Nella ricostru­zione dei fatti, Silvio Tasselli propende per la versione che il CB 21, dopo aver messo in sicurezza il personale della base di Brioni, stava per intraprendere la rotta verso Anco­na per consegnarsi agli alleati. Con l'avvicinarsi delle truppe jugoslave a Pola, e nella consapevolezza di quanto sarebbe poi accaduto, si voleva evitare che i natanti e i rispettivi equipaggi fi­nissero nelle loro mani. Gli uomini della Decima, rimasti a Pola per assi­curare l'ordine pubblico, andarono in­contro alla deportazione o al massa­cro. Tasselli cita in particolare la lettera scritta dal guardamarina Paolo De Ni­cola, comandante dell'unità, e datata 18 febbraio 1946 in cui certifica: "Il giorno 29 aprile 1945, alle 4 antimeri­diane, a dieci miglia dal largo del porto di Pola veniva affondato in seguito a combattimento il sommergibile CB 21". Riccardo Nassigh scrive: "Fu ar­mato da un equipaggio che meditava di restituirlo alla Regia Marina, tanto che il 29 aprile 1945 tentò l'evasione: fu però scoperto da una motozattera tedesca che aprì il fuoco colando a picco il minuscolo battello". Altre ver­sioni propendono invece per l'inci­dente. Nesi in "Decima flottiglia no­stra", riporta la testimonianza resagli maggio 1987 dal sottotenente del Genio navale Antonio Kenich: "Mentre si avvicinava al varco delle ostruzioni, il CB 21 entrò in collisione con una Mz (motozattera) tedesca che sovrastan­dolo, lo spinse sott'acqua affondando­lo. Vi furono intrappolati il capo Bar-delli e il sottocapo elettricista Makug, che nessuno vide più. Si salvarono, ri­pescati dai tedeschi, il guardiamarina De Nicola e il sottocapo motorista Ca­puto. Quest'ultimo, con un braccio rotto, fu ricoverato all'Ospedale M. M.; non ne ho saputo più niente". I cogno­mi dei caduti del CB 21 che Kenich ri­ferisce a Nesi sono con grafia errata. La fine del sottocapo Caputo rimane tuttora avvolta nel mistero: Tasselli racconta che malgrado le ricerche in­traprese a tutto campo, soprattutto per l'inerzia incontrata nella richiesta di informazioni presso le istituzioni pre­poste, non è riuscito a ottenere noti­zie. Forse il sottufficiale è stato ricove­rato presso l'ospedale militare di Pola, poi con l'occupazione jugoslava della città è caduto prigioniero per finire in qualche campo di concentramento o in una delle tante foibe della zona. Al­tre ipotesi davano Caputo ricoverato a Venezia, ma dopo accurate ricerche presso l'ospedale della Marina, Tasselli ha accertato che il suo nome non ri­sulta negli elenchi dei degenti. La fa­miglia Makuc si era stabilita a Rimini proveniente da Gorizia; era composta dal padre Giovanni, ferroviere, dalla madre Luigia Biteznik e dai figli Ivo, al­l'anagrafe Giovanni, Giuseppe, in fa­miglia Pepi, e Anna. Quest'ultima è l'unica vivente e risiede in provincia di Milano. Di Giuseppe Makuc la fa­miglia non ha più notizie dal 12 maggio 1944. Tra i documenti in possesso dei congiunti, una dichiarazione del padre Giovanni, datata 16 giugno 1950: Giuseppe l'8 settembre 1943 si trovava a Bordeaux, imbarcato sul sommergibile Finzi. "Da seguito - con­tinua Giovanni Makuc - fu trasferito al Gruppo sommergibili Trieste Caser­ma "Legnani" ove si trovava il 12 mag­gio 1944 data in cui diede le sue ultime notizie". La mancanza di notizie aveva dato adito a varie supposizioni sulla fine di Giuseppe: si pensava che nelle fasi conclusive del conflitto fosse finito nelle mani dei partigiani jugoslavi op­pure prelevato dai tedeschi. Tasselli ha ricostruito lo stato di servizio del gio­vane Pepi, arruolato in Marina il 3 giu­gno 1940 come allievo elettricista e posto in congedo illimitato provviso­rio. E' al Deposito Crem di Venezia 16 giugno 1941 e classificato comune di 1a classe il 1° marzo 1942. Viene poi considerato richiamato (circolare del 19 giugno 1942) il 17 maggio 1943.

Queste le varie assegnazioni: è sull'In­crociatore 'Gorizia' dal 24 gennaio 1941 al 28 agosto 1942. A Mariscuola sommergibili - sommergibile Jalea dal 29 agosto 1942 al 1° settembre 1942. A Mariscuola sommergibili - sommer­gibile Bandiera dal 1 settembre 1942 al 30 settembre 1942. A Mariscuola sommergibili - sommergibile Zoea dal 1 ottobre 1942 al 15 dicembre 1942. Al 1° Gruppo sommergibili (Maristomm) dal 16 dicembre 1942 al 15 gennaio 1943. Alla base Betasom di Bordeaux - sommergibile Tazzoli dal 16 gennaio 1943 al 31 gennaio 1943. A Mariscuola sommergibili - sommergibile Finzi dal 1° febbraio 1943 al 30 settembre 1943. Passa poi alla Nave scorta n° 7 dal 1° febbraio 1944 al 23 agosto 1944. Intan­to era stato trasferito al Gruppo som­mergibili di Trieste, Caserma Ammira­glio A. Legnani, dove si trovava il 12 maggio 1944, data indicata dal padre Giovanni come l'ultima in cui aveva dato notizie alla famiglia. Pepi Makuc,
come risulta dalla ricostruzione di Sil­vio Tasselli, ha partecipato allo scontro navale della Sirte il 17 dicembre 1941, alla battaglia navale della Sirte il 22 marzo 1942 e allo scontro aereo navale di Pantelleria il 15 giugno 1942. Tasselli riferisce di un'intervista del tenente di vascello Mario Rossetto, già coman­dante del sommergibile Finzi, che ha ricordato Makuc come un buon mari­naio. E' noto il punto esatto in cui si trova il relitto del CB 21. Il guardiama­rina De Nicola, nel dopoguerra torna­to alla vita civile, si era recato più volte sul luogo dell'affondamento e ha rac­contato di aver lanciato due corone in memoria dei due commilitoni scom­parsi. Era suo desiderio, scrive Tasselli, di procedere al recupero del sommer­gibile; la morte, sopravvenuta nel 1998 all'età di 76 anni, metterà la parola fi­ne ai suoi progetti. Il subacqueo trie­stino Claudio Pristavec, che ha effet­tuato immersioni in quei luoghi, ha ri­ferito che il sommergibile giace diviso in due parti a 37 metri di profondità. Nel dopoguerra, a causa di bombe su­bacquee, sarebbe andato irreparabil­mente danneggiato. I sommergibili della classe CB furono progettati per la difesa costiera in sostituzione ai vecchi smg classe F e Z risalenti alla prima guerra mondiale. Dei 72 esem­plari ordinati, vennero realizzati sol­tanto 22 battelli, di cui 10 nel periodo 1944-45 per la marina della Repubbli­ca sociale. I primi sei esemplari furono consegnati fra il gennaio e il maggio del 1941 e successivamente impiegati nel Mar Nero; poi il programma subì un lungo periodo di stasi e altre 6 u­nità furono consegnate solo nel tardo 1943. Infatti, si legge nel sito Regia Marina, quando ci si rese conto che gli alleati prima o poi avrebbero attaccato il "suolo patrio", il piccolo sommergi­bile classe CB sarebbe stato molto u­tile dato che per le sue dimensioni si sarebbe facilmente portato nelle zone di sbarco. In realtà nessun sommergi­bile di questa classe fu usato per tale compito.

Aldo Viroli

Dove si svolge la vicenda
Nelle acque di Pola allora italiana

E’ la notte del 29 aprile 1945 quando il som­mergibile CB 21 la­scia il porto di Pola, e poco dopo affonda nelle acque tra il capoluogo istriano e l'isola di Brioni. Il comandante De Nicola si salva e così il sottocapo motori­sta Caputo, gravemente ferito a un braccio. Nel minuscolo battello re­stano intrappolati il capo motori­sta Costante Bardella e il sottoca­po elettricista Giuseppe Makuc, nato a Salcano di Gorizia il 10 feb­braio 1921, ma residente con la fa­miglia a Rimini dove vivono anco­ra alcuni congiunti. Sulla vicenda del CB 21 hanno scritto in passato autorevoli storici del settore come Sergio Nesi, che ha fatto parte del­la X, nel suo libro "Decima nostra". Più recentemente Silvio Tasselli, autore di diverse e documentate ricerche, aveva ricostruito nel 2010 in "Storie e battaglie" l'affonda­mento del CB 21 e ricordato la fi­gura del capo Bardella. Sul nume­ro di novembre 2013 della stessa rivista, ha raccontato la storia di Giuseppe Makuc, caduto senza tomba come tanti goriziani depor­tati senza ritorno nel maggio 1945. dopo l'occupazione della città da parte jugoslava. Consultando la banca dati di Onorcaduti, risulta anche un omonimo Giuseppe Makuc, nato a Gorizia il 2 marzo 1921 e deceduto nel 1944 a Mor-ska, località oggi in Slovenia nei pressi di Canale d'Isonzo (Kanal), ugualmente senza tomba.






109 – La Voce di Romagna 11/02/14 Giovanni Ruzzier: Prigioniero dell’Udba a 15 anni il ritorno di Trieste all’Italia il 26 ottobre 1954

GIOVANNI RUZZIER RACCONTA L’ARRESTO DA PARTE DELLA POLIZIA POLITICA JUGOSLAVA

Prigioniero dell’Udba a 15 anni il ritorno di Trieste all’Italia il 26 ottobre 1954

“Ero costretto a continue vessazioni psicologiche; volevano da me nomi di sacerdoti e di persone contrarie al regime di Tito”

NEL 1949 faceva parte di un gruppo di amici che si aggiravano di notteper le calli di Pirano
lanciando piccole bandiere italiane e affiggendo manifesti ai muri

Giovanni Ruzzier, maresciallo in congedo della Guardia di Finanza, è nato a Pirano nel 1934. Per effetto del Trattato di Pace del 1947, la città, già occupata dal maggio 1945 dalle truppe del maresciallo Tito, era stata inserita nell’allora zona B del Territorio libero di Trieste. “Pochi giorni dopo l’8 settembre – racconta Ruzzier – a Pirano venne ammainato il tricolore e al suo posto issata la bandiera con la svastica nazista, rimasta fino alla primavera 1945. L’Istria era di fatto diventata parte integrante del Reich. Con gli occhi esterrefatti di un bambino assistevo ai rastrellamenti delle SS; diversi piranesi verranno poi deportati senza ritorno nei lager nazisti. Nel maggio 1945 arrivano i ‘liberatori’, che vestivano tute da metalmeccanici e portavano al collo il fazzoletto rosso. Dissero di essere partigiani, ma dopo pochi giorni sparirono per lasciare il posto al IX Corpus jugoslavo e alla polizia segreta, la famigerata Ozna (Dipartimento per la protezione del popolo). In quei giorni sparivano stranamente nel nulla numerose persone. Pirano, in maggioranza abitata da italiani, si trovò di fronte a degli oppressori che volevano imporre la propria ideologia, sollecitando la popolazione ad aderire alla nuova Jugoslavia di Tito”. La popolazione italiana subiva passivamente l’occupazione jugoslava sperando che fosse temporanea. “Nel 1948-49 - continua il racconto di Ruzzier - frequentavo le scuole medie italiane di Pirano. Vista l’apatia dei grandi, io ed altri tre coetanei, decidemmo di prendere qualche iniziativa che desse visibilità all’italianità della nostra terra”. Dopo aver giurato su un brano tratto dalla Giovane Italia di Giuseppe Mazzini, i quattro giovanissimi “cospiratori”, armati di carta, colori, colla e forbici si misero a realizzare bandierine tricolore che all’inbrunire, distribuendosi per zone, lanciavano nelle calli della cittadina. “Facevamo – continua Ruzzier – anche manifesti scritti in stampatello, con sul lato sinistro il tricolore, che incollavamo sui muri con la colla di farina sottratta alla mamma. Era per noi motivo di grande soddisfazione vedere i grandi che il giorno dopo il blitz leggevano i manifesti commentando favorevolmente l’iniziativa”. Le azioni dei quattro giovanissimi patrioti andranno avanti per diversi mesi. Finché una sera uno di loro finì nelle mani dell’Udba (Amministrazione sicurezza statale), la polizia segreta politica che dall’inizio del 1946 aveva preso il posto dell’Ozna. Il ragazzino, sotto le pressioni degli inquisitori, non tardò molto a fare i nomi dei compagni, che verranno tutti arrestati. “Mi hanno prelevato – continua Ruzzier – una sera del gennaio 1949 e trasferito, circondato da quattro agenti, prima al comando di polizia, poi alla prigione circondariale di Pirano. Siamo stati liberati dopo cinque giorni di carcere. In attesa del giudizio dovevo presentarmi periodicamente al comando di polizia dove continuavano le vessazioni psicologiche. Pretendevano nomi di sacerdoti e persone contrarie all’annessione della zona B del Territorio libero di Trieste alla nuova Jugoslavia di Tito. Nel 1951, grazie all’aiuto di mia madre che si era finta malata e bisognosa del ricovero all'ospedale di Trieste, sono riuscito a passare il valico Rabuiese su un taxi. Ho poi saputo della condanna in contumacia a un anno di lavori socialmente utili, un eufemismo utilizzato allora per definire i lavori forzati, in quanto fascista e nemico del popolo. Avevo appena 17 anni”. Trieste per effetto del Trattato di pace, era stata inserita nella zona A del territorio libero di Trieste, sotto amministrazione alleata, dove rimarrà fino al 1954, anno della restituzione all’Italia. Il giovane Ruzzier troverà un tetto al silos, a pochi passi dalla stazione centrale, allora campo profughi e oggi sede del terminal delle autolinee internazionali e di un parcheggio, Al silos verrà successivamente raggiunto dai genitori, che vi sono rimasti vivendo in un box senza finestre fino al 1961, quando finalmente ottennero un'abitazione dall'Ina Casa nell'ambito del Piano Fanfani. Nel silos vivevano circa 2.000 profughi, di questi circa 500 erano bambini. Chi non aveva lavoro regolare era costretto a rivolgersi alle varie mense cittadine, dove il vitto era sempre costituito dal classico piatto di minestra e da un pezzo di pane. “Accompagnavo questi bambini - ricorda commosso - nelle varie mense della città, la più importante era quella di via Gambini. A incolonnarli ci pensava la signora Maria Quarantotto, legionaria fiumana. Noi ragazzi riuscivamo a organizzare feste e trattenimenti danzanti anche per gli anziani utilizzando i locali adibiti a asilo. La vita del silos era bene organizzata; i box erano divisi da tavole alte due metri, gli occupanti per ripararsi dal freddo usavano carta da imballo, che una volta prese fuoco.
Mentre stavano intervenendo i vigili del fuoco, un gruppo di esagitati dalla vicina piazza Libertà gridava: Lasciateli bruciare”. Ruzzier ricorda anche la ‘cacciata’ dal silos di Maurizio Ferrara, giornalista de l'Unità, padre di Giuliano. Ecco come descrive il silos la scrittrice Marisa Madieri, che ne è stata, si fa per dire, inquilina. “Entrare nel Silos - scrive - era come entrare in un paesaggio vagamente dantesco, in un notturno fumoso purgatorio. Dai box si levavano vapori di cottura e odori disparati. Nel nostro box in cucina era stato ricavato uno sgabuzzino che fungeva da deposito, c'erano anche parecchi secchi e catini che nelle giornate di pioggia venivano disposti in vari punti del silos per raccogliere l'acqua che filtrava in piccoli rivoli dal tetto". Da allora Ruzzier sarà impegnato in prima linea nell’affermare l’italianità di Trieste e dell’Istria. Fino al 1955, anno di arruolamento nella Guardia di Finanza, il “nemico del popolo” ha continuato a vivere al silos: “Ero redattore di un giornale murale, il Grido; ho donato personalmente le copie al professor De Enriquez per il suo museo di pace e di guerra. In quel periodo trascorso a Trieste, pur essendo giovanissimo, godevo della stima dell’allora sindaco Gianni Bartoli e del Vescovo monsignor Antonio Santin, entrambi di Rovigno d’Istria, e dei responsabili della Lega Nazionale, un’associazione irredentista fondata all’epoca dell’impero Austro Ungarico”. Ruzzier sarà anche protagonista dei tragici eventi del novembre 1953, quando le dimostrazioni della popolazione che sollecitava il ritorno di Trieste all’Italia verranno soffocate dalla polizia civile: “Sono stato il primo a venire arrestato dalla polizia civile che mi strappò il tricolore. Probabilmente l’arresto mi salvò la vita perché tra il 4 e il 5 novembre sei miei amici furono falciati dal piombo inglese”.             

Aldo Viroli

Dove si svolge la vicenda
Nella zona B del Territorio libero di Trieste

Anche la Jugoslavia del maresciallo Tito aveva una polizia politica particolarmente repressiva, l’Ozna. Era stata creata nel 1944, con il compito di eliminare qualsiasi fonte di opposizione che avrebbe potuto minacciare a guerra conclusa Tito e il suo gruppo dirigente. Gli istruttori erano sovietici. Il terrore permetterà in pochi mesi la totale distruzione di qualsiasi forma organizzata di opposizione al regime; nel marzo 1946 l'Ozna verrà ufficialmente dissolta, ma di fatto continuerà l’attività con la denominazione di Udba. Grazie al libro “Il terrore del popolo: storia dell’Ozna, la polizia politica di Tito” (Edizioni Italo Svevo, 2012) dello storico William Klinger, che ha consultato gli archivi del partito comunista jugoslavo – quelli dell’Ozna a Belgrado non sono ancora accessibili agli studiosi - è possibile colmare una rilevante lacuna sugli apparati repressivi jugoslavi. L’Udba aveva occhi e orecchie anche in Italia, compresi i centri di accoglienza per profughi istriani. L’Udba arrestava anche i giovanissimi; ne sa qualcosa Giovanni Ruzzier da Pirano, che oggi vive a Rimini, preso assieme ad altri ragazzi perché di notte girava per la sua città, all’epoca nella zona B del Territorio libero di Trieste sotto l’Amministrazione militare jugoslava, tappezzando con bandierine italiane i muri delle case.  


Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it

MAILING LIST HISTRIA

Rassegna stampa settimanale

a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri
 
N. 906 – 15 Febbraio 2014
    
Sommario


82 - Corriere della Sera 11/02/14 Roma - Foibe, il giorno del ricordo, la cerimonia al Senato con il presidente Napolitano (Alessandra Arachi)
83 - Luxgallery.it 11/02/14 Venezia - Giorno del Ricordo, omaggio a Ottavio Missoni
84 – La Stampa 11/02/13 Torino: Gli esuli istriani ricordano le foibe (Roberto Travan)
85 - Il Piccolo 11/02/14 Trieste - «Foibe, l'Italia non può né vuole dimenticare» (Ferdinando Viola)
86 – La Repubblica Milano  11/02/14 Milano, consigliere eletto con Pisapia scrive su Facebook: "Nelle foibe c'è ancora posto" (Oriana Liso)
87 - La Repubblica Milano 13/02/14 Milano, si dimette il consigliere che aveva scritto su Fb "nelle foibe c'è ancora posto"
88 - Giornale di Brescia 10/02/14 - Giorno del Ricordo: Nel Magazzino 18, dove le cose raccontano la tragedia dell'Istria (Valerio Di Donato)
89 - Il Piccolo 10/02/14 Simone Cristicchi: «Sogno "Magazzino 18" in Porto Vecchio» (Giovanni Tomasin)
90 - Il Tempo 11/02/14  La Rai ricorda (male) le Foibe.
91 - Il Resto del Carlino 12/02/14  Lettere - Foibe, il riscatto della memoria quotidiana (Valeria Bianchi – Beppe Boni)
92 - Secolo d'Italia 10/02/14 Gli italiani non sono stupidi (Girolamo Fragalà)
93 – Il Manifesto 09/02/14  Intervista a Matvejevic - Foibe, la dignità di un dolore corale (Tommaso Di Francesco)
94 - Il Piccolo 12/02/14 Il lungo elenco di donne deportate e infoibate che l'Italia ha cancellato (Alessandro Mezzena Lona)
95 - Mailing List Histria Notizie 13/02/14 Poesie – Foiba ( Scuole second. 3° Classe –“ Mons.Carozzi” Seriate)




Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arenadipola.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/


82 - Corriere della Sera 11/02/14 Roma - Foibe, il giorno del ricordo, la cerimonia al Senato con il presidente Napolitano
Memoria  - La cerimonia al Senato con il presidente Napolitano
Foibe, il giorno del ricordo
A Roma lapide imbrattata
Polemiche
Insulti all`artista Simone Cristicchi, che mette in scena l`eccidio.
Giorgi a Meloni contro la Rai
Grasso: tragedia che non possiamo dimenticare
ROMA - Sono passati sessantasette anni da quei giorni. «Una delle pagine più tristi che il nostro Paese, il nostro popolo ha vissuto: la tragedia della guerra, delle foibe, dell`esodo.
Non possiamo dimenticare e cancellare nulla». Scandisce lento le sue parole il presidente del Senato Pietro Grasso. Sono dieci anni che il io febbraio è stato dichiarato il giorno del ricordo in memoria delle vittime delle Foibe dello jugoslavo Tito.
E ieri mattina c`era anche il presidente della repubblica Giorgio Napolitano insieme a tutte le più alte cariche dello Stato e di governo nell`aula di PalazzoMadama per una cerimonia culminata in un concerto commovente del maestro Uto Ughi.
Ha detto il maestro, prima di cominciare a suonare: «La mia famiglia era originaria dell`Istria e anche loro hanno dovuto lasciare i propri beni e andare via.
Questo concerto lo dedicherò a quanti hanno perso la vita nelle foibe e a tutti gli esuli che hanno dovuto morire senza conforto». E ha messo mano al violino per dar voce a «Il trillo del diavolo» di Giuseppe Tartini («un istriano anche lui»), un`esecuzione che ha lasciato senza fiato i presenti, tra questi anche i ragazzi delle scuole premiate per il concorso «La letteratura italiana d`Istria, Fiume e Dalmazia».
Ma la giornata non è stata risparmiata dalle polemiche e, soprattutto, dai vandali. A Roma, prima di ogni altro posto. Ieri mattina è stato imbrattato il monumento dei martiri delle Foibe eretto vicino alla stazione metro della Laurentina e pure il cippo carsico in memoria di tutte le guerre.
Sono stati sporcati con la vernice, mentre in terra sono stati sparsi manifestini inneggianti «alla libertà dei popoli, alle foibe e contro l`italianità». Tutti volantini scritti in lingua croata. Ma non solo. Sempre a Roma ci sono state scritte al Teatro Vittoria, dove Simone Cristicchi ha messo in scena «Magazzino 18» uno spettacolo che ricorda la tragedia delle Foibe perché è in quel magazzino del vecchio porto di Trieste che sono conservati i beni degli italiani costretti all`esodo di massa dalla violenza di Tito. «Cristicchi Boia», «No al revisionismo» alcune delle scritte contro il cantante (lo spettacolo è stato trasmesso ieri sera anche su Rai Uno) che a queste violenze era già stato sottoposto lo scorso 30 gennaio quando aveva messo in scena la rappresentazione a Scandicci (in provincia di Firenze) e un gruppo di cinquanta persone aveva preso possesso del palco. «E una storia che si conosce ancora poco quella delle Foibe», ha detto il cantautore facendo capire di non essere scalfito dalle proteste. «Ho intenzione di continuare a parlare  delle persone che hanno sofferto». Intanto Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d`Italia, polemizza con il giornale radio della Rai «nel corso del quale è stato intervistato uno dei vicepresidenti dell`Anpi al posto di un rappresentante delle associazioni degli esuli, e sono stati dati numeri errati sulle foibe e sull`esodo giuliano-dalmata». Meloni ha annunciato la presentazione di una lettera formale di protesta ai vertici di viale Mazzini.

Alessandra Arachi
Gli eccidi
I massacri Sono ricordati come i «massacri delle Foibe» gli eccidi commessi dai partigiani comunisti jugoslavi ai danni degli italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Le «foibe» sono grandi inghiottitoi o pozzi tipici del Carso. In realtà, soltanto una minima parte delle vittime fu occultata nelle foibe, mentre la maggior parte perse la vita nelle prigioni o nei campi jugoslavi, o nelle estenuanti marce di trasferimento
Le vittime morirono nelle «foibe» non solo esponenti del Partito nazionale fascista, ma anchefunzionari e dipendenti pubblici, insegnanti, sacerdoti, parte dell`alta dirigenza italiana contraria sia al comunismo sia al fascismo
I numeri
 Il numero dei morti delle «foibe» è stato sempre oggetto di discussione tra gli storici e fonte di
polemiche. A partite dal Dopoguerra e lungo i decenni successivi venivano indicate
usualmente circa 15.000 vittime. Studi più accurati sono stati effettuati soltanto a partire dagli anni Novanta e recentemente il numero totale delle vittime viene stimato tra le 5.000 e le 11.000 personè







83 - Luxgallery.it 11/02/14 Venezia - Giorno del Ricordo, omaggio a Ottavio Missoni
Giorno del Ricordo, omaggio a Ottavio Missoni
Appuntamento al Teatrino di Palazzo Grassi a Venezia
Ieri, lunedì 10 febbraio, nell’Aula di Palazzo Madama, alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si è tenuta la cerimonia di commemorazione del Giorno del Ricordo, solennità nazionale e civile istituita nel 2004, in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata e delle vicende del confine orientale.
Stasera, martedì 11 febbraio, alle ore 21, al Teatrino di Palazzo Grassi a Venezia, nell’ambito delle iniziative per il Giorno del Ricordo, si terrà “Omaggio ad Ottavio Missoni: da esule dalmata a olimpionico e imprenditore”.
Non tutti sanno che il compianto stilista, originario di Ragusa (Dubrovnik), ha trascorso l’infanzia a Zara e un periodo a Trieste, dove è stato costretto a riparare dopo la guerra e la dolorosa esperienza della prigionia.
La serata di oggi, introdotta dal presidente del Comitato di Venezia dell’Associazione Venezia Giulia e Dalmazia, Alessandro Cuk, sarà coordinata dal giornalista Edoardo Pittalis; interverranno oltre all’assessore comunale alle Attività Culturali, Angela Giovanna Vettese – che intervisterà Rosita Missoni - Giorgio Varisco (Dalmati italiani del mondo – Libero Comune di Zara in esilio), Mariuccia Casadio (esperta d’arte contemporanea), Maria Luisa Frisa (direttore del Corso di laurea in Design della Moda dello Iuav) e Paolo Scandaletti (autore della biografia su Missoni “Una vita sul filo di lana”).
Durante la serata, sarà proiettata la videointervista di Rosanna Turcinovich Giuricin “I richiami della Dalmazia secondo Ottavio Missoni”; inoltre Angela e Luca Missoni leggeranno alcuni brani sullo stilista scritti da Claudio Magris, e un ricordo di Enzo Bettiza.
Per chi non potrà partecipare all’evento ecco il link dell’intervista a Ottavio Missoni realizzata in occasione del Giorno del Ricordo del 2011: www.youtube.com/watch?v=FjpE3RpGgxk












84 – La Stampa 11/02/13 Torino: Gli esuli istriani ricordano le foibe

11/02/2014 - LE COMMEMORAZIONI
Gli esuli istriani ricordano le foibe
Celebrato a Torino il «Giorno del ricordo»

roberto travan

torino
«Chiediamo il riscatto delle case popolari che ci avete promesso, le “Case rosse” costruite per noi esuli istriani cinquant’anni fa. Anche che sulle nostre cartelle esattoriali non sia più stampata la scritta “Jugoslavia”: perché per restare italiani abbiamo abbandonato tutto, molti hanno anche perso la vita».
Parole secche quelle di Antonio Vatta, presidente regionale dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia.  
Che ieri ha celebrato a Torino il «Giorno del ricordo» dedicato alla memoria delle foibe e dell’esodo dall’Istria, Zara e la Dalmazia.  
Parole che hanno evocato il dramma della pulizia etnica che nel secondo dopoguerra insanguinò i confini orientali. Ventimila i connazionali trucidati dal maresciallo Tito: vennero gettati vivi nelle foibe - cavità carsiche profonde centinaia di metri -, torturati, annegati, fucilati. Altri ancora per sfuggire ai partigiani slavi abbandonarono terre abitate da generazioni: fu l’esodo che disperse nel mondo oltre 350 mila italiani.
A Torino - città che vanta una delle comunità più numerose e attive - vennero dapprima ospitati nelle Casermette di via Veglia, poi nel rione delle«Case rosse» costruito a Lucento. Ieri gli istriani hanno affollato il Duomo per la messa, poi al Cimitero generale hanno reso omaggio al monumento che lo scultore Michele Privileggi ha dedicato agli istriani «scomparsi ovunque nel mondo».
Erano in molti, gli esuli, e al loro fianco c’era anche qualche giovane: «A Torino abbiamo trovato il lavoro, sono nati i nostri figli e nipoti ma le nostre radici sono là e presto il testimone passerà alle nuove generazioni» ha ammonito Fulvio Aquilante, presidente dell’Angvd torinese.
C’erano le autorità, ovviamente. Il prefetto di Torino, Paola Basilone, ha risposto a Vatta promettendo che per le case popolari convocherà «al più presto un tavolo tecnico per risolvere il problema dell’assegnazione». I rappresentanti di Provincia e Regione. E il sindaco di Torino, Piero Fassino: «Fu pulizia etnica nei confronti di gruppi di donne e uomini “colpevoli” soltanto di essere italiani: rendere loro onore e ricordare la tragedia richiama il dovere morale e politico di agire perché quelle sofferenze non abbiano più a ripetersi e ogni popolo e ogni persona veda riconosciuta la propria identità» ha dichiarato.
Nel pomeriggio la commemorazione si è spostata nella Sala Rossa.



85 - Il Piccolo 11/02/14 Trieste - «Foibe, l'Italia non può né vuole dimenticare»
«Foibe, l’Italia non può né vuole dimenticare»

Grasso: mentre nel 1945 il Paese festeggiava la Liberazione Trieste subì una nuova violenta invasione. Su quegli anni silenzio durato troppo a lungo
di Ferdinando Viola
Prima alla Foiba di Basovizza, poi al monumento all’Esodo in piazza della Libertà e ancora in Prefettura e in Consiglio comunale (convocato in seduta straordinaria) per ribadire che «per troppo tempo si è cercato di far dimenticare il dramma delle foibe e l’esodo degli istriani, fiumani e dalmati. Questo non deve più avvenire». Il presidente del Senato Pietro Grasso lo ribadisce a Trieste, «che con coraggio e umanità ha accolto tante persone cacciate dalle loro case». Il significato della sua visita è proprio questo. Grasso, arrivato in città nel primo pomeriggio, è stato accolto dalla presidente della Regione Debora Serracchiani, dalla presidente della Provincia Maria Teresa Bassa Poropat e dal sindaco Roberto Cosolini. In mattinata però aveva partecipato in Senato alla cerimonia del Giorno del Ricordo, istituita nel 2004 in memoria delle vittime delle foibe, dell'esodo giuliano-dalmata e delle vicende del confine orientale alla presenza del Presidente Giorgio Napolitano, del premier Enrico Letta e del presidente della Camera Laura Boldrini. Cerimonia culminata nell'esecuzione, da parte di Uto Ughi, del celebre “Trillo del Diavolo” di Giuseppe Tartini. Ughi - la cui famiglia è originaria dell'Istria - ha dedicato il suo concerto «alle vittime delle foibe e a tutti gli esuli che hanno dovuto morire senza conforto». Presente anche il presidente dell'Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Antonio Ballarin. Al Senato è intervenuto anche il vice ministro degli Esteri, Marta Dassù: «L’istituzione del Giorno del Ricordo è stato un atto tardivo di verità e di giustizia. Ecco perchè oggi possiamo essere qui. Oggi avendo riconosciuto il passato, possiamo insieme guardare al futuro». E ha anche ricordato che «gli esuli sono stati vittime del silenzio, dei pregiudizi e della rimozione con cui la tragedia delle foibe e dell’esodo di massa vennero a lungo trattati in Italia. Un dopoguerra infinito che si è chiuso solo dieci anni fa». Nel suo breve viaggio a Trieste il presidente del Senato ha ribadito alcuni concetti già espressi in mattinata durante la cerimonia nel Senato. In Prefettura le sue parole sono state chiare e senza possibilità di equivoci. «Il ricordo è per me un dovere come presidente del Senato - ha detto - ma prima di tutto come uomo, come cittadino; è un monito per tutti noi perché siamo tenuti a impedire che l'ignoranza e l'indifferenza abbiano la prevalenza e perché tali orrori non si ripetano mai più e restino un ammonimento perenne contro ogni persecuzione e offesa alla dignità umana. È un dovere nei confronti dei sopravvissuti, dei familiari delle vittime». Grasso ha definito quella delle Foibe «una delle pagine più tristi della nostra storia e un periodo terrificante che ha coinvolto tanti nostri connazionali». Il presidente del Senato ha ricordato come dieci anni fa il Parlamento italiano ha consacrato la data di oggi, anniversario della firma del Trattato di pace tra l'Italia e le Potenze Alleate nel 1947, quale Giorno del Ricordo. «Da allora - ha aggiunto - questa giornata è dedicata alla memoria di migliaia di italiani dell'Istria, del Quarnaro e della Dalmazia che, al termine del secondo conflitto mondiale, subirono indicibili violenze trovando, in molti, una morte atroce nelle foibe del Carso. Quanti riuscirono a sfuggire allo sterminio furono costretti all'esilio». E durante il Consiglio comunale straordinario, dove si è recato dopo l’incontro in Prefettura, il presidente del Senato ha parlato dell’occupazione jugoslava a Trieste nel 1945: «Tutta l’Italia festeggiava la liberazione; Trieste fu occupata dalle truppe titine, subendo una nuova invasione con violenze di ogni genere sulla popolazione. L’occupazione durò quarantacinque giorni e fu causa non solo del fenomeno delle foibe ma anche delle deportazioni nei campi di concentramento jugoslavi di popolazioni inermi. In Istria, a Fiume e in Dalmazia, la repressione jugoslava costrinse molte persone ad abbandonare le loro case. La popolazione italiana che apparteneva a quella regione fu quasi cancellata e di quell'orrore, per troppo tempo, non si è mantenuto il doveroso ricordo». «Oggi il fatto che Croazia e Slovenia facciano parte dell’Unione Europea - ha concluso Grasso - è indicativo di un grande salto in avanti che abbiamo fatto. Ora dobbiamo continuare sulla stessa strada. Ma l’Italia non può e non vuole dimenticare».



86 – La Repubblica Milano  11/02/14 Milano, consigliere eletto con Pisapia scrive su Facebook: "Nelle foibe c'è ancora posto"

Milano, consigliere eletto con Pisapia scrive su Facebook: "Nelle foibe c'è ancora posto"

Leonardo Cribio, capogruppo della Sinistra per Pisapia in consiglio di Zona 9, aveva postato la frase sul proprio profilo. La vicenda è stata denunciata da un esponente della Lega Nord. E Cribio si difende: "Era una discussione con alcuni fascisti, mi riferivo ai collaborazionisti". La condanna del sindaco: "Parole vergognose, inaccettabili e assurde"

di ORIANA LISO

«Nelle foibe c’è ancora posto»: frase secca, postata su Facebook alla vigilia del Giorno del ricordo e rimossa dagli amministratori del social network dopo alcune segnalazioni di protesta, ma che non è passata inosservata. Perché chi l’ha scritta è il capogruppo in consiglio di Zona 9 di Rifondazione comunista-Sinistra per Pisapia, Leonardo Cribio, che insiste: «Sono frasi decontestualizzate», ma senza raccogliere molta solidarietà. E lo stesso sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, fa sapere: «Le parole di Leonardo Cribio sulle foibe sono vergognose, inaccettabili e assurde».
 
Non ne chiede le dimissioni, il sindaco, ma è come se lo fosse, visto il coro (quasi) unanime di sdegno, con la sola Rifondazione a difendere il suo capogruppo, parlando di «post non giustificabili» ma anche di «strumentalizzazioni e polemiche create ad arte». Cribio — classe 1984, studente di scienze politiche — spiega che quella e altre frase di simile tenore «sono uscite in una discussione online con alcuni fascisti che strumentalizzavano il Giorno del ricordo, mi riferivo ai collaborazionisti e non avevo alcuna intenzione di offendere i martiri delle foibe». Ma ad aggiungere benzina ci sarebbero altre sue dichiarazioni (non più online) raccolte dal consigliere di Zona leghista Alberto Belli, che le ha fotografate.

Frasi come «A tutti quelli che piangono per qualche infame finito nelle foibe. Un parente di mio nonno fu fucilato in quanto fascista. Sai che vi dico? C... i suoi, giusto così. Peccato non l’abbiano ammazzato prima, il maiale, amen». Troppo perché non ci fossero reazioni forti: e non solo, come prevedibile, del centrodestra, ma anche della maggioranza.




87 - La Repubblica Milano 13/02/14 Milano, si dimette il consigliere che aveva scritto su Fb "nelle foibe c'è ancora posto"
Milano, si dimette il consigliere che aveva scritto su Fb "nelle foibe c'è ancora posto"
Leonardo Cribio, capogruppo della Sinistra per Pisapia in Zona 9, aveva postato il messaggio sulla propria bacheca. La vicenda era stata denunciata dalla Lega. Il sindaco aveva condannato le sue parole
Si è dimesso Leonardo Cribio, capogruppo della Sinistra per Pisapia in consiglio di Zona 9 Milano, che aveva postato sul proprio profilo Facebook la frase "nelle foibe c'è ancora posto". Lo ha riferito in consiglio comunale Anita Sonego, anch'ella della Sinistra per Pisapia, intervenendo nella discussione sulla mozione presentata da Riccardo De Corato (Fratelli d'Italia) per chiedere le dimissioni del consigliere.
De Corato ha scelto di ritirare la mozione, dopo l'annuncio delle dimissioni, "anche se considero questo gesto solo un atto politico dovuto ma non riparatorio rispetto alla gravità delle parole", ha spiegato. "Sono frasi decontestualizzate", si era dideso Cribio. E il sindaco Pisapia aveva commentato senza mezzi termini: "Le sue parole sulle foibe sono vergognose, inaccettabili e assurde".




88 - Giornale di Brescia 10/02/14 - Giorno del Ricordo: Nel Magazzino 18, dove le cose raccontano la tragedia dell'Istria
GIORNO DEL RICORDO

Nel Magazzino 18, dove le cose raccontano la tragedia dell'Istria

A Trieste c’è una città fantasma, popolata dalle masserizie che gli esuli portarono via in fuga da Tito e mai più recuperate. Un tesoro di civiltà

Dall'inviato Valerio Di Donato

CIRCOLO ISTRIA
Presieduto da Livio Dorigo, si batte per far cadere i muri che ancora separano le due sponde dell’Adriatico

TRIESTE «In questo paese vi sono colline dolci, digradanti con aiuole fiorite svariata­mente. Le strade sono fian­cheggiate da una processione di pioppi giganteschi e di sali­ci. Piccoli fiumicelli scorrono dolcemente fra il verde della valle e si riuniscono tutti all' Arno (...)». Il foglio invecchia­to e infragilito dalla consun­zione reca la data del 4 mag­gio 1946, e custodisce il com­pito, gravoso, affibbiato all' Alunno Ignoto: fare il riassun­to di (testuale) «Il mio dolce paese di Toscana», di Giosuè Carducci.
Povero ragazzo. Ore e ore sui libri per interpretare le strug­genti e certo non telegrafiche poesie del massimo cantore della Nazione unificata. Però, almeno, quelle «colline dolci» avranno fatto anche sogna­re. Vista da una qualsiasi citta­dina dell'Istria redenta dopo il 1918, la Madre Italia doveva essere per forza bella, serena, rigogliosa. Un paradiso. Non certo la terra matrigna, la pa­tria ostile, che il giovinetto tro­verà di lì a pochi mesi, nel ter­ribile febbraio 1947 dell'eso­do biblico da Pola a bordo del­la motonave«Toscana». O for­se negli anni successivi, fino al 1960 e oltre, già adulto e consapevole, quando dall' Istria «rossa» si fuggiva in si­lenzio, a piccoli esodi frazio­nati, su misura, dopo aver «provato» e non solo «immagi­nato» l'esperienza amara del comunismo nazionalista di Tito.

Si scappava per finire a Trie­ste, a U dine, a Roma, a Brindi­si, o anche a Brescia, Berga­mo, Torino. Anche in Canada e Australia. Ovunque fosse possibile sentirsi «italiani» senza l'etichetta perfida del «fascista» per antonomasia. Una colpa in culla da sconta­re con la morte civile e la mor­tificazione sociale.

Se cercavo, nel ventre polvero­so del Magazzino 18 di Trie­ste, l'ago non di tutta, ma di una (basta di una per capire le altre) identità italiana perdu­ta, l’ho trovato pescando con cautela nel più grande e or­mai unico pagliaio grottesco e disordinato rimasto della memoria ogget­tuale di un popolo travolto dalla lotte­ria della Storia. Solo che qui gli ogget­ti parlano, sono una presenza solo apparentemente anonima e inani­mata. Squarciano il silenzio del tem­po, che li ha insie­me conservati e ag­grediti: credenze, armadi, divani, se­die (centinaia di sedie), mac­chine da cucire, lavabi, mesto­li, piatti, tazze, martelli, aratri, forconi (quelli veri, che i digni­tosi contadini istriani, italiani e slavi, impugnavano solo per fare fieno), fotografie, libri, diari. Il tempo li ha tenuti in vita tarlati e ingialliti, in catti­vità, perché qualcuno un gior­no li lasciasse urlare la loro or­fana disperazione. Appartengono, apparteneva­no, agli istriani di Pola, Rovi- gno, Parenzo, Buie, Cittano­va, Pirano, Capodistria. Ai fiu­mani e agli zaratini. Tanti. Du­ecento, trecento, i «350 mila» della contabilità ufficiale dell' esodo, per decenni condannati al confino morale del si­lenzio. O peggio, silenziati dalla cultura ufficiale come nostalgici del fascismo. Co­me cavallette uscite da un pas­sato buio e assassino, da loro stessi provocato e financo di­feso, sosteneva la vulgata del­la guerra fredda. Altro che «subito»! E così pagarono per tut­ti, fascisti veri e antifascisti presunti (oppure il contrario, il concetto non cambia) il con­to di una guerra perduta. Le masserizie sono restate qui al primo approdo, o sono state rimandate indietro dalle pre­fetture della Peni­sola, perché nessu­no le ha più recla­mate.

Al porto vecchio di Trieste, in que­sto monumentale antenato in matto - ni degli odierni hub, costruito dall' Impero Au­stro-Ungarico, cal­co le orme che un pioniere coraggio - so, di nome Simo­ne Cristicchi, ha impresso co­me un Cristoforo Colombo dell'arte, in maniera indelebi­le nel suo capolavoro «Magaz­zino 18». Sono un privilegia­to, lo so. Il Magazzino, curato con passione e mille difficoltà finanziarie e burocratiche, dall'Irci, l'istituto regionale perla cultura istriana, mi è sta­to aperto eccezionalmente dalla presidente Chiara Vigini e dall'infaticabile direttore Piero Delbello, perpotervede- re in un istant tour, questo te­soro di civiltà, in odore di ma­cero, se Cristicchi non fosse calato qui come un angelo re­dentore. Mi guida una figura straordinaria di esule, Livio Dorigo, che a 17 anni lasciò Pola sul «Toscana» dopo aver vissuto il travaglio di una città sospesa ira Italia e Jugoslavia, in attesa del verdetto di Pari­gi, il 10 febbraio 1947. Oggi, a quasi 84 anni, da presidente del Circolo Istria, si batte an­cora con foga mazziniana per costruire ponti, abbattere mu­ri.
Crede nel «dialogo fra italiani, sloveni e croati», ma soprat­tutto nel «recupero del rap­porto con la nostra terra, con i rimasti», perché «i figli non pa­ghino per le scelte o i destini dei padri. Il futuro è nella pa­ce e nella convivenza». Guar­do e fotografo tutto. Ma più che inventariare oggetti di vi­ta quotidiana, conta capire che questi sono simboli, sono soggetti vicari, portavoce in le­gno, ceramica e ferro, deiloro proprietari dispersi in una dia­spora che ha «cancellato l'ita­lianità adriatica» dal vecchio confine orientale, come scri­ve lo storico triestino Raoul Pupo.
Spoliati di ogni bene. Ma non del bene supremo: la dignità. Ancora pochi giorni e questo tesoro inestimabile, dopo il 10 febbraio, verrà aperto per le prime visite guidate. Un successo per l'Irci. Per Livio Dorigo. Perle associazioni de­gli esuli. Per i sopravvissuti all' esodo e per i loro figli e nipoti. Per questa nazione che, final­mente, settant'anni dopo, scopre di avere concentrato, a sua stessa insaputa, in due­mila metri quadrati uno spac­cato incredibile della civiltà giuliano-dalmata. Di più. Del­la vita materiale nell’ Italia de­gli anni Quaranta. Quelli che cambiarono radicalmente la storia del mondo.








89 - Il Piccolo 10/02/14 Simone Cristicchi: «Sogno "Magazzino 18" in Porto Vecchio»
«Sogno “Magazzino 18” in Porto Vecchio»

Cristicchi reduce da 30 repliche da tutto esaurito: «Mi piacerebbe portare lo spettacolo dove è nato»

di Giovanni Tomasin

Simone Cristicchi è «sbalordito» dal successo che il suo spettacolo “Magazzino 18” sta riscuotendo. E confessa il suo sogno: «Mi piacerebbe poterlo mettere in scena proprio in Porto vecchio, magari con una diretta televisiva». Cristicchi, come sta andando il suo spettacolo? Abbiamo raggiunto le trenta repliche: sempre tutto esaurito, anche in teatri molto grandi. Credo di essermi guadagnato la fiducia del popolo degli esuli, che è buona parte del mio pubblico, Ma anche delle altre persone che sono venute a vederlo magari stimolate da un argomento inconsueto per il teatro. Sono contentissimo e sbalordito da questo grande successo, nato dalla volta in cui visitai il Magazzino 18. Mi accompagnava Piero Delbello, che mi propose di scriverci una canzone. In quanto foresto, mi disse, potevo farlo perché libero da preconcetti ideologici. Ora è diventato un caso nazionale. Si aspettava tanto clamore? No. Anche perché non si tratta di una conferenza di storia, ma di uno spettacolo teatrale. Fa emergere le emozioni che il pubblico vive. Come reagisce il suo pubblico? Chi si rivede nella storia, perché ha vissuto quei fatti, esce con le lacrime agli occhi e mi testimonia la sua gratitudine. Succedeva la stessa cosa con lo spettacolo sui manicomi.
Chi non ne sapeva nulla si stupisce per non averlo saputo prima. Ma questo si deve non soltanto a un’ignoranza colpevole, che tutti possiamo avere. Il suo spettacolo andrà in onda sulla Rai. Un grande passo per me. dei miei quattro spettacoli è il primo ad andare in tv. L’ora è tarda ma, se dovesse andar bene, mi piacerebbe pensare di poter fare in futuro una prima serata in diretta dal Magazzino 18, coinvolgendo direttamente Trieste. Potrebbe essere il coronamento dello spettacolo. Ma non voglio creare aspettative in nessuno, è soltanto un mio sogno. Il suo rapporto con Trieste? Dopo l’attestato di benemerenza ricevuto dal sindaco qualche mese fa mi sento ancora più triestino, così come mi sento anche istriano. Il 15 marzo torno a Fiume, dove sono stato accolto con affetto. Lì ho toccato con mano la realtà dei “rimasti”, che non avevo mai incontrato: un’umanità che cerca calore e contatto. È un mondo ancor più nascosto rispetto a quello degli esuli. So che ci sono state delle tensioni fra i due gruppi, ma conoscerli in prima persona fa capire quanto siano speciali. In Istria ho provato cose simili a quando sono andato tra gli emigranti dell’Australia. Il 19 febbraio sarà a Trieste per presentare il libro tratto dallo spettacolo. Sì, il libro è qualcosa che avevo in mente da tempo, forse ancor prima dello spettacolo.
Credo sia più completo dal punto di vista storico: ho avuto modo di dilungarmi su questioni attinenti la storiografia. Ci sono poi racconti e aneddoti che non potevamo far entrare nello spettacolo: elaborandole abbiamo creato il libro. È in fondo un’opera collettiva dei tanti che ci hanno donato i loro ricordi.





90 - Il Tempo 11/02/14  La Rai ricorda (male) le Foibe.
La Rai ricorda (male) le Foibe Scoppia la bufera bipartisan
In onda il Gr Uno fa commentare le stragi ai partigiani dell’Anpi e disinforma gli ascoltatori sul numero delle vittime e degli esuli
 
Nel Giorno del Ricordo, c’è chi ricorda male. Uno dei massacri più crudeli della nostra storia recente, lo sterminio di migliaia di italiani nelle fosse carsiche dell’allora Juogoslavia, è stato ignorato per decenni, cancellato dai libri di storia, liquidato come un’operazione «antifascista». L’egemonia culturale della sinistra e il ponziopilatismo democristiano hanno permesso che, dopo l’orrore delle uccisioni di massa, la memoria delle vittime venisse beffata, silenziata, insultata. Con il pubblico rinoscimento di quanto accaduto nell’immediato dopoguerra a istriani, dalmati e giuliani sembrava che questo oltraggio potese aver fine. Così non è stato. Proprio ieri, nella giornata dedicata ai martiri (sì, martiri, perché sono morti senza colpa se non quella di essere italiani), il Gr della Rai ha affidato la rievocazione della tragedia delle foibe a un’associazione di partigiani, cioè i «compagni» di quelli titini che legavano le vittime con il filo di ferro l’una all’altra, spesso dopo aver violentato le donne, quindi le trascinavano sull’orlo di un burrone e sparavano un colpo in testa al più fortunato, spingendo infine tutto il gruppo giù nel vuoto. E lasciando morire i sopravvissuti senza neanche un colpo di grazia. Non solo. Sebbene ormai il numero di persone uccise sia valutato tra le diecimila e le quindicimila unità, nel programma radiofonico del servizio pubblico anche questo dato è stato falsato e si è parlato di cinquemila assassinati.
Una trasmissione che ha provocato reazioni di sdegno e di rabbia bipartisan. «Spiace che a distanza di tanto tempo ci sia ancora chi voglia negare la tragedia degli infoibati e dell’esodo degli italiani di Istria e Dalmazia. Ed è vergognoso quanto si è verificato durante una trasmissione del servizio pubblico, il Giornale Radio delle 8, dove il giorno del Ricordo è stato liquidato con un'intervista a un'esponente dell'associazione partigiani di Trieste, scelta quanto meno singolare - attacca il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri, di Forza Italia - Nel servizio, tra l'altro, si sono minimizzati i numeri dell'esodo, compiendo un gravissimo atto negazionista oltre che di palese disinformazione non degna del servizio pubblico. Si è infatti parlato di 25mila esuli e 5mila morti infoibati, quando invece i numeri ufficiali delle Commissioni sulle foibe, seppur ancora incompleti, parlano di 250mila esuli e 15mila vittime», concluide Gasparri, annunciando di aver presentato un'interrogazione in Commissione di vigilanza. Ma critiche alla trasmissione arrivno anche dalla sinistra e dal centro: «Appare grave la sottovalutazione che il Gr Rai ha riservato alla tragedia delle Foibe. Chiederemo alla Vigilanza di richiedere spiegazioni al direttore Antonio Preziosi», affermano in una nota congiunta i segretari della commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi (Partito democratico) e Bruno Molea (Scelta Civica). «Siamo di fronte all'ennesimo scivolone - spiegano i deputati Pd e Sc - Il Gr Uno delle 8 ha dedicato un breve servizio alla tragedia delle Foibe solo a fine edizione, suscitando tra l'altro diversi interrogativi sul taglio dato alla notizia. Nel giorno in cui il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, partecipa in Senato alla commemorazione solenne, appare una scelta poco comprensibile». Furibondi i Fratelli d'Italia. Anche loro annunciano un'interrogazione in Commissione Vigilanza per «chiedere al presidente Tarantola e al direttore generale Gubitosi di riferire sulla vergognosa trasmissione mandata in onda dal Giornale Radio Rai». Il presidente del deputati di FdI Giorgia Meloni ha poi spiegato che il partito presenterà «una lettera formale di protesta ai vertici di Viale Mazzini» e chiederà «agli italiani, attraverso il sito www.fratelli-italia.it, di scrivere al presidente Rai per far sentire forte il dissenso nei confronti di quello che è successo». È assurdo e inaccettabile, conclude Meloni che «a distanza di 10 anni dall'approvazione di una legge dello Stato che istituisce il Giorno del Ricordo ci sia ancora la volontà in Italia di negare o sminuire l'eccidio di decine di migliaia di italiani massacrati nelle foibe».




91 - Il Resto del Carlino 12/02/14  Lettere - Foibe, il riscatto della memoria quotidiana
Foibe, il riscatto della memoria quotidiana
Bologna, 12 febbraio 2014 - La programmazione tv del giorno 10 febbraio: giorno della memoria. Rai 3 ore 11 cerimonia del ricordo alla presenza di Napolitano, Rai 5 ore 16,15: Trieste la contesa; Rai 1 ore 23,50, quindi seconda serata, Magazzino18, tutto qua! Avrei sperato in un maggior spazio affinchè anche i giovani sappiano. Forse i morti nelle foibe sono di serie B?

Valeria Bianchi, Modena

Risponde il vicedirettore de il Resto del Carlino Beppe Boni

LA MEMORIA delle grandi tragedie dell’umanità non deve ammettere distrazioni. E invece con le vittime delle foibe le dimenticanze sono continuate per decenni. Oggi sono stati fatti grandi passi avanti rispetto a quando questo tragico capitolo della storia italiana non compariva nemmeno sui libri di testo scolastici. I dizionari alla voce foibe riportavano: «...inghiottitoi, o pozzi, della Venezia Giulia..». Le celebrazioni ufficiali ci sono state anche quest’anno, in Senato come presso altre istituzioni. Ma la memoria va coltivata meglio e sempre, in ogni angolo della vita quotidiana, soprattutto nei confronti delle giovani generazioni. La Shoa non ha paragoni nel cammino dell’umanità. Ma anche le foibe raccontano uno scampolo di storia che, come per l’Olocausto, esige due parole: mai più.

Beppe Boni





92 - Secolo d'Italia 10/02/14 Gli italiani non sono stupidi
Gli italiani non sono stupidi: lo sappia chi ha nascosto la verità su foibe e golpe bianco

di Girolamo Fragalà

Gli italiani non sono più un popolo di santi, di poeti e di navigatori. Per una certa “casta” – la vera “casta”, quella che muove i burattini da dietro le quinte, oscura e complottista – siamo invece un popolo di ingenui, da plasmare come la creta, pronti ad essere imboccati cucchiaino dopo cucchiaino. Ma bisogna stare attenti, perché prima o poi anche chi è sotto ipnosi finisce per svegliarsi. In poche ore si sono alternate vicende che la dicono lunga su come si sia voluto e si continua a voler anestetizzare la gente. Il caso del “golpe bianco” contro il governo Berlusconi è di per sé gravissimo, non solo perché viviamo (o almeno crediamo di vivere) in un Paese che si autodefinisce democratico ma che permette a due o tre persone, a porte chiuse, di decidere chi dev’essere il premier e in che data deve accettare di esserlo, alla faccia di chi ha votato eleggendo i propri rappresentanti in Parlamento. Ma colpisce l’atteggiamento di chi, una volta smascherato, invece di chiudersi nel silenzio e arrossire, mostra indifferenza manco fosse ancora seduto in cattedra: «Nell’estate del 2011 ho avuto dal presidente della Repubblica dei segnali: mi aveva fatto capire che che in caso di necessità dovevo essere disponibile», ha infatti detto Monti. Che male c’è? Niente di male, se vista nella sua ottica, e cioè nell’ottica di chi crede di essere l’uomo della provvidenza, l’intoccabile, il genio. Che probabilmente ha un concetto distorto di democrazia. Un’altra ipnosi, che dura da decenni, riguarda la tragedia delle Foibe: tra telegiornali e giornali radio, dichiarazioni ufficiali e cerimonie, tutti ribadiscono la necessità del ricordo. Ma il ricordo presuppone che sia fatta chiarezza sulle responsabilità, altrimenti accade come nei fatti cruenti degli anni di piombo, dove si piangono le vittime ma i colpevoli non sono stati mai individuati. Non a caso nessuno dice chiaramente che le atrocità delle Foibe furono fatte dai comunisti di Tito, con l’«aiuto» dei comunisti italiani. Non è una cosa di poco conto, anche per una forma di giustizia nei confronti di quegli italiani uccisi senza aver commesso nulla e per troppo tempo dimenticati dai libri di storia. Ma il giochino della sinistra continua, basti pensare alle parole del presidente del Senato proprio sulle Foibe: «Dobbiamo dire che per troppo tempo si è cercato di far dimenticare e questo non deve più avvenire». Giustissimo. Ma avrebbe dovuto dire “chi” ha cercato di far dimenticare e “perché”. Lui si è fermato a una frase che all’apparenza può sembrare di svolta, ma che invece resta nel solco del non detto, una frase tanto furba quanto insidiosa. Il motivo è facile da capire. Tra il quasi non detto di Monti-Napolitano sul golpe e il non detto della sinistra sulle Foibe c’è sempre quella convinzione che gli italiani siano un popolo di creduloni. Ma attenti a non svegliare il can che dorme.








93 – Il Manifesto 09/02/14  Intervista a Matvejevic - Foibe, la dignità di un dolore corale

Foibe, la dignità di un dolore corale
Tommaso Di Francesco,
 Il Giorno del ricordo. A dieci anni dalla sua istituzione, un bilancio dello scrittore Predrag Matvejevic
«Certo che biso­gna tor­nare sulle foibe, ogni volta, ogni anno». A dieci anni esatti dall’istituzione del Giorno del Ricordo (il 10 feb­braio), il bilan­cio di Pre­drag Mat­ve­je­vic è ancora una volta cri­tico e insi­ste a «ricor­dare tutti i ricordi». Nel 2004 un’iniziativa revi­sio­ni­sta sto­rica della destra post-fascista, rici­clata e diven­tata di governo ed elet­to­ral­mente can­di­da­bile gra­zie a Sil­vio Ber­lu­sconi, portò a buon fine la sua bat­ta­glia nega­zio­ni­sta del pas­sato di cri­mini ita­liani nell’ex Jugo­sla­via. Cen­trando l’obiettivo di ridurre la pro­spet­tiva all’ultimo, infau­sto periodo, delle respon­sa­bi­lità slave. A que­sto punto di vista tutto l’arco costi­tu­zio­nale s’inchinò. Favo­rendo negli anni pro­cessi cosid­detti cul­tu­rali — fic­tion, ceri­mo­nie, opere tea­trali — di rimo­zione della verità sto­rica. Su que­sto abbiamo voluto ancora una volta ascol­tare per i let­tori del mani­fe­sto il grande scrit­tore dell’asilo e dell’esilio, l’autore di Bre­via­rio medi­ter­ra­neo — per citare solo una delle sue opere — che ama ancora defi­nirsi jugo­slavo. «A pro­po­sito di sto­ria, che ver­go­gna che qui, in Croa­zia, la Chiesa che ha così gravi respon­sa­bi­lità nella con­ni­venza con il nazi­fa­sci­smo e con l’ideologia usta­scia, abbia pra­ti­ca­mente diser­tato due set­ti­mane fa le cele­bra­zioni del Giorno della Memo­ria» ci dichiara subito Pre­drag Marvejevic.
Sono pas­sati dieci anni dall’istituzione di que­sta Gior­nata da parte delle isti­tu­zioni ita­liane, che ha sem­pre visto la pro­te­sta dei nostri sto­rici demo­cra­tici. Che bilan­cio va fatto?
Intanto che non biso­gna smet­tere di rac­con­tare la verità. André Gide diceva: «Biso­gna ripetere…nessuno ascolta». Ognuno, soprat­tutto in que­sta epoca sem­bra chiuso nella pro­pria sor­dità. Il bilan­cio non è posi­tivo, se a cele­brare il Giorno della memo­ria alla Risiera di San Sabba, il lager nazi­sta al con­fine tra due popoli, accor­rono anche post-fascisti abili a can­cel­lare i cri­mini del fasci­smo ita­liano nelle terre slave. E ogni anno abbon­dano fic­tion e rap­pre­sen­ta­zioni che invece di rac­con­tare il pathos col­let­tivo che riguarda almeno due popoli, ridu­cono tutto, nella forma e nei con­te­nuti, alla sola tra­ge­dia delle vit­time ita­liane. Ho scritto sulle vit­time delle foibe anni fa in ex Jugo­sla­via, quando se ne par­lava poco in Ita­lia. Ero cri­ti­cato. Ho avuto modo di soste­nere gli esuli ita­liani dell’Istria e della Dal­ma­zia (detti “eso­dati”). L’ho fatto prima e dopo aver lasciato il mio paese natio e scelto, a Roma, una via “fra asilo ed esi­lio”. Con­ti­nuo anche ora che sono ritor­nato a Zaga­bria. Con­di­vido il cor­do­glio ita­liano, nazio­nale e umano, per le vit­time inno­centi. Cre­devo comun­que che le pole­mi­che su que­sta tra­ge­dia, spesso uni­la­te­rali e ten­den­ziose, fos­sero finite. Invece si ripe­tono ogni anno, sem­pre più strumentalizzate.
C’è qual­che epi­so­dio par­ti­co­lare di stru­men­ta­liz­za­zione che ricorda?
Voglio ricor­dare il caso del 2008 dello scrit­tore di con­fine, il grande Boris Pahor. Ecco uno scrit­tore che ha fatto della cora­lità del dolore la sua mate­ria, e infatti ha rac­con­tato la tra­ge­dia dei cri­mini com­messi dai fasci­sti in terra slava e il lascito di odio rima­sto. Di fronte all’onorificenza che gli offriva il pre­si­dente della repub­blica Gior­gio Napo­li­tano, insorse dichia­rando che avrebbe detto no, l’avrebbe rifiu­tata, se dalla pre­si­denza ita­liana non arri­vava una chiara presa di posi­zione con­tro i silenzi sugli eccidi per­pe­trati da Mussolini.
Che cosa fu in realtà il cri­mine delle Foibe?
Sì, le foibe sono un cri­mine grave. Sì, la stra­grande mag­gio­ranza di que­ste vit­time furono pro­prio gli ita­liani. Ma per la dignità di un dolore corale biso­gna dire che que­sto delitto è stato pre­pa­rato e anti­ci­pato anche da altri, che non sono sem­pre meno col­pe­voli degli ese­cu­tori dell’ “infoi­ba­mento”. La tra­gica vicenda è infatti comin­ciata prima, non lon­tano dai luo­ghi dove sono stati poi com­piuti quei cri­mini atroci. Il 20 set­tem­bre 1920 Mus­so­lini tiene un discorso a Pola (non certo casuale la scelta della loca­lità). E dichiara: «Per rea­liz­zare il sogno medi­ter­ra­neo biso­gna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, infe­riore e bar­bara». Ecco come entra in scena il raz­zi­smo, accom­pa­gnato dalla “puli­zia etnica”. Gli slavi per­dono il diritto che prima, al tempo dell’Austria, ave­vano, di ser­virsi della loro lin­gua nella scuola e sulla stampa, il diritto della pre­dica in chiesa e per­sino quello della scritta sulla lapide nei cimi­teri. Si cam­biano mas­sic­cia­mente i loro nomi, si can­cel­lano le ori­gini, si emi­gra… Ed è appunto in un con­te­sto del genere che si sente pro­nun­ciare, forse per la prima volta, la minac­cia della “foiba”. È il mini­stro fasci­sta dei Lavori pub­blici Giu­seppe Caboldi Gigli, che si era affib­biato da solo il nome vit­to­rioso di “Giu­lio Ita­lico”, a scri­vere già nel 1927: «La musa istriana ha chia­mato Foiba degno posto di sepol­tura per chi nella pro­vin­cia d’Istria minac­cia le carat­te­ri­sti­che nazio­nali dell’Istria» (da “Gerar­chia”, IX, 1927). Affer­ma­zione alla quale lo stesso mini­stro aggiun­gerà anche i versi di una can­zo­netta dia­let­tale già in giro: «A Pola xe l’Arena, La Foiba xe a Pisin», che ha fatto bene a ricor­dare su il mani­fe­sto nei giorni scorsi Gia­como Scotti nel suo sag­gio. Le foibe sono dun­que un’invenzione fasci­sta. E dalla teo­ria si è pas­sati alla pra­tica. L’ebreo Raf­faello Came­rini, che si tro­vava ai “lavori coatti” in que­sta zona durante la seconda guerra mon­diale ha testi­mo­niato nel gior­nale trie­stino Il Pic­colo (5. XI. 2001): «Sono stati i fasci­sti, i primi che hanno sco­perto le foibe ove far spa­rire i loro avver­sari». La vicenda «con esito letale per tutti» che rac­conta que­sto testi­mone, cit­ta­dino ita­liano, fa venire brividi.
Come è vis­suto il Giorno del Ricordo nell’ex Jugo­sla­via, quali “ricordi” reali va a risvegliare?
La sto­ria (con la S maiu­scola) potrebbe aggiun­gere alcuni altri dati poco cono­sciuti in Ita­lia. Uno dei peg­giori cri­mi­nali dei Bal­cani è cer­ta­mente il duce (pogla­v­nik) degli usta­scia croati Ante Pave­lic. E il campo di Jase­no­vac è stato una Ausch­witz in for­mato ridotto, con la dif­fe­renza che lì il lavoro mici­diale veniva fatto “a mano”, men­tre i nazi­sti lo face­vano in modo “indu­striale”. Aggiun­giamo che quello stesso cri­mi­nale Pave­lic con la scorta dei suoi più abietti seguaci, poté godere negli anni trenta dell’ospitalità mus­so­li­niana a Lipari, dove rice­ve­vano aiuto e corsi di adde­stra­mento dai più rodati squa­dri­sti. Le “cami­cie nere” hanno ese­guito nume­rose fuci­la­zioni di massa e di sin­goli indi­vi­dui. Tutta una gio­ventù ne rimase fal­ciata in Dal­ma­zia, in Slo­ve­nia, in Mon­te­ne­gro. A ciò biso­gna aggiun­gere una catena di campi di con­cen­tra­mento, di varia dimen­sione, dall’isoletta di Mamula all’estremo sud dell’Adriatico, fino ad Arbe, di fronte a Fiume. Spesso si tran­si­tava in que­sti luo­ghi per rag­giun­gere la risiera di San Sabba a Trie­ste e, in certi casi, si finiva anche ad Ausch­witz e soprat­tutto a Dachau. I par­ti­giani non erano pro­tetti in nes­sun paese dalla Con­ven­zione di Gine­vra e per­tanto i pri­gio­nieri veni­vano imme­dia­ta­mente ster­mi­nati come cani. E così molti giun­sero alla fine delle guerra acca­niti: “infoi­ba­rono” gli inno­centi, non solo d’origine ita­liana. Sin­gole per­sone esa­cer­bate, di quelle che ave­vano per­duto la fami­glia e la casa, i fra­telli e i com­pa­gni, ese­gui­rono i cri­mini in prima per­sona e per pro­prio conto. La Jugo­sla­via di Tito non voleva che se ne par­lasse. Abbiamo comun­que cer­cato di par­larne. Pur­troppo, oggi ne par­lano a loro modo soprat­tutto i nostri ultra-nazionalisti, una spe­cie di “neo-missini” slavi. Ho sem­pre pen­sato che non biso­gne­rebbe costruire i futuri rap­porti in que­sta zona sui cada­veri semi­nati dagli uni e dagli altri, bensì su altre espe­rienze. Ad esem­pio cul­tu­rali… Per que­sto auspico la pro­cla­ma­zione con­giunta de “Il giorno dei ricordi”. E que­sto mi sem­bra il nuovo inten­di­mento che emerge e per i quale dob­biamo batterci.



94 - Il Piccolo 12/02/14 Il lungo elenco di donne deportate e infoibate che l'Italia ha cancellato
Il Lungo elenco di donne deportate e infoibate che l’Italia ha cancellato

storia - il libro

Alessandro Mezzena Lona
 
Un saggio di Giuseppina Mellace riassume il dramma delle stragi nella Venezia Giulia, ma rimane la distanza tra memoria locale e nazionale

di Pietro Spirito «Le foibe rappresentano una storia dimenticata, negata, volutamente rimossa per decenni, di cui solo da qualche anno si è incominciato a parlare». Sin dalle primissime righe della premessa al libro “Una grande tragedia dimenticata - La vera storia delle foibe” (Newton Compton, pagg. 328, euro 9,90) di Giuseppina Mellace, un’insegnante del ’57 nata a Roma che, ci informa la nota editoriale, si diletta in “pièces teatrali, saggi, romanzi e racconti, soprattutto di tema storico”, si può avere un’idea di quanta distanza esista ancora tra la memoria depositata delle terre giuliane e l’immaginario collettivo del resto d’Italia. Delle foibe, naturalmente, fior di storici si sono occupati sin dall’immediato dopoguerra, con un fiorire di nuovi studi e ricerche in grado di scandagliare a fondo il fenomeno, che ha preso l’abbrivio nei primissimi anni Novanta, in contemporanea con la dissoluzione della Repubblica Federativa Jugoslava.

Anche se, come ha sottolineato di recente Raoul Pupo - uno dei massimi esperti riconosciuti sul fenomeno delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata - nel corso della conferenza pubblica al Teatro Verdi di Trieste organizzata nell’ambito del ciclo “I giorni di Trieste”, la questione rimane complessa e dai contorni sfumati, soprattutto per quanto riguarda il numero delle vittime. Dunque nessuna “storia dimenticata”, almeno sul piano della storiografia locale e della memoria non solo privata, anche se sì, è vero, nel resto d’Italia l’oblio - voluto e perseguito da tanti governi e forze politiche - calato sui massacri dell’immediato dopoguerra è un fatto innegabile, e solo dopo la visita dell’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga alla Foiba di Basovizza nel 1991, diventata monumento nazionale l’anno dopo con Scalfaro, si è aperta la strada verso il riconoscimento ufficiale (Giorno del Ricordo) di quegli eventi. Sono quindi più di vent’anni dal primo riconoscimento ufficiale, e non “qualche anno”. Certo, rimane lo iato enorme fra la percezione del “fenomeno foibe” che si ha nella Venezia Giulia e il resto della nazione.

Il libro di Giuseppina Mellace è esemplare in questo senso: una specie di corposo “bignami”, un regesto che mette insieme molti tasselli di quella realtà e che ha il pregio di funzionare da manuale d’accesso per una prima escursione in un capitolo complesso della storia contemporanea d’Italia, per molti versi materia ancora ribollente. Attingendo a una dichiaratamente corposa bibliografia, l’autrice parte da un breve inquadramento storico del primo Novecento nella “regione giulana” per passare alla repressione fascista antislava e ai campi d’internamento italiani (questa sì, storia dimenticata) e quindi approdare alle foibe del ’43 e del ’45, alla liberazione di Trieste, all’esodo, alle foibe del dopoguerra, il tutto con particolare attenzione al destino delle vittime donne, comprese le slave vittime dei militari italiani (è il taglio più originale del libro).

Non mancano, nel volume, appendici quali l’elenco delle donne infoibate o deportate (e di quelle epurate a Trieste, Gorizia e Pola) nonché documenti quali l’Accordo di Belgrado del 9 giugno ’45, alcuni articoli del Trattato di pace del 10 febbraio ’47 e del Trattato di Osimo. Materia vasta, dunque, forse troppo per chi davvero la considera - dal punto di vista storico - tragedia “dimenticata”, e qua e là l’autrice pasticcia un po’ e ogni tanto inciampa in qualche confusione (per esempio sui giorni di Trieste si leggono frasi del tipo: «I soldati italiani saranno dirottati su altre zone secondarie e dovranno attendere il 20 maggio (1945, ndr) per entrare in città...», oppure «i neozelandesi, arrivati ventiquattro ore dopo, si scontrarono da subito con i titini»), mentre altrove tralascia particolari non secondari come i sondaggi nella Foiba di Basovizza effettuati dall’esercito italiano nell’autunno del ’57. A dimostrazione che quella delle foibe è materia da maneggiare con cura, e solo dopo lunga e meditata frequentazione.

Va dato atto all’autrice dello sforzo compiuto nel tentativo di aprire una finestra in più sulle stragi delle foibe. Quelle che riguardano in particolare gli italiani, perché non va dimenticato - e Giuseppina Mellace ne fa cenno - che migliaia di slavi anticomunisti - domobranci sloveni, ustascia croati e cetnici serbi - fecero la stessa fine. Resta aperta una riflessione su quanto il dramma delle foibe - ma anche dell’esodo e in generale delle complesse e dolorose vicende di queste terre - fatichi ancora a trovare una giusta collocazione nell’immaginario degli italiani, percorso che dovrebbe iniziare - o almeno continuare con più incisività - nelle scuole, e perché no anche nel campo dell’arte, come ha già dimostrato di poter fare Simone Cristicchi con il suo “Magazzino 18”. p_spirito

IL ROMANZO

Una ragazzina tra omicidi e ombre inquiete al tempo di Tito

 
Che grande tentatrice è la Storia. Attrae gli scrittori verso il suo pozzo inesauribile di destini, scenari, vicende. Regala a piene mani trame ridondanti di emozioni, di suspense. E spesso confonde loro le idee. Costringendoli a cucinare romanzi troppo saporiti, dove la realtà dei fatti rivaleggia con una fantasia esagerata. Mariella Alberini, che ha già alle spalle parecchi romanzi, si è innamorata di una delle storie più trascurate nel Novecento italiano. Quella che ha insanguinato il confine orientale. Tra violenze fasciste, raid nazisti, morti ammazzati nelle foibe, migliaia di italiani terrorizzati dai partigiani titini e costretti ad abbandonare la propria casa in Istria e in Dalmazia. Su questi tenebrosi scenari ha pensato di innestare una storia tutta sua. Ha preso forma così il romanzo “La ragazzina”, che la giornalista e scrittrice nata ad Alessandria, e insignita della laurea honoris causa all’Università di Tblisi, pubblica con Mursia (pagg. 233, euro 18). Un impasto di storie vere e inventate. Una sorta di thriller con le radici ben piantate nella Storia. Protagonista del libro è una ragazza di 17 anni, Elis, che si innamora di un ex militare nazista e ottiene dai genitori il permesso di sposarlo. Attorno a lei, che scopre ben presto quanto difficile sia vivere lontano da tutti, in Carinzia, con un uomo molto più vecchio, prendono forma strani omicidi. La ragazzina trova prima una giovane slovena morta nel bosco, poi una bambina stecchita nel bagno di un albergo di lusso. È l’inverno del 1956 e mentre l’anonimo assassino continua a mietere vittime, tra l’Italia, l’Austria e la Jugoslavia si gioca una partita durissima che mette in campo gli uomini dell’Ozna, polizia segreta di Tito, quelli della Cia, senza dimenticare i sicari dell’Urss. Se non bastasse, Mariella Alberini complica la storia raccontando il terribile destino dei prigionieri nell’inferno di Goli Otok. L’isola calva dove finivano gli oppositori di Tito. E la sovrappone a un commercio di bambini destinati a soddisfare le turpi voglie di insospettabili pedofili. Lodevole, senza dubbio, l’idea di raccontare storie della Storia troppo a lungo dimenticate. Ma così si finisce solo per confezionare un gran fritto misto. Decisamente stucchevole.


95 - Mailing List Histria Notizie 13/02/14 Poesie – Foiba

FOIBA

Foiba
parola
che toglie dignità all’ uomo.
Foiba
parola
che come filo d’ acciaio
taglia l’ anima.
Mani e piedi
legati dall’ odio
gettati ancor vivi nell’ oscurità.
Uomini
Donne
Padri
Madri
massacrati dalla follia umana.
Quando il tempo
sembra annebbiare le coscienze
e le pietre del Carso
sono avvolte dalla notte,
urla silenziose
si levano dalle materne viscere della terra
a reclamar memoria e umanità.

Classi terze della scuola secondaria di primo grado “ Mons. Carozzi” – Seriate (Bergamo)               Anno scolastico 2013/2014



Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it

 
Mailing List Histria

Rassegna stampa

La Gazeta Istriana 

a cura di Stefano Bombardieri, M.Rita Cosliani e Eufemia G.Budicin


anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arcipelagoadriatico.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.arenadipola.it/

 

Giorno del Ricordo 2014 – 10° anniversario

Gennaio-Febbraio 2014 – Num. 42



Sommario

01 -  Mailing List Histria Notizie 10/02/14 - Giorno del Ricordo 2014 – 10° anniversario (Stefano Bombardieri)
02 - Il Giorno 09/02/14 Seregno: 'Giorno del ricordo', la testimonianza del centenario Nicola Di Mauro (Gigi Baj)
03 - Avvenire 09/02/14 Giorgia Rossaro Luzzatto Guerrini: «Foibe e Shoah, i miei Giorni del ricordo» (Lucia Bellaspiga)
04 - L'Arena Verona 08/02/14 Verona - Anna Rismondo: La testimonianza dell'orrore «In fuga dalla nostra patria» (i.n.)
05 - Il Piccolo 10/02/14 Erminia Dionis Bernobi : «Fuggii dal mio paese per salvarmi la vita» (Giovanni Tomasin)
07 - Mailing List Histria Notizie 10/02/14 Finalmente ! (Claudio Antonelli)
08 – Avvenire  09/02/14 Foibe, la censura continua?(Paolo Simoncelli)
09 - La Voce del Popolo 10/02/14 L'intricato confine orientale d'Italia (Kristjan Knez)
10 - Il Tempo 10/02/14  Intervista a Carla Elena Cace : «I comunisti non ascoltarono mai le ragioni di istriani e giuliano-dalmati» (Luca Rocca)
11 – Corriere della Sera 11/02/14 L'indicibile (per anni} violenza delle foibe. (Giovanni Belardelli)
12 - Il Giornale 10/02/14 Ricordiamo le foibe, dimentichiamo l'orrore (Marcello Veneziani)
13 – La Voce del Popolo 11/02/14 Editoriale - Un progetto per il futuro (Ezio Giuricin)
14 - Il Piccolo 09/02/14 L'Intervento - Giorno del Ricordo diverso grazie a "Magazzino 18" (Stefano Pilotto)


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01 -  Mailing List Histria Notizie 10/02/14 - Giorno del Ricordo 2014 – 10° anniversario

Giorno del Ricordo 2014 – 10° anniversario

Dieci sono passati dal 2004, dalla prima commemorazione dell’Esodo del popolo di oltre Adriatico. Tanto inchiostro è stato scritto, tante parole sono state udite.
Ho  voluto  rappresentare i dieci anni trascorsi, con una foto dello spettacolo “Magazzino 18” di Simone Cristicchi dedicato alla Storia dell’Istria, svoltosi a Bergamo nei giorni scorsi.
Il perché di tutto questo ?  Simone Cristicchi ha preso a cuore una storia nascosta da troppo tempo,   sullo sfondo dello schermo sta rappresentando Norma Cossetto martire di troppi infoibati innocenti.
La continuità per non dimenticare, l’avete seminata voi cari amici giuliano-dalmati  in questi ultimi dieci anni, raccontando le vostre storie, i vostri ricordi , le vostre sofferenze patite,  ai bambini ed ai ragazzi delle scuole. Saranno loro le future generazioni a continuare quello che hanno udito delle vostre  voci, silenziose per troppi anni .

Stefano Bombardieri




02 - Il Giorno 09/02/14 Seregno: 'Giorno del ricordo', la testimonianza del centenario Nicola Di Mauro
'Giorno del ricordo', la testimonianza del centenario Nicola Di Mauro

Una triste pagina della storia del nostro paese di cui fu testimone oculare un allora giovane ufficiale dell'esercito italiano, il primo a denunciare questi massacri

di Gigi Baj

Seregno, 9 febbraio 2014 - Si celebra domani in tutta Italia  il "Giorno del ricordo" per gli eccidi perpetrati nelle foibe istriane. Una triste pagina della storia del nostro paese di cui fu testimone oculare  un allora giovane ufficiale dell'esercito italiano, il primo a denunciare questi massacri.

Una testimonianza che Nicola Di Mauro, 102 anni appena compiuti ed una memoria inossidabile, ricorda ancora oggi nitidamente nonostante siano trascorsi ormai oltre sessant'anni da quell'estate del 1941 in cui all'allora capitano medico del 2° Reggimento Fanteria Re era stato ordinato di effettuare una ricognizione sui cimiteri provvisori onde prevenire l'inquinamento delle acque: «Di fatto - ricorda Di Mauro che risiede a Seregno - si trattava di verificare la fondatezza di voci che circolavano da tempo e che segnalavano la presenza di questi inghiottitoi dove gli ustascia croati, fedeli al generale Ante Pavelic, avevano gettato migliaia e migliaia di serbi che allora costituivano la minoranza etnica. Gli ustascia se la sono presa anche con gli ebrei e con altre minoranze religiose che vivevano in quelle zone. Impiegai diversi mesi per svolgere il mio incarico a Cirquemizza, Segna, Gospio, Perusio, Ostario, Tribaly e sull'isola di Carlopago. Inviai una copia del rapporto e diverse fotografie, che scattai personalmente, al V Corpo d'Armata mentre spedii anche una velina a casa mia. Documenti che ho gelosamente conservato per tutti questi anni".

Nicola Di Mauro trattiene a stento la commozione ricordando quei momenti:
"Nelle voragini carsiche sono stati gettati migliaia di persone, uomini e donne. Alcune le abbiamo recuperate assieme ai propri effetti personali. I carnefici non si erano minimamente preoccupati di togliere loro i documenti.
Siamo sempre andati pietosamente davanti a queste foibe dove ho visto piangere molti nostri soldati. Mi ricordo anche di una ragazzina che riuscimmo ad estrarre ancora via da un mucchio di cadaveri. Riuscì a sopravvivere nonostante le ferite. Di questo episodio si parla anche in libro scritto da Edmond Paris nel quale compare anche una mia fotografia".

A guerra conclusa nelle foibe sono finiti gli stessi croati, vittime della repressione ordinata dai serbi fedeli al generale Tito. Morti di due ideologie contrapposte che riposano assieme da oltre settant’anni.
Nonostante la patina del tempo, la relazione dell'ufficiale medico Di Mauro (insabbiata in qualche archivio del Ministero) rivela ancora oggi raccapriccianti particolari: "...per raggiungere la voragine indicataci da alcuni abitanti del villaggio di Budiack — si evince da una pagina dell'incartamento datato 1 settembre 1941 — abbiamo dovuto percorrere un viottolo impervio. In prossimità della buca abbiamo trovato numerose cartucce di fucili, pezzi di catene, lucchetti, distintivi di impiegati ferroviari, galloni di guardie di finanza jugoslava, decine e decine di portafogli e portamonete vuoti. Alcuni abitanti giurano che in quella fenditura sono finite un centinaio di persone molte delle quali provenienti dal vicino campo di concentramento di Pago. I civili ci raccontano che a diverse riprese nell'anfratto sono state gettati quasi duemila serbi.
L'ultimo massacro risale a soli pochi giorni prima. Prepariamo una soluzione di eosina con acqua prelevata da un vicino rigagnolo e la gettiamo nella voragine".





03 - Avvenire 09/02/14 Giorgia Rossaro Luzzatto Guerrini: «Foibe e Shoah, i miei Giorni del ricordo»
Testimone

Giornata del ricordo -  «Le foibe e l'esilio: per settantanni una storia negata»

Sono tanti i Giorni del Ricordo che si cele­brano in casa nostra», dice Giorgia Rossaro Luzzatto Guerrini, 91 anni, goriziana, ex insegnante di Lettere, la memoria che non vacilla: «Nella nostra famiglia si intreccia­no i destini degli ebrei e dei giuliano-dal­mati, si sono dati appuntamento tutti i re­gimi che hanno insanguinato il 900».

«Mio padre ucciso dagli uomini di Tito, la nonna deportata ad Auschwitz, uno zio assassinato alle Fosse di Katyn, due cugini finiti nei gulag. La mia famiglia riassume le tirannie che hanno insanguinato il secolo»

«Foibe e Shoah, i miei Giorni del ricordo»

Giorgia Rossaro, 91 anni: «In casa nostra le due grandi tragedie del '900»

Lucia Bellaspiga

Gorizia

Suo padre Giorgio portato via dai comuni­sti jugoslavi di Tito nel 1945 e sparito nel nulla, forse gettato in foiba, forse nel cam­po di sterminio diBorovnica. Una zia e una non­na deportate dai nazisti ad Auschwitz: di loro più nessuna traccia, cenere al vento. Uno zio uc­ciso nelle Fosse di Katyn, dove nel 1940 i sovie­tici massacrarono con un colpo alla nuca lOmi- la ufficiali polacchi (per decenni la strage fu in­giustamente attribuita ai tedeschi). E nella ge­nerazione successiva due cugini adolescenti condannati ai lavori forzati in un gulag sul Don... «Sono tanti i Giorni del Ricordo che si celebra­no in casa nostra», riassume Giorgia Rossaro Luzzatto Guerrini, 91 anni, goriziana, ex inse­gnante di Lettere, la memoria che non vacilla: «Nella nostra famiglia si intrecciano i destini de­gli ebrei e dei giuliano-dalmati, si sono dati ap­puntamento tutti i regimi che hanno insangui­nato il ’900 e portiamo il lutto del nazismo, del comuniSmo sovietico, delle stragi titine». Ha pianto il 23 o ttobre scorso ricordando la depor­tazione degli ebrei dalla sinagoga di Gorizia nel 1943, lo ha fatto il 27 gennaio per la Giornata della Memoria della Shoah, continuerà a farlo domani, nel Giorno del Ricordo per le Foibe e l’e­sodo dei 350mila italiani sfuggiti al genocidio di Tito, «ma se l’olocausto ci è stato riconosciuto da sempre, la tragedia delle Foibe ci è stata ne­gata - precisa -, siamo stati derisi, chiamati fa­scisti, non creduti. Non ho mai visto nessuno venire a Gorizia dai palazzi romani per il nostro 3 maggio!».

Nel maggio del 1945 furono giorni bui per le no­stre regioni del nord­est adriatico. La guerra era finita, l’Italia tutta festeggiava la fine del nazifascismo abbrac­ciando le truppe an­gloamericane. A Gori­zia, Trieste, Pola, Fiu­me, Zara invece la «li­berazione» era portata dalle truppe di Tito, senza abbracci ma al grido di «Trst je nas», Trieste è nostra. Non una liberazione ma una nuova invasione.
«Prima, l’8 settembre del 1943, ci avevano oc­cupato i nazisti - ricorda Giorgia Rossaro - e u - ria nostra impiegata slovena denunciò i miei suoceri in quanto ebrei, ma loro riuscirono a scappare in Veneto, invece la nonna ingenua­mente decise di restare e finì ad Auschwitz a 82 anni». La stessa ingenuità innocente che due an­ni dopo ucciderà suo padre, medico e uomo li­berale, però permano comunista: «Era l’alba del 3 maggio 1945 - ricorda -, alla porta bussò un soldato titino sui 20 anni. Disse che mio padre doveva presentarsi al comando jugoslavo per "informazioni". Gli ho fatto il tè e ho svegliato papà. Quel militare mi chiese se ero spaventata ma non capivo la domanda: ormai c’era la pa­ce... Mio padre invece capiva anche troppo: so­lo poi ci siamo accorti che prima di seguirlo a­veva lasciato tutto il denaro contante sotto la bi­lancia in cucina». Quella stessa notte nelle case di Gorizia furono prelevati 600 capifamiglia, me­dici, maestri, commercianti, «la cosiddetta in ­tellighenzia, in perfetto stile sovietico». L’ultima volta che Giorgia e la sua sorellina videro il pa­dre fu il 5 maggio del ’45, dalla finestra del car­cere di Gorizia, con un triste sorriso e la mano che salutava. «In seguito abbiamo saputo che lo hanno portato a Lubjana la notte stessa, e lì il grande silenzio, eterno».

Dal quale solo ora qualcosa è trapelato: carte terribili uscite dagli archivi di Tito (e presto di­menticate), con migliaia di nomi, di processi far­sa, di condanne senza colpa. «Nel 2005 la stori­ca slovena Natasa Nemec ha ritrovato e diffuso la lista dei 1.048 deportati da Gorizia e il desti­no atroce subito da carabinieri e militari di tut­ta Italia, spariti nel nulla in tempo di pace. È sta­ta coraggiosa... tre ore dopo era licenziata». Tra gli altri, anche il nome di suo padre, "Giorgio Rossaro, interrogato". Quale fu la condanna non si sa ed è questo che ancora oggi la tormenta, «perché un conto è la morte, altro è la scom­parsa senza sapere dov’è il suo povero corpo e senza una croce su cui pregare. Noi italiani ci scaldiamo tanto per i desaparecidos argentini e non siamo capaci di fare nulla per i nostri». Lubjana dista «un’ora di autostrada, perché nes­suno dei nos tri politici ha mai chiesto la verità?». Oggi come allora c’è ancora chi accusa i 350mi- la italiani fuggiti dalle Foibe di Tito di essere "fa­
scisti", «ma perché? Era l’Italia ad essere fasci­sta, mica noi, anzi, qui rispetto a Roma o Mila­no il regime non si sentiva proprio, con la mi­noranza slovena vivevamo in pace e le pagliac­ciate tipo i saggi ginnici non si vedevano». Suo padre, poi, dall’8 settembre aveva curato tanti partigiani. «I nomi dei criminali jugoslavi sono noti, perché non si sono processati anche Anton Zupan o Giuseppe Kuk come Priebke? La Ger­mania ci ha risarciti per i nostri deportati e mio suocero quei soldi li ha mandati in Israele per gli orfani dei lager, Slovenia e Croazia ci ridiano al­meno le salme. Scappare dai nazisti non faceva di noi dei comunisti, e allora perché scappare da Tito farebbe di noi dei fascisti?».

Quando nelle scuole la chiamano a testimonia­re la Shoah, ne approfitta per raccontare anche l’altra parte della verità. Lo deve a sua madre «che per 13 anni restò seduta davanti alla porta da cui papà era uscito, lo ha sempre aspettato» e lo deve a noi, defraudati per 70 anni della no­stra Storia.

Giorno del Ricordo
Tra il '45 e il '47 350mila italiani lasciarono Istria, Dalmazia e Fiume per sfuggire al genocidio ordinato da Tito. Ma decine di migliaia vennero catturati e assassinati nelle foibe carsiche. Domani numerose iniziative per non dimenticare quell'olocausto




04 - L'Arena Verona 08/02/14 Verona - Anna Rismondo: La testimonianza dell'orrore «In fuga dalla nostra patria»
La testimonianza dell'orrore «In fuga dalla nostra patria»

Tosi: «Fratelli che hanno vissuto la tragedia dell'esodo forzato» E lunedì al cimitero la cerimonia per tutte le vittime delle foibe

«Porto i miei ricordi fatti di freddo, fame e paura. Ma questi racconti di bimba non sono ricordi ma traumi». Inizia così la testimonianza che Anna Rismondo esule d'Istria, 5 anni nel '47, ha portato ieri mattina in Gran Guardia durante la cerimonia dedicata al Giorno del Ricordo, istituito ufficialmente 10 anni fa a commemorazione delle vittime dei massacri delle foibe e dell'esodo giuliano-dalmata.

«Insieme a mia mamma, che ha avuto un cugino infoibato e uno morto a Mauthausen, abbiamo capito che non c'era più possibilità di convivenza con chi voleva imporre una lingua che non era la nostra, una cultura, una religione, un modo di vivere estraneo a noi. Non potevamo più essere italiani. E siamo stati costretti a scappare in un treno merci, in modo orribile. Altri, invece, non sono nemmeno riusciti a fuggire: le persecuzioni iniziarono nel '45».
Analoga alla storia di Anna, quella di circa 300 mila italiani che, dopo la fine della guerra e la cessione di Istria Fiume e Dalmazia alla Jugoslavia comunista del maresciallo Tito, fuggirono da quelle terre rientrando in Italia come esuli.

«Il Giorno del Ricordo ha restituito dignità agli esuli, alla storia delle loro famiglie e delle loro terre», ha spiegato la presidente dell'associazione Venezia Giulia e Dalmazia Francesca Briani alla platea di studenti dell'auditorium della Gran Guardia.
«Oggi siamo qui per ricordare i nostri fratelli italiani», ha detto il sindaco Flavio Tosi, «che hanno vissuto la tragedia, assolutamente immotivata, dell'esodo forzato che li ha costretti a lasciare la propria casa, i propri familiari, i propri beni, la propria terra per motivi di odio razziale, per poi essere dimenticati e condannati al silenzio, perché rappresentanti scomodi di una realtà che le istituzioni volevano dimenticare».

Oltre a Tosi, presenti alla cerimonia il presidente della consulta provinciale degli studenti Giovanni Renso e numerosi rappresentanti delle istituzioni civili e militari cittadine e delle associazioni combattentistiche d'arma.

La mattinata è stata animata dal dialogo «Istria, Fiume e Dalmazia. Parole, musica e vita degli Italiani dimenticati» tra Davide Rossi, docente presso l'Università di Trieste e figlio di esuli, e Briani.
Il direttore del Teatro stabile Paolo Valerio ha interpretato una poesia di Rismondo. Ai ragazzi in platea, è stata poi fatto vedere il nuovo video Magazzino 18 del cantante Simone Cristicchi, sul tema degli esuli.
Alla bouvette della Gran Guardia è aperta al pubblico anche oggi e domani, con ingresso libero, la mostra fotografica «Dedicata al Ricordo» a cura del Comitato provinciale di Verona dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia con consulenza storica e testi dello storico e scrittore Guido Rumici e progetto grafico di Altercatio.com. Nelle foto, volti e luoghi che ripercorrono l'esodo di chi ha lasciato Istria e Dalmazia.
Lunedì alle 10.30 al Cimitero Monumentale si terrà la deposizione di una corona al «Monumento dedicato alle Vittime delle foibe, agli Esuli deceduti lontano dalla loro terra d'origine ed a tutti i Defunti rimasti».

I.N.



05 - Il Piccolo 10/02/14 Erminia Dionis Bernobi : «Fuggii dal mio paese per salvarmi la vita»
Fuggii dal mio paese per salvarmi la vita»

Erminia Dionis Bernobi dovette scappare a 15 anni dall’Istria per aver identificato uno degli assassini di Norma Cossetto

di Giovanni Tomasin

Erminia Dionis Bernobi ha dovuto lasciare l’Istria nel 1946 all’età di 15 anni. Sarta di qualità comprovata dalle innumerevoli sfilate e riconoscimenti, dice di aver vissuto «una buona vita». Gli anni della sua giovinezza, però, sono segnati da esperienze difficili. Qual è la sua storia? Sono nata a Visinada il 15 aprile 1931. A sei anni sono rimasta orfana di mio papà, e la mamma ha portato me e le mie sorelle a Santa Domenica. A 15 anni sono dovuta scappare dall’Istria. Perché? Già da piccola amavo il cucito, e passavo del tempo nella sartoria di Santa Domenica. Un giorno ho sentito un uomo confessare di aver partecipato all’uccisione di Norma Cossetto, non sono riuscita a trattenermi e gli ho gridato: “Vigliacco!”. Poi cos’è successo? Sono scappata a casa in lacrime da mia madre. Dopo un po’ è arrivato il sarto dicendo che l’assassino di Norma mi avrebbe ucciso anche se avessi parlato. Bisognava farmi sparire, ovvero mandarmi a Trieste. Come avete fatto? Il sarto ha trovato una persona disposta ad accompagnarmi. Doveva già portare un bambino di 7 o 8 anni dai genitori a Trieste. Penso che mia madre abbia pagato per il mio passaggio.
Prima di lasciarmi mi fece giurare che non avrei mai raccontato questa storia, perché temeva per me. E così ho fatto per decenni: non lo dissi nemmeno a mio marito e mio figlio. Poi dieci anni fa ho deciso di parlare.
Come mai? Perché sapevo che ormai tutte le persone coinvolte erano morte.
Anche quell’uomo. Spero che, così come io ho tenuto per me il segreto, egli non abbia trasmesso nulla di quel che ha fatto a figli e nipoti. Spero che nulla sia rimasto. Com’è stato l’arrivo a Trieste? Rocambolesco. La persona che mi aveva fatto traversare il confine mi portò da un fratellastro di mio padre, che però aveva già un figlio e non poteva ospitarmi: erano tempi difficili e il pane scarseggiava. Poi mi mandarono da una zia che, avendo una locanda, mi prese con sé. Qualche mese dopo mi disse che in una sartoria cercavano apprendiste. Fu così che ha trovato lavoro. Sì, non è stato facile. A quei tempi noi istriani non eravamo ben visti: dicevano che rubavamo il lavoro ai triestini. La signora della sartoria, nell’avviso, aveva scritto “preferibilmente friulana”. Io non riuscii a nascondere di essere istriana ma mi accettò comunque. Non avevo documenti, ma l’Opera profughi mi procurò un tutore che risolse l’aspetto legale. Ha messo radici a Trieste. E ho atteso la mia famiglia per cinque lunghi anni. Quando avevo quasi 18 anni tentai di tornare in Istria a trovarli ma mi respinsero in quanto «indesiderata». Mia madre e le mie sorelle arrivarono qui quando avevo quasi 21 anni. Abbracciarle fu una gioia infinita, grande quanto il dolore che avevo provato nell’essere lontana da loro. L’anno dopo mi sposai:
mio marito era mio compaesano. Assieme abbiamo vissuto una bella vita. Cosa prova ora nei confronti dell’Istria? Ora i confini sono aperti e molte cose sono cambiate. Da due anni torno al paese per la cerimonia in memoria di Norma e organizzano per noi la messa e il coro in italiano. Ci accolgono a braccia aperte. Penso però che sarà difficile che loro accettino mai quanto avvenuto. Gli esuli assolutamente non sono fascisti. Sono nata sotto il fascismo, ma che colpa ne avevo? La colpa non poteva essere di noi giovani, dei ragazzi, semmai è di Mussolini che è entrato in guerra. Il male sarà iniziato da là. Poi però chi ha vinto ha vinto e ora non crede a quello che accadde dopo. Speriamo che ora lo accettino. Altrimenti il dolore si spegnerà con noi che siamo gli ultimi ad aver vissuto quei fatti.




06 - Il Tirreno Livorno 10/02/14 Così la mia famiglia fuggì dall'Istria per salvarsi dalle foibe
Così la mia famiglia fuggì dall’Istria per salvarsi dalle foibe

I miei bisnonni perseguitati dai “titini”perché italiani. Fra i profughi a Migliarino, poi arrivarono a Livorno

di Shamira Gatta

Questa è il racconto-testimonianza inedito della storia di una famiglia italiana fuggita dalle persecuzioni in Istria e giunta, dopo molte traversie, a Livorno. Shamira Franceschi, conosciuta come blogger Shamira Gatta, è la più giovane discendente e ha raccolto la storia della sua famiglia dalla voce dei nonni e della madre.
Mia mamma Duscka dice sempre che per mantenere vivo il ricordo bisogna parlarne, perché la storia dei nostri genitori, dei nostri nonni, è parte di noi, e per mantenerli vivi non dobbiamo smettere di ricordarla.

In questi giorni cade la commemorazione delle vittime delle foibe, ed io voglio raccontare a voi la mia storia, la storia della mia famiglia.
Mia nonna, Etta Bertotto, era nata a Cherso, una bellissima isola nell'arcipelago del Quarnero, Istria, al tempo territorio italiano, ceduta poi, a seguito del trattato di pace del 10 febbraio 1947, alla Jugoslavia.
Nel settembre del 1943 approdarono, sulle rive di Cherso, gli jugoslavi di Tito, che mia nonna, quando raccontava, chiamava i “Titini”, occuparono il municipio e presero il potere, iniziarono le prime sparizioni, 14 uomini furono prelevati, senza preavviso alcuno, di notte, dalle loro case, vennero legati e fatti imbarcare con la forza, alcuni di loro furono fucilati senza nessuna accusa.

SENZA SCARPE NÉ VIVERI

I ragazzi in età militare furono deportati e costretti ad arruolarsi forzatamente nell'esercito di Tito, vennero mandati senza scarpe e senza viveri, molti di loro non fecero mai ritorno. Iniziarono le rappresaglie contro gli italiani, fu istituito il coprifuoco, c'era paura anche solo a parlare per le strade, le persone, senza distinzione di sesso o di età, venivano torturate e massacrate, e infine i corpi venivano fatti sparire, gettati nel mare dalle alte scogliere.
A Cherso si moriva di fame, gli uomini venivano arruolati, le donne lasciate sole con i bambini piccoli, coloro “giudicati” ostili alla causa “titina” presi e portati via di notte; sull'isola le risorse scarseggiavano..
Arriva poi l'obbligo per tutte le famiglie di fornire scorte alimentari per l'esercito in guerra, ovviamente non ci si poteva rifiutare.
C'era così tanta miseria che per Natale, un anno, ebbero la fortuna di trovare una noce, la trisnonna Maritza la divise tra nonna Etta e zio Giannino, il suo fratellino, e con le due metà del guscio, costruì una piccola barchetta, quello era il regalo di Natale per nonna e zio.
E poi vennero le foibe in tutto il territorio istriano e dalmata, e la deportazione nei campi di prigionia, orrore negato dalla storia per anni, così forte era il dolore nei racconti dei nostri nonni e dei nostri genitori, che sentirne parlare ci fa male al cuore.

LA “SOLUZIONE” DI TITO

Tito incaricò i suoi soldati di "risolvere il problema" di quelle persone che non approvavano l'annessione dell'Istria alla Jugoslavia, dette il via così alla pulizia etnica, che per anni è stata negata, e che molti italiani, hanno scoperto essere vera solo di recente. Certo, c'è differenza tra sentirne parlare in televisione e sentirla raccontare dalla propria nonna, ancora spaventata, a distanza di anni, anche solo di parlare a voce alta per strada. «Non si poteva parlare per strada, non si poteva pensare, per strada. C'era paura anche a bisbigliare in casa, sottovoce».
«Cavità verticali naturali, pozzi della terra in cui venivano gettate le persone»: ecco cosa avete appreso dai telegiornali. «Venivano di notte, li sentivi bussare alle porte, speravi che non toccasse a te – mi raccontava mia nonna Etta – prendevano tutti, uomini, donne e bambini, indistintamente, e li portavano via, tutti sapevano, ma nessuno poteva parlare, si doveva cantar le loro canzoni, esporre le loro bandiere, fare i loro balli, a comando, altrimenti erano botte».
Quando nonna mi raccontava della miseria e della fame, non riuscivo a capire come l'uomo potesse essere così cattivo. Nonna scappava da scuola per non sottostare alle punizioni dei Titini, che non volevano che i bambini parlassero italiano, e con un filo ed un amo di fortuna, cercava di pescare qualche pesciolino. Quando sono andata a Cherso per la prima volta ero molto piccola, ma non dimenticherò mai che poche cose erano cambiate, anch’io correvo sul viale acciottolato con il mio cestino da pesca, e pensavo che quelle erano le strade dove si era consumata una grande tragedia, dove le persone morivano di fame o fucilate, o fatte sparire la notte. (Nella foto di gruppo: il primo uomo da destra è il bisnonno Checo, il bambino inginocchiato è lo zio Giannino, sulla sinistra la zia Maricci e la figlia)
Le foibe sono enormi voragini di origine naturale, profonde più di 200 metri, così profonde che a volte vederne il fondo è impossibile. Dal 1943 al 1947 vi sono stati gettati circa diecimila italiani, la maggior parte di loro erano ancora vivi, legati tra loro con una fune, sparavano al primo, che cadendo si portava dietro il resto della fila.
Molti di loro non morivano subito, molti rimanevano in vita sul fondo delle foibe, la caduta attutita da altri corpi, morivano di stenti o di embolia.
Nel 1945, dopo anni di terrore, le violenze aumentano, vengono uccisi tutti coloro che sono “nemici del popolo”, vale a dire italiani, cattolici, socialisti, preti, ma anche anziani e donne con i loro bambini.

350MILA PERSONE IN FUGA

Nel febbraio 1947 Istria e Dalmazia vengono cedute alla Jugoslavia, trecentocinquantamila persone lasciano la loro terra, abbandonando tutto, case, averi, ricordi, affetti… Pur di rimanere italiani oltrepassano la nuova frontiera, dove nessuno sapeva quale orrore si stava consumando in terra istriana. Quando il treno stipato di profughi, sulla quale si trovava anche mia nonna, arriva a Bologna, gli esuli vengono ignorati. Vengono accusati: «Venite a portarci via il lavoro». Le persone stanche ed affamate, chiesero acqua da bere ma venne negata.
«Per non dimenticare», che sia ben chiaro, che gli eventi tragici debbano essere ricordati, perché i grandi errori degli uomini, devono essere raccontati alle nuove generazioni, affinché ricordino, affinché non dimentichino, affinché non si ripeta mai più.... Solo nel 2005 il Parlamento italiano decide di dedicare una giornata del ricordo in memoria delle vittime delle foibe.

Ancora oggi ci sono persone che negano la loro esistenza, e questo fa male a noi che siamo rimasti e ricordiamo il loro dolore… Mia nonna quando arrivò a Trieste aveva 13 anni: il 13 dicembre 1949, dopo due anni di tentativi per venir via da Cherso dettero il permesso a mia nonna Etta ed alla sua famiglia di venir via. Ma le partenze non erano mai semplici. Dissero alla mia bisnonna Tona: «Se volete andare in Italia andate, ma sua mamma quasi cieca, rimane qui». La mia bisnonna Tona lasciò la madre dai cugini, e partì, per salvare i figli.
Alla frontiera cambiarono i nomi e le date di nascita sui documenti. «Cambiavano i nomi sui documenti, cambiavano le date di nascita, ti toglievano l'identità, dopo che ti avevano già distrutto il cuore».
Quando mia nonna arrivò a Trieste, rivide il pane dopo tanto tempo, ne mangiò così tanto che per paura di non rivederlo, il giorno dopo le venne la febbre per l'indigestione, si portò perfino una pagnotta di pane sotto il cuscino.

La mia bisnonna voleva rimanere a Trieste, dove già vivevano due suoi fratelli con le famiglie, ma non le dettero il permesso e la mandarono con la sorella e le rispettive famiglie, nel campo profughi di Migliarino Pisano, dove rimasero circa due anni. Il mio bisnonno Checo, per risollevare il morale, ogni sera suonava una fisarmonica, e tutte le persone del campo si radunavano per cantare e ballare insieme.

POI LA CASA A SHANGAI

Nel campo profughi non c’erano case, c’erano soltanto enormi capannoni, dove delle lenzuola appese con delle funi, dividevano l’intimità della notte delle famiglie. Da lì furono trasferiti alle ex colonie di Calambrone, la mia bisnonna Tona fu divisa dalla sorella Maricci, la quale, assieme alla famiglia, fu mandata a Pisa, alla mia bisnonna ed alla famiglia infine venne data loro una casa a Livorno.
La casa le fu assegnata nel quartiere di Shangai, in via Filippo Turati, quegli stabiloni gialli che si vedono ad oggi dall’Aurelia.
La casa era composta da un cucinotto, un bagno, un terrazzino, una cameretta ed una camera, ed a starci erano il mio bisnonno Checo, e la bisnonna Tona, i due figli, appunto nonna Etta e zio Giannino, e, quando riuscirono a far venire la mamma di Tona da Cherso, anche la trisnonna Maritza.
Anch'io ho abitato in quella casa, molti anni dopo.
Zia Mari era la cugina di mia nonna, abitava a Lussino, al tempo aveva due bambine piccole, i genitori di zia Mari erano riusciti, mesi prima a fuggire a Trieste.
Quando la mamma di zia Mari morì, mia zia dovette chiedere il permesso per andare al funerale. Ovviamente il permesso fu negato.
Dopo mesi e mesi, le dettero il permesso per andare con le figlie piccole a vedere la tomba della mamma. Le condizioni ovviamente erano due: «Parti oggi e tra due giorni sei di nuovo qui. Non potete portare valige, partite solo con quello che avete indosso, e tornate».
Zia Mari partì scortata dalle guardie, con le due bambine piccole, alla frontiera le controllarono i documenti e la perquisirono, nessuno doveva capire che volevano scappare, altrimenti chissà cosa sarebbe successo. Aveva nascosto i pochi soldi che le rimanevano dentro una bambolina che la figlia più piccola teneva stretta a sé.

Riuscì a raggiungere Trieste, ma quando a Lussino si accorsero che lei era scappata, chiamarono tutti in piazza, per far vedere cosa succedeva a ciò che lasciavi lì. Le entrarono in casa e iniziarono a buttar giù dalla finestra tutti i suoi averi, i mobili, le fotografie, i vestiti, e poi dettero fuoco a tutto: «Questa è la fine di ciò che lasciate se scappate, questa è la fine di chi abbandonate».

TERRORE ANCHE NEL ’76

Fino a pochi anni fa si avvertiva comunque una certa ostilità nei confronti degli italiani. Non vi parlo di un secolo fa, vi parlo del 1976, anno in cui mia mamma, con mia nonna, tornò alla sua Cherso, il turismo non c'era ancora, e le poche persone che cercavano di raggiungere i parenti rimasti, venivano guardate con sdegno, diffidenza e rabbia.
Superata la frontiera, approdati in terra slava, un soldato monta sul pullman, per controllare i documenti dei passeggeri. Mia mamma non dimenticherà mai quel momento, quando il soldato prese i documenti di mia nonna, e lesse che era nata a Cherso, iniziò ad urlarle contro, in slavo, e nonna iniziò a tremare, fu allora che mamma si rese conto quanta paura avesse avuto mia nonna, e quanto ancora il ricordo era vivo e la ferita fresca, ancora aperta. Nessuno nel pullman disse o fece niente, tutti chinarono la testa, e loro furono fatte scendere, perquisirono i bagagli, aprirono i pacchetti infiocchettati, piccoli regali per i parenti. La sua colpa? Essere italiana…
Mia nonna ha sempre amato la sua Cherso: quella terra che io ancora sento mia, quella terra che solo sentirne il nome mi vela il cuore di tristezza, quella terra in cui c'è ancora la nostra casa, con la porta sbarrata dal catenaccio, la casa di mia nonna, inagibile, e mai più nostra. La fabbrica del mio bisnonno, con ancora il suo nome sulla soglia d'ingresso, mai più nostra. Quella terra meravigliosa, che ti strappa l'anima e la incatena al suo mare, ai suoi vicoli di pietre, ai suoi campi di olivi.





07 - Mailing List Histria Notizie 10/02/14 Finalmente !
Finalmente!

Grazie anche al Giorno del Ricordo, finalmente la nostra storia è uscita dall’ombra. Abbiamo aspettato per anni di poter ristabilire per gli altri, almeno in parte, il nostro passato. Quel passato che nell’Italia ufficiale per troppo tempo è stato  ignorato o  falsificato. Il risultato di questo divario, anzi di questa  opposizione tra la versione omologata dei fatti - da un lato - e la nostra  esperienza diretta, o acquisita tramite la testimonianza e l’esempio dei  nostri genitori e parenti - dall’altro - è stato da tanti anni un sentimento  di dolore e anche di incredulità. Possibile – mi chiedevo - che ci sia una  Storia, inventata da noi, che in realtà non è mai esistita? È possibile che i  miei genitori – mi dicevo – così civili, così umani, così idealisti, nascondano un passato turpe di odio antislavo, di sopraffazione  etnica, di persecuzione ai danni di quelli che – così sembravano e sembrano  dirci tutti – sono i veri figli di quella terra, mentre la nostra gente  sarebbe giunta lì da colonizzatrice, finendo poi coll’essere ricacciata verso  i luoghi d’origine? Possibile che i nomi Ragusa, Zara, Pola, Fiume, Rovigno, Pisino,Parenzo, che in Italia in pratica solo noi usiamo, e che gli altri italiani  ignorano a beneficio del nome slavo, siano in fondo il risultato di  un’operazione di snazionalizzazione, condotta tra le due guerre mondiali dal  governo italiano usurpatore?  
Io sapevo che ciò non era possibile, e rimanevo incredulo di fronte  all’enormità della cosa. Ma c’era ben altro. Vedevo celebrare la tragica disfatta dell’Italia, di tutta l’Italia, mutilata dal trattato di pace, come se si  fosse trattato di una vittoria. Vedevo il presidente italiano Pertini esaltare Tito, suo amico  fraterno e da lui considerato esempio incomparabile di progressismo socialista e creatore di una  nuova società dove i tristi antagonismi nazionali, frutto di una mentalità  borghese e reazionaria, erano stati definitivamente eliminati. Almeno così gli  spiriti illuminati ci dicevano. Vedevo la classe politica italiana rinunciare  definitivamente alla zona B nell’indifferenza generale del Belpaese e  addirittura tra il tripudio della stampa, felice che l’Italia e la Jugoslavia  fossero riuscite a superare gli “stretti egoismi nazionali”. In Jugoslavia, in  realtà, gli egoismi etnici sarebbero ben presto esplosi, con la riedizione  delle nostre foibe e con altri massacri, anche più spettacolari; perché, cosa  volete, nella Jugoslavia progressista vi era pur stato un certo progresso… Aspettavamo che ci si accorgesse di noi perché l’indifferenza degli organi  d’informazione ci faceva male. E se i giornali, la radio o la televisione  s’interessavano a noi, lo facevano con un’assoluta mancanza di sensibilità e  con un’incredibile ignoranza.  
Il giorno è arrivato. “Il popolo che non esisteva” è uscito dall’ombra. C’era chi aspettava questo giorno con ansia. Ho un ricordo doloroso. Sono passati tanti anni. Ero in un  salone funebre, a Montreal, per un estremo omaggio alla signora Rina Zuliani,  istriana. Osservavo una sua giovane nipote, nata qui, che sopraffatta  dall’emozione era china sul volto della defunta, esposta nella bara com’è  usanza. All’improvviso, questa giovane, rivolgendosi a me, esclamò tra le  lacrime, amara ed accorata: “Signor Antonelli, ma perché non si legge mai  nulla sulla gente come mia nonna? Mi ha raccontato delle storie orribili… Ha  tanto sofferto… Una volta ho parlato di queste cose all’università. Ma nessuno  mi ha creduto. Perché non parlano né scrivono mai di noi? Non ci sono libri  sulle foibe? Perché?… Perché?…”  No, allora non c’erano libri sulle foibe. O forse ce n’erano, uno o due –  quello di padre Rocchi, per esempio – ma non di più. E conosciuti da quasi  nessuno, anche perché non tradotti in altre lingue. Noi eravamo il popolo che  non esisteva. Nessuno parlava di noi. E se non lo faceva nessuno in Italia,  figuriamoci qui in Nord America… Ma finalmente il nostro passato è riemerso: intitolazione di strade e piazze  ai nostri morti, i francobolli sull’esodo, il Giorno del ricordo… Il geniale, meraviglioso Simone Cristicchi con il suo "magazzino 18"… Ciò  giunge a ristabilire i fatti, a dar voce a chi è stato per tanto tempo  silenzioso. È vero, tanta nostra gente è morta. Penso a mia madre. Ma non solo  a lei. Ad altri: al mio amico fiumano Nereo Lorenzi, a mio zio Oliviero  Bresciani, morto a Buenos Aires, a mio cugino Bruno Gherbetti - morto ad  Edmonton -  figlio di quel Lino trucidato a Pisino dai partigiani titini  perché colpevole di essere italiano. Articoli, libri, cerimonie possono dare conferma ai figli di ciò che i  genitori dissero loro.
I figli ci garantiscono la continuità biologica; qui all’estero molto meno  quella culturale e quasi per nulla quella “storica”. Parlo di noi che,  decidendo di andare a vivere all’estero - ma ormai non è più “estero” per noi -  abbiamo inconsapevolmente accettato di assistere alla fine, nei nostri  figli, nei nostri discendenti, dell’identità nazionale: l’identità italiana, strenuamente difesa dai nostri antenati nell'aspra terra dei Balcani. Non intendo parlare per gli altri. Parlo per me, di mio figlio nato da una  mamma orientale. Anni fa gli mostrai il libro scritto da me sui  giuliano-dalmati. Allora egli mi rispose, nel suo italiano approssimativo che i miei infiniti sforzi avevano fin li' prodotto, quale fosse il titolo, come  si leggessero insomma quelle righe sulla copertina… E me le indicava con il  ditino. Allora pensai che un giorno avrebbe letto il mio libro – "Fedeli all'Istria, Fiume, Dalmazia – Noi profughi-emigrati". Ma non provai un sentimento di gioia piena. Anzi provai un dubbio. Perché non è giusto trasmettere ai figli il trauma dell’ingiustizia e dello sradicamento.  Ma è anche giusto che il proprio figlio sappia, o almeno intuisca, il passato  del padre, perché così potrà continuare idealmente una parte, sia pur minima,  di ciò che noi fummo.
È di moda, ormai da anni, parlare di nuove formule di aggregazione delle società nazionali capaci  di andare al di là dello stato-nazione, non solo, ma persino della memoria  comune. Il fenomeno dell’immigrazione massiccia, dei matrimoni misti, della  caduta, vera o presunta, delle barriere culturali grazie a nuovi sistemi di  comunicazione, le politiche del multiculturalismo, le nuove entità  supranazionali - in gran parte economiche - il mito del mondialismo e della  globalizzazione, i fattori interculturali sempre più diffusi suscitano l’idea  di nuove formule di aggregazione e di organizzazione sociale che prescindano  dai condizionamenti del passato nazionale ed accettino ogni differenza. Non  sarò certo io, che ho sposato una donna di una razza molto diversa dalla mia e che “pratico” quotidianamente il multiculturalismo, a contestare il  superamento di certe barriere. Permettetemi nondimeno di essere scettico su  certe formule alla moda, che non si basano su un effettivo allargamento dei  propri confini spirituali, della propria umanità, ma solo su idee di “social  engineering”, cioè di pura "sperimentazione sociale".
  Credetemi: è molto difficile divenire nell’anima “multiculturali”. I tragici  avvenimenti della Jugoslavia, questo laboratorio-caserma di nuovi rapporti interetnici esploso nel sangue,  ce ne danno la conferma estrema. E non basta adottare una formula, che oggi  è “aboliamo lo stato nazione”, per credere di poter entrare finalmente in una  nuova era. Anche il tribalismo è all’opposto dello “stato nazione”, ma  rispetto ad esso non costituisce certamente un passo avanti, anzi è rimasto bloccato al paletto di partenza nell'evoluzione di popoli e nazioni. Le civiltà non  accettano corsi accelerati, sul modello dei cosiddetti “brain storming” in  voga tra i managers di società o tra gli addetti alle vendite; l’animo umano  evolve con estrema lentezza. Io credo che solo partendo dall’amore per coloro che il destino ci ha  collocato più vicino si potrà giungere all’amore per gli altri, più lontani.  Solo riandando alla ricchezza del nostro angolino di partenza si potrà  apprezzare il lungo viaggio che ci ha condotto dove adesso siamo. Solo curando  le radici potremo avere rami più ampi e possenti. Solo ben conoscendo e amando l'idioma di partenza si potranno imparare bene altre lingue. Ecco perché io credo che  attraverso l’attenzione che finalmente ci è stata rivolta noi potremo rivolgere  uno sguardo più umano anche a chi è lontano da noi. Non si tratta, quindi, di  toccare all’infinito la corda della nostalgia e del rimpianto allo scopo di  comporre un monotono e doloroso salmo, ma piuttosto di giungere ad una certa  pace, ad una certa catarsi. Quella catarsi che attendevamo da tanto tempo, e  che il silenzio e l’indifferenza degli italiani intorno alla storia delle  nostre terre ci avevano tenuta, per anni ed anni, lontana.
L’invecchiare fa sì che il misterioso legame con la terra dei padri riaffiori  e si faccia doloroso. D’altro canto i nostri figli hanno visto la luce in una  terra che possiede un’altra lingua, altre memorie nazionali, altri miti  fondatori, altre pagine di storia, un altro destino. Di qui un inevitabile  rapporto tormentato nelle anime più sensibili con l’idea che chi ci continua  non potrà continuare la parte più profonda di noi, le nostre fedeltà, il  nostro passato, la nostra particolare sensibilità plasmata dai drammatici  avvenimenti bellici e postbellici.
“Dovremmo fare come gli ebrei!” è l’incitamento che si ode spesso nella  comunità italiana. Esso è volto ad incitare gli italiani ad affermarsi come  presenza più forte nel multiculturalismo canadese. Il riferimento agli ebrei,  naturalmente, è fortemente ammirativo. Viene spontaneo pensare che a più forte ragione noi, istriani, fiumani e  dalmati, rispetto agli altri italiani, dovremmo aderire all’invito “Facciamo come gli ebrei!”, anche perché noi, a differenza degli altri italiani, abbiamo un rapporto ormai più  ideale che fisico con la nostra terra d’origine. Questa infatti è stata  travolta dalle forze distruttrici della storia, che ne hanno irrimediabilmente  alterato equilibri, profili, identità. In molti casi solo le pietre rimangono, testimoni muti di un passato travisato. No – io dico - noi non potremmo mai fare come gli ebrei, perché noi non siamo come loro.  Alla base del nostro essere vi è il rapporto con la terra. Ed è questo amore  particolare per la terra che ci ha dato i natali a spingerci ad accettare e a  capire e ad incoraggiare - nel caso di chi, come nostro figlio, è nato qui -  il sentimento di amore e di lealtà nei confronti del paese che la nascita ha  fatto per lui assurgere a patria. Quella stessa legge che ci spinge ad amare  la terra che ci ha visto nascere, noi dobbiamo riconoscerla e rispettarla  anche nei nostri discendenti. La lealtà verso il paese che ci ha accolto è un  dato essenziale nel nostro sistema di valori identitari dal forte orientamento patriottico.  Ciò farà sì che i  nostri discendenti non saranno mai degli eterni transfughi, per il profondo  sentimento di attaccamento alla nuova terra che abbiamo loro dato.
Il paese nel quale si è nati è per noi una terra reale, e non un fatto  religioso, profetico, mitico, anche se da lontano questa terra può venir trasfigurata e sublimata  grazie a quel fatto potente e misterioso che è la trascendenza che dà  l’esilio. Ovidio e Dante ci hanno già mostrato che l’esilio sa aprire certe  misteriose porte dell’anima che prima si ignoravano. Questo è in fondo  l’arricchimento più prezioso della nostra esperienza di profughi- emigrati. Ma di questo non è facile parlare, perché cosa troppo intima, che ci ispira pudore.
Finalmente il giorno è arrivato. Esso ci riporta il nostro tormentoso passato,  il passato di una gente che per tanti anni non è esistita – ufficialmente – in  un’Italia ignara e indifferente. Un passato nel quale noi ci auguriamo che un  giorno tutti gli Italiani possano riconoscersi, grazie ad un nuovo sentimento  di unità e fratellanza nazionale, di continuità, e di pacificazione capace di andare al di là della fosca palude fatta di risentimenti, divisioni, faziosità nella quale la nostra Patria  da troppo tempo imputridisce. Perché il "Giorno del ricordo" in fondo, lungi dall'esaltare una differenza di storia, identità e destini, è la celebrazione della nostra antica fedeltà e del nostro tenacissimo amore per la Patria italiana.

Claudio Antonelli (già Antonaz)  







08 - Avvenire 09/02/14 Foibe, la censura continua?

Foibe, la censura continua?
C’è una faziosità atavica nella cultura politica che, comprensibilmente, di­venta rancore ottuso al momento in cui l’accer­tamento storico-critico investe il Moloch irragio­nevolmente granitico e violento della 'vul­gata' resistenziale.

Un’isteria e un’insistenza banalmente pro­vocatoria dell’affronto si risveglia in due cir­costanze: al ricordo dell’eliminazione, ad opera di partigiani comunisti, dei partigia­ni cattolici della «Osoppo» a Porzus nel feb­braio 1944, uomini colpevoli di difendere territorio e popolazioni italiane dal disegno annessionistico titino; e il ricordo dei mas­sacri degli italiani della Venezia Giulia, I­stria, Dalmazia, da parte dei titini nel set­tembre 1943 e dalla primavera del ’45.


La firma del Trattato di pace, imposto all’I­talia dai vincitori (che non tennero il mini­mo conto della «cobelligeranza», delle for­ze della Resistenza, eccetera) il 10 febbraio 1947, non fu privo di reazioni negative, an­che da parte di esponenti antifascisti che vanamente si opposero a quelle clausole. Seguì l’esodo di 350 mila italiani dall’A­driatico orientale; quegli antichi filmati in bianco e nero che mostravano lo sradica­mento violento di radici culturali e socio­economiche, e lo spezzamento di famiglie tra giovani che potevano ancora aspirare alla vita e anziani condannati alla non spe­ranza nel regime comunista slavo, sono sta­te allora interpretate come testimonianze di fascismo o revanscismo da parte di quanti non accettavano un’analisi storica artico­lata di quelle vicende. Un progressivo mo­nopolio ideologico-culturale assolutizzan­te fino a controllare la memoria storica e le relative fonti di diffusione, con la compli­cità opportunistica e vile di un’intera clas­se politica, impose il silenzio.

Nelle foibe, testimonianze atroci di pulizia etnica anti-italiana (in cui persero la vita decine di migliaia di italiani), furono preci­pitate allora le testimonianze e la memoria dei reduci, dei sopravvissuti, degli scampa­ti. Achille Occhetto ha dichiarato pochi gior­ni fa di aver «appreso del dramma delle foi­be solo dopo la 'svolta della Bolognina'. Prima non ne ero mai venuto a conoscen­za »; testimone con ciò dello straordinario successo dell’operazione-silenzio. Occor­sero 70 anni per giungere a riparlarne fuo­ri dai piccoli, riservati circuiti degli esuli. Giusto dieci anni fa, il Parlamento votò pressoché all’unanimità la legge 92/2004 che dedicava il 10 febbraio, ricorrenza del­la firma del Trattato di pace, alla «memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giulia­no- dalmata, delle vicende del confine o­rientale ». Apparvero timide lapidi di ricor­do e qualche via o parco intitolato alle vit­time delle foibe; lapidi subito infrante: alto il rischio di ricordare, anche da semplicis­sime righe, che l’impianto ideologico co­struito e imposto a difesa dell’indifendibi­le non poteva consentire di sbirciare oltre l’epicizzazione comunista, meno che mai accertare fatti tramandati da lapidi e mo­numenti falsi, medaglie con motivazioni fa­risaiche, in un sistema complesso di rigo­rosa vigilanza ideologica interna e interna­zionale.

Sperimentato persino dal presidente Na­politano che, coraggiosamente, in occasio­ne del suo primo «Giorno del Ricordo» ce­lebrato da capo dello Stato, ricordò quelle «miriadi di tragedie e di orrori» conseguenti a «un disegno annessionistico slavo», ri­chiamando all’assunzione della «responsa­bilità dell’aver negato, o teso ad ignorare, la verità». Seguirono reazioni insultanti del­l’allora presidente croato Mesic, capace di scorgere in quelle parole «elementi di a­perto razzismo, revisionismo storico e re­vanscismo politico». Nient’altro!

Oggi, di fronte all’accettazione diffusa d’u­na realtà non più silenziabile (malaugura­to crollo del muro di Berlino!), cambia il metodo: ciò che non è più nascondibile va allora ascritto alle precedenti responsabilità fasciste, talmente gravi e violente da giu­stificare una reazione slava. Ma se ne sono accorti solo ora? Perché non dirlo nei de­cenni del silenzio forzoso? Allora è stato si­lenziato persino l’antifascismo. Comunque attenzione: che il poi sia deter­minato da un prima non cronologico ma causale l’aveva detto anche Nolte, denun­ciando il nazismo come reazione al comu­nismo e il lager come conseguente al gulag. Non ebbe vita facile, ma può contare ora su un po’ di attardati seguaci. Basta, comun­que, col mito degli «italiani brava gente» (anche se occorrerà reinterpretare Nuto Re­velli, il quale incautamente ricordava che in guerra, nell’Unione Sovietica di Beppe Stalin, i soldati tedeschi presi prigionieri ve­nivano fucilati sul posto, gli italiani avviati ai lavori forzati).
 
Simone Cristicchi, da sinistra, dà vita ad u­no spettacolo toccante, dedicato alle spe­ranze estreme e alle vite degli esuli italiani racchiuse in qualche scatolone ammassa­to a Trieste nel «Magazzino 18»; grande pathos e grandi riconoscimenti critici; be­ne, immediate proposte perché gli venga ri­tirata la tessera ad onore dell’Anpi. E allo­ra altrove va in scena Io odio gli italiani, pié­ce sulla drammatica vita nei campi di con­centramento italiani da Gonars ad Arbe (chissà se anche sulle testimonianze degli ebrei qui internati?). Iniziative sospette di puntuale opportunismo, utile a creare il «caso» e dunque a godere di qualche ri­chiamo di cronaca, e di banale prevedibi­lità, che testimoniano del successo del «Giorno del Ricordo»; come una lapide in­franta: al silenzio lacerato segue la violen­za. Hanno perso.

Paolo Simoncelli




09 - La Voce del Popolo 10/02/14 L'intricato confine orientale d'Italia
L'intricato confine orientale d'Italia

Kristjan Knez

Un decennio fa, con la legge n. 92 del 30 marzo 2004 approvata dal Parlamento italiano quasi all’unanimità, fu istituito il Giorno del Ricordo.
Lo Stato italiano, con un tardivo riconoscimento e dopo oltre mezzo secolo di completo disinteresse, volle dare dignità a vicende dimenticate e rammentare un capitolo della storia nazionale, che fu relegato a semplice problema locale dei territori nord-orientali del Paese. A guerra finita, una fiumana montante straripò e travolse tutto e tutti. La stessa Italia, quella fascista, ebbe non poche colpe, è innegabile. Conducendo la sua politica di potenza, invase la Jugoslavia assieme alla Germania e agli alleati dell’Asse. In più, nel periodo tra le due guerre, il regime del littorio aveva messo in atto un programma teso ad annullare le componenti “diverse”
di una regione che doveva divenire una sorta di marca di frontiera, l’antemurale del Regno nonché un trampolino per l’espansione nell’area balcanica e adriatica.
Ad avvelenare i rapporti e gli equilibri etnici, già tesi, contrassegnati da un acceso scontro politico e da un vivace confronto identitario – che si muoveva entro la cornice legalitaria offerta dall’Impero danubiano – ci pensarono le camicie nere, che s’inserirono nella crisi dello stato liberale, in una società sconquassata dai postumi del primo conflitto mondiale e titubante per la reazione della sinistra, inneggiante a Lenin e alla rivoluzione bolscevica.
Nella Venezia Giulia si aggiungevano i problemi nazionali, che con il crollo dell’edificio asburgico, emersero con tutta evidenza. La carta geografica fu modificata, alcuni territori furono “redenti”, altri furono considerati “perduti”, si parlava di “vittoria mutilata”, oppure di amputazioni ingiuste del “territorio etnico”. E non poteva essere diversamente, dal momento che, proprio nel corso della “finis Austriae”, le componenti nazionali dell’allora Litorale avevano sviluppato due concetti, altrettanti immaginari nazionali nonché proposto la linea estrema del territorio d’appartenenza ed i relativi confini della Nazione.
Ma in un’area di contatto, plurale, in cui popoli, lingue e culture s’intersecavano, caratterizzata anche da differenze marcate, spesso conviventi in un breve raggio, era particolarmente arduo tracciare dei limiti netti, che non scontentassero l’una o l’altra controparte. La storia novecentesca del confine orientale d’Italia fu contraddistinta proprio dalla mobilità, con dilatazioni e arretramenti, che ebbero ripercussioni su ogni segmento della società. Poiché le manifestazioni che avevano interessato le popolazioni nell’arco temporale di un secolo circa, dalla metà del XIX alla metà del XX secolo, s’inserivano nel denominatore comune della costruzione della nazione, non è inconsueto cogliere ostilità, brusche interruzioni e vigorose riprese (con contraccolpi di vario genere) di siffatto processo.
Trovandosi ai margini del Regno ed essendo un territorio di recente acquisizione e per di più conteso, dopo la capitolazione dell’8 settembre 1943, la Venezia Giulia conobbe un percorso diametralmente opposto a quello delle altre terre italiane. Essa fu strappata dal nesso statale di Roma e annessa al Reich hitleriano. La stessa ondata di violenza che la investì prima della possente offensiva della Wehrmacht, con i processi sommari e gli infoibamenti, che scossero la popolazione civile, furono il riflesso di una pratica importata da lontano.

Era un prodotto della virulenta guerra civile che si stava consumando entro lo Stato indipendente di Croazia e gli anfratti delle zone carsiche erano utilizzati dagli ustascia per l’occultamento dei corpi senza vita. Una pratica che presto divenne una pratica comune. Era altresì una terra rivendicata e l’Italia era considerata alla stregua di un’usurpatrice. Le autoproclamazioni di quello stesso settembre, con le quali i territori giuliani (entro il confine di Rapallo) vennero annessi rispettivamente alla Slovenia e alla Croazia, quindi alla nuova Jugoslavia, erano la prova palese degli obiettivi programmati. Ebbe inizio un’odissea che sarebbe perdurata fino al 1954 o il 1956, cioè con il termine delle opzioni, che svuotarono anche la zona B del mai costituito Territorio libero di Trieste.
Le contrapposizioni, le aspirazioni nazionali, i contrasti ideologici, gli interessi delle grandi potenze e un coacervo di proposte e controproposte sui futuri confini, scandirono la vita in quel torno di tempo. La popolazione italiana quasi scomparve, anche quella fu la conseguenza di una politica sciagurata, condotta da quella “madre”, così fu salutata nel novembre del 1918 allorché venne a “liberare” i suoi figli, che un trentennio più tardi rischiava di perdere finanche Trieste, uno dei simboli delle terre irredente, per le quali la Nazione aveva sacrificato centinaia di migliaia di uomini.
Le conseguenze furono sproporzionate. L’esercito jugoslavo vinse la sua corsa in direzione della città di San Giusto. Si giunse alla resa dei conti, alla vendetta, nulla di eccezionale dopo un conflitto, da che mondo è mondo.
Ma ci fu dell’altro: vi era un progetto annessionista, chi si opponeva o potesse manifestare una qualsiasi forma di contrarietà nel corso della conferenza di pace o in altra sede andava eliminato, praticando quella che è stata definita l’“epurazione preventiva”. In più era in corso la rivoluzione, messa in atto già durante la guerra, pertanto non si tardò ad attuare una pulizia classista.
E nell’individuazione delle numerose categorie avverse, definite con il termine generico di “nemici del popolo”, non si seguiva la linea nazionale, anche perché all’interno dei cosiddetti “poteri popolari” non mancavano gli esponenti comunisti italiani. Si percorreva piuttosto una logica politica, giacché il fenomeno coinvolse l’intero territorio controllato dagli jugoslavi, che non fu risparmiato dagli episodi di efferatezza, una costante della presa del potere da parte dei comunisti. Sia nella parentesi del 1943 sia nel 1945 e successivamente, furono messi in pratica gli insegnamenti appresi in Unione Sovietica, che rimandavano alle prassi della rivoluzione e della guerra civile nonché dello stalinismo.
Vi erano antagonisti politici, istituzionali, sociali. Le eliminazioni – salvo casi specifici – non erano il risultato di una violenza perpetrata dai popoli “oppressi”, che nell’euforia della ritrovata libertà avrebbero scatenato gli istinti più infimi, perché quel compito fu affidato a strutture specializzate, come l’OZNA, una creatura del Partito comunista, che si rifaceva all’esempio della polizia segreta stalinista, i cui stessi quadri si erano formati in seno a quella scuola. In più si riversò una dose di violenza incontrollabile, incanalandosi nella confusione concomitante con il capovolgimento degli assetti in senso lato, le cui vittime in non pochi casi difficilmente trovano posto in una delle categorie soprammenzionate.
Nelle terre adriatiche, accanto a quanto ricordato, si aggiungeva la rivalsa nazionale, la rivincita della campagna sulla città, e possiamo parlare addirittura della continuazione del risorgimento slavo, inserito in un contesto completamente diverso, che trionfò grazie a modalità illiberali, aggressive e intimidatorie. Questioni pregresse, vecchie ruggini, offese più recenti, visioni nazionaliste, si accostavano alla spirale di violenza, che proseguì anche al termine di una guerra cruenta che aveva esacerbato gli animi. E poi ci fu l’esodo, che stravolse i connotati di un’intera area geografica, tanto da divenire un fenomeno inaspettato, che sorprese le stesse nuove autorità.
Il largo dissenso manifestato dalla popolazione italiana fu represso con il terrore – come a Capodistria nell’autunno del 1945, per fare un esempio – e in seguito le comunità furono sottoposte a un controllo ferreo, le cui conseguenze furono un fallimento completo, che cogliamo appieno attraverso gli abbandoni del suolo natio (in misura più contenuta anche delle altre componenti autoctone). Oltre al sovvertimento e al trauma generale, le collettività italiane furono scardinate, eclissate, sradicate, disperse e in loco ridotte al lumicino. Questo fu il bilancio finale.
Pochi mesi dopo la firma del Trattato di pace di Parigi, Ernesto Sestan, insigne storico nato da genitori albonesi, in un suo insuperabile testo sulla Venezia Giulia, con grande efficacia paragonò il dramma istriano alla tragedia consumatasi nel Mediterraneo orientale all’indomani del primo conflitto mondiale: “Quando poco più di vent’anni or sono, per una sorte simile alla nostra, i Greci d’Asia minore abbandonavano, dopo quasi tre millenni, le rive sonanti dell’Egeo, portavano con sé le memorie di Mileto, di Efeso, di Alicarnasso: le memorie più insigni, germinali della civiltà mediterranea ed europea. Non così alte memorie si lasciano alle spalle, oltre Adriatico, i profughi dell’Istria; eppure il cuore sanguina”.


10 - Il Tempo 10/02/14  Intervista a Carla Elena Cace : «I comunisti non ascoltarono mai le ragioni di istriani e giuliano-dalmati»


«Togliatti e il Pci complici delle foibe»

Oggi il Giorno del Ricordo.

La scrittrice Elena Cace racconta le stragi titine «I comunisti non ascoltarono mai le ragioni di istriani e giuliano-dalmati»
 

Un libro per «illuminare» l’oblio planato per decenni sulle foibe e sugli esuli istriani, giuliani e dalmati; per riempire le pagine vuote che gli storici «marchiati» con un simbolo a senso unico non hanno mai voluto scrivere; per risvegliare il ricordo di quanti patirono la furia comunista senza che la loro patria, l’Italia, tendesse la mano per accoglierli. Un libro intitolato «Foibe ed esodo. L’Italia negata» (edizioni Pagine), scritto dalla giornalista e storica dell’arte Carla Isabella Elena Cace, esule di terza generazione, che a 10 anni dall’istituzione del «Giorno del Ricordo» ha voluto sigillare la fine di un’epoca: l’epoca del silenzio e della verità negata, della storia fasulla e omertosa e delle menzogne divulgate per decenni. Il libro verrà presentato oggi alle 17 a Palazzo Ferrajoli, in piazza Colonna 355.

C’è un’Italia negata, un’Italia di vittime ignorate e di giovani, donne e vecchi «oscurati» per comodità storica e politica.
«L’eccidio dei connazionali di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia è stato il più grande dopo l’Unità d’Italia. Ed è surreale che sia stato cancellato dalla coscienza nazionale. L’Italia aveva perso la guerra e quelle popolazioni hanno pagato il prezzo di una guerra che era di tutti gli italiani. Vivevano su un terra di confine e sono stati risucchiati dalla potenza del maresciallo Tito. Dobbiamo dire con chiarezza che la strage di questi italiani è avvenuta per mano di comunisti jugoslavi».

Nel dedicare il libro a suo nonno, Manlio Cace, ufficiale medico esule da Sebenico, lei parla di «congiura del silenzio». Da parte di chi?
«Per capirlo basta leggere i carteggi di Palmiro Togliatti con altri funzionari del Partito comunista dai quali si evince chiaramente la linea tenuta dal leader del Pci. Nel 1942 da Radio Mosca, Togliatti invitava gli italiani ad unirsi ai partigiani jugoslavi. Questa cos’è se non complicità nella pulizia etnica e nelle stragi delle foibe? Il Pci fu sempre contrario ad ascoltare le ragioni dei giuliano-dalmati, per motivi ideologici e per non incrinare l’amicizia con i popoli jugoslavi. Il loro silenzio successivo fu assoluto. Il Pci ha avuto il monopolio della cultura italiana, quindi dell’istruzione e della coscienza storica. Sono stati loro, complice l’atteggiamento da Ponzio Pilato della Dc, a decidere il racconto della nostra nazione, che cancellò una strage di proporzioni bibliche non ancora svelata. Della "congiura del silenzio", non va dimenticato, ha parlato anche il presidente Napolitano».

Nel libro le responsabilità vengono assegnate anche a una Dc «consociativamente» silenziosa, agli anglo-americani che «lasciarono fare» in nome della realpolitik, ma anche alla Cgil.
«È innegabile. Quando gli esuli tornarono in Italia vissero un dramma nel dramma. L’accoglienza per loro fu spesso spaventosa, soprattutto in certe zone più ideologizzate, come l’Emilia Romagna. Arrivati a Bologna, ad accoglierli c’erano militanti e simpatizzanti del Pci ma anche del «sindacato rosso», che li definivano "cosiddetti esuli" e li accusavano di fuggire non per evitare di vivere sotto una dittatura comunista ma perché collusi col fascismo».

A dieci anni dall’istituzione del Giorno del Ricordo, il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha cancellato i fondi per i viaggi degli studenti su quei Luoghi della Memoria.
«Io mi vergogno del sindaco Marino. Tagliare completamente i fondi per i Viaggi della Memoria è una scelta di una gravità inaudita. Negli ultimi anni la presenza di studenti interessati e vogliosi di conoscere era in costante aumento. Interrompere questo viaggio di preparazione culturale è un’imperdonabile offesa».

Simone Cristicchi, per aver portato in scena il dramma delle foibe con «Magazzino 18», su cui nel libro ci si sofferma, è stato «assalito» anche da alcuni ragazzi che hanno interrotto il suo spettacolo giudicandolo «revisionista».
«In certi ambienti di radicale militanza politica si vive per dogmi. Non ci si interroga, si vive "contro" ogni cosa. E poi approfondire richiede impegno intellettuale, mentre è molto più semplice scagliarsi contro qualcosa. Non vogliono abbandonare la loro ideologia né riconoscere che questi morti sono morti italiani».

Achille Occhetto, che ha guidato il partito comunista nella sua fase conclusiva, ha «confessato» di non aver mai sentito parlare delle foibe prima dell’89.
«Non credo che Occhetto non sapesse. Probabilmente non aveva compreso col cuore, forse sapeva ma è passato velocemente alla pagina successiva senza comprendere il dramma che gli si stava parando davanti».

Lo stesso Occhetto ha ammesso di essersi commosso assistendo a «Magazzino 18» allo stesso modo in cui si commosse leggendo il diario di Anna Frank.
«L’arte raggiunge il cuore. Possiamo fare mille conferenze e dibattiti, ma i freddi numeri della storia e delle cifre non potranno mai avere lo stesso effetto. L’arte fa commuovere, come fa commuovere Magazzino 18. La storia degli esuli arriverà al cuore dagli italiani quando diventerà spettacolo, romanzo, opera artistica».

Cosa deve cambiare affinché non accada più che migliaia di vittime innocenti vengano dimenticate dalla storia?
«Non bisogna mai stancarsi di raccontare, scompaginare questi lunghi anni di silenzio. Oggi siamo al punto di partenza, non di arrivo. Solo battendosi e lottando, la verità sulle foibe e sugli esuli verrà a galla. Il mio libro è parte di questa battaglia».

Luca Rocca






11 – Corriere della Sera 11/02/14 L'indicibile (per anni} violenza delle foibe.
IL GIORNO DEL RICORDO
L`indicibile (per anni) violenza delle foibe
di GIOVANNI BELARDELLI
Gli atti di vandalismo compiuti ieri ai danni di qualche monumento alle vittime delle foibe vanno ovviamente condannati, ma senza sopravvalutarli. Da tempo infatti il Giorno del ricordo, dedicato
alla memoria degli italiani vittime della violenza jugoslava e insieme dei circa trecentomila esuli che nel dopoguerra dovettero lasciare l`Istria e la Dalmazia, vede il manifestarsi di contestazioni scarsissime di numero e per così dire residuali. Direi anzi che su pochi argomenti del nostro passato recente il giudizio prevalente è cambiato come in relazione alle drammatiche vicende che ricordiamo il 10 febbraio.
Le violenze commesse dall`esercito popolare jugoslavo durante l`occupazione di Trieste - dapprima dopo 1`8 settembre 1943, poi nei terribili quaranta giorni seguiti alla «liberazione» della città hanno rappresentato per decenni episod letteralmente indicibili, per almeno due fondamentali motivi. Le vicende legate all`esodo ricordavano al Paese qualcosa che la maggioranza degli italiani la gente comune ma anche le élites politiche e intellettuali - aveva preferito rimuovere rapidamente: il fatto che l`Italia - nonostante la Resistenza, nonostante il rango di Paese cobelligerante ottenuto dagli Alleati - la guerra l`aveva pur sempre persa, dovendo subire al suo confine orientale una amputazione territoriale particolarmente significativa (anche per gli echi simbolici che rimandavano alla guerra del `15-18). Inoltre, il tema delle violenze esercitate dai comunisti jugoslavi contro gli italiani era particolarmente imbarazzante per il Pci, che durante la guerra (e oltre) aveva seguito nei suoi rapporti con Tito una politica a dir poco ambigua; una politica che, ad esempio, nel 1944 aveva indotto i comunisti italiani a uscire dal CM di Trieste e a far entrare le proprie formazioni partigiane nell`esercito di liberazione jugoslavo.
Politici e intellettuali comunisti (storici compresi) a lungo continuarono a sostenere che nelle foibe erano stati gettati solo dei fascisti, come reazione alla politica di sopraffazione e snazionalizzazione che il regime di Mussolini aveva adottato nei confronti delle minoranze slovena e croata.
In realtà le violenze jugoslave si erano rivolte contro gli italiani in quanto tali antifascisti compresi - poiché essi rappresentavano un ostacolo per le mire annessionistiche di Tito. Ma per anni affermare questo, e ricordare le vittime delle foibe o l`esodo dei profughi giuliano-dalmati, significava venire considerati Mequivocabilmente di destra e anzi essere bollati come «fascisti». Terribile, al riguardo, l`episodio che Claudio Magris ha narrato su questo giornale vari anni fa, rievocando quanto accadde ad alcuni esuli che, lasciate le loro terre e costretti a
 chiedere rifugio nella Penisola, si trovarono a sostare alla stazione di Bologna: i ferrovieri comunisti minacciarono di bloccare il traffico di quell`importante nodo ferroviario se si fosse permesso a quelle povere famiglie di scendere dal treno per rifocillarsi. Ai loro occhi, i profughi
avevano avuto la fortuna di essere stati collocati dal nuovo confine nella Jugoslavia di Tito, che stava costruendo un radioso futuro socialista. Se vi avevano rinunciato, voleva dire che erano fascisti.
Questa era l`Italia di fine anni 4o. Ma il pregiudizio negativo nei confronti di
 quegli esuli, l`innominabilità delle foibe, durarono a lungo. Ancora venti anni fa,
alcuni esponenti del Pds triestino chiedevano alla Rai di non trasmettere la
puntata del programma Combat film, dedicato appunto alle foibe. Ma proprio dai ranghi della sinistra postcomunista doveva venire di lì a non molto la fine dell`ostracismo, con il segretario del Pds triestino Stelio Spadaro che nell`estate 1996 - presto seguito da dirigenti del rango di Piero Fassino - chiese a gran voce al suo partito di cambiare finalmente il giudizio sulle foibe. In un crescendo di polemiche, interviste, articoli (il Corriere arrivò a pubblicarne almeno uno al giorno)
infine il muro della memoria si sgretolò.
Con qualche residua resistenza, certo: alcuni dizionari ed enciclopedie continuarono
 ancora per un po` a menzionare le foibe soltanto come «depressioni carsiche», omettendo di ricordare le migliaia di povere vittime che vi erano state gettate, spesso ancora vive; una fiction Rai, nel 2005, chiamava pudicamente i comunisti jugoslavi soltanto «titini» per non offendere non si sa bene chi. Ma a suggellare un cambiamento generale di clima c`era ormai stata, nel 2004, la legge che istituiva il Giorno del ricordo, approvata da tutti i partiti esclusi alcuni irriducibili nostalgici di Rifondazione e del Partito dei comunisti italiani. Ieri abbiamo tutti potuto vedere la cerimonia al Senato, che conferma ulteriormente come la memoria di un Paese non sia necessariamente immobile, dunque come l`evocazione del «passato che non passa» sia spesso soltanto un modo per coprire i nostri pregiudizi e le nostre pigrizie.





12 - Il Giornale 10/02/14 Ricordiamo le foibe, dimentichiamo l'orrore
Ricordiamo le foibe, dimentichiamo l'orrore
Marcello Veneziani
Le foibe restarono un mistero doloroso. Furono il concentrato feroce di tre guerre in una: la pulizia etnica contro gli italiani, la lotta di classe contro borghesi e possidenti, il comunismo contro il nazional-fascismo
Quando si spengono i ricordi nascono le giornate della memoria. Infatti le memorie più vive non hanno bisogno di essere prescritte per legge.
Ma il giorno che ricorda le foibe, il 10 febbraio, nac­que dopo decenni di vergognosa omer­tà. Era vietato parlare delle migliaia di istriani, giuliani e dalmati infoibati o pro­fughi dalle loro terre e del Trattato che le cedeva alla Jugoslavia, per tre ragioni: perché era proibito discutere la sparti­zione del mondo decisa a Yalta; perché i comunisti italiani avevano scheletri nel­l’armadio, avendo collaborato con i par­tigiani titini in quella che le circolari del Pci chiamavano «la tattica delle foibe» e nel far strage di partigiani anticomuni­sti, come a Porzus; perché dovevamo te­ner­ci buono Tito che si era sganciato dal­l’impero sovietico. Così le foibe restaro­no un mistero doloroso. Furono il con­centrato feroce di tre guerre in una: la pulizia etnica contro gli italiani, la lotta di classe contro borghesi e possidenti, la guerra ideologica del comunismo con­tro il nazional-fascismo. Per recuperare l’omissione storica e onorare la memo­ria delle vittime, è giusto che le scuole, la tv, i testi ora ne parlino.
E tuttavia lascia­temi dire che è malefico identificare la memoria con l’orrore, come accade in queste giornate dedicate ai genocidi. Pri­mo, perché la memoria non può essere monopolizzata dall’orrore e identificata con gli stermini, ma devono trovar posto anche i ricordi storici di eventi positivi.
Secondo, perché la memoria non va esercitata solo con eventi pubblici e tra­gici ma anche con ricordi teneri e priva­ti, perché la sede dei ricordi è il cuore e non il tribunale. Terzo, perché se ricor­dare è sempre un tornare sugli orrori, se la storia va studiata solo come teatro del Male, la gente alla fine preferisce dimen­ticare per continuare a vivere e pensare al futuro. È umano.
A volte, sono salutari anche le giornate dell’oblio.Non quelle che nascono da ce­cità e intolleranza, trascuratezza e igno­ranza, che sono fin troppe. No, dico le giornate del pietoso oblio, un consape­vole tacere per rispetto delle vittime e pe­na dei carnefici. Ovvero di chi perse la vita e di chi perse l’anima



13 – La Voce del Popolo 11/02/14 Editoriale - Un progetto per il futuro
Un progetto per il futuro

Ezio Giuricin

L’Italia, la Slovenia e la Croazia hanno bisogno di concludere quel processo di riconciliazione che è stato simbolicamente avviato il 13 luglio del 2010 con l’incontro dei tre presidenti a Trieste. Un processo di fondamentale importanza, soprattutto sul piano civile e umano, per dare nuovo impulso alla qualità delle relazioni. Il mancato completamento di questo percorso priverebbe di vere prospettive lo sviluppo dei rapporti; ma senza di esso questi - soprattutto sul piano economico - non si interromperebbero.

Per gli esuli e la minoranza, invece, il mancato compimento del processo di ricomposizione potrebbe essere esiziale. Il permanere delle divisioni e la mancanza di collaborazione tra le due componenti dell’italianità di queste terre potrebbe portare, in pochi decenni, alla scomparsa della loro identità.
Siamo convinti che il modo migliore per superare i traumi dello sradicamento e dell’abbandono, per colmare il tremendo solco che la guerra e i totalitarismi hanno inciso così profondamente sulla nostra pelle, sia quello di affermare che la nostra civiltà non è morta; che la grande eredità culturale italiana, veneta e latina dell’Adriatico orientale ha ancora radici profonde e una straordinaria vitalità.

Altri vi possono rinunciare; noi no.

Spesso parlando dell’esodo di centinaia di migliaia di persone dall’Istria, Fiume e dalla Dalmazia, si tende a descrivere una tragedia circoscritta nello spazio e nel tempo, a immaginare un percorso che si è concluso. Niente di più errato: esso continua a riprodursi, a rilasciare le sue tossine. Quel dramma ci ripresenta puntualmente il conto ogni giorno, nel presente che stiamo vivendo e, paradossalmente, continua a produrre quotidianamente i suoi effetti nefasti. Li constatiamo nel progressivo arretramento e indebolimento, quando non nella scomparsa, della nostra parlata, delle nostre tradizioni, della presenza e dell’identità italiane nelle terre del nostro insediamento storico.
Gli unici per i quali il superamento delle divisioni e la ricomposizione sono essenziali e fondamentali, per la loro stessa esistenza, sono gli esuli e la minoranza italiana. Entrambe le componenti, l’una senza l’altra, non hanno futuro: gli esuli perché senza la presenza viva della minoranza e del suo presidio di italianità sul territorio sono destinati a perdere ogni riferimento con la propria terra; i rimasti perché senza i valori di civiltà, l’eredità storica degli esodati, non potranno mai valorizzare ed alimentare le proprie radici. Entrambi, da soli, rimanendo divisi, rischiano di diventare una presenza effimera, trascurabile, di ridursi a testimonianza; di scomparire come entità vitale, concreta, attiva.

Anche l’approccio dello straordinario musical civile “Magazzino 18” di Simone Cristicchi - che ha saputo mirabilmente accostare la sofferenza dell’esodo all’esperienza dei rimasti unendole idealmente alla stessa cornice di sradicamento - ci indica l’ineluttabilità e, insieme, l’urgenza di questo percorso.

Da qui l’esigenza, partendo proprio dal Giorno del Ricordo, di concepire un grande “progetto comune” e ampiamente condiviso per rilanciare - alla luce anche delle prospettive offerte dalla completa integrazione europea di quest’area - la presenza italiana in queste terre.
Un primo passo potrebbe essere quello di avviare una serie di progetti europei per valorizzare e sviluppare il patrimonio storico, artistico, culturale e linguistico legato alla civiltà veneta e italiana in Istria, Fiume e Dalmazia. I singoli progetti, per una loro più facile realizzabilità a livello comunitario, potrebbero essere concepiti quale parte integrante di un più ampio progetto europeo per la creazione di un’area turistica integrata o per la promozione del comune patrimonio artistico, culturale, storico, ambientale e socio-economico dei territori dell’Alto Adriatico (con il coinvolgimento diretto degli Stati e delle Regioni di quest’area).

In quest’ambito si potrebbe concepire la realizzazione di un giornale - web comune tra esuli e rimasti in grado di mettere sinergicamente in rete le pubblicazioni e le testate della minoranza con quelle delle associazioni degli esuli per dare vita a un nuovo importante polo di comunicazione. Così come la nascita di emittenti radiofoniche (sia a livello locale che via Internet) e di trasmissioni televisive comuni (su Radio e TV Capodistria e per le sedi regionali della RAI). La condivisione, inoltre, di comuni spazi, l’allargamento di pagine e rubriche - come in parte si sta già facendo - sulle testate giornalistiche della minoranza e quelle degli esuli per affrontare tematiche e argomenti di comune interesse, la stampa di edizioni comuni, e una più capillare diffusione di queste pubblicazioni in Italia, Slovenia e Croazia potrebbero, inoltre, contribuire all’affermazione della presenza e dell’identità del nostro “piccolo popolo”. Le testate giornalistiche della minoranza potrebbero pubblicare delle edizioni speciali dedicate al mondo degli esuli, con il contributo delle loro associazioni, da diffondere ampiamente in Istria, Fiume e Dalmazia e su tutto il territorio italiano, e di converso le associazioni degli esuli potrebbero contribuire a far conoscere la realtà della minoranza sulle loro pubblicazioni.

I centri di studi e di ricerca delle due realtà inoltre potrebbero dare vita a progetti europei comuni e realizzare numerose sinergie, attivando e ampliando così le risorse, i mezzi, e il numero di studiosi e di collaboratori a loro disposizione. Immaginiamo quale portata potrebbe avere, ad esempio, la pubblicazione di volumi, libri, riviste scientifiche e di portali Internet comuni, la realizzazione congiunta e continuata di incontri e convegni di studi e l’istituzione, ad esempio, di un museo multimediale sulla storia e l’esperienza dell’esodo in Istria e di info - point sulla minoranza presso le istituzioni museali o di ricerca delle associazioni degli esuli (così come di analoghi punti informativi sulla realtà degli esuli e della minoranza presso vari enti, comuni e regioni italiane, ma anche in Croazia e Slovenia).

Naturalmente si tratterebbe di organizzare e coordinare in modo diverso, e sicuramente di ampliare anche gli strumenti finanziari messi a disposizione dal Governo e dalle Regioni italiane a favore delle due realtà, al fine di attivare e stimolare delle forme più concrete di collaborazione fra le due componenti dell’italianità dell’Adriatico orientale.

Si tratta solo di alcune modeste proposte per l’avvio di una riflessione su un comune percorso da compiere. Molto dipenderà dall’intelligenza, la lungimiranza e dalla buona volontà della nostra “comunità di destino” composta dai naturali eredi di una civiltà che, dopo e nonostante l’esodo, sta cercando ostinatamente di resistere.




14 - Il Piccolo 09/02/14 L'Intervento - Giorno del Ricordo diverso grazie a "Magazzino 18"
Giorno del Ricordo diverso grazie a “Magazzino 18”

L’INTERVENTO DI STEFANO PILOTTO*

Il Giorno del Ricordo riveste sempre un significato particolarmente toccante per la nostra città e per le popolazioni italiane dell’Istria, Quarnero e Dalmazia, anche se, col tempo, si tende a omologare le date nella loro asettica ripetitività e nella loro ibrida consuetudine. Così non è. Ogni anno il Giorno del Ricordo assume un’importanza diversa rispetto agli anni
precedenti: è una certezza nuova, una consapevolezza maggiormente compiuta, una partecipazione emotiva sempre più profonda. Si ricordano gli eventi cruenti della parte conclusiva della Seconda guerra mondiale, la conquista dei territori orientali italiani da parte delle truppe jugoslave, le occupazioni, gli eccidi nelle foibe carsiche e istriane, gli annegamenti nel Quarnero e in Dalmazia. Non si nasconde che ciò fu la ritorsione per le precedenti rigide politiche nazionalistiche italiane nei territori orientali del nostro Paese e in quelli jugoslavi, prima e durante la Seconda guerra mondiale, ma si denuncia senza ombre la spaventosa violenza rappresentata dalle foibe, la loro atrocità e la loro sproporzionalità rispetto alle azioni italiane precedenti. E si ricordano le conseguenze degli eventi cruenti della parte conclusiva della Seconda guerra mondiale, vale a dire la perdita dei territori orientali, l’esodo delle popolazioni italiane da quelle terre, lo sradicamento culturale e affettivo, l’espropriazione - da parte della Repubblica socialista di Jugoslavia - dei beni e delle proprietà terriere appartenenti a coloro che partirono. Con profondo rispetto, tristezza e solidarietà, ci si stringe alle comunità degli esuli, ai parenti di coloro che vennero uccisi o torturati o violentati, per condividere umanamente il dolore, con cristiana pietà. Ma quest’anno il Giorno del Ricordo assume anche un significato particolare, alla luce degli anniversari storici. Quest’anno si celebra, in primo luogo, il centesimo anniversario dello scoppio della Prima guerra mondiale, di quell’evento bellico, in altre parole, che permise, sull’onda degli ideali risorgimentali e irredentistici, di realizzare un sogno a lungo conservato ai vertici dello spirito e alla base della memoria: il passaggio dei territori culturalmente italiani alla sovranità della madrepatria. In particolare, il passaggio della nostra città all’Italia. Fu, quello, il momento straordinario, in cui il tricolore d’Italia venne issato in piazza Unità e sul castello di San Giusto, a Trieste, così come a Pirano, Parenzo, Rovigno, Pola, Lussino, Zara, nonché a Rovereto, Trento, Cortina d’Ampezzo, Bolzano. Quest’anno, però, si celebra anche il sessantesimo anniversario del ritorno di Trieste all’Italia, di quel 26 ottobre 1954 che accolse i soldati e la bandiera italiani, dopo gli anni contrastati del Territorio libero, delle incertezze, degli scontri che provocarono la morte degli ultimi martiri del Risorgimento italiano, come Pierino Addobbati e Francesco Paglia, fra gli altri. In mezzo a queste due ricorrenze, entrambe felici per la nostra città, si situa il Giorno del Ricordo, con tutto il suo pesante carattere di emozione e sofferenza: esso unisce i due anniversari in una continuità logica di causa ed effetto e rammenta anche l’eterno divenire della storia. Ma fra il Giorno del Ricordo di un anno fa e oggi risplende una prestazione nuova, una performance teatrale che ha risvegliato le coscienze con la forza della semplicità e della autorevolezza, un atto di coraggio di un giovane cantante romano, che ha suscitato entusiasmo e commozione negli spettatori di tanti teatri italiani e istriani: “Magazzino 18” è una pietra miliare sul cammino della verità per il popolo italiano e, davanti alle bandiere che sventoleranno sul monumento della foiba di Basovizza per onorare il Giorno del Ricordo, molti cittadini, certamente, lo avranno nei loro pensieri.

*docente di Storia delle relazioni internazionali


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http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it





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