Rassegna Stampa

 

a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri

N. 901 – 11 Gennaio 2014
    
Sommario


16 - Comitato 10 Febbraio 07/01/14 Comunicato Stampa -  Risposta a "Il Manifesto" su Magazzino 18
17 - Il Tempo 08/01/14 Cristicchi "infoibato" I partigiani si dividono (Luca Rocca)
18 - Secolo d'Italia 08/01/14 «Lo spettacolo di Cristicchi offende i partigiani». E lui replica: «Vi restituisco la tessera dell’Anpi» (Valter Delle Donne)
19 -  Il Tempo 10/01/14  Magazzino 18 - Bernas: «Revisionismo? Questo tema era stato occultato dalla storia ufficiale» (Gabriele Antonucci)
20 - Il Tempo 08/01/14 Quella fuga per la vita degli italiani negati (Federico Guiglia)
21 - Il Tempo 09/01/14  Intervista a Nino Benvenuti: nel ’54 fui costretto a fuggire Tito imprigionò mio fratello senza motivo (Gabriele Antonucci)
22 – L’Unità 03/01/14 Simone Cristicchi in «Magazzino 18»: L’esodo degli italiani cancellati dalla storia (Francesca De Sanctis)
23 - Società di Studi Fiumani Roma - Comunicato 10/01/14 - Che fine farà la Legge del Ricordo dell'esodo e delle foibe?
24 - L'Arena di Pola 12/12/13 - 58° Raduno degli Esuli da Pola: Pola, 15-18 maggio 2014
25 - Il Piccolo 08/01/13 Prigionieri nel lager di Tito Esce la lista dei 16mila nomi (Stefano Giantin)
26 – La Voce del Popolo  08/01/14 Cultura - Il patrimonio di versi in dialetto fiumano un tesoro culturale che va riscoperto (Patrizia Venucci Merdžo)
27 - East Journal 09/01/14 Croazia: L'isola di Brioni sarà concessa a privati. Zagabria cerca di fare cassa (mat)


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16 - Comitato 10 Febbraio 07/01/14 Comunicato Stampa -  Risposta a "Il Manifesto" su Magazzino 18
Risposta a “Il Manifesto” su Magazzino 18

COMUNICATO STAMPA 7 GENNAIO MAGAZZINO 18. COMITATO 10 FEBBRAIO: SURREALE

RECENSIONE DE “IL MANIFESTO” SU SPETTACOLO CRISTICCHI

“È molto triste leggere recensioni sullo spettacolo “Magazzino 18” di Simone Cristicchi del tenore di quella scritta da Stefano Crippa su “Il Manifesto”
dello scorso 29 dicembre, anche se poi seguita da un’altra della stessa testata e di tutt’altra portata, forse per le vive polemiche suscitate dalla precedente. Quasi surreale è constatare che, a fine 2013 e a poche settimane dal Decennale dell’Istituzione della Legge sul Ricordo, vi sia ancora chi strumentalizza il dramma delle foibe e del conseguente esodo giuliano-dalmata. Innanzitutto, il giornalista del quotidiano comunista accusa il cantautore-regista di proporre al pubblico una “interpretazione parziale, se non univoca, degli accadimenti”.

In realtà il testo dello spettacolo è stato analizzato da diversi storici e, soprattutto, dagli esuli e dai rappresentanti istituzionali di quel variegato mondo. Risulta pertanto falso dire che sia basato soltanto sul lavoro (comunque pregevole) di Jan Bernas. Tutto quello che viene raccontato è purtroppo realmente accaduto ed esperti e testimoni oculari dei fatti, presenti a teatro a Trieste o a Roma, hanno confermato la buona fede del racconto messo in scena. Sappiamo inoltre che Cristicchi si è rivolto a diversi archivi illustri ed ha condotto un lavoro di ricerca accurato e mai prevenuto, considerando anche il fatto che l’artista romano non è certo “di parte”.
A differenza di quanto afferma il Crippa, poi, lo spettatore è in grado di valutare gli accadimenti storici, in quanto ben narrati, senza cadere in confusione sulla differenza tra fascismo e comunismo. Circa i “tre minuti tre” di racconto sulle violenze fasciste in Slovenia, partendo dal presupposto che forse sono l’unico “neo” dello spettacolo di Cristicchi perché non direttamente pertinenti al racconto dello specifico dramma, siamo all’assurdo più totale. Il giornalista ciurla nel manico, aggrappandosi ai soliti, triti e ritriti luoghi comuni del cosiddetto “giustificazionismo”.
Per questo giornalista ed i suoi degni compagni, il Giorno del Ricordo e tutte le iniziative attinenti diventano un pretesto per far sfoggio della più obsoleta vulgata storiografica, in cui si passano in rassegna e si ingigantiscono a dismisura sparando cifre a casaccio tutti i mali compiuti dagli italiani e alla fine non c’è spazio per il ricordo, la compassione e la comprensione di quanto hanno patito i nostri connazionali per mano di un altro sistema totalitario, che però per Crippa & co. risulta evidentemente gradito ed impeccabile.

Per non parlare del fatto che si strumentalizza anche un artista come Sergio Endrigo, colpevole secondo Crippa di aver scritto una canzone, “1947”, che nelle mani di Cristicchi avrebbe assunto un significato “irredentista”. Il tutto sarebbe per certi versi anche divertente se non fosse che sono proprio le persone come Stefano Crippa ad “avvelenare”, a distanza di 70 anni e dopo un lunghissimo periodo di orribili e colpevoli silenzi storici, il tessuto sociale del nostro Paese. Egli dovrebbe solo chinare il capo di fronte al dolore di chi ha perduto un congiunto che credeva nella propria Patria ed ha sofferto il giudizio ignobile di persone “ideologizzate” come questo fazioso cronista. Il proficuo incontro di Padova avvenuto di recente fra rappresentanti degli esuli e dell’associazionismo partigiano per rielaborare congiuntamente il dramma del confine orientale è stato pertanto un singolo episodio che non riesce ad intaccare le inossidabili certezze dei “trinariciuti” di guareschiana memoria.

Un plauso ancora più grande infine a Cristicchi, per aver avuto la forza e il coraggio di raccontare, certamente consapevole di quanto ne sarebbe seguito”.

Lo dichiara il direttivo del Comitato 10 Febbraio.



17 - Il Tempo 08/01/14 Cristicchi "infoibato" I partigiani si dividono

Cristicchi "infoibato" I partigiani si dividono

Sullo show degli esuli istriani l`Anpi nel caos. Si punta a ritirare la tessera al cantautore

Luca Rocca

La «guerra civile culturale» in Italia non è mai finita. Se intorno a un cantante che mette in scena la «verità storica»sull`esodo istriano, giuliano e dalmata che «condannò» migliaia di italiani alla fame, alla sete e alla morte, si produce ancora uno «squarcio storico», allora
siamo ancora lontani da una «storia condivisa». Con «Magazzino 18» andato in scena a Trieste, Simone Cristicchi racconta la verità stabilita dai documenti storici. La verità di italiani, non di fascisti, in fuga dalle «speciali purghe» titine e in cerca dell`agognata libertà.

Una verità che a quanto pare può essere raccontata solo dopo una preventiva revisione del «copione» da parte dei «depositari» della verità. E se da una parte la onlus Cnj ha annunciato di aver raccolto qualche centinaio di firme di aderenti all`Anpi per chiedere che a Cristicchi venga ritirata la tessera onoraria dell`associazione dei partigiani, dall`altra c`è chi, fra i rappresentanti dei partigiani, nello spettacolo storico-teatrale di Cristicchi vede una ventata di verità. È il caso di Elena Improta, vicepresidente Anpi Roma, a cui abbiamo chiesto un commento sulla vicenda.

La vicenda Cristicchi ha riaperto una ferita che in realtà non si era mai chiusa. Che posizione ha l`Anpi sulla polemica innescata da «Magazzino18»?

«Le posizioni nell`associazione non sono univoche. Mi sono informata, ho letto tutto e poi ho parlato con persone che hanno visto lo spettacolo di Cristicchi. Si tratta di iscritti al Partito democratico, persone che hanno avuto parenti deportati ad Auschwitz. Gente,
insomma, vicina alla Resistenza e alla lotta di Liberazione. Ebbene, tutti mi hanno riferito che in quello spettacolo non hanno trovato assolutamente nulla di sconvolgente e che si tratta di una polemica assolutamente ideologica. Cristicchi ha solo voluto evidenziare
che vanno condannate tutte le forme di violenza chehanno segnato la nostra storia.Non ci possiamo più nascondere».

Qualcuno, come la onlus Cnj, vorrebbe addirittura togliere la tessera onoraria dell`Anpi al cantante per aver ricordato le foibe e il destino di quegli esuli.

«Quelle associazioni e quegli esponenti territoriali dell`Anpi che hanno sottoscritto l`appello contro Cristicchi per il ritiro della tessera per-
ché nel suo spettacoloha ricordato le foibe, mi sembrano fuori dal mondo. Non c`è nulla di sconvolgente in quelle dichiarazioni.
Ricordare quello che furono le foibe non è uno scandalo e nulla toglie al valore della Resistenza e alla lotta partigiana.Se memoria dev`essere, si ricordi tutto. È arrivato il momento di riconoscere che chi scappava da Tito non era fascista,ma cercava la libertà come la cercavano i nostri partigiani. Mi chiedo se chi ha rilasciatocerte dichiarazioni abbia realmente visto lo spettacolo di Cristicchi. Il "negazionismo" va condannato a 360 gradi, anche quello sulle foibe».

C`è chi nell`Anpi ha una posizione molto rigida e si accoda alla richiesta di Cnj.

«Le opinioni di chi persegue rigidamente i valori dell`Anpi sono univoche nel senso che ricordano solo la violenza fascista, riconoscono e condannano solo quella, non quella delle foibe. Sto parlando della parte "conservatrice" che fari ferimento o che è vicina ai Comunisti italiani e a Rifondazione comunista. Sbagliano e lo ripeto. Ricordare le foibe non vuol dire negare la Resistenza o la lotta parrtigiana». 

Accanto a Elena Improta c`è  Mario Bottazzi, ex combattente partigiano ora nel comitato provinciale dell`Anpi romana.

Va oltre, Bottazzi, e si chiede perché non si debbano ammettere nell`Anpi anche persone legate alla destra più moderna e antifascista. Sul «caso Cristicchi» abbiamo sentito anche Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell`Anpi che si chiede: «Chi, come e quando ha deciso di dare la tessera ad honorem a Cristicchi? In ogni caso l`Anpi toglie le tessere solo ln casi eccezionali, solo in
presenza di gravissimi fatti di indegnità». Sottolinea, il presidente dell`Anpi, che «si occuperà della cosa, lo farà la sezione locale, per verificare di che spettacolo parliamo e di questa tessera ad honorem. Sarà una verifica seria e non improvvisata».
E poi prosegue: «In genere sono per rispettare le manifestazioni d`arte, prenderle per quelle che sono e poi discutere. Certe cose non si affrontano a picconate, vanno rispettate. Se poi uno fa uno spettacolo per negare l`esistenza delle camere a gas, allora ci si arrabbia. Se invece affronta qualcosa che è ancora oggetto di discussione, è diverso». Infine Smuraglia ammette che su quegli esuli italiani  in fuga da una dittatura perché in cercadella libertà e non in quanto fascisti, «è arrivato il momento di discutere seriamente, di affrontare l`argomento nelle sedi opportune».



18 - Secolo d'Italia 08/01/14 «Lo spettacolo di Cristicchi offende i partigiani». E lui replica: «Vi restituisco la tessera dell’Anpi»
«Lo spettacolo di Cristicchi offende i partigiani». E lui replica: «Vi restituisco la tessera dell’Anpi»

di Valter Delle Donne

Non c’è pace per i martiri delle foibe, neanche quando le loro storie sono messe in versi, come ha fatto Simone Cristicchi nel suo spettacolo teatrale Magazzino 18. Lo riporta il quotidiano romano Il Tempo, nell’ennesima puntata di questa telenovela che vede il cantautore romano vittima periodicamente di insulti, di velate minacce o di semplici scomuniche dal mondo culturale e artistico di sinistra. Stavolta si è mossa addirittura l’Anpi che ha chiesto, attraverso un centinaio di suoi iscritti, che sia ritirata a Cristicchi, da sempre schierato a sinistra, la tessera di partigiano onorario. Centinaia di firme sono arrivate sotto un fluviale appello che recita, tra l’altro: «Il Signor Simone Cristicchi, nell’ambito del suo spettacolo teatrale Magazzino 18, che ha come tema la “trasposizione” di alcuni vissuti drammatici degli esuli d’Istria, di Fiume e Dalmazia… sembra alimentare a livello mediatico e diffusivo a mezzo web una propaganda politica antipartigiana, che ancor più gravemente si mostra priva di analisi storica, riportando interpretazioni che riteniamo falsino fatti e circostanze, con un esito di palese natura strumentale… Evidenziamo inoltre che le tesi, le congetture, i toni delle polemiche, l’accettazione di messaggi e manifestazioni di scherno ed offesa rivolte alla memoria storica della Resistenza sia italiana che jugoslava, presenti nel profilo facebook e in altri siti gestiti dal cantautore, non ci appaiono politicamente ed ideologicamente espressioni vicine alla storia e rispettose dei principi ispiratori dell’Anpi…».

E per capire quanto sia oscurantista la sinistra italiana, basterebbe leggere quel che scrive il manifesto del 28 dicembre. «Cristicchi inciampa rovinosamente mettendo in scena uno spettacolo che si basa quasi esclusivamente sul testo di Ian Bernas Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani e propone un’interpretazione di quegli accadimenti parziale, se non univioca». Il terrore del quotidiano comunista? Il testo «avvicina pericolosamente le due ideologie contrapposte, comunismo e fascismo, per omologarle. E generando confusione». Insomma Cristicchi «presta solo il fianco al revisionismo storico che avvelena il tessuto sociale di questo paese da troppo tempo». Alle accuse e agli anatemi, Cristicchi ha risposto a più riprese sulla bacheca di Facebook: «Da antifascista, sono schifato da tutto ciò. La tessera gliela rispedisco io! In posta prioritaria. Altrimenti – scrive in un altro post il cantautore – senza tante chiacchiere…si facciano loro uno spettacolo con la loro “sacrosanta” verità. In fondo, ma molto in fondo, siamo un paese democratico, no?»




19 -  Il Tempo 10/01/14  Magazzino 18 - Bernas: «Revisionismo? Questo tema era stato occultato dalla storia ufficiale»
Al Magazzino 18 sembrava di stare ad Auschwitz
Bernas: «Revisionismo? Questo tema era stato occultato dalla storia ufficiale»
di Gabriele Antonucci
«La storia non deve essere di nessuno, ma la verità deve essere di tutti». Così il giornalista e scrittore Jan Bernas, esperto di geopolitica e di storia, ha spiegato l’urgenza artistica della genesi di «Magazzino 18», spettacolo scritto insieme a Simone Cristicchi. Un’idea accarezzata per vent’anni dal regista Antonio Calenda, che ha trovato finalmente compimento grazie ai fortunati incontri con Cristicchi e con Bernas, contattato dal cantante dopo aver letto il suo libro «Ci chiamavano fascisti.Eravamo italiani».
Lo spettacolo, dopo il trionfale debutto a Trieste, ha ricevuto grandi consensi in tutta Italia per l’equilibrio del testo, la sensibilità di Cristicchi e la regia emozionante di Calenda. «Magazzino 18» diventerà un libro, che uscirà a febbraio per Mondadori, corredato dalle foto realizzate dall'autore all’interno del silos dove sono ancora accatastati i beni lasciati dagli esuli italiani in fuga. Per Bernas entrare al Magazzino 18 «è stata un’esperienza incredibile, mi ha ricordato l’atmosfera del campo di concentramento di Auschwitz. Prima di tutto è necessario un permesso speciale per entrare. Una volta dentro, sono rimasto colpito da un salone enorme, pieno di sedie accatastate una sopra l’altra. Dietro ognuna è riportato il nome e il cognome del proprietario. Una stanza è piena di giocattoli, un’altra di libri, registri e perfino di lettere d’amore. Fa venire i brividi».
Quanto alle polemiche sullo spettacolo, l’autore se le aspettava, «ma non così forti, violente e preconcette. Le critiche più odiose sono quelle che sono arrivate prima che lo spettacolo andasse in scena o, dopo il debutto, da chi non l’aveva neanche visto. In "Magazzino 18" non diamo colpe, è semplicemente un atto di educazione alla memoria». Per Jan la parola foiba non è soltanto un tabù, ma «una semplificazione simbolica di una vicenda molto più complessa e articolata. Le foibe, in realtà, sono la punta dell’iceberg, visto che in quel periodo tanti italiani sono morti di crepacuore, chi a seguito dell’internamento, chi morto dentro, rimanendo a Pola o a Fiume». Sono state numerose le difficoltà nello scrivere un testo che affrontava una materia così delicata. «»È stato più duro che scrivere un libro. Quando devi raccontare sopra un palcoscenico avvenimenti così poco conosciuti non puoi dare nulla per scontato, né dal punto di vista storico né da quello drammaturgico. Devi condensare una vicenda complessa in meno di due ore».
Sulle accuse di revisionismo, lo scrittore mostra di avere idee chiare: «Se per revisionismo intendiamo che per la prima volta in Italia viene rappresentato a teatro un argomento così occultato, allora lo è. Se con quel termine indichiamo una mistificazione storica a favore di una sola parte, non lo è certamente. È stato difficile realizzare uno spettacolo equilibrato: sarebbe stato molto più facile scrivere un testo di parte». Bernas si è accostato all’esodo degli italiani dalla Jugoslavia fin da giovanissimo. «Quando ero al liceo già mi interessavo di storia. Un giorno chiesi alla mia insegnante: "Come mai sono partiti tutti quegli italiani dall'Istria?" "Perché erano tutti fascisti". Non mi sono accontentato di quella secca risposta e ho iniziato una ricerca di molti anni che mi ha condotto a visitare quei luoghi, a conoscere e a intervistare decine di esuli».
Grandi emozioni gli ha riservato la prima dello spettacolo a Trieste, dove era stata allarmata perfino la Digos per il rischio di scontri tra opposte fazioni politiche: «Quella sera c’era una tensione molto forte, ma l’applauso di un quarto d’ora con il pubblico in piedi, gli anziani esuli in lacrime che ci hanno abbracciato, l’inno nazionale cantato alla fine da tutta la sala sono stati i migliori regali che io, Cristicchi e Calenda potessimo ricevere».
Gabriele Antonucci




20 - Il Tempo 08/01/14 Quella fuga per la vita degli italiani negati
Quella fuga per la vita degli italiani negati

Tra il 1943 e i1 1947 la carneficina di Tito
Poi lo sradicamento dalla terra d`origine

Federico Guiglia

 Ma quanto tempo deve ancora passare perché il dramma dell`esilio giuliano-dalmata e la tragedia delle foibe diventino memoria per tutti? Memoria è quel luogo del nostro animo dove il ricordo dell`orribile pagina di storia, che si è scritta sul confine nord-orientale italiano soprattutto dal`43 al `47, può ancora ferire gli anziani testimoni, commuovere i giovani che non conoscevano, far riflettere un`intera nazione chiamata a custodire per sempre un capitolo di sé per troppi anni rimosso. Ed è incredibile che a Simone Cristicchi, artista di valore di una generazione del tutto estranea alla vicenda, venga oggi scagliato l`anatema di «propaganda anti-partigiana» per lospettacolo profondo e delicato, esattamente com`è lui, dedicato
all`esodo di trecentocinquantamila connazionali. Come ormai si sa o si dovrebbe sapere, essi furono costretti ad abbandonare la terra in cui erano nati o cresciuti per evitare, nel migliore dei casi, di perdere la loro identità italiana. Anzi, italianissima, tipica della gente di confine, lontana da Roma e perciò amante di un amore travolgente verso la nazione italiana. Nel peggiore dei casi, gli esuli fuggivano per evitare la fine orrenda dei ventimila infoibati, uccisi o torturati dai partigiani comunisti di Tito con la sola «colpa» d`essere italiani. Senza dimenticarel`esproprio dei loro beni, che spesso erano il frutto di sacrifici che si tramandavano di padre in figlio, perché in Istria, Fiume e Dalmazia si parlava italiano dalla notte dei tempi.

Dunque, è stata un`epopea triste. E stata una fuga per la vita di chi, da quel giorno, da quell`ultimo imbarco verso la madre-patria, avrebbe perduto tutto, fuorché la dignità. La dignità di raccontare quel che era successo, ma senza piangersi addosso. La dignità di ricominciare daccapo in Italia o all`estero, perché una parte notevole degli esiliati è partita
due volte: la prima dalla propria terra verso la propria patria. La seconda dalla patria verso il mondo. L`Australia; il Canada, l`America, sempre portandosi nel cuore quel dramma silenzioso e quasi inconfessabile, tanto tremendo era stato. Portandoselo, il lutto collettivo, con straordinaria civiltà. È un esodo che non ha prodotto alcun atto di violenza per reazione o per vendetta, a differenza di altri esodi sradicati ed espulsi in tante parti dell`universo. Di più. Questi nostri fratelli mai hanno mostrato né fatto valere rancore nei confronti di chi li aveva cacciati da casa loro.Chiedevano e chiedono solo «giustizia». Le loro lacrime mai hanno riempito gli studi televisivi, a cui per anni i sopravvissuti e le loro famiglie si sono sottratti con discrezione. Anche nel dolore essi hanno dato prova di un`italianità esemplare: gente che non protestava,
che non dava la colpa agli altri dei propri e terribili guai subiti, che non s`inventava partiti per lucrare voti sulla sofferenza. Solamente e nient`altro che un grande, infinito rispetto, dunque, possiamo noi oggi restituire ai vivi e ai morti, chiedendo scusa d`essere arrivati così tardi a «comprendere»e a «condividere» la vicenda.

È quel che ha fatto Simone Cristicchi con lo spettacolo «Magazzino 18», andando a spulciare, per poi narrare, le cose senza nome e senza numeri, ma da oggi con nuova anima, abbandonate dagli esiliati in quel disperato magazzino di Trieste. Cristicchi ha dato voce e senso a una storia che è rimasta muta per decenni. L`artista, che non ha ancora trentasette anni, ha potuto e saputo più degli storici paludati, perfino, che poco o niente hanno voluto ricordare di quell`esodo alla frontiera, voltando per anni la testa e la penna dall`altra parte. Il giovane Cristicchi ha potuto e saputo
più dei politici navigati, mondo al quale non appartiene. E si vede, e si sente: libero artista in libero Stato. Un mondo, quello politico, che ha scoperto l`esilio e le foibe solo in tarda Repubblica quando, con legge del 2004, fu proclamato «giorno del ricordo» il 10 febbraio, anniversario del Trattato di Pace che staccò dall`Italia quei territori italiani.
Da alloral`esilio e le foibe sono tornati nella nostra storia nazionale. E ogni volta la cerimonia al Quirinale rende omaggio alla memoria dei vinti e innocenti troppo a lungo dimenticati. Il tesoro della memoria.

Perciò la polemica che si è scatenata contro Cristicchi e riportata dal «Tempo», con chi sollecita la cacciata dell`artista dall`Anpi reo non si capisce di che cosa, non è né giusta né sbagliata: è semplicemente incomprensibile. La verità non può far male, neanche settant`anni dopo. Neanche quand`è raccontata con forza e dolcezza per non
dimenticare.










21 - Il Tempo 09/01/14  Intervista a Nino Benvenuti: nel ’54 fui costretto a fuggire Tito imprigionò mio fratello senza motivo
«La storia dell’Istria pesa sulla coscienza di chi nega i fatti»
 Benvenuti: nel ’54 fui costretto a fuggire Tito imprigionò mio fratello senza motivo
di Gabriele Antonucci
«Dobbiamo raccontare la storia, ciò che è successo veramente in Istria, ma senza risentimento». È un messaggio di buon senso e di pacificazione, quello che proviene dal campione di pugilato Nino Benvenuti, a proposito della dolorosa vicenda dell’esodo istriano che lui ha vissuto sulla sua pelle.
Non si sono ancora placate le polemiche per la richiesta della onlus Cnj (coordinamento Nazionale per la Jugoslavia) di ritirare la tessera onoraria dell’Anpi a Simone Cristicchi, colpevole di essere il protagonista di un bellissimo spettacolo di teatro civile, «Magazzino 18», che ha fatto luce su una ferita ancora aperta della nostra storia. Scritto a quattro mani dallo stesso Cristicchi insieme a Jan Bernas e reso ancora più emozionante dalla regia di Antonio Calenda, abile a tenere alta la tensione per tutta la durata del monologo, «Magazzino 18» ricostruisce, a partire da un capannone di Trieste colmo di beni abbandonati degli esuli, la storia di trecentomila italiani che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza nulla.
Pur non avendo visto lo spettacolo, Benvenuti, nato e cresciuto a Isola di Istria, un piccolo paese di seimila abitanti, ricorda bene il Magazzino 18. «Certo che mi ricordo. Noi lo chiamavamo il silos. Avevo degli amici che ci abitavano, non c’erano soltanto cose. Per noi era un posto come un altro, non ci piangevamo addosso, sa, le cose le accettavamo». Il campione, informato sulle recenti polemiche, mostra di avere una grande serenità nel ricordare quella drammatica esperienza. Serenità che emerge anche dalle pagine del libro «L'isola che non c'è» (Edizioni Libreria Sportiva Eraclea), scritto a quattro mani insieme al giornalista Mauro Grimaldi, dedicato alla sua terra natia. «Il libro è una storia personale, ma anche anche universale, perché riguarda tutti quelli che come me hanno vissuto sulla loro pelle la terribile esperienza dell’esodo. L’ho scritto perché non andasse perduta la memoria, la mia memoria. In esso racconto la mia vita, fino al periodo delle Olimpiadi».
Dal volume emerge tutto l’amore dello sportivo per la sua terra, dove l’Istria è descritta come «una terra baciata dal sole, da Dio, dalla geografia ma anche dagli abitanti che hanno goduto della specialità di quella terra. Io abitavo a Isola di Istria, un paese straordinariamente bello, ricco per quello che poteva dare. Avevamo una flotta di barche da pesca, che dava lavoro a tante persone, mentre la campagna ci dava tutti i prodotti della terra. A Isola c’erano due pasti sicuri per tutti, a nessuno è mai mancato nulla perché avevano sia terra che mare. Sono tornato spesso là, perchè c’è il cimitero con tutti i miei parenti». Un luogo dove Benvenuti ha vissuto fino a sedici anni e dove ha imparato a tirare i primi pugni. «Ho cominciato a boxare in modo professionale nella palestra aperta a due passi da casa mia, ma avevo già iniziato da bambino a tirare pugni in cantina, dove avevo appeso un sacco pieno di frumento. Come guanti usavo dei calzettoni pieni di stracci». Il 1954 è l’anno in cui lui e la sua famiglia sono stati costretti a fuggire. «La nostra storia dovrebbe pesare sulla coscienza di chi per anni ha negato, di chi sapeva e non ha fatto niente per intervenire. Noi non saremmo mai andati via da casa, ci hanno cacciati. Non pativamo la fame, non eravamo disperati. Eravamo felici». Il campione olimpico, però, negli anni è riuscito a ragiungere una visione più distaccata e serena di questa brutta vicenda. «Le cose che sono successe probabilmente doveva andare così. Non dobbiamo avere astio e risentimento per nessuno. C’è sempre una ragione e un torto. Purtroppo non si può avere sempre ragione. Io avrei tanti motivi di risentimento nei confronti di Tito, mia madre è morta di crepacuore a quarantasei anni perché mio fratello è finito ingiustamente in prigione, ma ho capito che l’odio non serve a nulla».
Alla domanda sul perché ancora oggi in Italia non riesca ad avere una memoria storica condivisa, ma ci si divide sempre in due schieramenti, Benvenuti non ha dubbi: «Dobbiamo aspettare che il tempo guarisca queste ferite, ancora troppo fresche. Se viviamo nel ricordo delle ragioni nostre e dei torti degli altri non arriveremo mai a una fine e non saremo mai felici. A chi giova tutto questo? Dobbiamo darci un taglio su queste cose e ragionare in modo diverso. Io ho imparato a ragionare così stando vicino a persone che mi hanno insegnato a farmi una ragione per quello che succede. Non esistono solo crediti, ma anche debiti.Io non faccio il predicatore, né sermoni, ma ho imparato che bisogna essere sereni».
Gabriele Antonucci







22 – L’Unità 03/01/14 Simone Cristicchi in «Magazzino 18»: L’esodo degli italiani cancellati dalla storia

L’esodo degli italiani cancellati dalla storia

Simone Cristicchi in «Magazzino 18», un «musical civile» che racconta vicende scomode e rimosse

FRANCESCA DE SANCTIS

ROMA

ECHI L’AVREBBE MAI DETTO CHE QUEL RAGAZZO RICCIOLUTO, CHE UN GIORNO ABBIAMO CONOSCIUTO IN TV MENTRE SI ESIBIVA E VINCEVA L FESTIVAL Di SANREMO (ERAIL2007), AVREBBECONOUISTATO L PUBBLICO TEATRALE?

Che sia apprezzato e che ami anche recitare, oltre che cantare, lo avevamo già capito da tempo considerando che negli ultimi anni la sua presenza sui palcoscenici italiani si è Calta sempre più frequente. Simone Cristicchi stavolta ci parla di Trieste, o meglio parte dalla città di Italo Svevo, dal Magazzino 18 del Porto Vecchio, per parlare: del grande esodo degli italiani d’Istria, Fiume, Dai mazia. Una storia scomoda e poco nota che Cristicchi ci racconta alternando l’italiano al romanesco mescolano canzoni inedite scritte dallo stesso cantautore, video e monologhi intensi

Aiutato nella scrittura da Jan Bernas e diretto da Antonio Calenda, in Magazzino 18} (andato in scena alla Sala Umberto di Roma e ora in tournée) Cristicchi guida lo spettatore in un lungo viaggio che inizia con l’arrivo di un archivista romano (che non sa nulla delle foibe) a Trieste, dove viene inviato dal Ministero degli Interni per catalogare documenti, libri, fotografie, attrezzi da lavoro, oggetti chc poco alla volta scopriremo appartenere a persone chc non d sono più. Le loro vite vengo no così alla luce e noi veniamo a conoscenza di quella donna che decise di non partire, del monfal-conese che alla fine andò in Jugoslavia, dei prigioniero del lager, di quel bambino dal campo profughi... Furono quasi 350mila le persone che scelsero - dopo il trattato di pace del 1947 - di lasciare le loro terre destinate a far parte del territorio jugoslavo per proseguire a vivere in Italia. Nel Magazzino 18, dal quale prende il nome il titolo dello spettacolo, gli esuli lasciavano le loro proprietà in attesa di poterne tornare in possesso in futuro.

Uno spettacolo - anzi un -musical civile», come lo defluisce il cantautore stesso - che ha un grande pregio: parlare di una pagina di storia senza sposare tesi né di destTa né di sinistra, ma semplicemente mettendo in fi la una dopo l’altra le testimonianze e raccontandole, con buona musica e poesia.







23 - Società di Studi Fiumani Roma - Comunicato 10/01/14 - Che fine farà la Legge del Ricordo dell'esodo e delle foibe?
Comunicato della Società di Studi Fiumani  

Che fine farà la  Legge del Ricordo dell'esodo e delle foibe?

Nuove discriminazioni contro gli esuli fiumani

Per ora rigettato dal Governo Letta l'emendamento del sen. Aldo Di Biagio e quello da parte dell'on. Fabio Rampelli  a favore dell'Archivio Museo storico di Fiume.

 La legge del Giorno del Ricordo purtroppo stabilisce dall'anno scorso contributi minimi di Euro 35.000 all' Archivio Museo storico di Fiume della Società di Studi Fiumani. Una legge che doveva sin dall'origine destinare Euro 100.000. Fra due anni non si sa che cosa verrà ancora stabilito...probabilmente l'azzeramento dei fondi.

Al momento vengono respinti gli emendamenti presentati a favore dell'istituzione fiumana depositaria della memoria delle foibe e dell'esodo dal senatore Aldo Di Biagio per Lista Civica Monti e dall'on. Fabio Rampelli per Fratelli d'Italia. Tali emendamenti richiedevano un ripristino totale dei fondi originari che sin dal 2008 non sono più quelli (o almeno parziale come è stato chiesto al capo di gabinetto del ministro Bray dalla nostra Società di Studi Fiumani per giungere almeno a 60.000 Euro).

 PER GLI ESULI FIUMANI NIENTE DA FARE MA INTANTO LEGGIAMO QUANTO ELARGITO COME SEMPRE AD ALTRE REALTA':  

L'altra faccia della crisi secondo il Governo - notizie tratte da "La notizia giornale.it"

- 1 milione e 476 mila euro è stata appena destinata dal Viminale all'Associazione nazionale vittime civili di guerra.

Si tratta di un ente nato nel 1943, in piena seconda guerra mondiale, per assistere appunto le vittime civili del conflitto

- Per i Musei della Shoah : E' autorizzata la spesa di quattro milioni di euro, di cui un milione per l'anno 2013 e tre milioni per l'anno 2014, quale contributo per la prosecuzione dei lavori di realizzazione della sede del Museo nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah e museo della Shoah a Ferrara, di cui alla legge 17 aprile 2003, n. 91

 
- 2 milioni alle ANPI -

 - Contributo in favore del "Centro Pio Rajna" in Roma Euro 1.500,000,00 in tre anni

  ( E' autorizzata la spesa di 500.000 euro per ciascuno degli anni 2013, 2014 e 2015 per il finanziamento del Centro di studi per la ricerca letteraria, linguistica e filologica Pio Rajna in Roma).
- 227 mila euro a beneficio dell'Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti.

-  67.950 euro è stato staccato a favore dell'Associazione nazionale combattenti e reduci.

-  57.800 euro per la Federazione italiana volontari della libertà

 ecc. ecc








24 - L'Arena di Pola 12/12/13 - 58° Raduno degli Esuli da Pola: Pola, 15-18 maggio 2014
58° Raduno degli Esuli da Pola: Pola, 15-18 maggio 2014
Procedono i preparativi per il 58° Raduno nazionale degli Esuli da Pola, che si svolgerà da giovedì 15 a domenica 18 maggio 2014 a Pola con base all’Hotel Brioni. Il programma rimane quello preannunciato. Restano solo da definire alcuni dettagli, che vi comunicheremo.
Giovedì 15: arrivo dei partecipanti; serata collettiva.
Venerdì 16: visita all’isola di Brioni Maggiore (che ha già riscosso l’adesione entusiasta delle autorità locali) e pranzo; serata presso una Comunità degli Italiani dell’immediato entroterra.
Sabato 17: in mattinata a Pola presentazione dello studio sulla strage di Vergarolla da noi commissionato ed auspicabilmente anche di altre opere consimili; al pomeriggio in albergo Assemblea annuale dei Soci; in serata una lietissima sorpresa.
Domenica 18: la mattina messa in duomo; a seguire visita a un forte asburgico e incontro sportivo.
Per quanti non potessero raggiungere la città con mezzi propri il Libero Comune di Pola in Esilio metterà a disposizione un pullman, che partirà da Padova giovedì 15 e ripartirà da Pola la mattina di lunedì 19 maggio.
Per il soggiorno tutto compreso (pernotti, pasti, trasferimenti in loco e gita) di coloro che si avvarranno di mezzi propri ripartendo nel pomeriggio di domenica 18 maggio i prezzi sono: camera singola € 240,00;  camera doppia € 390,00; camera tripla € 530,00.
 
Questi invece i prezzi per il soggiorno tutto compreso di coloro che ripartiranno con il pullman la mattina di lunedì 19 maggio: camera singola € 340,00; camera doppia € 560,00; camera tripla € 765,00.
L’adesione di ognuno di Voi è importante. Vi esortiamo a comunicarla prima possibile a Graziella e Salvatore Palermo scrivendo all’indirizzo Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. oppure telefonando ai numeri 0383 572231 o 327 3295736. La prenotazione va poi confermata con il versamento della quota di adesione pari ad € 100 a persona. Potete farlo o sul conto corrente postale n. 38407722 intestato a «L’Arena di Pola, Via Malaspina 1, 34147 Trieste», o tramite bonifico bancario intestato a «Libero Comune di Pola in Esilio, Via Malaspina 1, 34147 Trieste». In quest’ultimo caso occorre scrivere – direttamente in banca o tramite il sito internet






25 - Il Piccolo 08/01/13 Prigionieri nel lager di Tito Esce la lista dei 16mila nomi

Prigionieri nel lager di Tito Esce la lista dei 16mila nomi

La rivista croata “Novi Plamen” ha pubblicato il lungo elenco su Internet.

A Goli Otok i morti tra il 1949 e il 1956 furono almeno quattrocento

di Stefano Giantin

Ma scrivere 16mila, scrivere 400, non rende l’idea dell’orrore e della violenza cui assistette l’Isola Calva, tra il 1949 e il 1956. E non rende del tutto onore alle vittime, che sempre dovrebbero avere un nome. Ma adesso anche per il gulag di Tito, nel quale finirono a migliaia dopo la rottura del 1948 tra il Partito comunista jugoslavo e Mosca – solo perché “cominformisti” o per vendette personali ed errori burocratici e giudiziari – i nomi ci sono. Ci sono grazie alla rivista politico-culturale croata “Novi Plamen”, che di recente ha reso pubblico via Internet, «l’elenco esclusivo delle vittime» di Goli Otok, leggi delle 16.101 persone che vi sarebbero state rinchiuse tra il 1946 e il 1956. In basso, sui documenti, il timbro degli Archivi di Stato croati, da cui la lista è uscita per giungere nelle mani del magazine di Zagabria.

Elenco compilato all’inizio degli Anni Sessanta dall’Udba, i servizi di sicurezza di Tito, rigorosamente in ordine alfabetico. Primo della lista, Mate Abaza, nato il 17 febbraio 1922, arrestato il 24 novembre 1950 e liberato più di un anno dopo, a tre giorni dal Capodanno del 1952. Nell’ultima pagina, Gojko Zuvela, nato nel maggio del 1921, fermato la vigilia di Natale del 1952, tornato libero solo due anni più tardi. Fra le date di nascita, arresto e rilascio, un codice numerico - per gli italiani era il 33 - che indicava l’etnia del prigioniero. In un’altra lista, divulgata da “Novi Plamen” a fine novembre, erano state invece enumerate, con nome e cognome, quelle vittime che, fra sedicimila sfortunati «informbirovci» costretti nell’isola per essere rieducati a furia di percosse e lavori forzati, non riuscirono a uscirne vive. In tutto, oltre 440, trecento civili, 112 militari. “Novi Plamen”, che ha giustificato la pubblicazione della lista con la volontà di chiudere il discorso e di interrompere il circolo vizioso di «speculazioni» sul numero dei detenuti e dei morti nell’isola, andato avanti per decenni anche col fine, secondo il giornale – orientato a sinistra – di «screditare l’intera epoca del socialismo jugoslavo». Fra i nomi sulla lista «ho trovato mio nonno», «anch’io, lì ha scavato pietre per cinque anni e non è tornato», «finalmente si fanno i nomi», alcune fra le timide reazioni sul web balcanico alla notizia.

Ma che valore storiografico possono avere quelle liste? «I numeri da lei menzionati, e fra questi ci sono anche più di 800 donne, sono esattamente quelli che cito nei miei libri», risponde al telefono Giacomo Scotti, fra i massimi conoscitori di quell’abisso, primo a rivelarne l’esistenza in Italia. Finora «i nomi pubblicati erano quelli degli italiani, fiumani, quarnerini, istriani, monfalconesi, goriziani» finiti a Goli Otok dopo essere emigrati in Jugoslavia per costruire il socialismo. Oggi «per la prima volta, vengono pubblicati nella ex Jugoslavia» i nomi di tutti gli altri «finiti a Goli Otok e nelle altre isole intorno a Zara, a San Gregorio e sulla terraferma, in galere vere e proprie», conferma Scotti. Scotti che poi ricorda che, dei 400 morti e oltre, «una decina erano italiani», mentre nell’inferno dell’isolotto spoglio e arido «ne passarono circa trecento».

Fra i sopravvissuti, in molti ebbero remore a parlare dell’esperienza del lager, dopo esserne usciti, anche dopo la fine della Jugoslavia e dopo il termine del loro isolamento in libertà, spiati da polizia e servizi perché non rivelassero l’esistenza dei lager di Tito. Remore in parte originate dalla «vergogna di essere stati costretti a picchiare, tormentare e martirizzare» i propri compagni di sventura, una maniera subdola e crudele per umiliare i prigionieri al livello di animali. Ma «dicevano», raccontavano, puntualizza poi Scotti, anche se «non dicevano tutto». Numeri, quelli della lista segreta e quelli di Scotti, confermati anche da Zorica Marinkovic, ricercatrice serba e organizzatrice della mostra “U ime naroda”, tema la repressione e i crimini del regime in Serbia e Jugoslavia compiuti tra il 1944 e il 1953. Repressione che, in tutto il Paese, interessò almeno centomila persone, «50-60mila finirono nelle varie prigioni su tutto il territorio jugoslavo».

Di questi, «16.500» furono tradotti «a Goli Otok», secondo «i dati che abbiamo ricavato dai documenti della polizia segreta», rivela Marinkovic. Anche i numeri sui decessi corrispondono, anche se bisogna ricordare «che la cifra potrebbe essere leggermente superiore, dato che le persone morte a Goli Otok venivano sepolte in luoghi sconosciuti o gettate in mare», per occultare le prove dell’oppressione e della durezza del regime, la vergogna di quell’alba del socialismo jugoslavo.

 






26 – La Voce del Popolo  08/01/14 Cultura - Il patrimonio di versi in dialetto fiumano un tesoro culturale che va riscoperto

Il patrimonio di versi in dialetto fiumano un tesoro culturale che va riscoperto

Se c’è un qualcosa che può scaldare il cuore degli abitanti della città di San Vito questi è sicuramente il “dialeto fiuman”. Quando ne senti la parlata - purtroppo sempre più rara e da parte di una generazione canuta – sai di essere “a casa”. E, improvvisamente, tutta la vita sembra un po’ più dolce. La sua cadenza, i suoi ritmi, la sua miscela assolutamente unica di veneto - con non pochi prestiti dal croato, tedesco, ungherese, turco perfino! - sembra una musica che ti culla l’anima.

Vernacolo di una città vivacissima, che nella seconda metà dell’Ottocento visse un’incredibile sviluppo industriale, economico, architettonico e quant’altro, il fiumano produsse inevitabilmente anche una sua letteratura, e più specificamente una poesia in dialetto che ebbe in Mario Schittar-Zuane dela Marsecia, nel Cavalier di Garbo, in Arturo Cafieri e Oscarre Russi i suoi rappresentanti più arguti e appassionati.

Purtroppo c’è una tendenza a sottovalutare questa produzione poetica dialettale che invece, e per molti motivi, sarebbe ben meritevole di essere rivalutata e diffusa, specie tra i giovani. Quanto sarebbe bello poter acquistare nelle nostre rivendite le poesie di questi autori! Chissà, forse per il prossimo Natale…

I pregi dei versi in vernacolo

Ma veniamo ai nostri magnifici quattro e al loro poetare. Quali sono i pregi della poesia dialettale fiumana? La schiettezza, la verità dei sentimenti (autentico balsamo per un certo tipo di vita vissuto all’insegna dello stress, del virtuale...), l’arguzia, l’umanità, il solo fatto di esistere e di testimoniare la città, le persone, la mentalità del popolo e i costumi del tempo.

“Il dialetto... riflette come uno specchio la coscienza di un popolo, il suo spirito, il suo estro più genuino”, affermano le prof.sse Srelz e Maria Schiavato nella premessa della loro piccola antologia di poesie fiumane “El dialeto fiuman”, realizzata in ciclostile per le SEI di Fiume.

Comunque, al di là del fatto puramente letterario – che si presenta gustosissimo se non proprio eccelso - questi versi, nella loro musicalità e vivacità d’immagini si colorano spesso di sfumature “sociologiche” e politiche di grandissima attualità.

Il primo bohemien fiumano

Passiamo ad una veloce carrellata degli autori di poesia dialettale fiumana, a cominciare dall’appassionato Mario Schittar, noto come Zuane de la Marsecia (1862-1890), iniziatore del verseggiare in vernacolo a Fiume e primo bohemien fiumano. Spirito bizzarro, autentico figlio del popolo, diede espressione alle sue frustrazioni di uomo “ricco di sogni e povero di pane” nella raccolta “I sfoghi del cor”, in cui la tematica amorosa ha una parte non trascurabile.
La delusione d’amore del poeta e l’ammonimento ai giovani ingenui sono esplicitate in “Ste a sentirme”.

“Ste a sentirme, cari tosi,
Come son ben disgraziado:
Una dona d’amorosi
Caldi basi m’ha insempià.
Come al can un lazzo involto
Ga sta infame al colo mio,
La me ga pe’ naso ciolto,
E son sta remenà...
Jovinotti, ste sirene
Cerchè sempre de scampar,
E se no tremende pene
Loro ve farà provar”.

In “Lasseme star in paze...” il poeta lamenta la mancata considerazione dei sentimenti, dell’onore e della fede.

“Sentimento non xe più in questi jorni/De moda non xe più;...Amor, adesso xe una mercanzia,/Come la fede, l’onor.../Ma se vu soldi non gavè in scarsela/Nissun ve vol più ben... /. Suona piuttosto familiare.

Nel “Diavolo e el pitor” Zuane de la Marsecia in forma dialettica tra il povero pittore e il Maligno – pervasa di sentori “faustiani” - preferisce alle ricchezze offertogli dal Diavolo la possibilità di vivere modestamente ma con onestà dei proventi della propria arte.

“Non vojo mi richezze; ma concedi/che vivo col lavor...Po trovime una tera/Dove xe amor, justizia, verità/La fede, e non la guera/De cambiali, d’usure e falsità; (Quando si dice l’attualità!) E il Diavolo: “Del sol nol ga el ciaror/El logo che ti zerchi in questo mondo.../Nel vizio l’omo go cazza ben ben/Col suo volubil cor,/Per farghe al grande Dio dispeto in pien....

Rocambole

Quando Mario Schittar, appena ventisettenne venne a mancare, Arturo Caffieri così riassunse la sua personalità:

“Amava el sol, el mar, el ziel e la natura, la sua zità natal e la sua jente

Il Cafieri, pseudonimo Rocambole (1867 – 1941), impiegato, scrisse delle rime che hanno il pregio di illustrare fatti di cronaca cittadina del tempo, anniversari e avvenimenti (“Cose de ogni giorno”, ”Ala festa dei veci fiumani”, “Aventura...coniugal”). Tra i vecchi fiumani c’è forse ancora qualcuno che ricorda la sua figura alta, vestita di nero, con un gran fiocco alla Lavallière. Visse in Calle S. Modesto n. 1, dove si spense.

Un fiumano triestino

Articolata, acuta e abbondante si presenta la produzione di Gino Antoni, in arte Cavaliere di Garbo (1877 – 1948), triestino di nascita, ma trapiantanto a Fiume fin da subito. Già da studente di giurisprudenza pubblicò “Fiori di campo”, e più avanti “Sonetti fiumani”, in cui si esprime in un dialetto influenzato dalla lingua letteraria italiana. Spazia dalla tematica patriottica nutrita da una sentita vena poetica

(“Al Quarnero”, “Laurana” – “Laurana mia, bel muso de istriana./Oci color castagna, abito oliva,/Col campanil de l’aria veneziana./Che a noi la via del cor presto l’intiva.” - “La nostra lingua”), ai temi politico-sociali, non senza un impeto polemico (“Lo squero morto “, “La scolara povera”, “La scolara rica”, “Republica!”, “El progreso”,- “I n’à rubà el comerzio, a la marina/Gente i ne mete brava... pei cavai/“El fiumano pol zercar lavoro... in China!”).

Sembra scritto, nella sua stringente dialettica, per il momento attuale il sonetto “Tempi cattivi” che fa:

 “- Comare, no se pol andar avanti -/- Tuto xe caro - El zucaro, la carne -...- Zent’ani fa, mia nona racontava,/A tre zvanzeghe el vin se lo pagava -/- “La gente andava in ciesa e se sposava - /...Comare, se starà meio in inferno!”.

Non mancano i sonetti di costume e la poesia lirica dedicata al paesaggio e alla natura. Versi gustosissimi; da leggere tutto d’un fiato.

Il Russetto

Ultimo in ordine di nascita tra i poeti in vernacolo di vecchia generazione fu Oscarre Russi (1887 – 1910), detto il Russetto, il quale ci lascia una raccolta – dedicata “all’egregio pubblicista signor Umberto Corradini” - venata di perspicace e godibile satira sociale e di costume. E così disquisisce in versi sul duello, sui “pedoci refadi”, sull’educazion delle ragazze di “buona famiglia” e sulla carità pelosa, sui conferenzieri, sugli osti che annacquano il vino, sui cantanti lirici improvvisati, sulla superstizione, la filantropia, gli snob, la moda del busto e la “vilegiatura” e quant’altro. Una vera e propria quanto preziosa fotografia della società fiumana del tempo.

Ecco che cosa ne pensa de “La politica“ per es.:

“In fato de politica ogigiorno/Bisogna dir, xe tal la confusion...Ve digo mi, xe infati/Dove i politicanti più furiosi/I ga più ciacole che fatti... E tanti co’ no i ga cossa magnar/I pensa, che per non morir rabiosi /, Che torni conto de politicar!”.

Serve commentare?

E a proposito del “Riposo domenical“, su cui oggi si discute tanto, ecco l’opinione del Russetto.

 “I socialisti ga ragion de dir/Che tuto el mondo dovaria osservar/La festa de domenica e tegnir /Tuti i negozi ciusi, no ve par? /...Xe giusto de poterse divertir/El setimo a mandar benedir/Quei sempi che volessi lavorar...”

Troppo bella e di linguaggio colorito, questa sui “Soldi

“Nemizi del dover, de l’onestà,/la sola causa dei più gran malani,/Che piomba su l’intiera umanità/No xè che i porchi soldi, fioi de cani/Mesi a sto mondo per fatalità,/Per rovinar la gente, per far dani,/Guere, deliti, d’ogni qualità...”

E noi dovremmo privarci di tutta ‘sto patrimonio, per quanto non pretenzioso, di filosofia, saggezza, pepe, e via dicendo? Ma siamo proprio sicuri di non aver sottovalutato, nel suo complesso, quest’eredità di vernacolo fiumano e di costume? Ce la sentiamo di chiudere definitivamente il ricco scrigno della poesia del passato diventando più poveri, o non sarebbe piuttosto il caso di spalancarlo e sciorinare i suoi tesori alle generazioni più giovani?

Su Egidio Milinovich cantore della sua “Gomila” e sul suo poetare col cuore in mano, non ci soffermiamo in quanto autore più noto al nostro pubblico, e, speriamo, pure presso le scolaresche delle SEI di Fiume.

Patrizia Venucci Merdžo






27 - East Journal 09/01/14 Croazia: L'isola di Brioni sarà concessa a privati. Zagabria cerca di fare cassa
CROAZIA: L’isola di Brioni sarà concessa a privati. Zagabria cerca di fare cassa

Matt
 
Il governo croato ha comunicato di voler trasformare l'isola Brioni Maggiore, parte di uno dei più rinomati parchi naturali dell'Adriatico, l'arcipelago delle Isole Brioni, in Istria, in una mèta turistica di lusso. L'isola verrà concessa a un investitore privato e le procedure di assegnazione sono cominciate il 3 gennaio scorso. Secondo quanto affermato dal ministro del Turismo, Darko Lorencin, il concorso per la concessione mirerà a trasformare l'offerta turistica dell'isola in una destinazione esclusiva a livello globale che rispetterà i più alti standard del turismo di lusso, ma anche le normative sulla tutela dell'ambiente.

Fare cassa sembra la ragione fondamentale di questa operazione. Zagabria, preda della crisi economica, della recessione e con una disoccupazione del 21,6 %, si trova a recuperare soldi dove può. Le prospettive economiche croate sono tutt'altro che confortanti, con un rating BBB- e un outlook negativo, il paese è ritenuto dagli investitori esteri precario, con un debito estero ragguardevole e un debito pubblico in aumento al 57.3% (nel 2008, prima della crisi, era al 29,3%) benché basso se paragonato, ad esempio, a quello italiano.

L'arcipelago è conosciuto nel mondo come paradiso naturale, già residenza estiva di Josip Broz Tito, leader comunista jugoslavo, ha una lunga tradizione nel turismo di lusso: avamposto militare asburgico fino al 1893, fu poi acquistato dal magnate viennese Paul Kupelwieser che creò un esclusivo complesso alberghiero. La tenuta comprendeva alberghi di prima classe, ristoranti, spiagge turistiche, un casinò, un porto per gli yacht e divenne un punto nevralgico della vita sociale dell'élite tedesca del Litorale austriaco di Gorizia, Trieste e soprattutto di Pola.

Le isole Brioni divennero così una prestigiosa mèta turistica per gli austriaci più facoltosi e furono visitate da membri della famiglia imperiale e da élites aristocratiche europee. Quando ebbe termine la grande guerra, le isole divennero parte dell'Italia che le lasciò in concessione a Karl Kupelwieser, erede del magnate austriaco, il quale tentò di mantenere lo splendore originale ma, quando, nel corso della crisi del 1929, la tenuta entrò in bancarotta, si suicidò. Così, nel 1930 le isole vennero acquistate dallo Stato Italiano. Dopo la Seconda guerra mondiale le isole passarono alla Jugoslavia e il maresciallo Tito ne fece una sua residenza privilegiata ospitando capi di Stato esteri e divi del cinema europeo e americano.

Il crollo della Jugoslavia ne segnò l'inevitabile declino e la trasformazione in riserva naturale. Oggi, nel declino economico di uno dei paesi sorti dalla dissoluzione jugoslava, le isole Brioni potrebbero tornare ai fasti del passato puntando su un turismo di lusso nient'affatto in crisi. I ricchi si dice che piangano talvolta, ma non è certo questa l'epoca che li dispera.




Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it

Mailing List Histria

Rassegna stampa settimanale

a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri

N. 900 – 04 Gennaio 2014
    
Sommario


01 -  Mailing List Histria Notizie  01/01/14 - Gennaio 2014 - 13 ° Anno della Rassegna Stampa Mailing List Histria
02 - Difesa Adriatica - Gennaio 2014 - La nostra storia merita il futuro (Antonio Ballarin)
03 - Coordinamento Adriatico n° 4 - Dicembre 2013 - Qualcosa è cambiato nell'atteggiamento culturale croato (Lucio Toth)
04 - Il Piccolo 28/12/13 Nove cittadini italiani indennizzati a Veglia dall'esproprio di Tito (Andrea Marsanich)
05 - Ravenna notizie.it 23/12/13 Una storia di Natale tra Mezzano e l'Istria
06 - La Voce del Popolo 09/12/13 Lettere - Crìsticchi, giudizio sconsiderato (Olga Milotti)
07 - Coordinamento Adriatico n° 4 - Dicembre 2013 - Simone Cristicchi : "L'esodo dall'Istria ci fa ancora paura" (Carlo Antini)
08 - Europa Quotidiano 26/12/13 Cristicchi scoperchia i sepolcri degli italiani d'Istria (Davide Vannucci)
09 - Il Manifesto 27/12/13 Visioni - Magazzino 18. Cristicchi e la storia secondo un archivista 'distratto' (Stefano Crippa)
10 - Coordimamento Adriatico n° 4 - Dicembre 2013 - Interventi e scoperte in Dalmazia per la tutela del patrimonio storico (Francesca Lughi)
11 – La Voce del Popolo  24/12/13 Il volto di un uomo Sergio Endrigo (Francesco Cenetiempo)
12 - Mailing List Histria Notizie 31/12/13 Claudio Antonelli:  L'alto insegnamento di Mandela (e di Gandhi) (Claudio Antonelli)
13 - La Voce del Popolo 31/12/13 Fiume -  Il sindaco Vojko Obersnel e gli italiani (Gianfranco Miksa)
14 - La Voce in più Storia 07/12/13 Recensione - Non solo drammi ma anche tanta solidarietà (Kristjan Knez)
15 - La Voce del Popolo 31/12/13  Intervista a Alessandro Rossit : Un tempo c'era molto più entusiasmo (Ilaria Rocchi)

Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arcipelagoadriatico.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/

http://www.arenadipola.it/


01 -  Mailing List Histria Notizie  01/01/14 - Gennaio 2014 - 13 ° Anno della Rassegna Stampa Mailing List Histria
Gennaio 2014 - 13 ° Anno della Rassegna Stampa Mailing List Histria
I primi giorni di Gennaio del 2014 daranno vita al 13° Anno della Rassegna stampa curata della Mailing List Histria , sono stati inseriti nella rassegna stessa fino ad ora dal 2002. circa 11290 articoli. Mentre quelli recensiti in lista MLH sono stati circa 24000 , da cui abbiamo tratto molte discussioni, poi trasformatisi in iniziative che hanno unito tutti gli istriani , fiumani e dalmati sparsi per il mondo. L'iniziativa creata nel 2002 raggiunge 250 destinatari in tutti i continenti.


02 - Difesa Adriatica - Gennaio 2014 - La nostra storia merita il futuro
La nostra storia merita il futuro

La nostra Storia merita il Futuro. E «il modo miglio­re per predire il futuro è crearlo» (Forrest C. Shaklee). Per creare il futuro, occorre avere una roadmap, una cartina che sia davvero origi­nale e non segua i soliti contorni geografici, la solita topografia e i so­liti itinerari, ma vada alla ricerca di un orientamento tanto saldamente fondato sulla Storia e sulla Tradizio­ne, quanto nuovo e generativo nel metodo e nel movimento.
La nostra Storia è davvero così importante - non solo per noi -, da meritare il Futuro. E dire «Futuro» equivale a richiamare possibilità nuove e orizzonti finora mai attra­versati e forse neanche pensati.
La Storia è un grande labora­torio di ricerca sperimentale e guai a chi voglia farne una specie di città dei morti viventi. Si vive nella Sto­ria perché noi, come esseri storici, desideriamo sempre qualcosa in più rispetto a quanto abbiamo oggi; aspiriamo, cioè, ad altri orizzonti di aspettativa e, nello stesso tempo, viviamo già spazi di esperienza che spingono, pulsanti, verso nuove se­minagioni e nuove avventure.
La nostra Storia merita il Futu­ro e noi glielo stiamo già fin d’ora consegnando, creando laboratori e linguaggi a misura delle nostre aspettative crescenti. Perché per noi vivere è attendere ogni gior­no il miracolo della Vita, come ci hanno insegnato i nostri Nonni ed i nostri Padri, le nostre Madri ed i nostri testimoni e martiri, come la nostra amata Norma Cossetto, Me­daglia d’Oro al Merito Civile alla Memoria - queste personalità pure, straripanti di vita e coraggiose -, per come hanno affrontato le dure difficoltà della Storia, che ha sem­pre aspetti brutali e talvolta quasi insopportabili, ci chiedono di più, molto di più.
Molto di più rispetto alla resi­stenza o al revanscismo, alla riven­dicazione di sacrosanti diritti - ai quali teniamo come e più di tanti altri che li sbandierano da decenni, creando però soltanto un esercito di perdenti radicali -; molto di più rispetto al pur necessario Ricordo (anzi, dovremo, piuttosto, sempre più appellarci e fondare un’idea forte della Memoria: è un lavoro da condividere); molto di più: e cosa?

CREARE IL FUTURO, LA STORIA CI CHIEDE DI PIÙ

Un passo semplice ma non per questo facile, lo am­mettiamo, che vorremmo spiegare facendo nostre le parole del grande filosofo, scrittore e saggista rumeno, Emil Cioran, creatore di folgoranti aforismi, tra i quali il seguente: «Sia­mo tutti dei commedianti: soprav­viviamo ai nostri problemi». Noi prendiamo l’aforisma per indicare un paradosso al quale siamo stati tutti incatenati per decenni, ma poi
lo         rovesciamo come un calzino. In­fatti, Cioran, nel suo lavoro, dà per scontato che gli uomini siano tutti così e così vivano e muoiano, alla fine, un destino ineluttabile.
In realtà, non è così, perché noi abbiamo la libertà e possiamo, appun­to, creare il nostro futuro: basta smet­terla di pensarci come custodi delle memorie del sottosuolo, dei nostri morti e dei nostri privatissimi ricordi, elevati a feticci della Storia, molto più grande e molto più pretenziosa. La Storia che ci chiede di più e alla qua­le di più dobbiamo dare, proprio per meritarci il Futuro, che i nostri Padri vogliono sia la nostra casa comune.
L’ottimismo e l’amore alla vita della nostra gente, da sempre labo­riosa e creativa, deve essere l’attitu­dine e l’atteggiamento orientato, già sin d’ora, al futuro, perché dob­biamo evitare di essere dei perdenti radicali e “sfigati” per connotazione naturale, perché noi non vogliamo applicare il metodo mortifero all’esi­stenza storica; noi non siamo di quelli che “per punire gli altri di esse­re più felici di noi, inoculiamo loro, in mancanza di meglio, le nostre angosce”. Al contrario: dobbiamo creare una comunità di “pari”, cioè di uomini e donne orientati al futu­ro, ovvero capaci di creare il futuro. Capaci, cioè, di cogliere i veri segnali della Storia. Ne citiamo due, in par­ticolare, uno “macro”, l’altro (si fa per dire) “micro”, ma molto “macro” nella germinazione e negli sviluppi.

LA NOSTRA PARTITA SI GIOCA SU UN CAMPO PIÙ VASTO

Quello “macro” è sotto gli occhi di tutti: la Croazia è in Europa. E noi, oggi, dialoghia­mo con la Croazia con la nostra consapevolezza di Associazione aperta e pronta a cogliere le occasio­ni storiche che questo evento ci of­fre - ad ogni livello: diritti, socialità, economia -, sapendo che la nostra partita si gioca su un campo più vasto e significativo che è, appunto, l’Europa stessa.
Quello “micro” - in realtà, “macro” per gestazione, generatività e futuro - è lo spettacolo di Simone Cristicchi, «Magazzino 18». Un’opera d’arte e di creatività linguistica non seconda a nessun’al- tra opera teatrale di testimonianza civile e, nel contempo, un messag­gio proveniente da un uomo, il suo autore, nato a Roma, e dunque non sospetto di contiguità con il retro­terra politico-culturale almeno di una certa parte del nostro mondo.
Eppure, questo sensibile e colto artista, che ha già mandato messag­gi non comuni e fuori dagli schemi anche in campo prettamente mu­sicale, sta dentro la nostra Storia e ci sta con l’umile curiosità di chi si apre ad un pezzo della sua persona­le storia di italiano e di cittadino. Questo è il metodo: la domanda condivisa.
Si è soli quando nessuno con­divide la domanda che urge nel tuo cuore. Ecco perché noi abbiamo vissuto tanta solitudine ed abbiamo alimentato questa temperie facen­dola diventare isolamento.

Dunque, Cristicchi è un segna­le “macro” nel nostro mondo e nel sistema di linguaggi e originalità che intendiamo creare e soltanto l’umil­tà delle proporzioni ci ha mossi a indicarlo come “micro”; ma chi ha visto lo spettacolo non tarderà a visualizzarlo come “macro” nel suo immaginario e nella realtà di ogni giorno, con effetti virali e contagiosi certamente sorprendenti.
Stupiamoci, dunque, della nostra Storia e non diamola trop­po per scontata, perché il vero “ritorno” è l’apertura delle porte dell’anima di chi, non nato in terra istriana, si sente innervato in quelle memorie di forza e dolore, capaci di nuova creatività e nuovo cando­re umano.
Con questi sentimenti e inten­sità progettuale, auguro a tutti Voi, cari Amici e Associati alla nostra Associazione, un 2014 all’altezza dei nostri desideri e all’insegna del­la creazione del Futuro della nostra Storia.

Antonio Ballarin



03 - Coordinamento Adriatico n° 4 - Dicembre 2013 - Qualcosa è cambiato nell'atteggiamento culturale croato
Qualcosa è cambiato nell’atteggiamento culturale croato
Non percepire le cose che cambiano e non avvertire anche i più piccoli segni di mutamenti vuol dire mettersi fuori dalla possibilità di essere noi a cambiare le cose. Specie quando questi cambiamenti po­trebbero anche essere il frutto di una nostra capacità di incidere sulla realtà.
 
Per anni, proprio sulle pagine di questo pe­riodico, nei convegni da esso organizzati e nelle sue pubblicazioni, abbiamo lottato con la forza delle idee per fronteggiare la mani­polazione della storia che, da oltre un secolo di orientamenti nazionalisti o totalitari, ren­deva difficile il dialogo con la cultura e quindi con la politica croate e slovene, Ormai anche i più retrogradi di noi sono obbligati a constatare che c’è qualcosa di nuovo nell’atteggiamento della cultura croata e anche slovena. Fermiamoci oggi sul primo aspetto.
Un primo punto, fondamentale nella cul­tura dell’Esodo giuliano-dalmato e della popolazione italiana residente nei territori delle due repubbliche, è quello dell’autoc- tonia. Per decenni una propaganda faziosa e superficiale - come lo è ogni propaganda
ha diffuso, approfittando della profonda ignoranza geografica e storica dell’ «intel- lighentia» italiana, l’idea che noi, italiani dell’Istria, della Dalmazia e del Quarnaro, fossimo il prodotto colonialista del ven­tennio fascista: polentoni e terroni impor­tati da Mussolini per alterare e stravolgere la «vera» struttura etnica delle nostre re­gioni. Oppure slavi rinnegati che si erano piegati ai manganelli e all’olio di ricino degli squadristi.
Ebbene nella letteratura e nella saggistica croata e slovena di oggi questa falsificazione ha perduto ogni appeal culturale. A pensarla cosi sono rimasti soltanto i «salotti bene» della borghesia conformista italiana.
Si pubblicano opere dalle case editrici croate e sinossi nelle università nelle quali si rico­nosce apertamente il radicamento storico delle popolazioni italiane sulle coste dell’Adriatico orientale. Non sempre queste ricerche arrivano nei testi scolastici delle scuole primarie e secondarie. Ma si sa che non tutti i semi cadono su terra fertile. La stupidità, la pigrizia, la paura della verità trovano spesso dure cervici, impenetrabili ad ogni novità, in tutti i paesi.
Chi frequenta senza paraocchi le nostre terre natali - «nostre», anche se appartenenti a stati diversi da quello italiano, nel senso personale della parola, privo di ogni revans­cismo territoriale - si accorge quanto inte­resse susciti nei giovani studiosi e ricercarori croati e di altri paesi il carattere «plurale» delle regioni dell’oltre-Adriatico. C’è un fascino misterioso che attrae il visitatore o lo studioso sensibile quando costeggia le nostre isole o entra dalle antiche porte delle nostre piccole città, dense di arte e di storia. Un qualcosa che rende quei luoghi «diversi» e non catalogabili secondo i canoni comuni. E spinge quindi l’intelletto a cercare le ra­gioni di quella diversità. A superare soprat­tutto la barriera psicologica che il Novecento ha costruito su semplificazioni arbitrarie di una realtà e di una sedimentazione storica ben più ricche e interessanti degli stupidi slogan di opposte propagande.
E’ successo a grandi studiosi e letterati del passato (Mommsen, Jerecek, Freud, Junger, Verne, Joyce, Màrai, ecc.). Succede anche oggi leggendo le epigrafi sui muri delle chiese e delle strade, delle antiche mura, o visitando archivi e biblioteche.
 Per farne un esempio autorevole ascoltiamo con intelligenza le parole dell’attuale Presi­dente della Repubblica croata, Ivo Josipovic, uomo di cultura, dalmato di Macarsca. Già nell’incontro di Pola con Giorgio Napolitano e nel concerto all’Arena del 3 settembre 2011, poi nella visita a comunità italiane dell’Istria, e infine nella recente visita di stato a Roma il 3 dicembre di quest’anno, Josipovic non ha avuto paura di riconoscere la storicità della «presenza italiana» nelle regioni dell’Adriatico orientale. Non ha sot­tolineato quindi solo i legami di cultura tra le due sponde - termine ormai abusato nei salamelecchi che precedono i convegni in­ternazionali - ma l’influenza decisiva che la cultura italiana ha avuto nello sviluppo artistico, letterario e scientifico di queste re­ioni. «Senza di VOI - disse a noi esuli a ola - noi croati non saremmo quello che siamo.» Ma ha parlato di una profonda co­munanza di cultura intrecciata dal medio evo all’età moderna. Era evidente nelle es­pressioni usate, e finemente scelte, il rico­noscimento della vanità di voler distinguere con categorie anacronistiche il profondo substrato di una civiltà comune. Era come se pensasse al giudizio di Salomone, quando propone alle due madri di spaccare a metà il bambino che si contendevano. Il concetto di nazionalità - sottintendeva il presidente croato - nato tra Ottocento e Novecento non può essere esteso retroattivamente alle età precedenti, senza forzature ridicole.
Anche se ha concesso al nazionalismo croato di indicare nella loro lingua i nomi di tre grandi artisti dalmati (Ivan Duknovic / Giovanni Dalmata, Frane e Lucijan Vran- janin / Francesco e Luciano Laurana) ha su­bito aggiunto che questi sono meglio noti con i loro nomi italiani. Ed ha sottilmente osservato quanto sia indifferente come essi venissero chiamati o si facessero chiamare. Ma più che una rivendicazione di apparte­nenza etnica quelle parole denunciavano l’inconsistenza di attribuzioni esclusive, la loro improprietà scientifica. Il senso di tutto il discorso era l’inutilità del contendere sulle origini più o meno italiane o croate di grandi protagonisti del Rinascimento italiano ed europeo. Non per niente si è guardato dall’estendere le citazioni ad altri autori o scienziati sui quali si è troppo a lungo controverso con appropriazioni spesso risi­bili. Uomini e donne di alta cultura che scri­vevano in latino e in italiano o in francese, perchè queste erano le lingue della civiltà europea di quel momento. Una lingua, quella italiana, che a tutti i dalmati - come riconobbe a Pola - era «familiare». Ciò che egli ha voluto asserire è la totale Koinè cul­turale e linguistica tra la penisola italiana e le regioni adriatiche ove abitavano, insieme agli slavi, tanti italiani di origine autoctona, cioè frutto naturale di quelle terre. Niente percentuali quindi, niente freddi numeri, ma la sostanza di un cammino comune che i nazionalismi e le ideologie del Novecento avevano voluto separare.
All’Università di Zara non si teme di stu­diare e diffondere le opere di scrittori e poeti italiani della Dalmazia nel Novecento nè di pubblicare proverbi o canzoni in dialetto dalmato-veneto di fine-Ottocento o dei primi del secolo scorso. Negli archivi si cercano le ripercussioni in Istria e in Dalmazia delle vicende del Risorgimento italiano, senza oc­cultare le lotte tra partito autonomista filo­italiano e partito annessionista filo-croato. Anche i tabù su Nicolò Tommaseo e Antonio Baiamonti stanno crollando. E non per ri­vendicarne la slavità. Ma per sottolineare la sensibilità del primo nel difendere l’identità peculiare della sua piccola patria, senza dis­conoscerne il carattere plurale e la diversità di prospettive che si presentava ai croati della Dalmazia. E per delineare la grande personalità del patriota spalatino, strenuo difensore della lingua e del carattere italiani di Spalato, ma generoso e provvido ammi­nistratore di una città plurilingue ove tutti godessero di uguali diritti. Al riguardo è esemplare l’opera rigorosamante documen­tata di Dusko Keckemet pubblicata dalla Società Dalmata di Storia Patria di Venezia, come la spassionata collaborazione di stu­diosi croati alle pubblicazioni della Società consorella di Roma.
Come non ricordare che non solo all’epoca della defunta Iugoslavia, ma anche negli anni della Croazia di Tudjman, il linguaggio della cultura croata era Den diverso! Anzi fin dal secolo XIX la tesi di fondo del na­zionalismo croato erano l’iniquità della do­minazione veneziana - che andava mini­mizzata nella sua stessa durata plurisecolare
l’ «inquinamento» e la corruzione morale portati dalle influenze italiane nelle «sane» costumanze popolari del popolo croato, lo sfruttamento sociale delle oligarchie venete sul lavoro delle masse rurali slave delle campagne, persino il peso nefasto del clero latino delle città costiere sulla genesi e lo sviluppo di una coscienza nazionale croata. Altro che la benefica «presenza italiana» di cui parla Josipovic, forte del suo retro­terra culturale e della sua serietà e serenità di giudizio!
Ovviamente a nessuno possiamo chiedere di tacere sui tentativi di snazionalizzazione durante il ventennio fascista o sulle repres­sioni commesse da reparti italiani durante l’occupazione del 1941-43, nel clima di una guerriglia a più componenti che non si ris­parmiavano atrocità di ogni genere. Sarebbe come se volessimo fare a meno della nostra stessa onestà di giudizio.
Ma non possiamo disconoscere che nel lin­guaggio di chi oggi rappresenta al massimo livello la nazione croata non c’è più ombra di negazionismo della antichissima presenza latina e italiana in Adriatico orientale, nè cenni di giustificazionismo della barbarica violenza a guerra finita contro gli italiani di quelle regioni da parte del regime di Tito. Il sacrificio e le sofferenze del nostro esodo vengono denunciati ufficialmnte senza pe­lose omissioni. Finisce che ormai di noi, italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia parlano con più rispetto autorità di stato e studiosi croati che tanti mostri sacri della cultura italiana, che ancora ci ignorano, come se non fossimo mai esistiti.
 
Lucio Toth
04 - Il Piccolo 28/12/13 Nove cittadini italiani indennizzati a Veglia dall'esproprio di Tito
Nove cittadini italiani indennizzati a Veglia dall’esproprio di Tito

La decisione del tribunale di Fiume anche per quattro croati Gli immobili e i terreni vennero sottratti dal regime jugoslavo

di Andrea Marsanich

VEGLIA. Furono mazzate devastanti ai danni di privati, in pratica derubati decenni fa, ai tempi del regime jugoslavo. Ora, dopo anni di battaglie giudiziarie, il Comune di Veglia - su disposizione del tribunale di Fiume - deve versare somme consistenti agli eredi dei titolari di lotti di terreno sottratti sull’isola quarnerina negli anni Sessanta e Ottanta, con la magica formula de “In nome del popolo” e senza alcun risarcimento ai proprietari. Proprio nelle settimane scorse la municipalità vegliota ha raggiunto una specie di compromesso, o accomodamento, con 13 eredi di proprietari di un totale di 10 mila metri quadrati di terreno in zona Drazice, nelle vicinanze di Veglia città.

Si tratta di 4 cittadini veglioti e di 9 cittadini italiani (non è stata comunicata la loro identità) che nel 2014 e nel 2015 riceveranno mensilmente l’importo di mezzo milione di kune, pari a 65 mila e 500 euro. Il versamento è già cominciato questo mese e proseguirà dunque nei due anni a venire, ponendo in qualche modo riparo alle ingiustizie perpetrate tanto tempo fa e passate per decenni sotto silenzio.

«Il nostro bilancio municipale ne risentirà eccome – ha detto il sindaco di Veglia, Dario Vasili„ – sono lotti di cui la città non ha mai beneficiato perché ceduti a scopi turistici e anche abitativi. Dovevamo pagare in contanti sui 12 milioni e mezzo di kune (circa 1 milione e 636 mila euro), somma che avrebbe significato la bancarotta del nostro comune. Invece abbiamo stabilito un’intesa con gli eredi, che ci permette il pagamento rateale e la salvezza delle casse municipali». Il primo cittadino ha dichiarato ai giornalisti che metà dell’importo da versare agli eredi verrà fuori dalla vendita di immobili di proprietà di Veglia città. In primo luogo si porrà sul mercato il complesso d’affari Neptun, dislocato nei pressi dello stabilimento balneare Portapisana, come pure l’edificio della Vecchia Posta, in Piazza Grande, nel nucleo storico del capoluogo isolano.
«Purtroppo non si tratta della prima sentenza per questo lotto di 10 mila metri quadri – ha specificato Vasili„ – negli anni passati ci sono già stati tre verdetti a favore degli ex tredici titolari, con risarcimenti costati alle nostre casse sui 5 milioni di kune (655 mila euro). Ricordo che un primo lotto, di circa 6200 metri quadri, fu preso ai legittimi proprietari nel 1969, mentre il secondo, di 3800 metri quadri, fu nazionalizzato nel 1982. La proprietà privata è però un diritto inalienabile e dunque le sentenze non ci hanno sorpreso».





05 - Ravenna notizie.it 23/12/13 Una storia di Natale tra Mezzano e l'Istria
LA POSTA DEI LETTORI / Una storia di Natale tra Mezzano e l'Istria

I buoni sentimenti uniscono, costruiscono ponti, non hanno barriere
La scuola elementare "Rodari" di Mezzano, facente parte dell'Istituto Comprensivo Valgimigli di Mezzano, è stata allietata in questi giorni natalizi da un evento insolito e benaugurante, che merita di essere divulgato.
L'antefatto è costituito dalla sagra di Mezzano svoltasi in ottobre; all'interno della sagra, domenica 20 ottobre furono lanciati nella piazza oltre 300 palloncini (uno per ogni alunno della scuola elementare di Mezzano), contenenti ciascuno messaggi di pace e fratellanza tra i popoli.
I messaggi, accompagnati da un disegno, erano stati preparati a scuola dagli alunni. Su ogni biglietto era riportato l'indirizzo della scuola, la classe di appartenenza, il nome e il cognome dell'alunno.
In questi giorni natalizi è giunta alla nostra scuola, per un'alunna della classe 3^B, una lettera di una ragazzina di 14 anni di Koromacno, in Istria, Croazia.
Nella lettera la ragazzina, di nome Antonela, studiosa di lingua italiana, racconta che, mentre stava cercando funghi in un bosco vicino casa, ha ritrovato il palloncino a terra con appeso il bigliettino ancora in buono stato.
Antonela ha allegato alla lettera una cartina della sua città e ha rispedito alla nostra alunna di Mezzano anche il bigliettino che ha sorvolato il Mare Adriatico ed è atterrato in Croazia, dopo diverse settimane di volo, dalla partenza da Mezzano il 20 ottobre u.s.

C'è da aggiungere che Koromacno si trova nella sponda più a est dell'Istria, quindi il palloncino ha attraversato in volo anche l'Istria.





06 - La Voce del Popolo 09/12/13 Lettere - Crìsticchi, giudizio sconsiderato
Lettere

Crìsticchi, giudizio sconsiderato

Mi accingevo a esaltare le due splendide serate che abbiamo trascorso in Comunità, la prima a opera della Dante Alighieri (la magnifica presentazione dell’ultimo libro di Nelida Milani Kruljac), la seconda offertaci dalla Lino Mariani per l’anniversario della nascita di Verdi. Entusiasmanti. Indimenticabili. Un infinito senso di gratitudine per tutti gli esecutori.

Ma un altro argomento mi ha distolto da quelle riflessioni, e cioè la conferenza stampa dei signori dell’SRP contro l’atteso spettacolo di Simone Crìsticchi qui a Pola.

Mi chiedo: come si fa a giudicare una cosa del genere PRIMA di averla vista. Non insegna niente l’esperienza di Trieste? Quante polemiche da tanti malintenzionati PRIMA dello spettacolo.

DOPO averlo visto, chiuso ogni contrasto, dieci minuti di applausi in piedi da TUTTO il pubblico, compresi anche i malintenzionati di prima.

- perché non si vuole accettare la verità? Guai nominare le foibe, si vuole rimuovere anche il pensiero della loro esistenza. Ma non sono mica un’invenzione! Ce ne sono, e parecchie e il fatto di avervi precipitato persone, certe addirittura ancora vive, è la più grande carognata e vergogna che sia stata commessa dalle nostre parti. E quando, dopo tanti decenni, si accetterà la verità, potremo dire di respirare aria libera.

- altro argomento da non toccare: l’esodo.

Ma quanta nostra gente ha dovuto lasciare questa nostra Terra benedetta e andarsene per il mondo. Tutti si sono sistemati, erano tutti brava gente, ma quanto tempo ci volle, e quanto dolore per i propri cari rimasti, e per i propri beni abbandonati. Quasi sessant’ anni fa io ho fatto visita ai miei parenti nel Silos di Trieste. Un doloroso ricordo.

Per finire: il nostro grande Endrigo non avrebbe certamente accettato l’amicizia di uno che la pensa come quel signore dell’SRP. Si vede che quest’ultimo sapeva celare molto bene i suoi veri sentimenti.

Cari signori dell’ SRP venite a vedere Crìsticchi, buoni buoni, in un angolo. Forse cambiate idea pure voi.

 
Olga Milotti
Pola




07 - Coordinamento Adriatico n° 4 - Dicembre 2013 - Simone Cristicchi : "L'esodo dall'Istria ci fa ancora paura"
Simone Cristicchi : “L’esodo dall’Istria ci fa ancora paura”

La tragedia degli esuli giuliano-dalmati fa ancora paura. Simone Cristicchi non usa mezze misure quando parla del «musical civile» che lo vedrà protagonista da martedì a domenica alla Sala Umberto di Roma. «Magazzino 18» è già andato in scena a Trieste, con tanto di Digos e polizia schierati a sorvegliare sulla prima.

Simone Cristicchi, perché a Trieste c’era addirittura la polizia alla prima di «Magazzino 18»? «Si temevano contestazioni che poi, fortunatamente, non ci sono state».
Perché il suo musical civile era a rischio contestazioni?
«Perché mi accusavano di essere stato manipolato da qualcuno».

Lei cosa risponde alle accuse?
«Con Jan Bernas abbiamo cercato di essere i più equilibrati possibile.
Abbiamo cercato di porre interrogativi piuttosto che dare risposte. Questo spettacolo vuole pacificare, vuole far fare a ognuno i conti coi propri scheletri nell’armadio. È giunta l’ora di riappropriarsi di questo passato rimosso per così tanto tempo».
Perché è stato rimosso questo capitolo della storia d’Italia?
«Per tanti anni la sinistra ha lasciato alla destra il monopolio di questa storia. Quando gli italiani dell’esodo tornavano in Italia venivano trattati male. L’arrivo di 350 mila persone fu interpretato come un plebiscito popolare, un atto d’accusa nei confronti della Jugoslavia di Tito. La storia di queste persone metteva in cattiva luce il comunismo. Ma non c’era solo questo».

E cos’altro c’era?
Il    mio j ’accuse è rivolto a tutti quelli che hanno voluto rimuovere
questa storia. La Dc e il Pci, per esempio, hanno taciuto. Poi dopo il ’48 Tito è diventato un interlocutore dell’Occidente e non bisognava metterlo in difficoltà.
Senza sottovalutare il silenzio degli stessi esuli giuliano-dalmati che non hanno mai chiesto nulla e si sono perfino vergognati. Il loro esodo dimostrava che l’Italia la guerra l’aveva persa, eccome. Ma gli esuli hanno sempre mantenuto una grande dignità, nonostante le difficoltà e la vita nei campi profughi».

Com’è nata l’idea di mettere in scena l’esodo giuliano-dalmata?
Mi trovavo a Triste e scoprii l ’esistenza di questo Magazzino 18 che si trova nel porto vecchio della città e che contiene duemila metri cubi di masserizie. Ci sono pile di sedie fino al soffitto, mattonelle, armadi, specchiere, cassapanche, libri, ritratti, quaderni e fotografie in bianco e nero. È il contenuto di un ’intera città. Tutti oggetti che gli esuli avevano portato con sé e sui quali ancora oggi ci sono targhette con il nome del legittimo proprietario».

Com’è costruito lo spettacolo?
«Lo abbiamo definito musical civile perché arricchisce la formula classica del teatro di narrazione. La storia è intervallata da dieci canzoni inedite e da filmati dell’Istituto Luce. La messinscena è ambientata nel Magazzino 18».

Da qualche anno, lei ha allargato il suo raggio d’azione non limitandosi solo alla canzone. Com’è nata questa esigenza?
«La canzone mi va stretta. Sento di poter dare molto di più nel teatro-canzone ma nel nuovo musical civile ho trovato la mia dimensione ideale. In questo modo il pubblico ha la possibilità di conoscermi fino in fondo. Parallelamente continuo ancora a scrivere canzoni ma sto già pensando ad altri musical».

A quali spettacoli sta pensando?
Mi piacerebbe affrontare il tema del Risorgimento oppure mettere in scena la vicenda narrata in “Canale Mussolini”.

Carlo Antini da “Il Tempo” del 15.12.2013


08 - Europa Quotidiano 26/12/13 Cristicchi scoperchia i sepolcri degli italiani d'Istria
Cultura

Davide Vannucci

Cristicchi scoperchia i sepolcri degli italiani d’Istria

Revisionista o cerchiobottista? Né l'uno né l'altro, con "Magazzino 18" Simone Cristicchi riscopre un capitolo dimenticato della nostra memoria

Il Cominform non è un detersivo, il Grande Esodo non è l’avvio delle vacanze e Giuliano Dalmata non è un imperatore pagano del IV secolo. L’ignoranza dell’impiegato romano Persichetti, professione archivista, si dirada poco alla volta, e in parallelo una delle vicende più misconosciute della nostra storia, l’esodo degli italiani d’Istria, esce dalle stanze polverose del Magazzino 18 di Trieste, dove i ratti spadroneggiano e i ricordi affogano, per diventare spettacolo teatrale, recital civile, come si è soliti dire, vis-à-vis di una nazione con il proprio rimosso.

Da qualche anno Simone Cristicchi, professione cantante, ha scoperto un nuovo habitat, il teatro, e un mestiere del tutto originale. Ha deciso di raccontare le pagine dimenticate del Novecento italiano, mescolando musica, recitazione, affabulazione. Una soluzione stilistica alla Marco Paolini, se si vuole trovare un termine di paragone. La differenza, in parte, è nell’oggetto. Non le grandi vicende su cui non si è mai indagato a fondo, come la strage del Vajont o quella di Ustica, ma storie letteralmente rimosse, come la tragica epopea de Li romani in Russia – titolo di una sua precedente opera, tratta dai versi del poeta capitolino Elia Marcelli – o l’esodo da quelle terre che la Grande Guerra aveva assegnato all’Italia e che il secondo conflitto mondiale aveva trasferito alla Jugoslavia di Tito.

L’espediente narrativo è questo: il burocrate Persichetti viene mandato a Trieste per fare l’inventario del Magazzino 18, nel Porto Vecchio della città. Là sono conservati tutti gli oggetti degli italiani che avevano lasciato in fretta e in furia l’Istria e la Dalmazia dopo il trattato di pace del 1947. Non erano riusciti a portare con sé i propri averi e li avevano spediti in Venezia Giulia, in attesa di recuperarli. Molti oggetti, però, non furono mai reclamati. Sedie, armadi, specchiere, cassapanche, fotografie, libri, ritratti, quaderni di scuola, tutti rigorosamente archiviati, nome, cognome, numero di serie. Nomi e cognomi che raccontano una vicenda tragicamente universale, quella delle vittime della Storia, costrette, da dinamiche che sfuggono al loro controllo, a sciogliere un drammatico dilemma: partire o restare?

A questo proposito, Cristicchi ha accostato l’esodo istriano alle rotte della disperazione che popolano le nostre cronache. Stessi interrogativi, stesso trauma, stesse difficoltà di adattamento a un ambiente che li tratta con sospetto o, peggio, repulsione. Persone sradicate dalle proprie terre, perché i confini, si sa, sono affare politico. Persone che fuggono perché la guerra sconvolge il loro mondo quotidiano: Siria, Repubblica centrafricana, Sud Sudan, Congo. E se raramente si parla degli esodi contemporanei – tranne quando lambiscono le nostre responsabilità, come a Lampedusa – ancor meno si discute di quella lontana vicenda, i cui numeri furono impressionanti: 350mila persone, che avevano la sola colpa di abitare un territorio di confine, conteso tra due paesi e due mondi.

Il silenzio si è imposto anche perché, ogni qualvolta si vuole fare luce, scatta il riflesso pavloviano dell’ideologia. Le polemiche su Magazzino 18 ne sono la testimonianza. Lo spettacolo – che ha appena lasciato la Sala Umberto di Roma per proseguire altrove – è partito proprio dalle terre degli esuli: Pola, Umago, Fiume. Accoglienza calorosa da parte del pubblico, astiosa reazione di alcuni gruppi, che hanno accusato Cristicchi di revisionismo storico, di trasformare i carnefici in vittime, come se si imponesse l’equazione “istriani uguale fascisti”.

Piccoli incidenti, che mostrano il nervo scoperto di certa sinistra (oltre che l’opera strumentale di certa destra). All’epoca, infatti, si era agli albori della guerra fredda, Churchill aveva coniato l’espressione “cortina di ferro” e la logica delle alleanze internazionali si stava imponendo. Il Pci era diviso tra la fedeltà alla nazione italiana, che stava contribuendo a plasmare, e quella all’Internazionale comunista (il Cominform, appunto). Gli italiani d’Istria, che avevano deciso di non abitare la casa socialista di Tito, furono trattati con ostilità.

Lo spettacolo è stato accusato anche di cerchiobottismo, perché racconta i soprusi perpetrati dai fascisti sulla popolazione slava, durante il ventennio italiano. Ma nella pièce non c’è alcuno sforzo giustificazionista, non si ripara a un torto con un torto uguale e contrario, campo di prigionia contro campo di prigionia. Cristicchi vuole semplicemente raccontare, commuovendo e (talvolta) facendo sorridere.

Persichetti è una sorta di Virgilio che conduce lo spettatore a scoperchiare i sepolcri della nostra memoria. Non solo, e non tanto, la vicenda delle foibe, venuta meritoriamente alla luce nell’ultimo ventennio, anche se ben presto sequestrata dalla strumentalizzazione politica. Storie di italiani, come Marinella Filippaz, dodici mesi, morta di freddo nel campo profughi di Padriciano. Le vittime della strage di Vergarolla, 18 agosto 1946, quando l’esplosione di una mina lasciò sulla spiagge di Pola oltre cento morti. Gli uomini e le donne che decisero di restare in Istria, e vissero da stranieri, in una patria che li trattò sempre come un corpo estraneo. Quelli che partirono per l’Italia, ma rimasero esuli per tutta la vita, tollerati a malapena, mai integrati, e che affogarono la loro esistenza nell’alcool, o si suicidarono, vinti dalla nostalgia. Gli operai dei cantieri navali di Monfalcone, che varcarono il confine, fazzoletto rosso al collo, per vivere nella nuova repubblica socialista. Furono fatti prigionieri ed internati nel lager di Goli Otok. Perché nel frattempo Tito e Stalin avevano rotto, e a quel punto i comunisti italiani abitavano un’altra patria. La Storia, ancora una volta, aveva deciso per loro.








09 - Il Manifesto 27/12/13 Visioni - Magazzino 18. Cristicchi e la storia secondo un archivista 'distratto'
VISIONI

Magazzino 18. Cristicchi e la storia secondo un archivista ‘distratto’

Stefano Crippa

Centinaia di sedie una sopra l’altra, vecchi mobili, camere da letto, oggetti lasciati dagli esuli italiani nel Porto Vecchio di Trieste. Tutti accatastati nel Magaz­zino 18, anche titolo dello spettacolo di Simone Cristicchi per la regia di Antonio Calenda, che ha debuttato lo scorso ottobre al Politeama di Trieste e sta girando i teatri della penisola. Al centro l’esodo degli italiani dalle terre d’Istria, Fiume e Dalmazia e il dramma delle foibe, uno spaccato di storia complicato e mai risolto che Cristicchi — memore di sue esperienze passate sul palcoscenico (come Li romani di Russia), riprende in un monologo a metà fra il recitato e la canzone.

Nella messinscena Cristicchi è un archivista romano, inviato al Magazzino 18 dal ministero dell’interno per fare un grande inventario. Andatura dinoccolata, soprabito e valigetta, un guascone che si rifà alla mitologia dell’uomo medio incarnato da Sordi in tanti film: arruffone, egoista, ma che nella finzione passa da un disinteresse totale a una più decisa consapevolezza. Un racconto intervallato da una sorta di compendio veloce dei fatti storici che sconvolsero quelle terre dai primi del Novecento al ’47, cercando di contestualizzarne le vicende. E qui Cristicchi inciampa rovinosamente, mettendo in scena uno spettacolo che si basa quasi esclusivamente sul testo di Ian Bernas Ci chiamavano fascisti. Eravamo Italiani, e propone un’interpretazione di quegli accadimenti parziale, se non univoca.

Così la storia tutto ingoia e omologa, senza per mettere allo spettatore di valutare le ragioni e i comportamenti che sono stati alla base di quegli eventi; avvicinando anzi pericolosamente le due ideologie contrapposte, comunismo e fascismo, per omologarle. E generando confusione nel pubblico:
perché non si possono dedicare tre minuti tre di «riassunto» alle terribili sofferenze portate dal fascismo in Slovenia; lo sterminio di oltre 350 mila sloveni, croati, serbi montenegrini, slavi nelle regioni occupate e/o annesse dal 3 aprile 1941 al settembre del 43, le 35 mila vittime uccise da fame e malattie in oltre 60 campi di internamento per civili sparsi dal nord al sud Italia, che sono fondamentale per comprendere la successione degli avvenimenti.

Non mi interessa la politica — racconta in un’intervista al Piccolo il cantautore — Mi interessano le storie, e mi inte­ressa continuare a sviluppare, sia a teatro che con le mie canzoni un’operazione didattica della memoria». Ma per ricostruire una successione di eventi così complessa — e dichiaratamente con «fini didattici» — serve un lavoro diverso. Non basta limitarsi a costruire canzoni o, peggio, riutilizzare uno strug­gente pezzo di Sergio Endrigo come 1947, facendolo passare per un’irredentista.
Altrimenti — e ci dispiace perché in passato Cristicchi ha dato prova di sensibilità nel parlare di disagio mentale — si presta solo il fianco al revisionismo storico che avvelena il tessuto sociale di questo paese da troppo tempo.


10 - Coordimamento Adriatico n° 4 - Dicembre 2013 - Interventi e scoperte in Dalmazia per la tutela del patrimonio storico
Interventi e scoperte in Dalmazia per la tutela del patrimonio storico

Zara, l ’antico centro dalmata, è all’opera per restaurare e valorizzare alcune tra le parti più preziose e prestigiose del suo centro storico. Dall ’amministrazione cittadina di Zara è stata diffusa a fine novembre la notizia che prossimamente cominceranno i lavori di restauro di tre siti di grande importanza: il Passaggio dell’imperatore Augusto (nei pressi dell’ambulatorio pediatrico), la Porta Marina (al presente ribattezzata con l ’antico nome di San Grisogono) e l’area del Piccolo Arsenale (nelle vicinanze dei Tre pozzi). Gli interventi fanno parte del progetto Hera, nell’ambito del programma Ipa Adriatic. Secondo quanto dichiarato ai giornalisti locali da Davor Lonic, assessore zaratino allo Sviluppo e ai Processi europei, il progetto dovrà essere portato a termine entro 27 mesi.

Il progetto Hera è stato formulato da esperti del luogo e punta alla valorizzazione culturale e turistica dei tre siti appena indicati. La Porta San Grisogono (patrono della città di Zara), costruita nel 1566, assunse l’odierno aspetto nel 1571, quando fu ristrutturata per le trionfali accoglienze che gli zaratini riservarono ai marinai delle quattordici navi dalmate accorse alla battaglia di Lepanto. Sulla Porta si può ancora notare la lapide che salutava gli eroici reduci dello scontro tra la flotta dei cristiani e quella dei musulmani. Sulla facciata barocca del Piccolo Arsenale, che è in pietra calcarea, è ancora presente un leone di San Marco, attestato della secolare fedeltà dalmata a Venezia. Della cessione dalmata da parte del Regno d’Ungheria alla Dominante (9 luglio 1409) si è parlato il
29 novembre a Venezia, in occasione di un Convegno promosso dalle Società dalmate di Storia Patria di Venezia e Roma, consorelle impegnate fra l’altro nella divulgazione e tutela del retaggio veneziano in Adriatico. Con l ’occasione è stata deposta una lapide a memoria dell ’avvenimento nel luogo in cui fu siglato l’accordo: la veneziana chiesa di San Silvestro nell ’omonimo Campo. Nel cuore di Spalato - capoluogo dalmata - a metà novembre sono intanto stati scoperti i resti di un antico anfiteatro romano, risalente alla prima metà del IV secolo dC., costruito molto probabilmente su volontà dell’imperatore Diocleziano che, nel luogo in cui oggi si trova la città, fece edificare come è noto uno dei più sontuosi palazzi dell ’Età antica. Si tratta quasi certamente di un monumento maestoso, un’arena di cinquanta metri di diametro, che poteva accogliere migliaia di persone, sostiene l ’archeologo Radoslav Buzancic, a capo della sovrintendenza per i beni culturali di Spalato. L’area, preventivamente, sarà ricoperta in attesa che venga preparata la sua conservazione e presentazione al pubblico.
Spalato - come Zara e moltissime altre località della Dalmazia, dell’Istria e del Quarnaro - è un vero e proprio museo all’aperto, che merita di essere adeguatamente tutelato e valorizzato in ottica europea. In questo senso va giustamente ricordato il determinante ruolo esercitato dalla Regione Veneto, che negli ultimi decenni ha stanziato somme ingenti per la tutela e il recupero del patrimonio storico-architettonico lungo il versante orientale dell ’Adriatico.

Francesca Lughi



11 – La Voce del Popolo  24/12/13 Il volto di un uomo Sergio Endrigo
Il volto di un uomo Sergio Endrigo

Francesco Cenetiempo
Sergio Endrigo è stato indubbiamente uno dei rappresentanti più raffinati di quella canzone d’autore esplosa all’inizio degli anni Sessanta. Il suo nome va posto a fianco di Gino Paoli, Fabrizio De Andrè, Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Enzo Jannacci e Giorgio Gaber, autori che portarono una ventata di rinnovamento nel vetusto panorama musicale italiano degli anni Sessanta.
La sua vicinanza a poeti ed intellettuali come Pasolini, Buttitta,Ungaretti e Rodari, con alcuni dei quali collaborò assiduamente e traspose in canzone alcuni loro testi oltre alle frequentazioni brasiliane di grandi nomi della canzone da Vinicius De Moraes a Toquinho, da Chico Buarque de Hollanda a Baden Powell. Negli anni pubblica decine di album, molti di questi di grande livello artistico, alcuni però non ottengono lo stesso successo di quelli precedenti. Ciò è dovuto, in parte, al suo carattere poco avvezzo a compromessi e quindi spesso in conflitto con i discografici, veri padroni della musica in quegli anni.
Il cantautore polese, nato nel 1933, raggiunse il successo nel 1962 con “Io che amo solo te”, canzone che lo lanciò anche in Brasile, e proseguì con brani come “Vecchia balera”, “La periferia”, “Il soldato di Napoleone”, “Aria di neve”, “Via Broletto 34”, “Viva Maddalena”, “I tuoi vent’anni”, “Teresa”, “Te lo leggo negli occhi” e tantissime altre che hanno segnato a lungo un’epoca.
Partecipò a numerose manifestazioni dedicate alla canzone di cui ricordiamo, tra l’altro, ben nove presenze al Festival di Sanremo, di cui vinse l’edizione del 1968 con Canzone per te. “Non so da dove venisse l’ispirazione delle mie canzoni - dichiarò tempo dopo - credo che affondassero nella mia malinconia austro-ungarica che ha qualcosa in comune con la saudade brasiliana: la consapevolezza della perdita dentro l’intensità di un’emozione”.
Semplice, generoso, molto allegro
Dopodiché il percorso di Endrigo si interruppe: i suoi lavori si diradarono, l’industria del disco lo mise da parte. Il cantautore riversò tutta la propria delusione nel romanzo semi - autobiografico “Quanto mi dai se mi sparo?”. Da allora seguiranno nuove composizioni e qualche presenza pubblica, ma sarà un ritorno tutto in salita sino alla morte che lo coglierà a Roma nel settembre 2005. Abbiamo rivolto alla figlia Claudia Endrigo alcune domande sulla complessa personalità del padre.

Di se stesso disse: “Parlando di me, mi piacciono la calma, la buona tavola, i buoni amici, i buoni libri, la pesca subacquea, i francobolli, le armi antiche, gli animali, i luoghi non affollati. Non mi piacciono i dritti, i disonesti, i dilettanti presuntuosi, le salse agrodolci, i seccatori, gli invadenti, gli animali che mordono. Amen”. Fuori da un certo cliché che lo voleva malinconico e solitario chi era in realtà suo padre?

“Mio padre era una persona come tante altre: generoso, curioso, gentile e molto allegro. Lui diceva che la sua faccia era quella e che non poteva essere diversa. Nel mondo dello spettacolo quando ti appioppano un cliché ti resta per sempre. Amava viaggiare, amava il mare e adorava cucinare! Era un uomo semplice, diceva sempre che il mestiere del cantautore era un mestiere come un altro e aveva una grande umiltà, qualità oramai quasi scomparsa e che io ho avuto l’immensa fortuna di ereditare”.

Un anno fa lei rivolgeva un accorato appello agli artisti italiani e al Comune di Roma, città dove suo padre ha vissuto per molti anni, per un tributo a Sergio Endrigo a sette anni dalla sua scomparsa. In quel contesto ricordava con amarezza come il suo nome e le sue canzoni fossero ormai in procinto di finire nel dimenticatoio. Ad un anno dal suo appello è cambiato qualcosa?

“Purtroppo no. Io in genere sono molto combattiva, ma ho capito che è inutile battersi in questa Italia dove vincono sempre i furbetti e chi ha le giuste conoscenze politiche. Però l’affetto della gente quello c’è sempre e mi riempie il cuore.. Simone Cristicchi grande amico e artista lo ricorda sempre anche facendo dei concerti in cui canta solo il repertorio di papà e non solo lui.
Tutti e sottolineo tutti gli artisti che ho avuto la fortuna di incontrare adorano le canzoni di papà, anche quelli artisticamente più lontani dal suo genere e questa è una grandissima soddisfazione che mi riempie di orgoglio. Tra l’altro mio padre è amato anche dai giovanissimi, mio nipote che ha vent’anni lo adora e un mio amico giovanissimo di ventitre anni, Andrea, conosce talmente bene il suo repertorio da stupirmi continuamente”.

Un’Italia dimenticona
“Anche le case discografiche non sono di meno. È assodato quanto oggi sia difficile trovare raccolte di canzoni di suo padre. Le radio sono occupate a passare ben altra musica e presumo che anche la televisione non sia di meglio. Come spiega questo fenomeno di regressione della memoria storico-musicale di questo nostro Paese? Fenomeno che riguarda anche i letterati e alcuni cineasti nostrani. Eppure suo padre nel 1962 ebbe uno strepitoso successo con ‘Io che amo solo te’, singolo che vendette 600.000 copie in sole tre settimane!”
“Questa Italia ricorda solo chi ha voglia di ricordare. Tanti sono gli artisti dimenticati e la risposta è sempre la stessa: bisogna avere le giuste ‘conoscenze’ in tutti i settori. Purtroppo, come tanti altri artisti in quegli anni, papà firmò dei contratti nei quali cedeva ogni diritto sulle sue opere e quindi non c’è nulla da fare... Ogni tanto esce qualche orrida compilation trita e ritrita o dei cofanetti in cartone che non si possono nemmeno guardare”.
Nel 2004, un anno prima della sua scomparsa, dà alla pubblicazione un libro “Quanto mi dai se mi sparo”, per sottolineare il cinismo e la crudeltà di un certo mondo artistico e discografico italiano. “Una metafora azzeccata e pungente – come ebbe a scrivere Gianni Minà – un tentativo non banale di raccontare le miserie artistiche attuali della canzone italiana, la sua maleducazione dovuta ad un’orda barbarica di note imposte dalle multinazionali del disco...”.
Un segnale che il cantautore aveva già denunciato anni prima sulle pagine de “L’Unità”: “Qui in Italia vige solo la filosofia dell’usa e getta. Non frequento più questo mondo, l’industria ha privilegiato i ragazzini e le ragazzine”. Quanto ha pesato questa odiosa forma di boicottaggio per suo padre?
“‘Quanto mi dai se mi sparo’ è un libro datato 1996 e già edito in quegli anni. Poi è stato ristampato da Stampa Alternativa. Ha pesato enormemente... basta pensare ai tanti album che papà fece tra gli anni 80 e gli anni 90 che non furono né distribuiti né promossi, come ‘Qualcosa di meglio’, ‘Mari del sud’, ‘Il giardino di Giovanni’ e tanti altri. Un mistero, visto che non hanno nulla da invidiare alle produzioni precedenti.
Si immagini la frustrazione per un artista che mette tutto sé stesso in un’opera, peraltro bella e la vede buttare nel cassonetto. Però c’è una bella cosa... Quest’estate sono stata contattata da un giovane e bravo cantautore toscano (così di definisce lui, ndr), Nicola Pecci e grazie ad una riduzione del libro ad opera di Andrea Bruno Savelli, un giovane e bravo regista fiorentino, il 10 e 11 gennaio 2014 debutteremo al Teatro di Rifredi di Firenze, dove io farò un piccolo cammeo e Nicola reciterà il monologo e canterà anche alcune canzoni di papà. Spero presto si riesca a portare questo spettacolo anche a Roma”.
Credeva nelle persone, quante batoste
Di recente mi sono imbattuto in una canzone che non ricordavo nemmeno più. È successo mentre scrivevo una recensione del film “La rimpatriata”, un film di Damiano Damiani del 1963. Colonna sonora del film è proprio una struggente canzone di suo padre “La rosa bianca”, traduzione in italiano, che lui stesso fece, di una lirica del poeta cubano José Martì: “Coltivo una rosa bianca/In luglio come in gennaio/Per l’amico sincero/Che mi dà la sua mano franca /Per chi mi vuol male e mi stanca/Questo cuore con cui vivo/Cardi né ortiche coltivo/Coltivo una rosa bianca”.
L’amicizia era un valore chiave nella formazione personale di suo padre?
“La ‘Rosa bianca’ è una poesia struggente di Josè Martì. Mi ricordo che nel ‘97 andai all’Havana con lui quando fece il suo ingresso sul palco del teatro nazionale si alzarono tutti in piedi, fu un’emozione indimenticabile. Mio padre credeva nelle persone come ci credo io e quindi le batoste poi arrivano soprattutto da chi meno te lo aspetti…”
Essere nato e vissuto a Pola e il successivo abbandono della stessa, a causa delle note vicende che seguirono alla seconda guerra mondiale, hanno lasciato in suo padre una profonda frattura. Nella canzone 1947 la strofa: Come vorrei /essere un albero, che sa/dove nasce/e dove morirà sembra voler sottolineare soprattutto il dramma umano, lontano da qualsivoglia strumentalizzazione politica o etnica.   Numerose sono state le sue frequentazioni canore nella Jugoslavia degli anni Sessanta, di cui ricordiamo la partecipazione al Festival della Canzone di Spalato oltre ad innumerevoli apparizioni televisive e radiofoniche sui canali nazionali.
Fu amico personale di Arsen Dedić, grande cantautore croato, con cui collaborò alla stesura di alcune sue canzoni. Come interpreta questo comportamento alquanto singolare?

“Non ci vedo proprio nulla di singolare. Che cosa c’entra quello che è stato il dramma dell’esodo dell’Istria per colpa di Tito e dei suoi seguaci con Arsen Dedić e con la gente di quelle terre? ‘1947’ sono certa l’abbia scritta più pensando a sua madre che a lui, che dichiarò più volte che si era reso conto di quel dramma solo molti anni più tardi”


12 - Mailing List Histria Notizie 31/12/13 Claudio Antonelli:  L'alto insegnamento di Mandela (e di Gandhi)

L'alto insegnamento di Mandela e di Gandhi

Le parole identificano la realtà. Altre volte la alterano, quando sono vittime di abusi che ne hanno modificato l'essenza più profonda. L'ultimo esempio di questa scelta erronea di vocaboli che travisano la sostanza delle cose ci è offerto dalla morte di Nelson Mandela e dalla conseguente apologia, fatta da tutti, del suo spirito "gandhiano", inteso in senso universalista, pacifista, perdonista, "super-partes". La grandezza di Mandela, si manifestò, invece, nel  contrario esatto di questo sciropposo spirito indifferenziato di altruismo e globalismo planetario. Il suo straordinario sacrificio, e il suo superamento dello spirito di vendetta contro i bianchi, costituenti la "metà altra" della sua Patria, avvennero in nome dell'amor patrio, e del nazionalismo, un nazionalismo nobile, elevato, inclusivo, che doveva riconoscere lo straordinario apporto dei Boeri e dei loro discendenti alla Patria comune: la nazione sudafricana. Ma nazionalismo è termine che è usato ormai solo in un'accezione totalmente negativa ossia razzista e direi neonazista (eccetto che nei commossi discorsi nazionalisti autocelebrativi americani ed israeliani). Privo di amore per la nazione, intesa non nel senso etnico, tribale, esclusivo, ma nel senso di comunanza di destino e di amore per chi ci è "prossimo", il preteso amore universalista e il fasullo spirito "globalista", di cui gli italiani abbondano "a chiacchiere", riesce a tenere un paese intero – appunto l'Italia – preda inerme di feroci faide e di continui odi civili. Abbandoniamo quindi la degradata parola "nazionalismo" e parliamo di "patriottismo", un po' più accettabile. Ebbene, Nelson Mandela – come molto a proposito ha commentato Marcello Veneziani nel "Giornale"– fu grande, grandissimo proprio per il suo straordinario patriottismo che lo elevò al di sopra dello spirito di vendetta e rivalsa sull'altra "metà" del suo popolo, costituito dai "bianchi". In nome dell'unità e della grandezza della Nazione. Lo stesso Mahatma Gandhi fu uno straordinario patriota che innalzò alte lodi a questo tanto deprecato (in Italia)  sentimento di amore per la Patria dicendo, tra l'altro:

"For me patriotism is the same as humanity. I am patriotic because I am human and humane. If is not exclusive, I will not hurt England or Germany to serve India. Imperialism has no place in my scheme of life."

"It is impossible for one to be internationalist without being a nationalist. Internationalism is possible only when nationalism becomes a fact, i.e., when peoples belonging to different countries have organized themselves and are able to act as one man."

"My patriotism includes the good of mankind in general."

"Just as the cult of patriotism teaches us today that the individual has to die for the family, the family has to die for the village, the village for the district, the district for the province, and the province for the country, even so country has to be free in order that it may die, if necessary, for the benefit of the world."

L'amor patrio deve essere infatti concepito come l'amore per la propria madre, sentimento che ci fa capire pienamente l'amore dell'Altro per la sua genitrice, vale a dire per la lingua, la cultura, il passato della sua Nazione... Perché la Patria altro non è, almeno per noi esuli giuliano-dalmati, "nazionalisti" nel senso nobile del termine, che una grande famiglia, meritevole dei più grandi altruismi e sacrifici in nome di un ineluttabile destino comune, nel bene nel male.

Claudio Antonelli (Montréal)




13 - La Voce del Popolo 31/12/13  Fiume -  Il sindaco Vojko Obersnel e gli italiani
Il sindaco e gli italiani

Gianfranco Miksa

Questa volta più che parlare di temi “scottanti” e più che mai attuali che investono la nostra città, affrontiamo con il sindaco Vojko Obersnel alcuni aspetti e argomenti che riguardano da vicino la nostra realtà comunitaria.

È nato a Fiume. Qual è il suo rapporto con la lingua italiana?

“Con l’italiano, fin da piccolo, ho uno stretto legame. Lo capisco molto bene, tanto da non dover richiedere l’aiuto di un interprete per poter seguire discorsi, trasmissioni o altro. Ho, invece, delle serie difficoltà a parlarlo, perché non ho mai avuto la possibilità di studiarlo. Cosa di cui sono molto dispiaciuto”.

Ha vissuto parte dell’evoluzione etnica e sociale di questa città. Che memoria possiede della presenza e della diffusione della lingua italiana a livello di strada?

“Ho sempre saputo dell’esistenza delle scuole italiane, come anche dell’attività del Dramma Italiano e di altre istituzioni. Per quello che mi ricordo durante la mia infanzia l’italiano era molto più adoperato, soprattutto tra la gente, a livello di strada. C’erano molti più fiumani che lo utilizzavano attivamente”.

I nostri connazionali hanno spesso l’impressione di essere governati da una classe politica che non ritiene di appartenere alla storia di questa città o, peggio, che pensa che la storia di Fiume sia iniziata con loro?

“È purtroppo un quadro della realtà politica croata molto presente. Non è solo una percezione provata dalla componente italiana, bensì dall’intera popolazione fiumana e anche da quella della Croazia. È un dato di fatto che la storia di Fiume durante il periodo italiano è stata spesso una materia repressa. Tuttavia sono dall’avviso che negli ultimi vent’anni quest’argomento venga rivalutato. Oggi ad esempio quando parliamo degli olimpionici fiumani, nominiamo anche quelli italiani che vivevano a Fiume durate il periodo italiano. Presto festeggeremo il centesimo anniversario dello Stadio di Cantrida, ricordando come nacque il campo di gioco e in che periodo, come anche gli sportivi che all’epoca gareggiavano nella serie italiana del campionato di calcio”.

Come valuta il suo rapporto con la Comunità italiana di Fiume?

“È un rapporto per il quale sono molto soddisfatto. Il nostro è un dialogo costruttivo, tentiamo di trovare spesso delle soluzioni comuni che soddisfino entrambe le parti e assicurino una migliore esistenza alla componente italiana”.

Siamo una componente autoctona di questa città, e i finanziamenti a noi riservati sono piuttosto esigui. Come mai?

“La sola definizione di autoctonia non conferisce finanziamenti o diritti maggiori, con la sola eccezione di avere dei rappresentanti all’interno del Consiglio municipale. In tale contesto la Comunità divide la stessa sorte finanziaria di altri gruppi minoritari. Condizione che a sua volta dipende dal Bilancio cittadino. Tuttavia va rilevato che una grossa parte dei finanziamenti del Bilancio statale e di quello cittadino è indirizzato all’EDIT, al Dramma Italiano e ad altri programmi che interessano direttamente la vostra realtà. Poi la Città sostiene finanziariamente scuole e asili italiani. Prendendo quindi in considerazione tutti questi provvedimenti la minoranza italiana ottiene dalla Città più finanziamenti di tutte le altre minoranze messe insieme”.

A Fiume la componente italiana sta scomparendo. Quali azioni intraprende la Città per impedire questo inesorabile declino?

“Non so quanto la Città possa ulteriormente intervenire per impedire tale tendenza. La municipalità ha utilizzato tutti i suoi strumenti disponibili per la salvaguardia della realtà comunitaria italiana sia a livello sociale sia culturale. A partire dal sistema di istruzione in italiano presente già in età prescolare.

Penso che parte del problema risieda nel fatto in che misura gli appartenenti a questa comunità vogliano identificarsi come italiani, e quindi utilizzare i benefici della Comunità italiana, oppure amalgamarsi con il resto della società”.

La nostra presenza in queste terre è spesso circoscritta al Ventennio fascista. Secondo lei che cos’è che suggerisce un tale quadro. Ignoranza, mancanza di una formazione culturale, odio?

“Tutti noi siamo inclini a ricordare gli avvenimenti brutti a scapito di quelli belli. È un dato di fatto che nel corso della storia di Fiume ci sono stati grandi cambiamenti nella composizione etnica della città, alimentati spesso da situazioni politiche. Ancora oggi ci sono persone in vita che ricordano molto bene le vicende che sono accadute nel corso della II guerra mondiale, con crimini, con forzati cambiamenti di nome e divieti dell’uso del croato. Tutte cose che hanno lasciato un segno spesso indelebile.

Tuttavia non credo che tale quadro contraddistingua specificamente la componente italiana, perché negli ultimi 15 anni tentiamo di presentare la storia di Fiume in tutta la sua complessità. E quindi sia in quella parte dove dominavano gli italiani, sia in quella dove prevalevano i croati e ungheresi. Sono cose importanti perché rivelano la vera anima di una città”.

So che la sua famiglia ha subito le angherie dei fascisti. Ha mai percepito per questo un senso di animosità verso gli italiani?

“Ho diversi parenti stretti che hanno conosciuto la mano violenta del fascismo. Animosità? Neanche nella minima parte. Sono cose che di solito non menziono. Le guerre provocano sempre vittime da tutte le parti.

E in tale contesto provo compassione anche per quei fiumani italiani che dopo la Guerra sono stati soggetti a particolari pressioni per abbandonare queste terre con l’esodo. Sono cose che non devono essere dimenticate, occorre essere oggettivi e riconoscere le vittime di entrambe le parti. Senza però né glorificarle né dimenticarle”.

In che misura segue le attività organizzate dalla Comunità degli italiani?

“Tempo permettendo tento di seguire la maggior parte degli avvenimenti”.

È noto per essere un assiduo frequentatore di Teatro. Però la sua è una figura poco vista alle prime del Dramma Italiano il cui recente spettacolo “Kafka Project” è stato ritenuto il migliore in Croazia?

“Seguo tutte le prima degli spettacoli. Spesso sono impedito a farlo, come ho detto prima, per motivi di lavoro. Quest’anno, infatti, sono stato a pochi spettacoli non solo del DI ma anche delle altre compagnie. Tuttavia, devo dire che ho grande piacere per il DI che ha ottenuto la triplice vittoria ai Premi della Scena Croata. È anche una soddisfazione personale in quanto considero la Compagnia di prosa in lingua italiana il mio gruppo teatrale perché ho avuto una parte in uno dei suoi spettacoli, ossia ‘Somewhere City’”.

Un altro aspetto che preme alla componente italiana è il ritorno del bilinguismo, vale a dire quella segnaletica in lingua croata e italiana che fu introdotta “de iure” nel 1947 ma, a causa di un manrovescio della storia, tolta nell’ottobre del 1953, quando Trieste venne assegnata all’Italia. Da allora non è stata mai ripristinata e sono passati 60 anni. Sono molte le persone, alcune anche con un’invidiabile formazione in scienza giuridica, secondo le quali la Città di Fiume avrebbe una certa responsabilità legale per il ritorno di una segnaletica in lingua italiana?

“So molto bene che a Fiume subito dopo la guerra vigeva il bilinguismo. Tuttavia, la Città di Fiume non è portatrice della politica statale di allora né di oggi. Personalmente mi dispiace che non sia stato fatto di più per introdurre la lingua italiana come materia d’insegnamento nelle scuole visto il passato e la vicinanze dell’Italia. Oggi l’uso del bilinguismo, pur limitamente, è definito per legge. In tale contesto la Città adempie a tutti i suoi obblighi.

Infatti, ognuno può rivolgersi ai vari organismi del Municipio in italiano. Personalmente ritengo che introdurre una segnaletica bilingue, croato-italiano, solamente per quell’1.9 p.c. della popolazione di Fiume che si definisce italiana, non garantisca alcun miglioramento nell’esistenza dei cittadini.

Continuare, invece, a garantire e ampliare i servizi a favore della componente italiana, attraverso la pubblicazione di libri in italiano e altri programmi, è a mio parere un fattore di maggiore importanza. L’introduzione del bilinguismo, secondo me, non dimostrerebbe alcuna ulteriore apertura nei confronti della minoranza. Tuttavia, se le legge viene cambiata in tale contesto saremo ben felici di attuarla”.

Il suo programma recita “Fiume capitale europea del 2020”. In che misura la Città è pronta ad assumersi questo ruolo? E ciò prendendo in considerazione che la parte vecchia di Fiume è vuota e fatiscente, gli ex stabilimenti industriali sono abbandonati – e mi riferisco all’ex Zuccherificio, al complesso Benčić –, come pure le strutture portuali.

“Vivo a Fiume da molto tempo. Solo dieci anni fa la parte vecchia aveva un’immagine completamente differente da quella di oggi. Per non parlare della situazione che vigeva 20 o 30 anni fa. Oggidì la Cittavecchia è piuttosto rimessa a nuovo. Ci sono, ovviamente, parti che richiedono restauri e pensiamo di realizzarli già nei prossimi anni contribuendo a riportare ulteriormente la vita in questa zona. Spero che questa sarà ulteriormente rivitalizzata grazie alla realizzazione del progetto ‘Gomila’ i cui lavori saranno effettuati da un investitore italiano. Investitore che ha richiesto tra l’altro un rinvio dell’inizio del lavori a causa della crisi finanziaria che ha interessato l’Italia e l’Europa.

Per quanto concerne le aree industriali vuote e fatiscenti ritengo che non siamo gli unici in Croazia e tanto meno in Europa ad avere questi problemi. I recuperi di queste zone sono processi lenti e dolorosi, che richiedono tanti compromessi. Molti di questi edifici non sono di proprietà della Città. Ad esempio l’intera area della Torpedo, della Cartiera non ci appartengono. In questo momento stiamo assiduamente portando avanti la rivitalizzazione dell’ex Zuccherificio e Rikard Benčić con finalità culturali. Per questo progetto contiamo di utilizzare i finanziamenti europei”.

Un predecessore come modello? Ciotta

Fiume è inserita nella storia e nelle cartine internazionali grazie soprattutto a un unico personaggio. Una figura che si autodefiniva rivoluzionario comunista, liberatore dei popoli e che ne fu regnante per sedici mesi. Si tratta di Gabriele D’Annunzio. Personalità completamente ripudiata dalla storiografia croata di Fiume, tanto da definirlo un semplice protofascista. Non crede sia giunto il tempo di valorizzarla, magari per la fortuna culturale e turistica della città?

“Non sono uno storico per parlare del personaggio e della sua opera. Penso sia difficile valorizzazione una figura che ha lasciato dietro distruzione e morte. D’Annunzio a Fiume è identificato come precursore del fascismo e questo si basa sui fatti storici. È proprio questa la condizione che lo identifica con marchio negativo. Tuttavia non ritengo che la sua valorizzazione spetti alla Città bensì agli storici e alla storiografia”.

Qual è il suo sindaco preferito tra quelli che hanno avuto in mano le redini della città?

“Sicuramente Giovanni de Ciotta. Sotto la sua guida Fiume ebbe uno sviluppo straordinario, con risultati di grande valore”.



14 - La Voce in più Storia 07/12/13 Recensione - Non solo drammi ma anche tanta solidarietà
Storia & ricerca

RECENSIONE
Paolo Scandaletti: STORIA DELL’ISTRIA E DELLA DALMAZIA

NON SOLO DRAMMI ANCHE TANTA SOLIDARIETÀ

di Kristjan Knez

Dal secondo dopoguerra e per tanti anni l’Italia ufficiale ha calato la “saracinesca” su tutto ciò che riguardava l’Adriatico orientale. La diminuzione dell’interesse, dettata da molteplici fattori, si riflesse sulla cultura in senso lato e si giunse a una sorta di disaffezione, che nel corso dei decenni ha contribuito a obliterare tutto ciò che faceva riferimento alla civiltà adriatica.
Parimenti non ha contribuito la rimozione jugoslava o addirittura la “damnatio memoriae”, il cui fine era l’occultamento del passato e un’evidenza che non si sposavano con i dettami ideologici e nazionalisti propinati come dogmi, che una storiografia acquiesciente aveva divulgato dando a questi una parvenza scientifica. E poi vi sono i miti e gli stereotipi, tanti, troppi, che ancora oggi convivono e cozzano - sebbene vadano scemando -, retaggi di stagioni passate, di regimi, di politiche arroganti, di posizioni etnocentriche ed esclusiviste.
Accanto alle divisioni avanzate dalla politica, e da una certa cultura strumentalizzata dalla prima, non è superfluo ricordare l’esistenza reale di una convivenza interetnica, testimoniata palesemente dai rapporti di parentado, dai cognomi che portiamo, dalle commistioni linguistiche - esistenti, sebbene non dappertutto, anche prima del 1945 -, dalle relazioni intrecciate e così via. È la dimensione meno affrontata, ma quella più vera, dalla quale si coglie l’infondatezza di certe voci circa l’esistenza di odi atavici tra le popolazioni di queste terre. Ciò significa che in esse non vi furono solo tragedie e lutti.

Contro oblii, semplificazioni e mitizzazioni

Anche nei periodi più plumbei, la solidarietà tra conterranei esisteva, ma poteva fare ben poco dinanzi alle politiche scellerate degli Stati che entrarono con la prepotenza in questo contesto. Tutto ciò è stato deleterio per le popolazioni autoctone. Un maglio pesante colpì la componente italiana sopravvissuta all’esodo, ma non dimentichiamoci che la stessa Jugoslavia non aveva risparmiato l’elemento sloveno e croato indigeno, visto quasi con sospetto e perciò sottoposto a un processo di nazionalizzazione e di “depurazione”, quasi che la secolare convivenza e il contatto diretto con gli istroveneti fossero delle macchie da togliere.
Nel secondo dopoguerra queste regioni furono stravolte. Lo sconvolgimento investì le collettività, l’identità e di conseguenza la dimensione linguistica, culturale, sociale e identitaria. Per la Comunità nazionale italiana, vale a dire per i resti di un popolo che la storia inclemente aveva sradicato, quegli eventi furono un cataclisma, che mutarono i connotati di una terra. Di conseguenza è importante ricordare, valorizzare, studiare (prendendo in considerazione i documenti), comprendere (anche le ragioni degli altri), scrivere e, cosa non meno considerevole, divulgare.
Negli ultimi tempi il panorama editoriale italiano offre un numero maggiore di titoli sulle terre dell’Adriatico orientale, che non siano le solite guide turistiche. Tra i più recenti ricordiamo il volume di Paolo Scandaletti, “Storia dell’Istria e della Dalmazia. l'impronta di Roma e di Venezia, le foibe di Tito e l’esodo degli italiani” (Edizioni Biblioteca dell’immagine, Pordenone 2013, pp. 234), primo volume della collana “Storie delle città”, diretta dallo stesso autore.
Un testo agile ed essenziale - che propone il passato di quelle regioni, dalla protostoria al terzo millennio -, arricchito dalle belle immagini tratte dall’opera di Charles Yriarte, “Le rive dell’Adriatico e il Montenegro” (1883), pubblicata in traduzione italiana nelle edizioni della casa editrice Treves di Milano. Queste stampe propongono le vestigia presenti nelle località di quest’area geografica, i costumi delle popolazioni residenti nonché le vedute di città, borghi e villaggi (in copertina un’immagine di Ragusa, già repubblica marinara dedita ai commerci - e concorrente di Venezia -, che entro le sue mura racchiude un importante retaggio storico-culturale).

Un filo rosso: l'osmosi generale

Nel percorso attraverso i secoli o meglio i millenni di queste terre, il filo rosso è rappresentato dalle considerazioni sull’osmosi generale che ha investito le regioni bagnate da un mare comune. Si ricordano le influenze che la civiltà di Este ebbe su quella degli Istri, come testimoniano i reperti rinvenuti con gli scavi archeologici all’interno dei castellieri, prosegue con Roma, non s’interruppe nemmeno durante le invasioni dei popoli; infatti i rapporti tra le coste istriane e quelle dell’Esarcato di Ravenna continuarono, e conobbero una nuova stagione con l’ascesa di Venezia.
Questa, abbandonate le acque basse della laguna, si diresse a settentrione: Marano, Grado, Trieste, Capodistria, nonché a meridione: le foci del Po, Comacchio,
Ravenna. Ebbe inizio una stretta collaborazione con gli istriani, i quali offersero ai veneziani basi e appoggio in cambio di protezione dalle scorrerie dei pirati, che avevano paralizzato i collegamenti via mare. La rete dei rapporti si fece sempre più stretta: trattati - come quello di Capodistria del 932 -, patti di “fidelitas”, e nel XIII secolo le prime dedizioni dei comuni istriani, che portarono la Dominante nei territori occidentali e settentrionali della penisola. l'espansione proseguì a tappe: nel secolo successivo acquisì la Polesana, cioè la porzione meridionale e alcuni punti strategici come Grisignana e Raspo, mentre nel secolo successivo estese il potere sulle aree del Patriarcato d’Aquileia.
Il ruolo della Repubblica sulla sponda opposta non fu deleterio e il riflesso della sua civiltà penetrò in profondità, investendo praticamente ogni settore, influenzando anche quei contesti che non le appartennero. Lo scrittore ricorda che “(...) la costa adriatica orientale presenta una certa omogeneità etnico-culturale e linguistica, di costume e di tradizioni artistiche e urbanistiche. Non dovuta a processi di colonizzazione, quanto alla progressiva sedimentazione di una storia comune. Perfino Trieste, Fiume e Ragusa, sostanzialmente mai appartenute alla Repubblica, erano venete nelle loro identità sostanziali ed espressive: a conferma che non c’è stata vera imposizione” (p. 75).

L'indubbio apporto della Serenissima

L'autore evidenzia anche l’inconsistenza di affermazioni che vedono proprio durante i secoli della Serenissima in Istria e Dalmazia un impoverimento culturale.
E scrive: “Malgrado la lontananza dai grandi centri culturali italiani, le idee, le conoscenze e le opinioni giungevano da Milano, Padova e Venezia, attraverso le persone e gli scritti. Rettori e capitani che arrivavano qui, di passaggio o per stabilirvisi come sovrintendenti, accompagnati da funzionari, notai e giudici, portavano con sé i libri e i giornali, oltre alla loro cultura e al lessico forbito. Per non dire degli artisti, architetti, pittori, scultori e artigiani di vaglia - che hanno lasciato la loro impronta a Capodistria, Pirano e Parenzo. Ma anche gli equipaggi dei velieri facevano viaggiare le idee” (ivi).
La narrazione prosegue con la caduta della Regina dei mari e gli sconvolgimenti successivi: l’inclusione delle province veneziane entro la monarchia asburgica, la parentesi napoleonica, quindi la seconda dominazione austriaca fino al crollo imperiale nell’autunno del 1918.
Nella stagione in cui emersero le passioni nazionali, i territori dell’Adriatico orientale furono coinvolti da interessi contrapposti, che caratterizzarono il vivere delle popolazioni nella seconda metà dell’Ottocento e negli anni antecedenti lo scoppio della prima guerra mondiale. Sul proscenio comparvero le ragioni delle componenti slave, che fino ad allora si trovavano subordinate all’elemento dominante, tedesco ma soprattutto italiano. Vi fu, dunque, “un bel rimescolio di carte. Su cui insistono a sovrapporsi due letture storiografiche diverse che finiscono per falsarle. Da un lato, l’accusa all’Austria di voler snaturare l’italianità dell’area in particolare dell’Istria, per renderla croata. Il che sottovaluta il peso che l’aumento di questa popolazione sta prendendo, e il maturare della coscienza slava fra croati e sloveni. Dall’altro la fiera rivendicazione di una primogenitura slava sul territorio, che Venezia (ma anche Roma?) hanno tentato di sopraffare. Ignorando del tutto i continui movimenti migratori dall’area danubiana e le disperate fughe dai turchi” (p. 137).

Veloce cavalcata nel «secolo breve»

Al termine della Grande Guerra si visse una situazione esplosiva, alimentata dall’intolleranza delle autorità italiane nei confronti delle popolazioni definite “allogene” e da una visione distorta verso le minoranze, considerate come un pericolo e un fattore destabilizzante. Inoltre vi erano due aspirazioni territoriali che andarono a urtare subito dopo la fine delle ostilità: da un lato si desiderava fissare il limite sul Nevoso, dall’altro si proponeva che la linea di demarcazione passasse lungo l’Isonzo. “A soffiare sul fuoco - scrive Scandaletti - le frange estreme dell’irredentismo giuliano, che già prima della guerra avrebbero voluto schiacciare la nazione slava e trovano spesso il consenso dei funzionari inviati da Roma in questa regione” (p. 146).
Nell’economia del volume è comprensibile che l’autore non abbia potuto dedicare maggiore attenzione alle complesse vicende del Novecento, anche se a nostro giudizio alcuni passaggi avrebbero necessitato di maggiore attenzione (soprattutto perché il testo è stato pensato per un pubblico che poco o nulla sa di quelle vicende). Anche il discorso delle eliminazioni a guerra finita e lo stillicidio dell’esodo avrebbero meritato qualche riflessione in più. Vi sono considerazioni interessanti per lo sviluppo di un dibattito, ma non si offrono altri elementi. Certo, l’interesse potrà condurre il lettore verso studi specifici sull’argomento, a nostro giudizio, però, sarebbe stato necessario spendere qualche parola in più, perché l’argomento rimane misconosciuto ai più.

Si ricorda pure lo svuotamento dell’ultimo lembo istriano, ossia della porzione meridionale del mai costituito Territorio Libero di Trieste, sul quale si era concentrata l’azione politica e diplomatica sia italiana sia jugoslava. Alla fine, “la zona B ha perduto i due terzi della sua popolazione, praticamente deserte le città costiere, quasi spopolate le campagne, una comunità dalla storia plurisecolare cancellata”, e ancora,
“se ne andarono, dunque, gli istriani e i dalmati di cultura italiana; ma non l’Italia e la sua impronta storica, prima romana e poi veneziana” (pp. 162-163).

Il racconto prosegue con le vicissitudini degli esuli e la loro accoglienza nel resto del Paese, mentre una sezione è dedicata ai contrasti fra le associazioni della diaspora.
Si ricorda anche il nuovo corso registrato negli anni Novanta, come il convegno del Libero Comune di Zara in esilio, svoltosi a Grado nel 1994. Scandaletti lo cita come momento in cui si rinunciò all’irredentismo, richiedendo alla Croazia democratica da una parte pieni diritti alla minoranza italiana, dall’altra parte il riconoscimento dei crimini e dei torti inflitti alla componente italiana prima che questa intraprendesse la strada dell’esodo. Tra gli artefici di questa novella stagione fa emergere la figura di Ottavio Missoni, l’animatore dei dalmati, fautore di un riavvicinamento del popolo adriatico funestato dall’inclemenza della storia. Il volume si conclude con il capitolo “La via d’uscita dei tre Presidenti” (pp. 211-227), che negli incontri e nei concerti di Trieste e Pola, rispettivamente del 2010 e del 2011, indicarono che la strada da imboccare: la collaborazione, il riconoscimento e il rispetto del travagliato passato recente, che colpì le popolazioni dell’Adriatico orientale, per voltare pagina e iniziare un percorso nuovo nella comune casa europea.






15 - La Voce del Popolo 31/12/13  Intervista a Alessandro Rossit : Un tempo c'era molto più entusiasmo

«Un tempo c’era molto più entusiasmo»

Ilaria Rocchi

Nel 2014 ricorre il centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale (1914 – 1918), un evento che ha cambiato la storia dell’Europa e che ha segnato indelebilmente anche il destino del nostro territorio. Se ne parla già da diverso tempo e si stanno predisponendo vari percorsi – del resto alcuni già avviati – volti a ricordare un conflitto che è radicato della memoria attraverso i momenti drammatici che vi sono connessi, dal coinvolgimento pressoché totale della popolazione ai radicali sviluppi politici ed istituzionali conseguenti. Ma a segnare l’anno che sta per iniziare fra qualche ora ci sono anche altre due date storiche significative per l’Adriatico orientale e, soprattutto, per gli italiani rimasti nelle sue regioni: il sessantesimo del Memorandum d’Intesa di Londra e i cinquant’anni dell’intervento dello Stato italiano a favore della sua unica minoranza autoctona ancora oggi presente in Istria, Fiume, Quarnero, Dalmazia e Slavonia. Un sostegno, quello del Governo di Roma, in termini di finanziamenti, che si è articolato nel corso di questo mezzo secolo per il tramite della collaboraziono tra l’Università Popolare di Trieste e l’associazione che in passato ha rappresentato la nostra minoranza e quella che rappresenta oggi la Comunità nazionale italiana in Croazia e Slovenia, rispettivamente l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume e l’Unione Italiana.

Ne parliamo nella sede dell’UPT in piazza Ponterosso con una persona che è presente ormai da decenni in questo “ambiente”, che ha rivestito e riveste ruoli dirigenziali, ma alle volte si ha l’impressione che preferisca rimanere un po’ in sottofondo, coinvolto sul piano per così dire operativo. Alessandro Rossit la conosce quasi da sempre la realtà specifica della CNI, e ciò da ben prima di entrare “ufficialmente” all’UPT, grazie al padre Luciano, per cinquant’anni segretario dell’ente triestino, che perseguì e fu artefice della collaborazione tra l’ente morale triestino e l’allora UIIF. Ormai sono più di tre decenni che Alessando Rossit è addentro della problematica dei “rimasti” e delle iniziative culturali a favore del mantenimento della presenza, della lingua e della cultura italiana in Istria, Quarnero, Fiume, Dalmazia e Slavonia.
Nato a Trieste nel 1953, dopo la maturità scientifica al Collegio “Bertoni” di Udine, si iscrive alla Facoltà di Medicina all’Università degli Studi di Trieste, che tralascia dopo il terzo anno di studi perché si appasiona e viene assorbito dal lavoro che l’UPT svolge al di qua e al di là del confine per la difesa e lo sviluppo della cultura italiana. Infatti, fin da giovanissimo aveva iniziato a collaborare, come esterno, con l’ente di piazza Ponterosso, specialmente nel settore dei viaggi di studio e d’istruzione a favore della CNI. Nel settembre 1979, su sollecitazione dell’allora presidente, viene assunto come funzionario stabile dell’istituto e si prodiga subito nella riorganizzazione e nell’adeguamento degli uffici, rendendoli più confacenti alle crescenti esigenze dell’attività in continua espansione. Dopo la scomparsa di Tito e durante il periodo della presidenza di Bruno Maier segue personalmente le travagliate e difficili fasi della trasformazione dell’UIIF, promossa dal “Gruppo 88″, ispirata a principi democratici e a programmi molto avanzati, che sono alla base dell’odierna Unione Italiana, compreso l’allargamento del campo d’intervento alle comunità italiane dei Lussini, della Dalmazia e della Slavonia. Nell’ottobre del 1997 viene nominato segretario dell’UPT e oggi ne è il direttore generale.

Andiamo agli albori della collaborazione tra l’allora Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume e l’Universita Popolare di Trieste, che conosce praticamente fin dagli inizi e ne ha seguito l’evoluzione. Com’era, dunque, venire in Istria e a Fiume in quegli anni per molti aspetti difficili?

“Diciamo che dal 1964, quand’è iniziata la collaborazione, su esplicito accordo tra l’allora segretario generale dell’UPT, il professor Luciano Rossit, e il presidente dell’UIIF, Antonio Borme, le iniziative, tra conferenze, seminari e soprattutto la diffusione della stampa italiana, erano relativamente poche rispetto a quella che è la mole di attività che viene svolta oggi. Lentamente nel corso degli anni il piano della collaborazione si è arricchito di contenuti realizzati con fondi del Ministero degli Affari esteri italiano, e un ulteriore incremento si è avuto nel 1977, altra importante data storica, quando cioè pure la Regione autonoma Friuli Venezia Giulia ha incominciato a interessarsi ai nostri connazionali d’oltreconfine e a predisporre un finanziamento ad hoc, che si integrava con quelli già previsti dalla Farnesina. Man mano le attività sono aumentate, sono stati istituiti i viaggi in Italia, che sono durati per diversi anni... Devo dire che in quel contesto qualsiasi attività che si portasse nei territori d’insediamento storico della minoranza dava un impulso a questa e alle sue 22 Comunita degli Italiani ‘storiche’. Un ulteriore passo avanti verrà fatto nei primi anni Novanta, segnati dalla disgregazione dell’ex Jugoslavia e al conseguente rafforzamento del tessuto dei nostri connazionali. Infatti, ben presto assistemmo al moltiplicarsi delle iscrizioni alle Comunità degli Italiani, all’apertura di numerosi nuovi sodalizi, per arrivare nei giorni nostri a complessive 52. Devo dire che in questo ambito sarà molto significativo l’apporto della Legge 19/91 sulle aree di confine, che aprirà la via agli investimenti, alla ristrutturazione e alla costruzione di sedi di Comunità degli Italiani e in seguito anche di edifici scolastici. Oggi quasi tutte le CI hanno una propria sede dove poter svolgere le loro attività istituzionali”.

Tornando agli inizi, come venivano accolte queste iniziative, quali erano le reazioni dei connazionali in Istria alle conferenze, ai viaggi d’istruzione, alle prime borse di studio?

“Diciamo che l’atmosfera era completamente diversa rispetto a quella odierna. Ad esempio posso dire che, per quanto riguarda le conferenzre, l’arrivo del professore da Trieste era visto come un piccolo avvenimento e i viaggi di studio erano preceduti da lezioni preparatorie, addirtittura da quattro lezioni. Vi era, in sintesi, un clima di forte attesa. Oggi invece è diverso, anche perché ci sono tante altre cose, molto più vicine alle esigenze e agli interessi dei nostri connazionali. Una volta invece qualsiasi tipo di attività, anche la più semplice, veniva vissuta con partecipazione ed entusiasmo dai nostri connazionali”.

In tutti questi cinquant’anni ci sono stati momenti di grande entusiasmo e di slancio, altri di crisi...

“Il grande entusiasmo si è verificato negli anni Novanta, con la nascita degli Stati sovrani di Croazia e Slovenia, anche se si è frapposto il problema dell’unitarietà, del confine che divideva in due tronconi i connazionali. Adesso c’è sicuramente un periodo di crisi istituzionale, anche per la crisi economica che sta dilaniando i nostri Paesi e che ha comportato, e comporta una situazione di disagio per i nostri connazionali. Ma c’è stato nel frattempo anche il ricambio generazionale, un processo che indebolisce un po’ la struttura di una minoranza. Ripeto, in quelli che erano gli ‘anni bui’, l’entusiasmo c’era perché il lavoro volontario era sentito in maniera molto ma molto diversa rispetto ai giorni nostri”.

Problemi politici, impedimenti nello svolgimento dell’attività?

“Va detto che la nostra minoranza non è stata mai molto tranquilla dal punto di vista politico, sia nell’ex Jugoslavia sia nei primi anni Novanta, con la presenza del partito dell’Accadizeta, che non era favorevolissimo a questa rinascita della CNI e delle iniziative svolte dall’Unione Italiana e dalle CI. Credo che la nostra minoranza sia ormai abituata ad affrontare le difficoltà e quelle non mancano mai. Abbiamo sentito all’ultima Assemblea dell’UI, a Visignano, dei problemi che sussitono nel mondo della scuola (la mancata valorizzazione, come punteggio, del voto di italiano al momento dell’iscrizione alle scuole medie superiori in Croazia, ndr)”.

L’evento che ricorda con più piacere tra i tanti che sono stati realizzati?

“Quello che ricordo forse più volentieri è il ricevimento al Quirinale, in occasione dei cinquant’anni di molte CI, tra cui Fiume, Buie, Pisino e altre. I nostri connazionali hanno voluto incontrare a Roma il presidente della Repubblica Italiana e lui li ha ricevuti. Credo che questo abbia dato una grande valenza alle nostre CI”.

La collaborazione sta cambiando: negli ultimi anni certe iniziative sono state abbandonate mentre invece ne nascono di nuove. Qual è la sua visione della futura collaborazione UI – UPT?

“Di diverso rispetto a prima c’è che ora tutti i progetti vengono vagliati in maniera molto approfondita dal Comitato di Coordinamento delle attività a favore della minoranza italiana in Slovenia e Croazia, e quindi vengono dati segnali molto precisi su quelli che dovrebbero essere gli interventi prioritari e quelli invece da accantonare. E quindi alcune attività per così dire tradizionali, come conferenze e gite, che hanno fatto il loro tempo, vengono a decadere. Viceversa, ci viene indicato di insistere sui grandi eventi, sul coinvolgimento dei fondi europei, e quindi in generale attività che possano dare maggiore peso e visibilità alla CNI. In questo discorso si inserisce la collaborazione con le ambasciate, i consolati, gli istituti italiani di cultura, che assume un ruolo sempre più pregnante. Talvolta facciamo fatica a far capire ai nostri connazionali quali sono i nuovi percosi voluti dal MAE. Quello che vedo come un problema che posso rilevare è il finanziamento delle CI stesse, che avendo sempre meno fondi locali tendono a mantenersi vive con i finanziamenti che arrivano dal MAE e dalla Regione FVG”.

Qualcuno dice che l’UPT non abbia ormai più ragione di esistere come intermediario tra lo Stato italiano e la CNI.

“Sì, queste voci si sentono. Noi come UPT siamo stati e siamo tuttora il braccio operativo del MAE e Regione FVG e credo che abbiamo sempre svolto il nostro lavoro in maniera importante e quindi continueremo sempre a fare quello che ci viene detto di fare”.

Lavorando all’UPT da tantissimi anni ha avuto un luogo di osservazione privilegiato della minoranza italiana. Com’era e com’è cambiata in questo mezzo secolo?

“Si ritorna al discorso di prima. Alla fine degli anni Ottanta e agli inizi degli anni Novanta si sentiva tanto entusiasmo, voglia di fare, di essere coinvoti in tante attività. Poi le cose sono un po’ cambiate, sono cambiati i tempi. Con i mezzi dello Stato italiano si sono dotate di una sede adeguata tutte le CI, e oggi queste dovrebbero essere il fulcro dell’attività. Ma ho l’impressione che l’entusiasmo cui accennavo prima stia calando”.

Un augurio per i prossimi cinquant’anni?

“Quello che mi sentirei di augurare a tutti è che di fronte a questa crisi economica vengano mantenuti tutti i finanziamenti previsti per la CNI per poter dare ai nostri connazionali quel contributo che farà vivere le Comunità degli Italiani e certe istituzioni della nostra minoranza”.



Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it

La Gazeta Istriana  a cura di Stefano Bombardieri, M.Rita Cosliani e Eufemia G.Budicin


anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arcipelagoadriatico.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.arenadipola.it/

Dicembre  2013 – Num. 41


65 -  Tellus Folio.it 11/12/13 Fulvio Tomizza. “Materada” (1960) - Trilogia istriana (Marisa Cecchetti)
66 – L’ Arena di Pola 13/11/13 Presentazione del libro "Il cimitero civico di Monte Ghiro a Pola (1846-1947)
67 – Anvgd.it 22/03/13 -  2013, l'anno di Padre Flaminio Rocchi (4)
68 –  Mailing List Histria Notizie 25/12/13 La passione di Nino Cossiani per le lingue (Claudio Antonelli)
69 - Il Piccolo 14/12/13 Nel 1915 l'Italia chiamò alla Grande Guerra una città mai stata sua (Claudio Ernè)
70 - Osservatorio Balcani 19/11/13 Il Montenegro di Njegoš (Božidar Stanišić)
71 – La Voce del Popolo 23/10/13 Cultura - Venezia - Canaletto come 270 anni fa torna dove creò il suo capolavoro - Esperienza esclusiva (Ilaria Rocchi)
72 -  East Journal 01/12/13  Armenia: La vita e la morte ai piedi dell’ Ararat, la montagna del mistero (Luca Vasconi)



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65 -  Tellus Folio.it 11/12/13 Fulvio Tomizza. “Materada” (1960) - Trilogia istriana

Fulvio Tomizza. “Materada” (1960)
La trilogia istriana

a cura di Marisa Cecchetti
 
Fulvio Tomizza

Materada

Bompiani, 2000 2ª ed., pp. 186, € 7,50

 
Divenuto ormai un classico della letteratura di frontiera, Materada (1960) è il primo romanzo della trilogia istriana di Fulvio Tomizza. Seguono, nel 1963, La ragazza di Petrovia e nel 1966 Il bosco di acacie. Nato nel 1935 a Materada, nel comune di Umago, dopo il memorandum di Londra nel ’54, che assegnava la sua zona, la zona B, alla Yugoslavia, davanti alla scelta tra Italia e Yugoslavia, Tomizza scelse l’Italia e si trasferì a Trieste.

L’abbandono delle terre istriane era iniziato fin da quando i partigiani yugoslavi nel ’45 avevano marciato sull’Istria diffondendo paura, in un clima di tensione, di vendette sommarie, di terrore delle foibe.

Materada scolpisce a tinte forti la figura di Barba Zio, padrone di terre che fa lavorare ai nipoti ed alle loro famiglie, trattati alla stregua di servi. Vero è che ha intestato a loro un podere, quello dei Chersi, che lui ha ottenuto a prezzo di fallimento, ma con la riforma agraria quella terra viene data ai coloni. I nipoti stringono un pugno di mosche.

Il vecchio è molto malato e sembra volersene andare da un momento all’altro, per questo i nipoti vorrebbero sapere se ha fatto testamento, se è stato deciso qualcosa a loro vantaggio, soprattutto perché il vecchio zio ha un figlio in città a cui non è mai interessato il lavoro dei campi, ma non disinteressato ai soldi ed alla proprietà.

Il vecchio però sembra immortale e non vuol saperne di lasciare la terra ai nipoti che ci hanno speso le loro giornate e le loro fatiche, allora comincia una guerra logorante in famiglia, perché chi ha lavorato pretende il suo e chi possiede non molla. L’esasperazione porta i giovani nuclei familiari a prendere decisioni impensate e poi ad abbandonare le terre che hanno curato ed amato.

La lotta scende dentro le persone, divise tra l’accettazione del nuovo regime e l’abbandono del loro tetto, delle loro radici e di un passato che è la loro vita. In paese aumenta il numero delle partenze. Con la speranza di assicurare un futuro migliore ai figli, le famiglie se ne vanno con le loro masserizie su un camion, fino oltre confine. C’è atmosfera di smobilitazione, gli incontri nei luoghi pubblici si caricano già di rimpianto: «Ecco che tutti partivano. Alla sera si parlava con un amico all’osteria -non si parlava d’altro a quel tempo- e lui che diceva sempre “morire sì ma a casa mia” già lo trovavi cambiato, già un po’ in forse anche lui, e la mattina dopo sapevi che era andato a Umago a presentare la domanda di opzione».

Se ne vanno con la certezza che famiglie slave già adocchiano le loro case, che useranno le cose che sono loro appartenute. La perdita della propria terra, della casa, degli oggetti stessi, lo sradicamento da un contesto noto e familiare, è l’inizio di una spersonalizzazione, di una perdita di identità, di una lacerazione che sarò difficile rimarginare.

Tomizza vive il dramma dell’esule sulla sua pelle, per questo Materada, come tutta la trilogia istriana, è un crescendo di struggente nostalgia, un canto d’addio. Ma alla gente di Materada rimane la dignità anche nella tragedia, così si trovano tutti insieme a cantar messa, anche se ormai il prete non c’è più, e vanno in processione a salutare i loro morti nel cimitero che rimarrà abbandonato.

Chi passava all’Italia era accolto nei campi profughi e di lì cominciava lentamente a riorganizzare le propria vita, non immune da giudizi critici di tanta gente, che in un periodo così difficile come il secondo dopoguerra mal tollerava le attenzioni concesse ai profughi. Atteggiamento di rifiuto mai sopito, con sfumature che cambiano nel tempo, fondamentalmente contenente la paura nei confronti dell’altro e di ciò che l’altro può sottrarci, a danno del nostro lavoro, della nostra casa, dei nostri stessi diritti, con chiusura totale alla possibilità di crescita dovuta al contatto ed alla conoscenza.






66 – L’ Arena di Pola 13/11/13 Presentazione del libro "Il cimitero civico di Monte Ghiro a Pola (1846-1947)

Presentazione del libro "Il cimitero civico di Monte Ghiro a Pola (1846-1947)
Quelle tombe parlano italiano

E’ stato presentato alla Comunità degli Italiani di Pola venerdì 25 ottobre il volume del giovane storico connazionale Raul Marsetič  “Il cimitero civico di Monte Ghiro a Pola (1846-1947)”, edito dal Centro di Ricerche Storiche grazie al patrocinio dell’Unione Italiana di Fiume e dell’Università Popolare di Trieste. Una monumentale opera di ben 948 pagine riguardante 1.500 tombe, che fa parte della “Collana degli Atti” n. 35. La sala era gremita. La presidente dell’Assemblea della CI Tamara Brussich ha dato la parola per i saluti ai rappresentanti delle istituzioni presenti, tra cui il sindaco del Libero Comune di Pola in Esilio Tullio Canevari, che ha ricordato quanta parte abbia Monte Ghiro nel cuore degli esuli. Dopo l’introduzione del prof. Rino Cigui, il prof. Giovanni Radossi, direttore del CRSR, ha pronunciato l’allocuzione ufficiale:
La storia, si sa, è analisi dei grandi problemi, ricerca dei nessi che condizionano le vicende umane, scandite dal conflitto eterno al di fuori e al di sopra di ogni specifico momento storico, che è di ogni uomo e di ogni collettività, fra libertà e necessità. Essa è un mondo di valori per cui i ricercatori del nostro Centro si sono trovati a lungo dibattuti tra politica e sopravvivenza individuale e collettiva, ma risoluti nella rivendicazione della funzione civile della storia, perché da sempre convinti che essa costituisce, insieme con l’eredità delle nostre tradizioni, la base delle nostre opinioni morali e politiche, delle nostre “ideologie”, dei nostri miti, della nostra concezione del mondo.
La storiografia che non sia semplice accertamento dei fatti è figlia del proprio tempo, ed è battaglia di idee e di ideali. La nostra preoccupazione massima e costante è stata quella di individuare il legame che esiste tra storia del passato e contemporaneità, legame oltremodo specifico del nostro mondo minoritario, da quando si è voluto artatamente che minoritario fosse, più di sessant’anni fa, in barba alla nostra reale e patente onnipresenza sul territorio del nostro insediamento.

La comunità italiana dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, risulta tuttora ben radicata nel tessuto sociale; ciò deriva in primo luogo dal carattere autoctono della sua presenza, dalle origini remote di tale autoctonia da ricercarsi in epoche storiche che hanno segnato l’area adriatica orientale molto tempo prima della comparsa del concetto di nazione. In altre parole, nel definire lo specifico nazionale della nostra etnia, dovuto a peculiari requisiti ambientali e storici, all’accumularsi generazionale di un retaggio culturale-linguistico e di tradizioni e costumi particolari, è impossibile ignorare o sottovalutare il riferimento ad esperienze e cognizioni precedenti quali quelle della temperie culturale giuliano-veneta, che hanno lasciato un’impronta indelebile sulla nostra fisionomia.

La forte curiosità di ricerca ci ha spinto a tentare di cogliere, di intuire le ragioni o le pulsioni che sono state alle origini di determinati comportamenti fuori, ma soprattutto dentro il nostro piccolo universo. E abbiamo così colto il richiamo ai “luoghi”, alle “culture”, alle strutture, alle ideologie che tanto duramente hanno colpito il nostro essere minoritario. La ricerca storico-sociologica, poi, ci ha reso possibile scendere, penetrare nelle pieghe più remote dell’animo dei “protagonisti”, e vederne gli aspetti sufficienti ma anche gli impulsi meno nobili, le loro incoerenze: sempre per cercare di capire, mai con lo spirito del censore. In effetti, lo studio del passato unito all’interpretazione del presente ci ha immerso nella totalità della nostra vita sociale, morale ed intellettuale per permetterci di caratterizzarla e di esserne caratterizzati, poiché è stata ed è ancor sempre nostra convinzione quella che la funzione civile e formativa della storia (in ispecie se riferita a gruppi nazionalmente minoritari) si esercita male se non si supera la stretta cerchia degli “addetti ai lavori”.

La memoria delle cose vive nella memoria degli uomini, per cui si perpetua il ricordo delle cose, dell’agire dei singoli e delle vicissitudini dei gruppi e riesce così possibile stenderne la storia, assicurando ai posteri le proprie radici culturali. Una comunità nazionale che vive in continuità territoriale con la propria matrice (com’è il caso degli Italiani istro-fiumani) è particolarmente interessata ad approfondire la propria storia sociale e quella antropologica in un contesto territoriale ed umano eterogeneo sul piano nazionale, specifico su quello economico, divergente sul piano culturale, poiché esistito per secoli in una tensione latente o palese, conformando la propria esistenza alle oscillazioni politiche locali ed al complesso intrico delle vicende internazionali.

Le laboriose genti dell’Istria hanno saputo conservare per oltre due millenni la propria individualità etnica, linguistica, culturale e religiosa, pur attraverso una varietà di esperienze e di atteggiamenti che l’hanno portata talvolta ad urti ed attriti coi popoli vicini in ogni campo della vita sociale, ma altre volte alla convergenza ed alla confluenza di interessi e tradizioni che hanno concorso alla formazione di una realtà civile duttile ed aperta. Ma poiché le quantità dialetticamente si trasformano in qualità, è comprensibile esprimere anche in questa occasione d’incontro le nostre legittime preoccupazioni acché la componente romanza del territorio, vistosamente ridotta in questi sei e più decenni, non soccomba ulteriormente ai deleteri effetti di una stravolgente assimilazione nazionale ed etnica.

Ci sono città e territori che rimangono sempre uguali per centinaia d’anni: si producono le stesse cose, si costruisce allo stesso modo, si interpreta il mondo seguendo gli stessi schemi. Le guerre e le carestie, i periodi favorevoli, la vita e la morte seguitano ad intercalare i loro cicli, quasi naturali, senza che il luogo si modifichi. Poi, d’improvviso, diventano centro di profonde trasformazioni e allora nulla si rigenera, ogni cosa muta: gli uomini, le istituzioni, le architetture, gli spazi, la lingua, le sepolture, gli orizzonti. Da un lato emergono le trasformazioni civili, amministrative e politiche; dall’altro vengono ridefiniti i processi necessari a regolare la trasformazione ed a stabilire il nuovo modo di crescere.

Nel lontano 1971, agli albori della nostra vicenda umana e professionale, i ricercatori del Centro (allora soltanto studenti universitari a Zara e Lubiana), furono impegnati – in condizioni di estremo disagio organizzativo ed anche politico – per alcuni anni nel corso delle vacanze estive nell’opera di rilevazione delle sepolture italiane in ben 80 cimiteri di tutta l’Istria, quale strumento per contrastare le allora già evidenti incongruenze dei censimenti della popolazione, onde disporre di nuovi rapporti numerici tra defunti e vivi connazionali. I risultati già allora apparvero eccellenti, anzi straordinari, anche se i tempi che correvano non ci permisero allora di usare appieno la documentazione prodotta, oggi prezioso quanto geloso lascito nell’Archivio del Centro.

Furono rilevate in quell’azione non soltanto le epigrafi italiane, ma anche croate e slovene di indubbia provenienza romanza, producendo un materiale che in massima parte attende ancora di vedere la luce e, soprattutto, di essere dettagliatamente studiato, compulsato con una serie di informazioni, di inesplorate statistiche che oggi sono a portata di mano degli studiosi, ma anche delle persone cui stanno a cuore le vicissitudini delle generazioni che hanno calcato nei secoli queste zolle di suolo natio e continuano testardamente a riprodursi ed a riproporsi su di esse. Quello che ci preme qui rilevare è il nostro impegno per la conservazione gelosa delle memorie del passato narrate da quelle iscrizioni cimiteriali che aiutano a comprendere inequivocabilmente lo svolgimento della storia, delle istituzioni, della lingua e delle usanze: irrinunciabili memorie che confermano e testimoniano la nostra avita nazionalità.

Queste poche e fugaci riflessioni sono sufficienti a svelare la grande complessità dei fenomeni legati alla definizione degli ambiti di esistenza, se non addirittura in taluni casi limite di sopravvivenza, della comunità nazionale italiana in genere, di questo experimentum historiae, al quale non si può rispondere interrogandosi unicamente sulla politica e sulla storiografia, e sugli strumenti interpretativi ad essi applicati. Gli ambiti istro-fiumani sono diventati, dopo il secondo conflitto mondiale, casi topici per le loro trasformazioni e le complesse contraddizioni in esse determinatesi; la coscienza che quest’area è stata originariamente luogo di arrivi e di partenze, luogo di incontro e di esilio per genti tra loro diverse e quindi luogo di profondo realismo, ha consolidato la consapevolezza che l’identità di ognuno di noi, anche in senso nazionale, si produce con un atto di volontà – una precisa opzione – e non con la sola consolazione della memoria.

Non mi resta, a questo punto, che esprimere plauso e gratitudine per questa ponderosa opera sul Cimitero di Monte Ghiro all’Autore Raul Marsetič, ricercatore del nostro Istituto che, coadiuvato dall’Ufficio di sovrintendenza del patrimonio storico-monumentale della Città di Pola, ha concorso alla stesura della Delibera cittadina onde sono divenute monumento talune tombe storiche, la maggior parte delle quali di famiglie italiane risalenti a fine Ottocento o inizi del secolo scorso; la Delibera ha infatti sancito che il cimitero civico, con il suo prezioso carico di storia, è parte della memoria collettiva, con le sue oltre 1000 tombe, delle quali 27 sono state classificate di grande valore storico, mentre altre 37 sono state ritenute di precipuo valore monumentale, architettonico, storico, culturale o legato all’importanza dei personaggi in esse sepolti.

Nel ringraziare infine gli Enti patrocinatori di questa iniziativa – l’Unione Italiana e l’Università Popolare di Trieste – esprimo il mio sentito grazie a tutti coloro che hanno accolto con vivo entusiasmo l’idea di sostenerci e di farsi partecipi di questa significativa opera che costituisce il miglior contributo nel rendere modernamente più “leggibile” il libro aperto dei monumenti e delle epigrafi lapidee polesi, voci parlanti della nostra identità umana e nazionale. Alla Nazione Madre che per il tramite del Ministero agli Affari Esteri tanto, tantissimo ha fatto perché il Centro potesse progredire, crescere in qualità e produrre cultura e scienza per oltre quarant’anni, ai connazionali residenti e a quelli esodati che ci hanno seguito in questo difficile procedere con amore, spesso con trepidazione e sempre con partecipazione, la gratitudine dei dipendenti, dei ricercatori e degli oltre settanta collaboratori esterni. Alla Comunità degli Italiani di Pola, primo erede e custode di tanta e cotanta memoria, il grazie per la solerzia, l’amorevolezza e l’amicizia nell’accogliere questa cerimonia e la puntualità con la quale l’ha condotta. Grazie!

E’ quindi intervenuto l’autore Raul Marsetič:

Trascorsi ormai 8 anni dalla presentazione, in questa stessa sala, del mio libro sui bombardamenti di Pola, ho sempre continuato a indagare le vicende storiche che hanno coinvolto e caratterizzato la mia città durante l’Ottocento e la prima metà del Novecento. Numerosi sono i temi che ho trattato ma cruciale, per lo sforzo e tempo richiesto, risulta senza dubbio essere lo studio delle vicende legate alla nascita ed allo sviluppo del cimitero civico di Monte Ghiro, oggi ormai da tutti noi erroneamente chiamato Monte Giro.
A proposito, in pochi sanno che fino ai primi del Novecento veniva indicato come cimitero di San Giorgio, come anche l’omonimo Forte austriaco nelle immediate vicinanze, entrambi denominati così per l’ubicazione sul colle dei resti di una chiesetta dedicata al Santo. Proprio per cercare di creare un collegamento con l’antica denominazione, ho voluto riportare sulla copertina del libro la pregevole statua di San Giorgio presente sul monumento della famiglia Monai.

Il libro esamina una struttura urbana certamente particolare, piena di molteplici significati come luogo di commemorazione e identità cittadina. Voglio però far presente che non si tratta specificatamente di uno studio sulla morte e sul lutto. L’intenzione è stata sempre di discutere ed analizzare l’origine, lo sviluppo ed il patrimonio storico culturale del cimitero civico polese, attraverso l’investigazione delle fonti e del complesso contesto che ha portato a concepire e sviluppare questo luogo così specifico. Ho voluto presentare, attraverso l’inedito materiale d’archivio analizzato, le complesse circostanze cimiteriali di Pola comprese nel periodo dal 1846 al 1947. In effetti, ho tentato di creare un collegamento tra i molteplici aspetti che la questione delle sepolture, nella sua particolarità, innegabilmente comporta. Attraverso questa modalità di ricerca, ho esposto le condizioni che hanno determinato l’individualità urbana ed il raggiunto livello di cultura sepolcrale insieme ad una migliore comprensione dei processi sociali e di modernizzazione della città.

Monte Ghiro esprime la ricchezza culturale della popolazione, testimonia le vicende belliche e le tragedie cittadine, la composizione etnica e la stratificazione sociale, insieme ai legami vicini e lontani che permettono di riconoscere nella continuità di simboli o caratteri formali comuni i rapporti tra gruppi diversi all’interno di un panorama sociale comune. Attraverso le famiglie e le persone che vi riposano, raffigura un luogo privilegiato di ricordo e orgoglio cittadino, testimoniandone la cultura, la confessione religiosa e l’appartenenza linguistica. Deve essere inteso come il luogo della memoria per eccellenza dove è possibile ricostruire la storia e la società della città in un dato periodo e che quindi come tale può contribuire ad una migliore conoscenza della realtà polese del XIX e della prima metà del XX secolo. In effetti, raffigura la perfetta riproduzione dell’ordinamento socio-economico di Pola nell’arco temporale trattato. Nel corso degli anni, il nostro cimitero cittadino ha sviluppato una precisa e caratteristica forma architettonica ed una particolare identità che, anche se autonoma dalla città, ne rispecchia in pieno le vicissitudini ed i cambiamenti. All’interno del suo recinto si trovano sedimentate immense testimonianze di storia civica che riflettono pienamente la cittadinanza passata.

Lo studio svolto ha come principale finalità la tutela e la conservazione di un importante patrimonio culturale che, nonostante i numerosi passi in avanti fatti negli ultimi anni, va lentamente e inesorabilmente sparendo. Purtroppo, nonostante le lodevoli disposizioni di salvaguardia approvate, su proposta della commissione cittadina per la tutela di Monte Ghiro, dalla Città di Pola, che devo elogiare per la grande sensibilità dimostrata, il nostro patrimonio cimiteriale continua pietosamente a scomparire di giorno in giorno per i molti casi di indiscriminata violazione delle norme di protezione prescritte. Ho cercato in più occasioni di sensibilizzare chi di dovere ad intraprendere delle azioni concrete per fermare tale scempio ma purtroppo, senza voler entrare adesso in poco opportune polemiche, non ho ottenuto alcun risultato concreto.

Il presente volume è il prodotto di anni di intensa ricerca archivistica affiancata da lunghe e impegnative ricognizioni cimiteriali. Si è trattato di veri e propri studi di archeologia cimiteriale che mi hanno permesso di conoscere ogni viale, monumento e dettaglio presenti nella parte storica del cimitero e che, interpretati nella maniera voluta, hanno portato alla testimonianza che presentiamo stasera e che spero sinceramente risulti interessante.
A proposito di fatti curiosi, durante le mie indagini sul campo, munito di penna, quaderno e fotocamera, mi è successo più volte di essere scambiato per impiegato cimiteriale e fermato, per lo più da anziane vedove in cerca di qualche dritta per l’acquisto di una semplice tomba ma anche di un monumento d’epoca più importante. Non ho potuto poi non accorgermi degli sguardi di tanti che mi esaminavano con una certa curiosità, devo dire pienamente comprensibile, vedendomi girovagare per delle ore al cimitero con aria pensosa, dando forse l’impressione di uno con chissà quali idee strane per la mente. Posso liberamente affermare di essere riuscito a crearmi una certa fama abbastanza discutibile tra i visitatori più assidui del camposanto polese e quindi, da adesso in avanti, ho fermamente deciso di dedicarmi ad argomenti un attimino più sereni al fine di riabilitare, per quanto ormai possibile, la mia compromessa reputazione.

Senza poter soffermarmi, per motivi di tempo, a ringraziare le numerose persone con cui ho collaborato nelle ricerche, per i preziosi consigli e per l’aiuto fornitomi desidero esprimere riconoscenza in maniera particolare al dottor Antonio Pauletich, che mi ha fin da subito incoraggiato e sostenuto. Voglio ancora manifestare piena gratitudine al direttore Giovanni Radossi che è riuscito, devo dire con grande impegno, a ottenere i notevoli finanziamenti necessari per la stampa di un libro così ambizioso anche dal punto di vista estetico. A mia moglie Nensi devo poi giustamente un ringraziamento speciale per la comprensione e l’infinita pazienza.
Desidero ancora esprimere la mia intenzione, attraverso questo volume, di sfruttare l’indagine cimiteriale trasformandola in uno strumento per togliere dal completo oblio, magari anche per pochi momenti durante una lettura veloce, le esistenze di migliaia di polesi. Ognuno di loro ha infatti contribuito a proprio modo a determinare le peculiarità di Pola. In base alle informazioni disponibili per ogni persona nominata, spesso riporto dati interessanti e poco noti (documentando anche mestieri insoliti come impresari di pompe funebri, proprietari di case tolleranza, circensi, mendicanti, ecc.), mentre per molte personalità più note sono riuscito a ricostruire delle dettagliate biografie.

Nel suo complesso, Monte Ghiro rappresenta il primo moderno impianto cimiteriale di Pola, con ben 167 anni di ininterrotta attività. Costituisce uno tra i principali monumenti cittadini che conserva ancora oggi una parte insostituibile della memoria civica che con questo libro ho umilmente voluto, e spero sinceramente saputo, descrivere come merita.
Infine, invito tutti i presenti a visitare con curiosità e rispetto il nostro cimitero, cercando di evitare, per usare un eufemismo, soggiorni più definitivi, per i quali c’è ovviamente sempre tempo.

«La presentazione del volume – osserva Tullio Canevari – è stato un momento importante nel nuovo clima, nel quale la presenza della componente italiana della città e della sua cultura assumono un peso e un significato sempre maggiori. Il coro “Lino Mariani” ha contribuito con motivi popolari, come Al patinagio e Son nato drio la Rena, a riportarci ai tempi felici di quando Pola era la nostra Pola e con il Va, pensiero a riaffermare la legittimità del nostro rimpianto per una patria perduta. Il momento conviviale conclusivo è stato l’occasione per rinsaldare amicizie e iniziarne di nuove, come quella con chi, ho scoperto, aveva abitato a Brioni negli anni in cui c’ero anch’io o un’altra con chi, sentendo il mio rammarico per non avere contatti, anche solo umani, con i vertici dell’amministrazione polese, mi ha promesso che cercherà, forte degli incarichi ricoperti a suo tempo, di adoperarsi in tal senso».
















67 – Anvgd.it 22/03/13 2013, l'anno di Padre Flaminio Rocchi (4)

2013, l'anno di Padre Flaminio Rocchi (4)

Continuiamo il ricordo di Padre Flaminio Rocchi, nel centenario della nascita e decennale della morte, con questo quarto appuntamento tratto dal libro biografico "Padre Flaminio Rocchi: l'uomo, il francescano, l'esule", edito dalla ANVGD. Dalla fine della guerra al sacerdozio, dal ritorno a Neresine alla splendida ricostruzione di Gabriella Fiorentin.

 
Al termine degli eventi bellici Padre Flaminio cerca di rimettere insieme i tanti pezzi della sua famiglia, dispersa con l’Esodo. Ma qualcuno manca all’appello.

«La famiglia di mia sorella Nives, cinque persone, perseguitata, trattenuta abusivamente dagli slavi nell’isola di Lussino, ha raggiunto la libertà appena nel 1960. E’ stata ricoverata a Trieste nella Risiera di S. Sabba, che poi è stata dichiarata monumento nazionale perché i tedeschi nel 1944 l’avevano trasformata in un lager con forno crematorio. E’ stata usata come campo profughi. Lo stesso direttore, un ottimo funzionario del Ministero dell’Interno, si è vergognato di accompagnarmi a visitare mia sorella: una cella con una porta piccola e chiavardata, con un oblò e sulle pareti interne ancora graffiati nomi, croci e stelle di David.»


Negli anni ’60 è nel pieno delle sue attività assistenziali. Ma non dimentica mai la sua vocazione sacerdotale francescana. Per il suo 25° di sacerdozio, celebrato al Santuario di Loreto a un anno dalla morte di suo padre Rocco, compone questa preghiera.

LODATO
sii mio Signore per il saio di San Francesco
che hai posto sulle mie spalle.

LODATO
sii nel festoso ricordo di coloro che venticinque anni fa
mi hanno accompagnato al Tuo altare a Neresine
e che oggi il vento del male
ha dispersi per tutti i mari e per tutti i lidi.


LODATO
sii nel sacrificio dei soldati d’Italia che io ho deposto
sotto i fiori del campo nell’azzurro del Tuo mare.

LODATO
sii nell’esodo dei profughi adriatici
che sulla scia tracciata dalla Tua Santa Casa
da Tersatto a Loreto hanno salvata la fede e la libertà.

LODATO
sii nella gioia della mia vecchia madre
e nel riposo eterno di mio padre
che ha deposto le sue stanche ossa di profugo.

LODATO
sii mio Signore nelle mie ultime speranze:
carità per gli esuli, santità per il mio Sacerdozio
ed infine un piccolo angolo del Tuo grande Paradiso.


Neresine (Pola) 1. agosto 1937
Loreto (Ancona) 15 agosto 1962

Dopo decenni di assenza dalla sua Neresine, Padre Flaminio vi ritorna per la prima volta nel 1975. Ma questo evento che doveva essere di gioia, si trasforma ben presto in un piccolo caso internazionale.

«Un poeta esule diceva che le sue lacrime non erano di pianto perché nessuno le comprendeva. Io vivo a Roma da oltre quarant’anni, ma la mia cattedrale non è la monumentale basilica di San Pietro. E’ la modesta pieve del mio paese, dal quale la polizia mi ha cacciato nel 1975. Sono venuti da Fiume cinque giudici e m’hanno cacciato perché aiutavo i profughi che alla “democratica Jugoslava avevano preferito l’Italia imperialista”. Ho accettato la condanna come un elogio. Prima di andarmene, nel pomeriggio, ho visitato la chiesa, vuota. E’ la poesia francescana del mio conventino povero di Neresine, posato su una scogliera bianca e luminosa.

Mi sono affacciato sul cortile della casa dove sono nato e dove sono vissuto felicemente, ma dall’alto della scala d’ingresso della casa la voce del nuovo inquilino ha gridato: “aide!” (vattene!). Cosi prima di mezzanotte ho abbandonato con un traghetto croato le acque territoriali jugoslave. Mi è dispiaciuto anche perché sono l’unico sacerdote vivente, nato a Neresine. Ma il Vangelo ha detto duemila anni fa: “nessuno è profeta a casa sua”. Non voglio disturbare nessuno anche se il richiamo delle proprie radici è forte e doloroso.»

Il richiamo della natia Neresine continua a essere fortissimo. In occasione dei cinquant’anni di sacerdozio torna per la seconda volta nella sua terra. L’incontro, questa volta libero da condizionamenti e imposizioni ideologiche, è sentimentalmente indescrivibile.

«Nel 1987 sono ritornato a Neresine per vedere il Convento dove è nata la mia vocazione francescana, per baciare l’altare sul quale cinquanta anni prima avevo celebrato la prima Messa. Su un vecchio harmonium ho suonato la Messa “Te Deum laudamus” di Perosi, che 50 anni prima era stata cantata per la mia prima Messa. Poi ho passato un’ora, sempre da solo, nel Cimitero. Ho sorriso e ho parlato con le fotografie di parenti e di amici che tanti anni prima avevano assistito a quella Messa. E’ stata una conversazione spirituale, serena e allegra.»

Graziella Fiorentin è un’apprezzata scrittrice della nostra terra, che ha sempre saputo fotografare con la parola i drammi, le gioie e le esperienze di quel periodo buio della nostra storia. Padre Flaminio le racconta la sua esperienza del ritorno a Neresine. Lei ne trae un piccolo straordinario capolavoro di narrativa che arriva davvero al cuore di chiunque ha vissuto l’esperienza del ritorno nel proprio paese natale; ve lo propongo integralmente.

«Cinquant’anni! Esattamente cinquant’anni prima era stato ordinato sacerdote e aveva celebrato la sua prima Messa là, nella sua isola, nel suo piccolo paese in riva al mare, nella stessa minuscola pieve dove era stato battezzato. Era stato un giorno di festa quello! Lui era trepidante e felice, contornato dalla folla festosa dei suoi compaesani, dei parenti, degli amici... Erano passati cinquant’anni e da quasi altrettanti aveva dovuto lasciare il suo amato paese per diventare uno degli oltre 300.000 esuli italiani che avevano dovuto fuggire, pena la vita, dalle loro terre italiane dell’Istria e della Dalmazia o avevano spontaneamente scelto l’esilio per non tradire la propria nazionalità, la propria fede, le tradizioni e la cultura dei padri.

Esiliato in patria, ma lontano, precluso per sempre al suo paese, alla sua casa, a quelli che erano rimasti: vecchi che nulla desideravano fuorché morire nella propria casa, contadini che nulla avrebbero avuto se gli veniva tolto il loro magro pezzo di terra. In quei lunghi anni molto aveva scritto di Storia, sempre aveva cercato di aiutare i fratelli di sventura.

Aveva tentato di riunire le famiglie, spesso divise, disorientate e confuse, sparse per tutta l’Italia e quelle -molte- emigrate all’estero. Aveva portato alle autorità la voce dei derelitti, abbandonati a sé stessi, chiusi nei campi profughi, senza lavoro, senza soldi, senza futuro. Aveva fondato un foglio, un giornale attraverso cui chiamare, parlare, chiedere, raccontare, consolare quella grande famiglia dispersa. Perciò era particolarmente inviso ai nuovi padroni della loro terra. Chi non accetta la verità e non ha amore per il prossimo non può che odiare. Ora, finalmente poteva tornare per una brevissima visita, come un turista frettoloso...

“Perché voleva tornare? Perché voleva festeggiare là il 50° di sacerdozio? Ne, ne... no! Non se ne parlava nemmeno... Cerimonie?! Festeggiamenti?! Per uno che aveva preferito la “fascista” Italia alla democratica Iugoslavia!! Nemmeno per idea... A uno che aiutava i “fascisti”?! Neanche per sogno! Breve visita, quasi in incognito, e ringraziasse la bontà dei democratici iugoslavi...”

Aveva sorriso... Straniero nel suo paese e indesiderato... Niente Sante Messe commemorative, niente feste... niente di niente... Era arrivato in sordina e l’unica cosa permessa era guardare, saziare gli occhi dei colori della sua isola, riempirsi i polmoni dei profumi intensi della terra e delle erbe odorose che nascevano spontanee fra le rocce e rievocare nella mente la sua vita, così com’era stata fino al giorno tragico dell’esodo.

Ora abitava in una smisurata città e il mare era pure abbastanza vicino, ma non era il mare della sua isola... Lo infastidivano un po’ quelle case, stivate come sardine, in fila vicino alla spiaggia. E anche l’arenile gli era estraneo, così ampio, sabbioso, senza rocce né alberi. Il mare smoriva sulla riva tingendosi di giallo e non gli ricordava per niente il mare turchese, limpido e pulito della sua isola.

Ora, appena montato sul traghetto, si era abbarbicato a prua e non si stancava di guardare quel blu cobalto orlato, ai due lati della prua, di un merletto candido, spumeggiante che si stemperava in screziature di topazio dov’era sfiorato dal sole. Respirava con voluttà l’aria frizzante, odorosa di salmastro e si lasciava accarezzare i capelli brizzolati dal venticello fresco di libeccio mentre guardava avvicinarsi la costa alta, rocciosa dell’isola, coperta, a tratti, dai pini che crescevano lungo il pendio scosceso quasi fino all’acqua.

Dopo lo sbarco, risalito nella corriera, si era seduto davanti, nei primi posti, per poter spaziare con lo sguardo il più lontano possibile, oltre la strada che correva lungo il crinale, oltre i muretti a secco, fino alle bianche pietraie che cadevano, da entrambi i lati, quasi a picco verso il mare. E il mare sembrava anche più azzurro nel contrasto con le rocce abbaglianti, coperte qua e là dal tappeto verde tenero della salvia e dalle macchie gialle dell’elicriso.

Aveva anche abbassato per un attimo il finestrino per assaporare quegli odori intensi ed antichi. Avevano incrociato, quasi al culmine dell’isola, in prossimità delle pinete, una nube di farfalle. Volavano alla cieca, ebbre di sole, con le ali azzurre sfavillanti. Avevano invaso anche la carreggiata e la corriera passava in un tunnel turchino. Era una spettacolo unico, affascinante, quasi magico. Era come se il cielo si fosse spezzettato in minutissimi coriandoli luminosi per ricoprire la terra, così numerosi che la strada fu ben presto dissimulata da un tappeto cilestrino di ali spezzate.


“Sic transit gloria mundi!”, pensò il sacerdote con un senso di pena. Osservava le nuvole, leggere come spuma, passare nel cielo e seguiva il volo lento e solenne dei grifoni che si innalzavano e planavano lasciandosi trasportare dal vento.


“Non è cambiato nulla, per fortuna” - mormorò tra sé - “passano gli anni, i secoli, gli uomini si distruggono, si ammazzano, la natura riesce a mantenersi ancora intatta”.

- Viene in gita sull’isola? La conosce? - Lo scosse la voce incuriosita di una donna.

Rimase un po’ sconcertato: che cosa poteva dire e che cosa non doveva dire? La verità, ecco, avrebbe detto la verità...

- Se conosco questi posti?! - Sorrise divertito. - E’ casa mia, ci sono nato e vissuto fino a cinquant’anni fa.

La donna lo guardò più attentamente ora, con curiosità più marcata. Era anziana e scrutava il suo viso cercando un ricordo.

- C’è un convento di francescani infatti qua ... Ci abitava, là?


- Sì, anche, ma io sono nato a... ecco, eccolo il mio paese ! - si interruppe additando davanti a sé.

L’isola era finita bruscamente sul ponte che la univa alla sponda dell’altra isola, Lussino, separate soltanto da uno stretto canale dove il mare ad occidente si mescolava con quello ad oriente.

- Vede, quello è il campanile del mio paese! - e intanto indicava la punta aguzza che spuntava fra gli alberi e poi le case distese sul pendio degradante verso il mare.


- Ah, ma allora ho capito... lei è...

Ma il frate non l’ascoltava più. Con una stretta al cuore faticava a trattenere lacrime importune che tentavano di bagnargli le ciglia. Dopo tanti anni... Istintivamente balenarono nella sua mente le parole dolci e nostalgiche del coro del Nabucco. “O mia patria sì bella e perduta...”

La corriera si fermò. Il sacerdote salutò la donna e scese. Si guardò intorno con un sospiro e si avviò lungo la strada che portava alla casa dei suoi parenti. Lo stavano aspettando e fu un coro di saluti, abbracci e lacrime.

Pochi giorni! Troppo pochi giorni per rivivere una vita, per calarsi nuovamente nella realtà del suo paese. Ed era già il giorno dell’anniversario. Il vecchio frate camminava assorto e i suoi sandali aperti sui piedi nudi, da francescano, battevano lenti sulle antiche pietre. Era un primo pomeriggio assolato e sonnolento. Le strade erano vuote e le persiane accostate lasciavano traspirare il lento respiro dei paesani abbandonati al sonnellino pomeridiano.

Quasi inconsciamente arrivò davanti alla chiesa. Provò con il palmo della mano: il portone era aperto. Entrò. La chiesa era deserta, il silenzio profondo, quasi sonoro. Timidamente si avvicinò alla sacrestia che aveva la porta spalancata. Non c’era nessuno. Entrò ed ecco lì, in ordine e piegati con cura i candidi camici. Ecco i paramenti sacri appesi alle grucce. C’era anche una vecchia pianeta, chissà! forse la stessa che quel giorno, 50 anni prima, lui aveva indossata per la prima Messa.

Accarezzò dolcemente, con nostalgia, il serico disegno dorato, sfiorò con le labbra la croce ricamata: profumava d’incenso e di tempi passati. Alfa e Omega era scritto. Inizio e fine. Entrambi vicino alla Croce... Girò lo sguardo intorno alla ricerca di cose note e mai dimenticate. Si affacciò alla porticina che dava sull’altar maggiore. Ancora di fianco ad essa pendeva la campanella di inizio messa. Sorrise: quand’era ragazzino era compito suo suonarla e lo faceva con tanto impegno che il parroco brontolava:

- Così la stacchi, Padre Santo! Se lo fai ancora ti tolgo l’incombenza e la passo ad un altro...

Ma lui, pieno di entusiasmo, continuava a scampanellare e l’incarico continuava ad essere suo. Si avvicinò anche ora e tirò piano la cordicella: il suono argentino si sparse lungo la navate sfiorando gli antichi banchi consunti e tarlati.

Accarezzò con tenerezza la porticina del tabernacolo, mormorando teneramente: “Sono qua, mio Gesù, con te come allora, come sempre”. Fece il giro degli altari parlando sottovoce con le antiche statue della Sacra Famiglia, dell’Addolorata, di S. Antonio. Quante parole note, quante preghiere consuete e dolci da ripetere...

Sull’orchestra si sedette davanti all’armonium, sfiorò i tasti ingialliti. Sul bordo, quasi preparato per lui, era posato uno spartito sdrucito. Lo aprì facendo crocchiare le pagine indurite: era proprio la Messa del Perosi, quella che il coro aveva cantato per lui 50 anni prima. Seguì con gli occhi le note nere sul foglio avorio e cominciò a suonare. Le note si alzavano limpide e solenni e salivano, oltrepassavano le vetrate e il soffitto, diritte verso il cielo.


Vagò con lo sguardo lungo la navata sognando le voci contadine di allora e quelle argentine dei bimbi avvolte dalle volute dell’incenso e ogni voce aveva un volto, un nome, mai dimenticato. E tutto era come allora: il tempo, la guerra, il dolore, la morte non avevano cancellato l’entusiasmo, la gioia traboccante del suo cuore. Ancora valide erano le promesse di essere un buon sacerdote, di aiutare il prossimo, di portare il vangelo nel mondo e viverlo ogni giorno della sua vita.

All’improvviso senti cigolare il portone d’entrata della chiesa. Una lama di sole entrò delineando una figura. Il portone si richiuse con un tonfo lasciando nell’ombra la persona ferma in fondo alla navata. Il frate staccò le mani dalla tastiera. Le voci e i volti rientrarono nel nulla, l’ultima nota si perse nel silenzio come un punto di domanda senza risposta. Si alzò in fretta e scivolò lungo il muro confondendosi con le ombre e uscì in silenzio dalla porta laterale svanendo nel nulla quasi come le voci e i volti di quei fantasmi che poc’anzi aveva evocato.

C’era ancora silenzio e solitudine sul sagrato e sulla via. Ancora il sole brillava dorato e scintillante nel suo lento cammino verso occidente. C’era ancora una strada, quella strada che il frate sentiva di dover imboccare e che portava alla dimora di quelli che ora non c’erano più. Come su quasi ogni isola il cimitero era a due passi dal mare. Chi è nato al mare, chi ha vissuto sul mare, chi ha corso il mare, chi ha respirato il mare, chi ha succhiato la sua salsedine come il latte della madre, chi ha il mare nella mente e nel sangue e la sua voce negli orecchi, non può dormire il suo sonno eterno lontano da lui. Isole e mare sono un tutt’uno inscindibile in una complementarità perfetta e le une non possono esistere senza l’altro.

Lo avevano capito le donne che anticamente avevano riempito di terra un grande quadrato in riva al mare. Chi riposava là doveva poter sentire la canzone del mare e il suo profumo. Non era possibile calare il mare nelle loro tombe come si faceva con gioielli, monili, cose usuali: era quindi giusto portare gli uomini vicino al mare. Le donne avevano circondato quel quadrato di soffice terra con mura a secco alte e spesse perché la furia di Bora e Scirocco non potessero disturbare il riposo dei morti. Avevano assestato la terra morbida come un grande letto e solo le brezze gentili che portavano il canto dolce del mare potevano sfiorare le croci che segnavano l’ultima casa di ciascuno. Piante selvagge e odorose crescevano lungo le mura: il finocchio selvatico, il rosmarino, l’elicriso. I fiori azzurri come il mare delle campanule e della lavanda, i colori, gialli e aranciati come il tramonto, dei fiori del crisantemo ornavano le tombe.

Il frate camminava lentamente fra le fila di lapidi e la terra, calda di sole, che scivolava dai tumuli, penetrava nei calzari e fra le sue dita come una carezza. Quanti nomi noti, quanti amici, quanti ricordi... Talvolta, in quel suo lento peregrinare, si fermava a riposarsi e sedeva sull’orlo di qualche pietra tombale. Guardava quei nomi, fissava quegli occhi che sembravano sorridergli dalle foto sbiadite e parlava con la signora Caterina, con la piccola sarta Dumiza, col vecchio Bartolo, col nostromo Domenico...

Ricordava loro i tempi passati, i piccoli avvenimenti quotidiani, le consuetudini che li distinguevano e la loro amicizia reciproca, piccole cose amorevoli che avevano dato un’impronta unica e irripetibile a ciascuno. Guardava quei volti che 50 anni prima lo avevano ascoltato commossi, là nella pieve, alla sua prima Messa. Riconosceva tutti, parlava a tutti quegli amici e gli sembrava di essere a sua volta riconosciuto. Voci, parole, ricordi, raccomandazioni gli risuonavano nella mente e quei volti dalle foto sembravano salutarlo, seguirlo con lo sguardo in quel suo pellegrinaggio di memorie.

Prima di uscire si fermò sul cancello, si voltò, fece un ampio gesto di benedizione che comprendeva tutti, come quella prima volta dall’altare, come sempre nella memoria e augurò loro un viaggio sereno sulla nave di luce verso l’azzurro infinito. Uscì, con un sospiro si avviò. Guardò il cielo azzurro, il barbaglio dorato del mare al tramonto e di colpo si fermò, stupito e quasi incredulo, perché in quell’istante si era reso conto di essere felice.

Quel giorno infatti aveva avuto la più bella commemorazione che un sacerdote potesse avere. Tutti! Ecco cos’era quella pace che gli fioriva dentro! Li aveva rivisti tutti: i vivi e quelli che non c’erano più. Non c’erano state celebrazioni, discorsi, brindisi, è vero, ma quello che conta veramente l’aveva avuto. Aveva avuto l’abbraccio fraterno dei sopravvissuti e quello amorevole di coloro che vivevano nella pace e nella gioia. Potevano pure decidere, comandare, proibire, urlare, imprecare i prepotenti

Signori della Guerra e dell’Odio, coloro che credono di essere i padroni assoluti della vita degli altri! Lui, l’umile frate francescano aveva avuto la festa più bella, più completa, più dolce che mente umana potesse pensare. Tutti! Volti, voci, vite vissute, preghiere, canti, amore: aveva avuto tutto e nessuno avrebbe mai potuto rubargli la felicità di essere tutt’uno con quelli che aveva amato e col suo Signore. Sorrise e un canto di ringraziamento gli salì alle labbra mentre, rinfrancato e pieno di gioia, riprendeva con passo sicuro il suo cammino verso il suo esilio e il suo compito quotidiano.

Il sole calava e spariva dietro il crinale dell’isola e già le prime ombre invadevano le strade e le case ancora calde di sole del suo paese. Ma ora il vecchio sacerdote non era più triste: una gioia consapevole gli scaldava il cuore come un sole inestinguibile.


- “Finché tu vorrai, mio Signore... io sono pronto... - mormorò.

- Mi piacerebbe ritornare fra loro alla fine del mio tempo e riposare vicino a loro, tra amici semplici e buoni, vicino al mare. Forse però il mio destino è altrove e sulla mia tomba anonima scriveranno “Pulvis…” Ma tu sarai con me, ora e sempre. Fra quelle tombe ero un uccello che canta su un cipresso, una lucertola che sogna su una lapide calda di sole, ma essere con te è essere uomo, essere tuo figlio. E’ bello, poetico, rassicurante, gioioso essere e sentirsi francescano. E’ bello avere fede in te, è bello sapere che nessuno potrà rubarmi questa gioia.”


Padre Flaminio allargò le braccia in un abbraccio che comprendeva il mondo, sorrise ancora e riprese a camminare. I suoi sandali battevano ora sicuri e veloci le pietre della via.»












68 –  Mailing List Histria Notizie 25/12/13 La passione di Nino Cossiani per le lingue

LA PASSIONE di NINO COSSIANI per le lingue

Col passare del tempo certe persone acquistano nel ricordo uno strano potere. In me riemerge ogni tanto Nino Cossiani.

Incontrai, nel corso di un mio viaggio in Argentina, questo esule originario di Castellier di Visinada (Istria).  Dialogammo intensamente e a lungo, forse per tre giorni. A dire il vero, parlò soprattutto lui. Ed io lo ascoltavo con attenzione, perché trovavo interessantissimo quello che mi raccontava del passato, dell'Istria, e di quello che sarebbe potuto essere se...
Una sera mi raccontò del padre che sparì nel turbine delle violenze slave contro gli Italiani. "Ci fu chi vide mio padre che usciva dalla stanza dove era stato interrogato dai suoi aguzzini... Gli avevano strappato le unghie... Da allora di mio padre non si seppe più nulla."  
Così mi disse, Nino Cossiani nel suo hôtel di Villa Gesell  –  piccola località della costa atlantica  –  dove io avevo preso alloggio e di cui lui era proprietario. Poi, soffocando gli improvvisi singhiozzi aggiunse con una smorfia di orgoglio: "Seppi che non riuscirono a farlo parlare... Mio padre non tradì nessuno."

Ebbi modo di constatare in quei tre giorni che Nino Cossiani aveva una vera mania per le lingue. Ne conosceva diverse. Ma non si fermava... Continuava a studiarle con accanimento, lui che praticamente era mezzo cieco, con occhiali dalle lenti spesse come non ne avevo mai viste. Benché in avanti con gli anni, ne stava imparando una nuova prendendo lezioni private.
Prima di lasciarlo per ritornare a Buenos Aires, finalmente capii: egli avrebbe voluto cambiare la storia, magicamente, attraverso la propria disponibilità, la propria apertura all'"altro" di cui era disposto ad imparare ora persino la lingua. "Vede –  mi disse quell'ultimo giorno  –  forse saremmo potuti rimanere a vivere tutti insieme, in Istria, se solo ognuno avesse voluto fare lo sforzo di imparare la lingua dell'altro".

Capii... Era tormentato. Ritornava sempre indietro nel tempo. Avrebbe voluto ricostruire la storia. Pensava di aver trovato la formula per superare gli odi e coesistere con chi appartiene  ad un mondo culturale diverso dal nostro e ad un altro destino nazionale, ma con cui siamo costretti a vivere sullo stesso fazzoletto di terra.
"Cossiani-Cociancich", ormai anziano, col suo cercare convulso e febbrile d'imparare una lingua, e poi un'altra ancora – ne conosceva già tante  –  avrebbe voluto, per incantesimo, sanare la ferita, comporre la lacerazione, farci ritornare indietro... Rifare la storia. E soprattutto riportare in vita il padre, torturato e poi fatto sparire dai partigiani di Tito, i quali avevano una lingua materna diversa dalla nostra, che molti di noi non avevano mai cercato d'imparare.

Claudio Antonelli (Canada)






69 - Il Piccolo 14/12/13 Nel 1915 l'Italia chiamò alla Grande Guerra una città mai stata sua
Nel 1915 l’Italia chiamò alla Grande Guerra una città mai stata sua
 
Rassegna - i giorni di trieste
Domani al Teatro Verdi conferenza dello storico Mario Isnenghi sull’irredentismo trasmessa anche in diretta streaming sul sito del “Piccolo”
di Claudio Ernè
Dieci milioni di morti e sei di mutilati in un genocidio europeo che ha avuto tra Monfalcone, Gorizia e il Carso, uno dei suoi principali carnai. Gli altri portano il nome di Verdun, dei laghi Masuri, di Tennenberg. La guerra di trincea, i gas asfissianti, le mitragliatrici, i reticolari di filo spinato, le esecuzioni sommarie e le condanne a morte pronunciate dai Tribunali militari, hanno rappresentato il perimetro di una “non vita” in cui un secolo fa sono stati proiettati in varie ondate centinaia e centinaia di migliaia di giovani soldati - contadini e soldati-operai. Di chi ha preparato l’innesco di questo incendio e del ruolo che ha avuto l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intersa, lo storico Mario Isnenghi parlerà domani al Teatro Verdi, alle 11, nell’ambito della rassegna organizzata dal Piccolo in collaborazione con l’editore Laterza. “La città in guerra, Trieste deve ritornare all’Italia” è il titolo della conferenza. Un titolo provocatorio, destinato a far discutere e a suscitare antiche polemiche. «Trieste non era mai stata parte integrante dell’Italia», dice Mario Isnenghi. «Perché allora, prima e dopo la Grande Guerra, per almeno un paio di generazioni, si è sempre parlato del ritorno della città all’Italia? La buona fede dei più non rappresenta una garanzia di veridicità. Da centinaia di anni Trieste e il suo territorio facevano parte dell’Impero asburgico e in Italia in pochi, pochissimi, sapevano quanti sloveni, croati, tedeschi, ebrei, ungheresi, greci e serbi vi abitavano. Si voleva far credere che tutti fossero stati sempre degli irredentisti, animati dall’unico desiderio di far diventare la città il simbolo di una guerra benedetta e voluta». La parte più attiva politicamente, che ha agito per far uscire l’Italia dall’iniziale neutralità, proiettandola nel conflitto già in atto da dieci mesi, ha assunto il nome di «fronte interventista». Letterati, poeti, giornalisti, sindacalisti rivoluzionari, hanno alimentato il mito del «ritorno di Trieste all’Italia» anche se la città in precedenza mai era stata italiana. I poeti e i giornalisti hanno gridato nei comizi e nelle manifestazioni, dopo averne scritto nelle loro riviste, nei fogli, nei manifesti e sulle pagine dei quotidiani. La guerra di volta in volta veniva rappresentata come occasione rigeneratrice per l’individuo e la società, come strumento di protesta contro l’assetto dello Stato o, al contrario, come antidoto alla lotta di classe. Ma anche come conclusione ineludibile dell’epopea risorgimentale in cui prima il Piemonte, poi l’Italia unita si erano confrontate con l’Austra sui campi di battaglia. Mario Isnenghi ha esplorato le pagine di Marinetti, Soffici, D’Annunzio, Lussu, mettendo a fuoco il terreno di coltura di quel fenomeno politico: un misto di insoddisfazione e orgoglio, di accettazione e ribellione verso la società borghese che il conflitto aveva portato in superficie con tanta evidenza. Nei primi Anni del Novecento lo scollamento fra le istituzioni liberali e l’energia intellettuale del Paese era massimo, il discredito per le elites al potere nel Regno d’Italia era più che diffuso, la disistima per la democrazia parlamentare era molto forte, tanto a destra come a sinistra. E tutti coloro che la pensavano a questo modo videro nella guerra agli Imperi centrali l’occasione che non poteva essere perduta. Il passo fu breve da questa suggestione collettiva e in alcuni mesi si giunse alle “Radiose giornate di maggio”, alla rottura dei rapporti di collaborazione con l’Impero di Francesco Giuseppe, alla mobilitazione e alla dichiarazione di guerra. Da citare dopo il suo rientro dalla Francia gli infuocati discorsi di Gabriele d’Annunzio in cui il “poeta” inneggiò ripetutamente al mito di Roma, al Risorgimento, a Giuseppe Garibaldi. Dal 1910 aveva aderito all’Associazione nazionalista italiana il cui fine ultimo era quello di realizzare uno Stato contrassegnato dalla volontà di potenza, esattamente all’opposto dell’ “Italietta meschina e pacifista” di quegli anni. Questo accadeva in Italia e in parte anche tra i triestini. Vanno però citate alcune cifre. Gli irredentisti che indossarono la divisa dell’esercito di Vittorio Emanuele terzo, rischiando il capestro se catturati, furono 600. Mille i concittadini riparati in Italia; molti quelli rinchiusi nei campi di internamento austriaci. Oberhollabrunn, e Bruck and der Mur per citarne solo due. Al contrario circa quarantamila triestini risposero alla chiamata alle armi dell’Imperatore Francesco Giuseppe. Era il 28 luglio 1914 e sui muri della città comparve il proclama redatto in nove lingue: “Ai miei popoli”. Un secondo proclama fu affisso il 23 maggio 1915, quando l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria. “Il re d’Italia mi ha dichiarato guerra. Un tradimento di cui la Storia non conosce uguale è stato commesso dal regno d’Italia contro i suoi due alleati. Dopo un’alleanza durata oltre trent’anni l’Italia ci ha abbandonati nell’ora del pericolo per passare, a bandiera spiegata, nel campo nemico. Noi non abbiamo minacciato l’Italia, non ne abbiamo sminuito la considerazione, né tantomeno l’onore e gli interessi…” Anche questo proclama portava la firma dell’anziano e stanco imperatore la cui figura simboleggiava tristemente il signorile declino dell’Impero, le cui glorie riposavano ormai su antichi ricordi e negli ordinati scaffali di una mastodontica burocrazia. A Trieste in anni anche recenti ha imperversato non solo sulla copertina di un libro ma anche sul palcoscenico dei teatri e sulle pagine dei giornali la frase “l’Austria era un Paese ordinato”. Uno dei miti, uno degli slogan con cui siamo costretti a fare i conti anche se l’Austria descritta in quei libri e in quei copioni teatrali oggi non esiste più. Esiste solo nella memoria e alimenta attese deluse ma per questo inossidabili. Per smentire quell’ordine divenuto mito basta citare quando accade in città nei giorni radiosi del maggio 1915. Furono assaltate e bruciate la redazione e la tipografia del Piccolo. Stessa sorte per la palestra e la sede della Ginnastica triestina. Fu devastato il caffe San Marco e altri locali frequentati da irredentisti. Fatta a pezzi anche la statua di Giuseppe Verdi. La forza pubblica stette a guardare. Una cronaca precisa di quanto avvenne ci è stata regalata una dozzina di anni fa da una ricerca dello storico Lucio Fabi pubblicata nel libro “Trieste 1914-1918, una città in guerra” edito da Mgs. Testimone diretto degli incendi, delle devastazioni e dei furti compiuti dalla folla, fu un gruppo di scolare della Quinta A femminile della scuola di via dell’Istria. Mario Isnenghi nella prefazione di quel libro loda l’autore e la maestra che quasi un secolo fa fece scrivere di quei tumulti alle sue alunne “in presa diretta”. In lingua italiana e senza alcun distinguo o critica per quanto era appena accaduto nelle strade di Trieste.




70 - Osservatorio Balcani 19/11/13 Il Montenegro di Njegoš

Il Montenegro di Njegoš

Božidar Stanišić

A 200 anni dalla nascita di Petar II Petrović Njegoš (1 novembre 1813 – 31 ottobre 1851), poeta, vescovo e sovrano del Montenegro, uno sguardo su uno dei protagonisti della letteratura slavo meridionale
Per avvicinarsi alla complessa figura di Njegoš bisognerebbe allontanarsi da tutte le versioni sulla “verità” del suo ruolo politico, militare ed ecclesiastico, soprattutto da quelle proposte nell’ultimo ventennio. Innanzitutto, ci vorrebbe una lettura attenta de Il serto della montagna e de Il raggio del microcosmo, due lunghi poemi entrambi disponibili in lingua italiana.
Il primo esprime il dramma di un piccolo popolo che, stretto tra le grandi potenze – in primis l’Impero Ottomano, per il quale quella piccola isola di terra libera rappresentava un disturbo continuo, poi l’Austria e la Russia - e i problemi tribali interni, lottava per la propria sopravvivenza.
Il secondo poema è una riflessione filosofica, religiosa e poetica sull’esistenza terrena e su Dio, in particolare sulle complesse relazioni fra il male e il bene e sul senso della poesia.
Poi, si potrebbero visitare quelle parti del Montenegro antico che, guidato dai sovrani della stirpe dei Petrović, faticosamente ma con incredibile tenacia militare e saggezza politica riuscì a navigare libero nelle acque dominate dalle grandi potenze di allora.
Infine, bisognerebbe andare là dove ancora ci sono dei montenegrini che conoscono a memoria Il serto della montagna, poema tanto glorificato da parte serba e montenegrina (spesso al di fuori di ogni realistica considerazione sulla storia e la letteratura), quanto negato e accusato dai musulmani bosniaci in quanto fonte del nazionalismo panserbo e invito alla pulizia etnica e al genocidio degli anni novanta.
Là significa anzitutto la cittadina di Cetinje e i suoi dintorni, il lago di Scutari, la montagna Lovćen.

La vita di Njegoš
Sono passati molti anni dall’estate del 1978, l’anno del mio primo viaggio in Montenegro. Le poesie riflessive di Njegoš erano uno degli argomenti della mia tesi di laurea sul romanticismo serbo. Božidar Pejović (1940-1979), il mio professore alla Facoltà di filosofia di Sarajevo, originario del Montenegro – ancor oggi mi sembra che questa persona mite, dallo sguardo profondo sulla letteratura, sapesse tutto su Njegoš - una volta mi disse che è vero, anzi verissimo, che il poeta sta soprattutto nella sua opera. È là che dobbiamo cercarlo. Però, diceva il professore, c’è qualcosa che si respira anche nell’ambiente in cui l’opera è nata. Quel respiro, nel caso di Njegoš, è paragonabile a quello di Weimar, della casa di Goethe. Con una differenza: è difficile trovare un tedesco che conosca il Faust a memoria!
A Njeguši, villaggio nativo di Njegoš, poi a Cetinje, antica capitale del Montenegro, a Rijeka Crnojevića e in altri paesini sul lago di Scutari, incontrando persone per cui Njegoš è semplicemente Vladika (il vescovo) oppure Rade Tomov (Rade, figlio di Tomo) mi accorgevo di quanto fosse vivo il poeta Njegoš e quanto la sua vita fosse incisa nella memoria della gente.
Da un'osteria nelle vicinanze della casa natale di Vladika, a Njeguši, dove il prosciutto che porta il nome del villaggio viene tagliato a fette spesse come un dito e viene servito un vino denso come sciroppo, a Cetinje e Lovćen, dove la vetta Jezersko (1660 m) è dominata dal Mausoleo del poeta, il viaggiatore, non importa quanto informato sulla vita di questo grande personaggio, può ascoltare un unico racconto dal titolo “La vita di Njegoš”.
Alcune domande fatte dai paesani si incidono nella memoria: “Sapete che Rade Tomov, nipote di Petar I Petrović, aveva solo diciassette anni compiuti quando, nel 1830, dovette prendere il trono del sovrano e la tonaca di vescovo, in tempi difficili per il nostro paese?”; “Sapete quanto era colto, che conoscenza aveva della filosofia greca?”; “Sapete che non era facile governare un paese come il nostro, diviso in tribù litigiose, e che una volta disse: 'Io sono sovrano fra i barbari, e barbaro fra i sovrani'?”; “Sapete quanto ci voleva bene, tanto da vendere a Trieste la medaglia con cui era stato decorato da Metternich, principe austriaco, per comprare del grano per il popolo affamato?”; “Sapete che a Roma, nella chiesa che custodisce le catene di San Pietro, a proposito dell’usanza di baciarle disse: 'I montenegrini non baciano catene'?”; “Sapete che, costruita la cappella sulla vetta Jezersko, disse ad alcuni collaboratori: 'Mi seppellirete qui', e loro, perplessi, gli dissero che la vetta più alta era lo Štirovnik (1749 m), ma Vladika rispose che là avrebbero potuto seppellire qualcuno più grande di lui?”.
Una vecchia di Cetinje, toccandosi con le dita la fronte, mi disse infine: “Era più grande di tutti noi, e non solo per la sua statura di gigante…”

I funerali di Njegoš
All’inizio degli anni settanta, in Jugoslavia, si era acceso il dibattito sulla costruzione del Mausoleo. Il potere comunista montenegrino, appoggiato da Tito in persona, voleva l’abbattimento della chiesa sulla vetta Jezersko, certamente troppo cristiana. Fra i contrari c’erano nomi celebri come Miroslav Krleža e Meša Selimović. Il secondo, in particolare, rifiutò seccamente anche di partecipare al comitato per la costruzione del Mausoleo, basato sul progetto del grande scultore croato Ivan Meštrović. Secondo Selimović si trattava di un’opera inutilmente faraonica e offensiva nei riguardi dell’ultimo desiderio del grande poeta. Viene ancora ricordato il gesto di un uomo di Bijelo Polje, di nome Iso Mahmutović, capocantiere di una ditta edile di Titograd (l'attuale Podgorica), che rifiutò l’ordine di abbattere la chiesetta dicendo: “Io non distruggo le cose sante di nessuno”. Si era licenziato, poi era andato a lavorare in Germania. E con lui rifiutò gli ordini un intero gruppo di operai, tutti musulmani, fra cui c'erano anche alcuni albanesi originari di Plav e Gusinje.
Beato colui che vive per sempre /
aveva ragione di essere nato…
I versi di Njegoš de Il serto della montagna, inseriti nel contesto della sua ultima sepoltura, in realtà la settima, risuonano a questo punto ironicamente e potrebbero essere riletti. Qualcuno vive davvero per sempre, ma le sue ossa di tanto in tanto vengono disturbate.
Nel lontano 1851, Vladika fu sepolto a tempo determinato nel Monastero di Cetinje, vicino a Biljarda, la sua residenza. Nel 1854 fu trasferito nella antica cappella sulla cima Jezersko. Nel 1916 il comando dell’esercito austriaco ne ordinò la riesumazione e il segreto trasferimento nel Monastero di Cetinje. Nel 1925 le ossa di Njegoš (la cui salvezza si deve ad un soldato serbo al servizio dell’esercito austriaco) vengono nuovamente sepolte in una nuova chiesa, edificata al posto di quella vecchia distrutta durante la guerra dai cannoni austriaci delle Bocche di Cattaro. Nelle cronache ritorna un luogo comune: la nuova chiesa di Lovćen era stata costruita perché voluta dal re Aksandar Karadjordjević, ma in realtà il re avrebbe voluto anche il Mausoleo, quindi l’opera dello stesso Meštrović da tempo avrebbe goduto anche dell’appoggio della corte serba. L’arcivescovo Gavrilo Dožić, però, si era opposto alla volontà del re minacciando le dimissioni. Nel 1972 infine, nel momento dell’abbattimento della chiesa, quelle ossa furono nuovamente esumate e nel 1974 di nuovo seppellite. Se il viaggiatore si fermasse a Ivanova Korita, non lontano da Cetinje, potrebbe notare un mucchio di pietre lavorate coperte di erba e terra: sono di quella chiesa del 1925.
Il Njegoš di Ivo Andrić
Sulla vita e l’opera di Njegoš sono stati scritti numerosi libri, frutto di profonde ricerche storiche, biografiche e letterarie. Nessuno come Ivo Andrić, però, è riuscito a realizzare una sintesi degli sguardi sulla molteplice figura di Petar II Petrović Njegoš, sul suo dramma personale vissuto fra le diverse vocazioni governative, religiose e poetiche. Fra i nove saggi di Andrić scritti sul grande poeta nell’arco di quattro decenni, spicca quello del 1935, Njegoš come eroe tragico del pensiero del Kosovo (il testo non è tradotto in italiano).
Scritta nel periodo in cui il mito romantico del Kosovo, che per la generazione di Andrić era una delle basi dell’idea di liberazione e indipendenza degli slavi meridionali, veniva deviato dai nazionalisti serbi di allora, l'opera sembra attuale anche oggi. Questo saggio non è apoteosi, né conferma dei luoghi comuni della leggenda del Kosovo; è un prodotto dello sguardo di Andrić su Njegoš e sulla sua figura di poeta diviso fra l’impegno politico e militare da un lato e la poesia dall’altro. Pure qui Andrić è Andrić – spietato nelle rivelazioni dei fatti dell’epoca e decisivo nella scelta delle fonti, tra le quali spicca la corrispondenza diplomatica di Vladika, i viaggi in Europa e i ricordi delle persone a lui più vicine.
Dio e Kosovo
Cosciente delle difficoltà di avvicinarsi a Njegoš, Andrić ricorda che ne Il serto della montagna sono due le parole più frequenti: Dio e Kosovo. Njegoš spesso incominciava con questa frase la sua corrispondenza con i russi e con i turchi: “Dal crollo del nostro regno”. Quel regno è serbo, un ramo del quale, secondo Njegoš, “non abbattuto allora dai turchi ha lasciato le terre dei propri avi e alla fine della fuga ha trovato rifugio in queste montagne”.
“Nessuno”, scrive Andrić “ha capito meglio di Alipaša Stočević, visir di Erzegovina, uomo saggio e sfortunato, chi è Njegoš, quando ha detto una verità semplice e profonda: ‘Giuro sulla fede, lui è il vero principe serbo del Kosovo’. Questo ritratto di Njegoš, però, è fatto anche di sfumature che rivelano il suo dramma individuale, non privo di dubbi e debolezze. Innanzitutto, la vocazione ecclesiastica non era mai entrata nel suo spirito. Una volta disse: “E’ più facile essere vescovo che uomo”.
Nel saggio di Andrić viene citata anche l’opera Lettere dall’Italia, dello scrittore serbo Ljuba Nenadović (1826-1895), in cui è descritto il secondo viaggio di Njegoš in Italia, già gravemente ammalato dalla tubercolosi e “fosco come Byron”. In un dettaglio di straordinaria bellezza viene descritto Njegoš davanti al ritratto di Gesù dipinto da Raffaello, in un altro la sua passeggiata fino all’ultimo livello del Colosseo, “dove si era fermato finché il sole non tramontò e aspettammo le stelle”.
E’ vero: il Njegoš di Andrić è soprattutto l’uomo combattente, cosciente sia della propria posizione nei confronti della potenza da sempre minacciosa, l’Impero Ottomano, che delle relazioni complesse con l’Austria e la Russia. Il suo aut aut, drammaticamente sottolineato nei versi de Il serto della montagna: “La croce e la mezzaluna, due simboli terribili / sopra le tombe regnano”, proviene dall’uomo cosciente della dolorosa questione della sopravvivenza di fronte al pericolo ottomano. Nella sua esclamazione “che accada ciò che non può essere” ha sintetizzato ciò che da Andrić viene collegato alla storia antica di un piccolo popolo da secoli allontanato dalle correnti culturali europee.
Purtroppo, però, Njegoš è da anni “spiegato” prevalentemente da coloro che strumentalizzano la sua figura, che proiettano il suo impegno politico e militare nei tempi odierni non rendendo conto né delle circostanze del passato, né della sostanza del suo messaggio umano e poetico.








71 – La Voce del Popolo 23/10/13 Cultura - Venezia - Canaletto come 270 anni fa torna dove creò il suo capolavoro - Esperienza esclusiva
Canaletto come 270 anni fa torna dove creò il suo capolavoro

Ilaria Rocchi
Quali sensazioni provava Giovanni Antonio Canal, detto Canaletto (1697 – 1768), osservando quello scorcio preciso del Canal Grande, illuminato da un cielo di azzurro oltremare, che si specchia su un’acqua verde turchino carica di rifrangenze di luce e di colore? Si stacca su tutto la Basilica di Santa Maria della Salute, barocca meraviglia di marmo bianco, progettata da Baldassare Longhena – con attenzione ai modelli del Palladio – come ex voto della città dopo l’ennesima pestilenza; più in là i Magazzini del Sale e la Punta della Dogana e, sull’altra sponda, Palazzo Ducale e Riva degli Schiavoni...; appare una città brulicante di vita, incontri, attività commerciali, nobiluomini e mercanti, gondole del Bacino di San Marco, barche, passanti di cui si riescono a percepire persino le fatture dei vestiti.
È Venezia, la Serenissima, la Dominante, la Capitale, eterna e affascinante, celebrata dalle opere di pittori e letterati. Nel XVIII secolo è stata oggetto di scelta per i vedutisti e Canaletto è stato l’ultimo maestro a essere riuscito a immortalare il suo fascino e l’eleganza settecenteschi, ritraendo gli angoli più appartati, oppure deformando le angolazioni delle vedute più celebri, per aumentarne la singolarità e la spettacolarità.
Il progetto «Gero qua»
Rivivere almeno un pizzico di quelle atmosfere di 270 anni fa sarà possibile grazie a un evento esclusivo, che consentirà di ammirare il capolavoro di Canaletto, una delle sue vedute più belle, “L’entrata nel Canal Grande dalla Basilica della Salute”, esattamente nel luogo dov’era stata ideata e creata, nell’incantevole loggiato dal quale egli, con la camera ottica, trasse le precise linee delle architetture che tra il 1740 e il 1745 traspose nella sua monumentale tela. Il dipinto sarà esposto proprio nella sala ad angolo dell’Abbazia di San Gregorio, situata all’ingresso del Canal Grande, con modalità mai prima sperimentate in Europa, per i quasi cinquanta giorni di esposizione.
È “Gero qua Canaletto” (ossia ero qui in dialetto veneziano), la mostra che avrà luogo a Venezia dal 10 novembre al 27 dicembre (supportata da Fondaco srl di Enrico Bressan e Giovanna Zabotti), in una location unica: l’Abbazia di San Gregorio, un edificio insolito e complesso, a lungo dimora dei monaci benedettini, ma che ha anche ospitato la Raffineria Pubblica dell’Oro della zecca veneziana, ed è stata intaccata durante le peripezie della guerra. È stata poi la famiglia Buziol ad acquistarla e restaurarla. “Più che una mostra, ‘Gero qua Canaletto’ vuol essere soprattutto un’esperienza emozionale”, afferma sul “Gazzettino Nordest” Enrico Bressan, presidente di Fondaco, società impegnata nella valorizzazione del patrimonio artistico-storico a Venezia, colui che ha realizzato il progetto espositivo, in cantiere da oltre due anni. Era infatti dal 2010 che la famiglia Buziol meditava di riportare il Canaletto a Venezia: la miccia fu la mostra londinese alla National Gallery “Canaletto e i suoi rivali”, dove Silvia e Giampaolo Buziol riconobbero la veduta particolarmente familiare, quella appunto dalla finestra dell’Abbazia.
Sintesi assoluta ed emblematica
Il Canaletto realizzò tre analoghe vedute, di cui una è di proprietà delle Collezioni Reali della Regina Elisabetta d’Inghilterra. Questa che sarà visitabile a Venezia, “L’entrata nel Canal Grande dalla Basilica della Salute”, è di proprietà della famiglia Terruzzi e finora è stata poco esposta. Prima di ritornare temporaneamente “a casa sua”, l’olio era stato proposto alla mostra “Old Masters from Wiltshire Houses” a Salisbury nel 1936, e, con l’attuale provenienza, a Madrid (Museo Thyssen-Bornemisza), Roma (Vittoriano), Milano (Palazzo Reale) e Parigi (Museo Maillol).

Canaletto affronta meglio di ogni altro una problematica comune a tutti i pittori di veduta: abbracciare con un solo sguardo ciò che l’occhio non riesce a comprendere. E questo olio ne rappresenta una sintesi assoluta ed emblematica che si riflette in una composizione estremamente armonica e unitaria. Il punto di ripresa adottato qui da Canaletto è tra quelli da lui più amati e rappresentati in più varianti e angolature diverse: la prima volta a noi nota nella tela databile 1722-23 (ora Dresda, Gemäldegalerie), probabilmente acquistata direttamente dal conte Johann Joseph von Wallestein (1684 – 1731) proprietario del Castello di Dux (o Duchcov) in Boemia, dove Casanova passò gli ultimi anni della sua vita. Il nipote ed erede di questi, Franz Joseph Georg, nel 1741 vendette 268 delle proprie 350 tele ad Augusto III, re di Polonia, Elettore di Sassonia, tra cui “due prospettive veneziane di Canaletto”. Una seconda versione cronologicamente intermedia venne eseguita per Joseph Smith intorno al 1730 (ora Windsor, Collezioni Reali).

Confronto tra passato e presente
Il taglio della veduta, ripresa con le spalle al Canal Grande e lo sguardo rivolto verso il Bacino di San Marco, è uno dei più scenografici concepiti dall’artista in quanto consente la costruzione di un’apertura spaziale amplissima, che si avvale, sulla destra, di una quinta teatrale ammaliante com’è il magniloquente tempio del Longhena.
Escludendo una parallela quinta speculare a sinistra, il Canaletto evoca un ampliamento dello spazio che parrebbe quasi dilatarsi ad libitum, in una luminosità ricca di bagliori metallici, che si rifrange nella cesura architettonica dell’orizzonte, diaframma ideale tra laguna e cielo: in questo orizzonte ricco di una miriade di dettagli architettonici, si inserisce tutto un mondo di vita quotidiana che umanizza la scena, la contestualizza e ravviva con quella capacità unica dell’artista di creare un “fermo immagine” che rende anche il minimo particolare protagonista del racconto.
Dai suggestivi spazi della medievale Abbazia di San Gregorio – da anni chiusi al pubblico –, si avrà dunque la possibilità di compiere un raffronto tra la tela e l’odierno spazio urbano, tra storia e contemporaneità – non troppo cambiata dal punto di vista architettonico, dove alle gondole si sono affiancati vaporetti e ci sono due campanili che prima non esistevano – e, perché no, tra irreale e reale.
Esperienza esclusiva
Scritto da Redazione
Un evento non proprio alla portata di tutti. Esclusivo. Infatti, sarà piuttosto elevato il prezzo da pagare per poter vivere la magia del luogo, ammirare quel preciso scorcio immortalato dal Canaletto, resistito allo scorrere dei secoli, affacciati alla finestra dalla quale l’artista osservò lo scorcio del Canal Grande, con le sue gondole e il marmo bianco della Basilica della Salute.

Il costo del biglietto d’ingresso arriva a quota 400 euro per un’emozione da consumare in perfetta solitudine, durante la notte, e scende a 280 euro per la tappa solitaria nelle ore diurne. In compagnia i costi del ticket si riducono sensibilmente: 50 a testa per un gruppo di otto persone – il massimo previsto – in notturna, rispettivamente 35 durante il giorno. In ogni caso, l’esperienza potrà durare un’ora al massimo, e si potrà partecipare a “Gero qua Canaletto” solo prenotando sul sito ufficiale (www.canalettovenezia.it).
Va anche detto che l’Abbazia sarà aperta 24 ore su 24. Inoltre, a seconda dell’orario di visita, verrà offerta una consumazione (caffè, tè, bibita, ecc.); all’uscita, a ogni visitatore verrà consegnata una foto celebrativa dell’evento riprodotta su cartoncino. L’opera e l’artista verranno introdotti da “Point of view”, film d’autore di Francesco Patierno; nella sala adiacente verrà proiettato un filmato curato da Maurizio Calvesi, con una tecnica innovativa in altissima definizione, che proporrà una lettura inedita e dettagliatissima dell’opera.
Aggiungiamo che il primo proprietario del dipinto fu Lady Lucas and Dingwall; la tela venne acquistata successivamente da Henry Grey, Duca di Kent; nell’aprile del 1970, passando da Sotheby’s a Londra, finì nelle mani di Angelo Guido Terruzzi.



72 -  East Journal 01/12/13  Armenia: La vita e la morte ai piedi dell’ Ararat, la montagna del mistero

ARMENIA: La vita e la morte ai piedi dell’ Ararat, la montagna del mistero

Luca Vasconi  

Nel 2010, di ritorno dalle mie lunghe peripezie asiatiche, varcata la frontiera tra Iran e Turchia, impiegai del tempo e spesi notevoli energie nervose, nonostante le evidenti e immediate prove che le reflex digitali consentono di fornire, per convincere un “simpatico” ed egocentrico militare turco, materializzatosi dal nulla, che l’oggetto della mia foto non era lui, ma un soggetto di gran lunga più interessante: il monte Ararat.

Il mio sguardo si orientò, estasiato, verso l’alto, alla fine di una lunga pianura. Non fu certo una minuscola postazione militare, sapientemente mimetizzata tra gli arbusti, l’obiettivo del mio interesse e del mio scatto. Ma vallo a spiegare!

Con i suoi imponenti 5165 m s.l.m., la sua storia millenaria, il suo alone di sacralità, il monte Ararat domina il territorio circostante, con la forza attrattiva di un magnete gigante.
La sua presenza è forte: lo vedi, lo senti. Sei girato in direzione contraria? È fuori dalla tua visuale? Sai comunque che Lui è lì, lo percepisci. Tu osservi Lui. Lui osserva te. E non sei il solo. Ha osservato e vegliato su generazioni e generazioni di uomini, per secoli. Come ci si sente piccoli, al cospetto del monte Ararat!

Non che fossi digiuno di montagne: le Alpi sono casa mia, le splendide Dolomiti un vanto del mio paese; vivi i ricordi dei paesaggi mozzafiato delle Ande sudamericane, dalla Patagonia al Venezuela; fresche e scolpite nella mia memoria le immagini delle celebri vette della catena Himalayana, con i suoi maestosi ottomila. Montagne superbe, altezze anche superiori a quelle del monte Ararat. Paesaggi meravigliosi, per certi versi anche più suggestivi.

Ma Il monte Ararat è diverso, è un unicum: una montagna di cinquemila metri che si staglia, solitaria, nel bel mezzo di un territorio pianeggiante. Puoi vederne la figura per intero, dalla base fino alle cime perennemente innevate, in tutta la sua imponenza.

Puoi viaggiare per chilometri e chilometri, varcando le frontiere di tre stati: Iran, Turchia ed Armenia e lui è sempre lì, imperterrito, a tenerti compagnia.
Il fascino che l’Ararat suscitò in me fu immediato. Ne fui colpito. Ma non era quello il tempo per una conoscenza approfondita. La sua vista lentamente svanì. Continuai in direzione di Van, per tuffarmi nel cuore del Kurdistan turco.

Una foto non bella, salvata dalle grinfie del vanitoso militare turco, rimase a ricordo della mia immediata infatuazione con questa montagna.

Fu il viaggio in Armenia, a cavallo tra febbraio e marzo del 2013, a farmi comprendere quanto quelle prime sensazioni fossero esatte: l’amore per l’Ararat riesplose fulmineo. Fu una presenza costante nel piacevole periodo trascorso nel paese del Caucaso.

Un’emozione provata in passato solo al cospetto dei miei adorati vulcani: l’Etna, lo Stromboli, il Vesuvio, i vulcani dell’Indonesia. Elementi naturali potenti, capaci di influenzare tutto l’ambiente circostante, la vita e il carattere delle persone che abitano nei dintorni. Anche l’Ararat è un monte di origine vulcanica. Non è più attivo da secoli, d’accordo (l’ultima eruzione risale all'età del bronzo), ma la sua presenza è viva, palpabile.

Nelle giornate di sole è ben visibile dalla capitale Yerevan; domina incontrastato sulla città di Artashat; dallo splendido monastero di Khor Virap ti sembra addirittura di poterlo toccare.

Una vicina, sottile e beffarda linea di confine lo rende irraggiungibile agli armeni: Il monte è in territorio turco. La frontiera tra i due paesi è chiusa, a causa delle irrisolte tensioni storico-politiche tra Turchia e Armenia.

“Vedere ma non potere”: un ulteriore motivo di fascino per me, una spina conficcata nel cuore di ogni armeno.

Uno dei luoghi più importanti, simbolici ed evocativi per la storia armena, il Memoriale per le vittime del Genocidio Armeno del 1915, nella capitale Yerevan, gode di una splendida, ma allo stesso tempo “crudele”, vista sul monte Ararat.

Una frontiera distante pochi chilometri ma invalicabile, protetta da imponenti fortificazioni militari, spezza il sogno di poter raggiungere il monte, situato in una terra storicamente appartenente all'Armenia, che gli armeni rivendicano come propria. Vedere la “loro” Montagna Sacra nelle mani dei turchi, che tanta sofferenza nel corso del ‘900 hanno inferto al loro popolo, è fonte di rabbia e dolore.

Ogni singolo armeno, da coloro che vivono nel paese, alle milioni di persone che, a causa della diaspora armena, vivono in Europa, negli Usa e sparsi per il mondo, sente “suo” questo monte.

Il nome “Ararat” in lingua armena significa “luogo creato da Dio”. In lingua turca, per ironia della sorte, “montagna del dolore”, il sentimento provato dagli armeni al di là del confine.

La montagna ha una grande valenza simbolica e religiosa, ancor più in un paese come l’Armenia, che fu il primo paese al mondo ad adottare grazie a San Gregorio Illuminatore, nell'anno 301, il Cristianesimo come religione di stato, precedendo di pochi decenni l’impero romano.

Secondo la Bibbia, Noè giunse sulla cima dell’Ararat quando il diluvio universale, scatenato da Dio per punire gli uomini, ebbe finalmente termine dopo cinque lunghi mesi. La leggenda vuole che l’Arca riposi tra i ghiacci delle sue alte vette.

Elementi religiosi e leggende hanno contribuito a render ancor più grande l’aura di mistero che circonda questa montagna.

A partire dal XIX secolo, numerose spedizioni si sono avventurate, senza successo, sulle sue cime innevate alla ricerca dell’Arca.

Misteriose foto aeree, scattate alla fine degli anni ’40, rivelano la presenza sulla cima del monte di uno strano oggetto che alcuni studiosi biblici sostengono esser i resti dell’Arca di Noè. L’oggetto misterioso è conosciuto sotto il nome di “anomalia dell’Ararat”, e ha dato adito a suggestivi dibattiti che, fino ad oggi, per la verità, non hanno trovato alcun riscontro oggettivo.

La zona al confine tra la Turchia e l’Armenia, un paese che fino a pochi anni fa faceva parte dell’impero sovietico, rivestì durante gli anni della guerra fredda un sensibile interesse strategico-militare. E’ tutt'oggi una zona fortemente militarizzata. Le autorità turche non consentono di raggiungere le vette del monte.

Nel 2004 una spedizione organizzata per risolvere il mistero dell’"anomalia dell’Ararat” fallì per mancanza di permessi: le autorità turche negarono la scalata alla vetta. Il mistero, protetto da “segreto militare”, può oggi dormire sonni tranquilli, aumentando il misticismo legato a questa vetta.

Nei giorni trascorsi in Armenia più volte mi recai nelle zone ai piedi del monte Ararat.

La visita al meraviglioso monastero di Khor Virap, rappresentato su ogni depliant e cartolina, fiore all'occhiello del turismo armeno, fu per me un’ottima scusa per perdermi nella pianura circostante e dedicarmi al mio principale interesse: il contatto con la gente del posto, le loro storie di vita.

Dove vai oggi? Le domande di Anna e Armen, gli accoglienti fratelli proprietari dell'Hostel Glide, la casa-famiglia in cui alloggiai a Yerevan. “anche oggi torno a Khor Virap”, la mia risposta, davanti alla succulenta colazione preparata dalla loro madre.“Di nuovo? ma non l’hai già visitato il monastero?”

C’è voluto poco tempo perché la famiglia Sargsyan iniziasse a conoscere “l’anomalo” viaggiatore che stavano ospitando: ai magnifici monasteri e alle altre attrazioni turistiche dell'Armenia dedicai qualche ora. Dedicai invece giorni al perdermi, in compagnia della mia reflex, nei campi, nelle piccole città e nei mercati della zona ai piedi dell' Ararat. Girovagai nei quartieri fatiscenti della città di Artashat e nelle strade fangose di Garni, tornando sempre entusiasta, con qualche foto in più e le mie piccole/grandi storie di vita.

“Buona giornata Luca, stasera ci racconterai le tue storie”, il loro saluto mattutino accompagnato dagli scodinzolii di Brinkley, il simpatico labrador della famiglia.

Tra le tante, ne racconterò una: curiosa, divertente, triste e folkloristica al tempo stesso. Uno di quei racconti che sembrano partoriti dal genio di Emir Kusturica, ambientata in Caucaso, anziché nei Balcani, nella quale la realtà si mischia, e a volte supera, la fantasia.

Mi aggiravo, in una fredda e soleggiata mattina di febbraio, nei pressi di un piccolo cimitero ai piedi del monastero di Khor Virap quando scorsi in lontananza un prete con intorno un capannello di gente. Mi avvicinai e osservai, in silenzio, la cerimonia funebre, ormai quasi giunta al termine. Un anziano signore si avvicinò, mi salutò e con con gentilezza mi presentò alle altre persone.
“Sei italiano? magnifico!” “Tu oggi sei nostro ospite amico, tu sei un italiano vero, e non puoi dir di no!” mi fu detto, in un discreto inglese.
Mi ritrovai, a distanza di dieci minuti, nella macchina di Nazeli e Azad, i figli dell’anziana donna deceduta, senza la più pallida idea di dove fossimo diretti.
Un fragoroso coro partì all'unisono in mio onore: “l'italiano”, Il tormentone anni '80 di Toto Cutugno, fece tremare i vetri della vettura: “ lasciatemi cantare con la chitarra in mano, lasciatemi cantare una canzone piano piano...perché sono un italiano, un italiano vero!”. Io ne conoscevo solo il ritornello, loro ogni singola parola, in perfetto italiano!
Passai le seguenti cinque ore a "festeggiare un funerale", in compagnia di un centinaio di persone mai viste prima. Mi misero a capotavola, davanti a un tavolo lunghissimo, inbandito di ogni ben di dio, cibo sufficiente a sfamare Noè e i suoi animali per tutti i cinque mesi del diluvio. Infiniti, toccanti brindisi ad alto tasso alcolico e popolari canzoni armene, in onore della deceduta, si alternarono a gioiosi brindisi inneggianti alla solenne amicizia tra Italia e Armenia, accompagnati dal repertorio completo delle canzoni di Pupo, Adriano Celentano, Al Bano & Romina Power e Toto Cutugno, in mio onore.

L’”innocuo” Festival di San Remo, negli anni ’80, fu uno dei pochi “prodotti” dell’ occidente che riuscì a rompere il muro della censura, spopolando sulle televisioni sovietiche. La conseguenza di questa storica, clamorosa apertura all'occidente è che ancora oggi, nei paesi dell’ex impero sovietico l’Italiano più famoso non sia Leonardo da Vinci, ma Pupo. “Gelato al cioccolato” batte, e di gran lunga, la Gioconda. Non vi sono dubbi.

Al cospetto dei mie ospiti mi sentii impreparato, per pessime qualità canore e scarsa conoscenza dei testi dei miei illustri compatrioti. Arrivai sul punto di pensare, Cutugno mi perdoni, di non esser un italiano vero.

La vodka lenì l’imbarazzo. La mia onorevole italianità fu presto ristabilita.

Il viaggio in Armenia terminò senza che riuscissi a svelare il mistero dell’anomalia dell’Ararat; lo zoom della mia Canon, purtroppo, non fu così potente da permettermi di passare alla gloria immortalando l’Arca.

Scoprii, in compenso, l’affascinante mistero dell’anomalia del funerale/festa ai piedi dell’Ararat, una tradizione da noi decisamente poco in voga, che fa riflettere sul diverso approccio culturale nei confronti della morte e sui diversi modi di esorcizzare il dolore.

Il reportage fotografico su questa mia ultima bizzarra esperienza, fatte salve un paio di foto miracolosamente non sfocate, è naufragato nella vodka. Gli eventi mi travolsero, vissi ogni attimo. Scattare sotto i fumi dell'alcol, con un bicchiere nella mano sinistra e un formaggio di capra armeno nella destra non sarebbe comunque stato facile, credetemi.

In compenso, da quel indimenticabile giorno, so con certezza come vorrei che il mio funerale fosse “festeggiato”: tra, mi auguro, una cinquantina d'anni, come colonna sonora della mia dipartita pensavo però a David Gilmour & Roger Waters. Al Bano & Romina mi scuseranno.




La Mailing List Histria ha il piacere di inviarVi la “Gazeta Istriana” sugli avvenimenti più importanti che interessano gli Esuli e le  C.I. dell' Istria, Fiume e Dalmazia, nonché le relazioni dell'Italia con la Croazia e Slovenia.
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it

MAILING LIST HISTRIA
RASSEGNA STAMPA SETTIMANALE
A CURA DI MARIA RITA COSLIANI, EUFEMIA GIULIANA BUDICIN E STEFANO BOMBARDIERI

 N. 899 – 21 Dicembre 2013
    
Sommario


591 - Mailing List Histria Notizie –  21/12/13  Rassegna Stampa 2013 ML Histria
592 - Il Piccolo 18/12/13  Restituzione dei beni agli esuli, Zagabria accelera (Andrea Marsanich)
593 - La Voce del Popolo 20/12/13 Pola -Sulla strage di Vergarolla disponibilità a indagare
594 - La Nuova Voce Giuliana 01/12/13 Dar voce alle tante anime degli esuli (Carmen Palazzolo Debianchi)
595 - Corriere della Sera 17/12/13 Roma:  Simone Cristicchi, musical nel "Magazzino 18" (Laura Martellini)
596 - Il Piccolo 15/12/13 Rinasce la tratta ferroviaria Pola-Lubiana (p.r.)
597 - Il Piccolo 15/12/13 «Metropolitana leggera da Trieste a Capodistria» (Ugo Salvini)
598 - La Nuova Voce Giuliana 01/12/13 I giovani alla conoscenza della storia dell'Istria
599 - La Voce in più Dalmazia 14/12/13 Storia - Lo studioso Monzali: «In Dalmazia si sviluppò una specifica cultura italiana»
600 - La Voce in più Dalmazia 14/12/13 L'amica e gloriosa Cattaro rivive in una guida trilingue (Ilaria Rocchi)
601 - Il Piccolo 17/12/13 Il Libro -  Ma i triestini nel 1914 andavano tutti al mare aspettando la guerra (Pietro Spirito)  
602 - Il Piccolo 19/12/13 Lubiana vuole una parte del “tesoro” di Tito (Stefano Giantin)
603 -  East Journal 18/12/13 Allargamento UE: promossi Serbia e Montenegro, rimandate Albania e Macedonia (Davide Denti)



Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arcipelagoadriatico.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.arenadipola.it/


591 – Mailing List Histria Notizie –  21/12/13  Rassegna Stampa 2013 ML Histria

Rassegna Stampa 2013 ML Histria

Anche quest’anno abbiamo raggiunto 250 destinatari legati al mondo e alle vicende istriano, fiumano e dalmate.
La Rassegna Stampa ML Histria ha contenuto 600 articoli tratti da quotidiani e riviste. Un ringraziamento a tutti gli amici e Associazioni che ci hanno segnalato le ultimi recensioni d’attualità.  Anche nel nuovo anno proseguirà questa nostra quasi scommessa iniziata nel 2002, sarà il nostro quattordicesimo anno .

Un Buon Natale e Felice Anno nuovo a tutti voi ad alle vostre famiglie
Eufemia G.Budicin – M.Rita Cosliani – Stefano Bombardieri



592 - Il Piccolo 18/12/13  Restituzione dei beni agli esuli, Zagabria accelera
Restituzione dei beni agli esuli, Zagabria accelera

di Andrea Marsanich

ZAGABRIA. La Croazia preme sull’acceleratore in materia di restituzione ai cittadini stranieri dei beni nazionalizzati o confiscati dal regime comunista di Tito. La conferma che qualcosa si stia muovendo dopo lunghi anni di immobilismo è arrivata dal recente incontro a Zagabria tra il presidente del Sabor (il parlamento croato), Josip Leko, e la sua collega austriaca Barbara Prammer. Dopo il colloquio a quattr’occhi, c’è stata una conferenza stampa in cui la Prammer ha rilevato come Vienna guardi con particolare attenzione a questo tema. «L’importante – ha detto la presidente del parlamento austriaco – è che la restituzione delle proprietà ai legittimi proprietari sia fatta in modo leale e corretto, senza alcuna discriminazione». A tale proposito Leko ha comunicato che sono in via di stesura a Zagabria le modifiche alla legge sul risarcimento dei beni nazionalizzati o confiscati all’epoca della Jugoslavia.
Niente discriminazioni, insomma, nei riguardi dei cittadini d’oltreconfine, di coloro che non possiedono la “domovniza”, il certificato di cittadinanza croata. La nuova legge, che dovrebbe essere approvata dal Sabor, sfonderà comunque una porta aperta poiché alla fine degli anni Novanta del secolo scorso la Corte costituzionale croata emanò una sentenza di portata storica, che ordinava al parlamento di Zagabria di emendare la relativa legge, onde permettere agli stranieri di riottenere i propri beni, oppure, in seconda battuta, di poter contare su un risarcimento. C’è un piccolo ma importante distinguo: la Croazia ha fatto sapere più volte che la restituzione potrà riguardare esclusivamente quei casi non coperti da trattati bilaterali. Come noto, decenni fa l’allora Jugoslavia e l’Italia firmarono il trattato in parola e dunque Zagabria si muoverà nei confronti di Roma ispirandosi al principio del “pacta sunt servanda”, ovvero i patti devono essere rispettati.
In base ai dati di alcuni mesi fa, che riguardano le pratiche inoltrate dal 1991, anno in cui la Croazia ottenne l’indipendenza da Belgrado, sono 4211 i cittadini stranieri che hanno avviato l’iter di restituzione dei loro averi nazionalizzati o confiscati. Gli italiani risultano al primo posto, con 1034 richieste, mentre gli austriaci (676 domande) occupano la seconda posizione. Seguono le richieste israeliane, che sono 175, e poi quelle statunitensi, slovene e via elencando. La richiesta di restituzione potrà riguardare gli ex titolari, come pure gli eredi con diritto di successione di primo grado. Si tratta di figli, naturali o adottati, nipoti e pronipoti. Tre le ipotesi in gioco: restituzione, scambio con un altro immobile, risarcimento.






593 - La Voce del Popolo 20/12/13 Pola -Sulla strage di Vergarolla disponibilità a indagare
Sulla strage di Vergarolla disponibilità a indagare
 
ROMA | “Dopo decenni di silenzio qualcosa finalmente si sta muovendo per fare luce sulla morte violenta di decine di italiani a Pola nell’estate del 1946. Apprezzo la disponibilità della viceministro agli Esteri ad istituire con urgenza, come da me proposto insieme all’onorevole Ettore Rosato, una Commissione di esperti con il compito di chiarire le cause di una delle più gravi stragi di connazionali del dopoguerra”.

Lo dichiara Laura Garavini, deputata del Partito democratico eletta nella circoscrizione Europa, commentando la risposta del viceministro degli Esteri italiano, Marta Dassù, alla sua interrogazione sulla strage di Vergarolla.

“È molto positivo – continua la parlamentare Laura Garavini - che ci sia la disponibilità del ministero degli Esteri italiano a sostenere un progetto scientifico da finanziarsi sulla base della Convenzione triennale appena rinnovata fra il dicastero dei Beni e le Attività Culturali, quello degli Esteri, e la Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati.

Tale convenzione - aggiunge Laura Garavini, - include un piano di finanziamento triennale che ammonta a 6,5 milioni di euro. Dunque i soldi ci sono e la volontà politica pure. Adesso bisogna passare ai fatti, facendo tutto il possibile per scoprire la verità su questa tragedia. Lo dobbiamo – conclude la deputata del Partito democratico - alle vittime di Vergarolla e ai loro parenti”.

Laura Garavini, componente dell’ufficio di presidenza del Gruppo Pd alla Camera dei deputati, annunciando di recente l’interrogazione parlamentare presentata insieme all’onorevole Ettore Rosato, aveva rilevato che “a più di sessant’anni di distanza, i parenti delle vittime, assieme a tutto il Paese, hanno ancora il diritto di conoscere la verità”. Per tale motivo aveva chiesto alla Farnesina di istituire una commissione di esperti che approfondisse ulteriormente la dinamica della strage di Vergarolla, avvenuta nell’agosto del 1946, e il contesto in cui ebbe luogo”.

“Nell’agosto del 1946 – aveva sottolineato la parlamentare - un gran numero di persone erano radunate sulla spiaggia di Vergarolla, a Pola, per un evento sportivo, quando una terribile esplosione si sprigionò da alcune mine che si riteneva fossero disinnescate. Decine di uomini, donne e bambini rimasero uccisi e molti altri vennero feriti gravemente. Alcuni documenti rintracciati negli archivi inglesi, nonché testimonianze di sopravvissuti raccolte di recente farebbero ritenere verosimile l’ipotesi di un attentato terroristico organizzato dai servizi jugoslavi”. “Purtroppo, - aveva aggiunto la deputata - nel corso degli anni non si sono fatti passi sufficienti per accertare le cause di una delle peggiori stragi di connazionali del dopoguerra”.






594 - La Nuova Voce Giuliana 01/12/13 Dar voce alle tante anime degli esuli
Dar voce alle tante anime degli esuli

Ciò che è accaduto a Zara, a Fiume, in Dalmazia e nelle isole del Quarnero dopo l’occupa­zione titina non l’abbiamo dimenti­cato, non vogliamo dimenticarlo e vogliamo che tutto il mondo sappia e non dimentichi. Ma, ciò che è ac­caduto appartiene ormai alla sto­ria, alla quale va consegnato senza odio perché, come sta scritto all’A­ra Pacis Mundi di Medea: “L’odio provoca morte”.
Tuttavia, ciò che è accaduto ap­partiene anche alle persone pri­vate perché sono i nostri genitori, parenti, amici che sono stati perse­guitati, torturati, uccisi ed è un do­lore che possiamo tener racchiuso nel cuore o gridare al mondo inte­ro ma deve continuare a rimanere privato.
Si deve il più profondo rispetto a chi ha patito sulla propria pelle o ha visto i propri cari patire perse­cuzioni e morte; essi non possono dimenticare e nessuno ha il diritto di chiederglielo; e nessuno ha il di­ritto di chieder loro di perdonare. Si possono perdonare certe cose? Se sì, anche questo è un fatto per­sonale e privato.
Ci sono però delle considera­zione da fare, e cioè che quei fatti appartengono al passato e dobbia­mo trarne insegnamenti utili - co­me da ogni esperienza - per vivere meglio il presente e programmare meglio l’avvenire. Se rimaniamo fermi al pensiero di ciò che è ac­caduto e basta è la fine della vita o siamo in una situazione schizofre­nica in cui la vita, per certi aspet­ti, si è fermata a ciò che è accadu­to nel decennio 1943/54 e per altri, dopo l’esodo - che costituisce co­munque e sempre una cesura per l’esule - è continuata.
Sono passati sessant’anni e più da quei fatti e, benché essi siano stati devastanti, la vita deve ripren­dere il suo corso come accade do­po la perdita di una persona cara, dopo i terremoti, le alluvioni e al­tre calamità naturali che continua­mente portano sulla Terra distru­zione e morte, dopo le quali la vita continua e si ricostruisce.
Ma va ancora aggiunto - ed è importantissimo - che questo mo­do di sentire e ragionare, che va compreso e rispettato, appartiene a una parte e non a tutti gli esu­li e che anche chi ragiona diver­samente deve essere compreso e rispettato e si deve dargli il mo­do di esprimere le proprie idee al­trimenti cadiamo nell’intolleran­za, nella mancanza di democrazia, che proprio fra gli esuli non devo­no esistere altrimenti significa che non abbiamo capito che ciò che è accaduto è dovuto principalmen­te all’intolleranza. Questo atteg­giamento antidemocratico, piutto­sto comune fra gli esuli, continua a provocare spaccature ed è quin­di assolutamente negativo, come lo spirito critico che anima tanti nostri conterranei, sempre attenti a critica­re tutti e tutto e a cogliere ovunque ciò che è negativo più che ciò che è positivo.

Le intolleranze degli esuli resi­denti a Trieste mi sembrano inoltre poco rispettose nei confronti del­la città che li ha accolti e tuttora li ospita, per lunga tradizione polietni­ca, plurilingue, plurireligiosa.
Infine il “privato” non deve influire sui nostri comportamenti quando sediamo in un consiglio, parliamo o scriviamo a nome e per conto del mondo dell’esodo.
A questo proposito è emblemati­co il problema dei rapporti con i re­sidenti nelle nostre terre d’origine sia appartenenti alla minoranza italiana sia appartenenti alla maggioranza croata e slovena. Se vogliamo con­servare la cultura romano-veneta e italiana delle nostre terre è indispen­sabile avviare dei rapporti di colla­borazione con chi ora vi abita per fornire un corretto contributo nella programmazione delle attività cul­turali: mostre, pubblicazioni, spetta­coli folcloristici ed altro come lapidi e targhe, che spesso trasmettono in­formazioni errate e sulle quali, una volta attuate o incise nella pietra, ben poco si può fare oltre che pro­testare; ma le proteste non correggo­no gli sbagli, per errore o dolo inci­si nelle pietre o nella memoria delle persone. La comunicazione, cui può seguire la collaborazione, può inve­ce evitare gli errori e consentirci di perseguire l’obiettivo della corretta trasmissione della nostra storia al­le nuove generazioni e ai numerosi turisti provenienti dal mondo intero che durante l’estate vanno a godere il mare, il sole, la bellezza delle no­stre terre.
Esuli e rimasti italiani in pri­mo luogo devono comprendere che la collaborazione è un’esigenza per perseguire i suddetti obiettivi.

Carmen Palazzolo Debianchi







595 - Corriere della Sera 17/12/13 Roma:  Simone Cristicchi, musical nel "Magazzino 18"
Sala Umberto  - In scena stasera l'esodo degli italiani nel 1947
Simone Cristicchi, musical nel «Magazzino 18»
È come unaspecie di Ellis Island italiana. Gran parte dei reperti provengono da Pola
Tutto ha inizio al magazzino 18 di Trieste, dove ancora oggi sono ammassati oggetti d?ogni tipo: poltrone da barbiere, seggiole di legno, insegne di negozi, specchiere, attrezzi da lavoro, libri, ritratti. E foto, cumuli di immagini con i volti degli italiani d?Istria, Fiume e Dalmazia che all?indomani del trattato di pace del 1947 preferirono avventurarsi verso un?Italia affamata e diffidente, piuttosto che restare estranei nella Jugoslavia di Tito. Una terra che non riconoscevano più. Imballarono la loro vita e i loro sogni. Ma la speranza si tramutò presto in amarezza. «Mi sono inoltrato nel magazzino e mi si è aperto un mondo» ricorda Simone Cristicchi, avvezzo a ficcare il naso nella Storia, da stasera in scena alla Sala Umberto (via della Mercede 50, info: 06.6794753) con «Magazzino 18. L?esodo degli italiani cancellati dalla storia».In quel magazzino sono custodite ancora oggi masserizie abbandonate al momento dell?esodo, come se il tempo si fosse fermato a quei momenti, salvate dalla distruzione dall?Irci (Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata). «Una specie di Ellis Island italiana - racconta Cristicchi -. I reperti conservano il nome dei proprietari e provengono in gran parte da Pola, città evacuata al 90%. Preoccupati di sentirsi stranieri in casa loro, davanti a sé lo spettro delle foibe, quegli italiani speravano di trovare ospitalità ma vennero trattati come usurpatori. C?è una bella espressione usata da Montanelli, ?gli esuli fiumani, istriani e dalmati persero la guerra e anche la pace?».Materia delicata, già non mancano le polemiche dopo il debutto a Trieste e alcune repliche: «Ma a conferma della mia onestà intellettuale ce ne sono state da Sinistra e da Destra! Qualcuno s?è meravigliato che un artista cresciuto a Sinistra si mettesse a raccontare gli orrori del comunismo. Ma il nocciolo è un altro, le vicissitudini di persone semplici vittime della Storia». Lui solo in scena: «Cambio abito, pelle, voce, registro, calandomi ora in un ragazzo infoibato, ora nell?esule di uno dei tanti campi profughi che nacquero in Italia, ora in un prigioniero del lager comunista di Goli Otok, ora nella donna che sceglie di non partire. Molti finirono in manicomio, in seguito a quello strappo lacerante. Altri si suicidarono. I bambini nei campi morivano assiderati. Il richiamo all?attualità dei profughi che sbarcano sulle nostre è evidente, senza andarlo a cercare». Viene in mente Marco Paolini, quel suo teatro civile spoglio ma capace di scavare in profondità, anche davanti a temi scomodi: «Con l?aggiunta di alcune canzoni inedite il mio Magazzino è un musical civile. Il primo musical con un solo attore... Importante è la scenografia, ho scelto filmati d?epoca per avvicinarmi meglio a quel grumo storico inestricabile. E mi sono servito della collaborazione di chi ne sapeva più di me: il testo è scritto con Jan Bernas, la regia è di Antonio Calenda. In alcuni palcoscenici c?è anche l?orchestra. A Roma ci sarà sul palco una bambina». Come si esce dallo spettacolo? «È anche molto divertente, e il finale tende a una pacificazione. Ho scelto di mettere al mondo figli, non posso non guardare al futuro». «Magazzino 18» è anche un libro, in uscita il 4 febbraio per Mondadori. Il 10 febbraio la registrazione dello spettacolo andrà in onda in seconda serata su Raiuno.
Martellini Laura


596 - Il Piccolo 15/12/13 Rinasce la tratta ferroviaria Pola-Lubiana
Rinasce la tratta ferroviaria Pola-Lubiana

POLA A distanza di vent’anni riprendono oggi i collegamenti ferroviari giornalieri Pola-Lubiana. Dopo l’accordo tra le ferrovie slovene e quelle croate - come ai vecchi tempi della Jugoslavia, quando facevano parte della stessa realtà - il tragitto su rotaia è stato ripristinato. Un tempo il collegamento era diretto, ora sono previste due stazioni di cambio: per la precisione a Pinguente e a Divaccia. Un inconveniente, a quanto pare, attribuibile a difficoltà tecniche e organizzative che si spera vengano ben presto superate. Da Pola il treno partirà alle 13.20 con arrivo nella capitale slovena alle 17.52, mentre in senso inverso partenza alle 13.20 e arrivo alle 18.40. I due convogli quindi si incroceranno pressapoco a metà strada. Numerose le fermate in Istria: Pinguente, Nugla, Rozzo, Piana di Rozzo, Lupogliano, Colmo, Borutto, Cerreto, Novacchi,Heki, San Pietro in Selve, Gimino, Canfanaro, Smoljanci, Sanvincenti, Cabrunici, Jursici, Dignano, Gallesano e infine capolinea a Pola. Ma vediamo il prezzo del
biglietto: sola andata 26 euro, andata e ritorno 42 euro. Sconti sono previsti per turisti, pensionati, over 60, studenti, giovani sotto i 20 anni. La linea punta innanzitutto a “catturare” le persone ch si mettono in viaggio per motivi di lavoro, pendolari compresi, ma anche gli studenti e nel periodo estivo i villeggianti. Il nuovo collegamento è stato accolto con entusiasmo dalla Società per la collaborazione transfrontaliera croato-slovena. In questo modo, sostengono, l’Istria sarà «collegata direttamente alla rete ferroviaria europea e avrà un incremento negli scambi di merce e movimento di persone nelle aree confinarie, vista l’eliminazione della dogana in seguito all’entrata della Croazia nell’Ue». Grande soddisfazione anche da parte del ministero dei Trasporti dei due Paesi, dei parlamentari istriani e del presidente della Regione istriana Valter Flego.
Anche se difficilmente in questa fase si arriverà al movimento record di 900.000 passeggeri in Istria raggiunto nel 1985. All’epoca il trasporto su rotaia aveva i suoi vantaggi considerata la crisi petrolifera e la rete stradale alquanto obsoleta. Il treno “Arena” tra Pola e Lubiana, entrato in funzione nel 1970, era il mezzo di trasporto dei businessman con a bordo tutti i confort: vagoni climatizzati, stampa giornaliera, buffet incluso nel prezzo e belle hostess. Poi, come tante altre realtà, la linea venne soppressa a causa del confine, la manutenzione carente dell’infrastruttura ferroviaria e il miglioramento della rete stradale. Ora la ferrovia potrebbe conoscere una seconda giovinezza innanzitutto per un motivo di costi (una persona per andare da Pola a Lubiana in automobile spende più di 21 euro) e poi per il grande volume del traffico stradale in estate. (p.r.)




597 - Il Piccolo 15/12/13 «Metropolitana leggera da Trieste a Capodistria»
PROGETTO COMPLETATO

«Metropolitana leggera da Trieste a Capodistria»

Il progetto per la realizzazione, sul lato italiano, della rete di metropolitana leggera destinata a coprire l’area trasfrontaliera con la Slovenia è finalmente completo. Il documento, denominato “Adria A”, dopo lunghi mesi di studi e approfondimenti è stato presentato ieri ai numerosi partner nel corso di un incontro, svoltosi nella sede dell’Iniziativa centro europea, da parte di Carlo Fortuna, capo dell’Unità trasporti della stessa Ince. Nel testo si parla di “accessibilità e sviluppo per il rilancio dell’area dell’Adriatico interno”. Il progetto, che è costato 3 milioni e 200mila euro, è stato finanziato in parte dall’Unione europea e in parte da Italia e Slovenia, nell’ambito del Programma per la Cooperazione Transfrontaliera Italia-Slovenia 2007-2013 «e intende contribuire alla riorganizzazione dell’accessibilità e dei trasporti dell’intera area transfrontaliera italo-slovena – ha precisato Fortuna - con l’obiettivo di creare un’area metropolitana integrata». Nel dettaglio, nel documento si parla del collegamento fra Nova Gorica, Vrtojba e Gorizia e della linea Trieste-Koper, dell’adeguamento della galleria di cintura e connesse bretelle per consentire il traffico passeggeri, della riqualificazione della linea esistente Prosecco-Opicina-Confine di Stato. «L'obiettivo – ha ripreso Fortuna - e' quello di istituire una metropolitana leggera per collegare Trieste con Monfalcone, Capodistria e Nova Gorica e coi centri circostanti e ancora con Venezia attraverso il polo intermodale di Ronchi». Il progetto adesso passa all’esame delle autorità slovene, che si sono impegnate a esprimere un parere entro il prossimo marzo. «E’ importante arrivare alla conclusione dell’iter formale che riguarda il progetto – ha ripreso Fortuna – perché Rfi non intende investire sulla rete esistente se prima non si completa lo studio che dimostra la validità del progetto. Per arrivare a questo risultato – ha sottolineato - ci volevano supporti tecnici e analisi ambientali oltre che di domanda di traffico. Abbiamo effettuato anche indagini di mercato coi passeggeri degli aeroporti di Lubiana, Ronchi e Venezia. L’atto finale, presumibilmente nel 2015 – ha concluso il capo dell’Unità trasporti dell’Ince – sarà la gara indetta dalla Regione per vedere chi espleterà il servizio ferroviario in Friuli Venezia Giulia».

Ugo Salvini



598 - La Nuova Voce Giuliana 01/12/13 I giovani alla conoscenza della storia dell'Istria
I giovani alla conoscenza della storia dell'Istria

Salve a tutti, noi ragazzi del “Giovani Istriani” vorremmo presentarci spiegandovi innanzitutto come è nata l’idea di tale gruppo durante il penultimo giorno di viaggio dedicato alla scoperta dell’Istria: le premesse di tale iniziativa risiedono nel forte affiatamento e complicità creatisi tra di noi quasi da subito. A questo si aggiungono l’unanime impressione positiva relativa all’escursione e la volontà di rimanere in contatto tra di noi. Grazie alle agevolazioni comunicative permesse dalle odierne tecnologie, all’indomani del rientro abbiamo già creato il nostro gruppo su facebook, allo scopo di condividere informazioni o materiale relativi all’associazione o al recente viaggio.
Il gruppo unisce persone molto differenziate per età (membri tra i 17 e i 30 anni), occupazione (alunni dell’Istituto Tecnico Nautico di Trieste, universitari, lavoratori) e soprattutto provenienza (dal nord al sud, abbiamo un rappresentante per ogni fascia geografica). Anche le modalità con cui abbiamo appreso del viaggio sono varie: gli studenti sono stati avvisati dai loro docenti, gli universitari hanno visionato l’avviso sul sito dell’università, i lavoratori lo hanno saputo direttamente dal sito
dell’Associazione: questo a dimostrazione dell’impegno degli organizzatori nel promuoverne la conoscenza. Dunque, percorsi di vita differenti che si sono incontrati per un’unica motivazione: apprendere la storia dell’Istria cogliendo l’opportunità di farlo direttamente sul territorio. Vista l’eterogeneità dei partecipanti, per alcuni si è trattato di approfondire il tema (in particolare per chi è discendente di esuli o residente in una delle zone visitate), per gli altri è stato invece conoscere un argomento che di solito si studia nei libri scolastici. Fondamentali in tal senso, le guide assunte per illustrarci la storia, i luoghi e non solo: ognuno di loro, a seconda della propria personalità e conoscenza, ha adottato un metodo di spiegazione personalizzato (chi con la sua preparazione di storico o giornalista ha fornito un’interpretazione più tecnica e dettagliata, chi l’ha vivacizzata con ironia, chi ci ha fornito informazioni utili in un futuro eventuale viaggio). La presenza di tante guide diverse ha dinamizzato notevolmente il ritmo delle giornate e anzi, a tal proposito, c’è da dire che grazie all’organizzazione iniziale e alla pazienza della signora Carmen Palazzolo, che ci ha seguiti e guidati, i cinque giorni sono stati veramente vissuti appieno, permettendoci di visitare le tre città previste giornalmente e di ritagliarci uno spazio in cui accrescere la nostra convivialità.

I ragazzi che hanno effettuato il viaggio sono: Ornella Barro di Nave di Fontanafredda (PN), Filippo Borin di Oderzo (TV), Marco Calvani di Verona, Gianbattista Canilli di Venezia, Cristiano Donati di Udine, Fadel Nur Aiman di Trezzo sull'Adda (MI), Alessia Ferrigno di Trieste, Antonio Lorenzo Giuliani di Trieste, Alessandro Giuliani di Trieste, Izabela Hasa di Prata di Pordenone (PN), Lucia Indino di Miggia- no (LE), Carla Leonarduzzi di Attinis (UD), Deborah Mancini di Trieste, Giulia Marion di Trieste, Luisa Mazzotta di Trieste, Maria Carmela Paternoster di Sacile (PN), Giacomo Petronio di Trieste, Claudia Ricciardi di Roma.

Erano inoltre presenti coi loro accompagnatori, i professori Luisa Fonda e Silvio Braini, 14 ragazzi meritevoli dell'Istituto Nautico di Trieste: Piero Bertini di Trieste, Elia Burello di Buttrio (UD), Filippo Coloni di Duino Aurisina (TS), Damiano Derin di Trieste, Luca Farosich di Duino (TS), Vincenzo Gatti di Monfalcone (GO), Sebastiano Grison di Muggia (TS), Marco Lonza di Sgonico (TS), Francesco Manzin di Duino Aurisina (TS), Silvio Mistelli di Sistiana (TS), Enrico Nardone di Trieste, Matteo Pires di Trieste, Cristian Puntin di S. Croce (TS), Gherardo Santi di Muggia (TS).



Riporto ora l’opinione di alcuni ragazzi sul viaggio:
“Mi ha colpito il loro senso di patriottismo. Sono stata piacevolmente sorpresa dalla loro forza, impegno e determinazione nel fare in modo che la cultura italiana non venisse soppressa. Una frase che hanno riportato tutti ad un certo punto del loro discorso è che la cittadinanza è un diritto territoriale mentre la nazionalità è una scelta. Tutti hanno affermato di essere cittadini croati ma di nazionalità italiana ... Ma particolarmente mi ha colpito il direttore del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, il prof.
Giovanni Radossi, e la sua storia; come è stata raccolta la biblioteca del Centro, che ora conta 110.000 volumi in continuo aumento, molti dei quali sono stati trovati e portati da lui stesso a Ro- vigno e ora sono patrimonio nazionale.”

Izabela Hasa


“Quello che mi è piaciuto e mi ha colpita del viaggio è stata la scoperta dell ’inatteso! la bellezza dei posti e il fascino dell Istria”.

Ornella Barro

“Ho trovato molto interessante la visita al Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, istituzione della Comunità Italiana, vero e proprio punto di riferimento dell’italianità della Regione Istriana. Questa istituzione, nata quaranta anni fa, si è opposta anche da sola alla cancellazione della storia in quei territori. Il Centro è nato come uno degli strumenti più efficaci per imporre un’inversione di tendenza storica. Il Centro in questi anni di attività ha pubblicato numerosissimi volumi. Un’altra visita interessante è stata l’arena di Pola: l’anfiteatro fu costruito fra il 2 a.C. e il 14 d.C.
dall’imperatore Augusto, prelevando il materiale dalle note cave di pietra dell’Istria, situate alla periferia della città ancora oggi esistenti.
Successivamente l’imperatore Vespasiano (che aveva commissionato il Colosseo a Roma) lo fece ampliare. Come il Colosseo, venne utilizzato prevalentemente per combattimenti di gladiatori o naumachie. Fu oggetto di ampio restauro durante l ’era napoleonica. Oggi viene utilizzato in estate per ospitare il Pola film festival. Personaggi di fama mondiale si sono esibiti in questa arena come Pavarotti, Sting, Anastacia e Julio Iglesias. ”

Filippo Borin

“Di particolare interesse è stata la visita serale alla città di Pirano, che alcuni di noi già conoscevano essendo stata la città natale delle loro famiglie prima dell 'esodo. Si è potuto ammirare palazzo Tartini, ora sede della comunità italiana, già casa Vatta, nello splendore delle sale riccamente affrescate.
Il territorio dell ’Istria, nella complessità della sua storia e nella stratificazione dei vari popoli che l ’hanno abitata nei secoli, si è mostrata a noi come un ambiente politropo ma allo stesso tempo rispettoso della individualità culturale. Sicuramente, da quanto abbiamo potuto apprendere per testimonianza diretta, questo processo è stato non esente da difficoltà derivanti da ideologie e fenomeni di massificazione culturale, tuttavia grazie alla volontà di chi restava nei territori ex italiani e di parte di coloro che invece vi subentrava, dopo molti anni, a noi si è mostrata una realtà diremmo arricchita piuttosto che non. E questo è testimoniato dalle numerose associazioni di italiani e dalla apprezzabile gentilezza di tutte le persone locali con le quali siamo venuti in contatto.
Inoltre si è potuto constatare come sia evidente, e non dimenticata o distrutta, la traccia della Serenissima nei territori istriani. Essa ha rappresentato per molti secoli una risorsa culturale e commerciale per tutta la regione. ”

Giambattista Canilli

“Per me è stata un’esperienza bellissima ritornare in Istria perché ho visto un’Istria diversa rispetto a 20 anni fa. È stato un gran piacere incontrare personalità della Unione degli Italiani che con tenacia mantengono viva la cultura istriana.

Con grande emozione ho incontrato alcuni miei parenti e ho rivisto il Centro di Ricerche Storiche dove mio nonno profuse con umiltà tanto lavoro e fatica.

Sono ripartito a malincuore dopo 5 giorni formidabili con compagni di viaggio stupendi, ma ho lasciato l'Istria comunque con la certezza che con l’entrata nell’Unione Europea si apre una nuova storia per l ’Istria e gli Istriani. ”

Nur Aiman Fadel


“È stata organizzato nel migliore dei modi e nonostante il numero limitato dei giorni, siamo riusciti a vedere quasi tutte le più importanti realtà storiche dell>Istria. La preparazione delle guide era sorprendente come anche la loro capacità comunicativa. Personalmente mi ha permesso di ricavare numerose informazioni sulla storia dell’Istira ed ha accresciuto la voglia di scavare in profondità alla scoperta delle mie origini Istriane da parte paterna. Un’esperienza da rifare al più presto, non solo per l’utilità educativa che ha avuto ma anche per l ’op-portunità che ha dato di allacciare nuove ed importanti amicizie tra noi ragazzi. ”

Cristiano Donati


“Ho conosciuto la storia dell’Istria tramite libri di testo e testimonianze di esuli, ma queste erano solo ricerche di mia iniziativa mentre a scuola non se ne parlava. E così, mosso dal desiderio di conoscere la verità nascosta e di squarciare il velo oscuro posto sulla memoria del passato, ho deciso di trattare l’argomento nella tesi che sto scrivendo. Grazie a questo viaggio ho potuto vedere con i miei occhi i segni indelebili che la storia ha lasciato in eredità a questa meravigliosa terra rossa, oltreché trarne spunti fondamentali per la mia ricerca. Mi ha colpito l’orgoglio con cui l’italiano rimasto in Istria, parlasse in istrio-veneto. L’emozione di poter vivere la storia in prima persona, raccontata con passione da chi ama la terra istriana, lascerà un segno indelebile dentro di me.
Ringrazio gli altri ragazzi che hanno contribuito con la loro simpatia a rendere unico questo viaggio. ”

Marco Calvani


Di questi cinque giorni conserviamo il ricordo di quanto ci è stato raccontato, dei posti visti, delle amicizie nuove trovate. Con entusiasmo considereremo attività che ci verranno proposte dall’associazione e saremo disposti a partecipare ad eventuali incontri che verranno organizzati.
Un ringraziamento particolare al presidente dell’Associazione Manuel Braico, alla signora Carmen che ci ha guidati con amorevole pazienza e a coloro che hanno reso possibile e interessante questo viaggio.

Lucia Indi





599 - La Voce in più Dalmazia 14/12/13 Storia - Lo studioso Monzali: «In Dalmazia si sviluppò una specifica cultura italiana»
Storia

«IN DALMAZIA SI SVILUPPÒ UNA SPECIFICA CULTURA ITALIANA»

LO STUDIOSO LUCIANO MONZALI FA IL PUNTO SULLE VICISSITUDINI DELLA REGIONE E SULL'IDENTITÀ LINGUISTICA E NAZIONALE SVILUPPATASI NEI SECOLI

Le opere di Monzali fanno luce sulla sorte dei dalmati italiani

Non capita spesso che la stampa e la storiografia croate diano spazio a una visione della storia dell’Adriatico orientale e della Dalmazia in particolare diversa rispetto a quella in voga da queste parti nel secondo dopoguerra. La caduta del Muro di Berlino non è riuscita a modificare in profondità l’ottica dalla quale, da parte della maggioranza, si guarda alle vicende della componente italiana dell’Adriatico orientale.
Il quotidiano spalatino “Slobodna Dalmacija”, comunque, ogni tanto apre una breccia nella cortina di nebbia che solitamente tra le file della maggioranza copre le vicende della minoranza. Per tale motivo ha suscitato particolare interesse tempo addietro l’intervista del quotidiano spalatino, realizzata da Damir Sarac, a Luciano Monzali, 46.enne professore di Storia delle Relazioni Internazionali presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bari.
Monzali è uno studioso che nelle sue opere ha scritto dei rapporti fra Italia e Paesi dell’Europa sudorientale, ponendo l’accento sulle vicissitudini politiche delle comunità italiane in Dalmazia, una popolazione autoctona, che politiche aggressive hanno quasi condotto all’estinzione nel secolo breve. Trattandosi di tema oltremodo interessante pubblichiamo la traduzione del testo integrale dell’intervista, che peraltro lo studioso ha concesso alla “Slobodna Dalmacija” servendosi di un corretto croato, lingua che da solo ha appreso. Una dimostrazione questa ulteriore della serietà dei suoi studi sulla Dalmazia.

Una componente autoctona           
Il prof. Luciano Monzali inizia il suo intervento, chiarendo i motivi dell’interesse per la storia della Dalmazia:
Seguo le vicende della minoranza italiana dal Risorgimento ad oggi e vorrei far luce su ciò che è stata la ragione dell’interesse italiano per la Dalmazia, che in determinati periodi storici ha creato conseguenze tragiche. Ci sono pochi storici che si occupano di questa tematica, sebbene sia fondamentale per comprendere le situazioni politiche di cui spesso si discute. Il materiale è ampio, solamente il ministero degli Affari Esteri a Roma ha alcune centinaia di casse di documenti sulla Dalmazia, che vanno dall’inizio del XX secolo alla Seconda guerra mondiale. Documenti che non sono mai stati consultati dagli storici croati. Quando studio la minoranza italiana, apprendo la storia della Dalmazia, perché si tratta di componente autoctona della società dalmata per un lungo periodo storico. l’opinione pubblica italiana conosce poco della storia della Dalmazia e degli italiani in Dalmazia, non le è chiaro che la Dalmazia non è costituita solamente da Zara e Spalato, in cui per secoli sono esistite comunità italiane, ma anche da Knin, Drnis e Imotski. Proprio a causa dell’ignoranza aveva attecchito la la teoria che la Dalmazia sarebbe dovuta spettare all’Italia.

Sussiste anche sulla sponda occidentale dell’Adriatico la resistenza ad un approccio serio alla tematica?
Resistenza e pregiudizi, ma in realtà trattasi di resa dei conti fra nazionalisti italiani e croati e comunisti jugoslavi,
priva di fondamento storico.

Quando in effetti nasce l’idea della Dalmazia italiana?
Dopo la battaglia di Lissa del 1866, nella quale l’Austria-Ungheria sconfisse la marina italiana, insorge un trauma nei
vertici politici e militari italiani; i quali ritengono che, per motivi di sicurezza, occorra aver il controllo di alcuni punti nell’Adriatico. Stiamo parlando dell’Europa del XIX secolo, quando perduravano lotte per il predominio fra le Grandi Potenze e l’Italia unita temeva grandemente l’Austria ed aspirava a garantirsi la sicurezza nell’Adriatico e sulle Alpi. E dunque non avevano ancora attecchito le ragioni nazionaliste per la conquista ma, in primo luogo, quelle strategiche.

Identità non etnica

E tuttavia nella sponda orientale si diffonde il panico?
Fra la popolazione slava, possibile, come del resto in occasione di quale che sia occupazione, ma la maggioranza degli Italiani era associata al Movimento Autonomista, unitamente alla popolazione slava, croata. Ai tempi di Lapenna e Bajamonti, nel 1866, gli autonomisti non desideravano staccarsi dall’Austria, erano leali verso la monarchia multinazionale, e gli Italiani, i Croati ed i Serbi della regione si sentivano (semplicemente) Dalmati. Avevano il sostegno di tutti i gruppi popolari e l’esempio migliore che illustra la situazione è rappresentato dal podestà Antonio Bajamonti, il quale realizzò numerose opere in una piccola città e fu molto stimato, vinse le prime elezioni democratiche. I Dalmati, alla fin fine, non parlavano la lingua italiana, ma una favella mista di veneziano e di croato.
Gli storici croati hanno ritenuto a lungo che non fossero esistiti Italiani autoctoni in Dalmazia, ma che si trattasse di Slavi italianizzati o di migranti dalla Penisola, mentre i “Narodnjaci”G offrivano agli Italiani la possibilità di diventare Slavi. Croati e, dopo, Jugoslavi. In contrasto con la tesi della maggioranza degli storici croati, giudico che in Dalmazia si sviluppò una specifica cultura italiana nelle città e nelle isole, contrassegnata sostanzialmente da influsso slavo. Un’identità culturale e linguistica, non etnica. Niccolò Tommaseo, ad esempio, vedeva la Dalmazia come punto d’incontro di due culture, italiana e balcanica, e non considerava che i Dalmati fossero Italiani, ma nazione affine a quella italiana, un miscuglio particolare di cultura slava e latina.

Il problema, quindi, sorge quando gli autonomisti perdono le elezioni?
Gli Italiani, allora, perdono il diritto ad avere proprie scuole, ovvero sarebbero potute essere solo private. Il vecchio Partito Autonomista diviene il nuovo movimento dei liberali nazionalisti italiani. Per l’apertura delle scuole
occorrevano risorse finanziarie, le cercarono e le ottennero in Italia, ed appena nel 1914, con l’inizio della Prima Guerra Mondiale, si pongono come irredentisti italiani, mentre altri Dalmati italiani sostengono l’idea di acquisire un’identità croata o jugoslava, rinunciando all’annessione all’Italia.
Ed è in questi tempi che si fanno strada affermazioni secondo le quali la Dalmazia deve diventare territorio italiano, tanto più che l’Italia si era schierata dalla parte dei Paesi possibili vincitori. Viene concluso il Patto di Londra, che prevede siano annesse all’Italia l’Istria, una parte delle isole e la Dalmazia Settentrionale, ovvero Zara, Sebenico e circondario, esclusa Spalato.

Il dramma degli optanti     

Vi rinunciarono a Spalato?
Apparve chiaro che l’Italia non avrebbe potuto controllare un territorio che era prevalentemente popolato da Croati. Le visioni delle politiche russa ed italiana, nel 1915, erano di far rientrare Spalato nella sfera d’influenza serba, mentre Ragusa sarebbe dovuta essere serba o montenegrina. L’Italia appoggiava il Regno dei Serbi, che pretendeva la Dalmazia Centrale, la Bosnia e la Vojvodina. I Dalmati Italiani si divisero in due correnti. Una aspirava all’autonomia della Dalmazia, l’altra all’annessione all’Italia. Con il Trattato di Rapallo del 1920, che prevedeva che solo Zara rimanesse italiana, fu loro offerto di optare per la cittadinanza italiana o jugoslava, ed a Spalato metà scelse la prima, l’altra metà la seconda. Le conseguenze, nel caso dell’opzione per la cittadinanza italiana, furono che gli optanti non poterono più esercitare la professione di avvocato, medico, farmacista, ingegnere. La scelta della cittadinanza italiana ebbe come effetto il completo isolamento della minoranza italiana dal tessuto sociale dalmato.
Il governo jugoslavo ed i partiti croati consideravano gli optanti alla stregua di quinta colonna dell’imperialismo italiano.

Quali furono le conseguenze?
Molti Italiani nel 1922, a Spalato, optarono per la cittadinanza jugoslava e col tempo acquisirono identità croata. La parte che optò per la cittadinanza italiana emigrò a Zara oppure in Italia, e tuttavia una parte dei cittadini italiani
pur rimase; ma nel 1941, vent’anni più tardi, se ne annoverarono solo un migliaio. Fra i primi ad andarsene furono i cittadini più istruiti. Quelli rimasti si ritrovarono isolati, potevano contare su di una chiesa, una scuola e su associazioni. Talché la minoranza italiana divenne vittima dei rapporti fra Italia e la prima Jugoslavia e capro espiatorio dell’occupazione italiana.

E dopo la Seconda guerra mondiale sparì del tutto?
Un gran numero di Italiani, così come di Serbi e di Croati, fu vittima della spaventosa violenza dell’Italia fascista, della Germania nazista, degli Ustascia, dei Cetnici e dei comunisti nel corso della Seconda guerra mondiale. Penso che in Dalmazia si possa parlare di tragedia collettiva. Guardi che cosa è accaduto a loro: ad esempio, il dr. Ivo Tartaglia, uno dei più meritevoli podestà spalatini nonché bano del litorale, quale oppositore della politica fascista fu arrestato nel 1942 ed internato in Italia. Sennonché, alla fine della Guerra il governo comunista lo rinchiuse a Lepoglava, dove presto morì. Similmente ci rimisero la pelle dei convinti cattolici, dei simpatizzanti dell’HSS ed anche degli appartenenti a famiglie dalmate italiane.

Una sorte ingrata    

Abbiamo sorvolato sul periodo fascista?
Le pretese fasciste sulla Dalmazia avevano segno ideologico, ma dovevano anche comprovare che l’Italia era una potenza imperiale. Mussolini sapeva che a Spalato, nel 1941, c’erano solamente mille Italiani in mezzo a cinquantamila abitanti, situazione di fatto che avrebbe potuto controllare soltanto con il ricorso alla violenza. Aspirava ad avere il predominio del Mare Adriatico e dei Balcani, superiore a quello della Germania hitleriana; e dunque si sa che Ante Pavelic fu agente italiano, che cedette all’Italia tutto ciò che richiedeva, in cambio dell’aiuto nella creazione della NDH (Stato Indipendente Croato). Fatto di cui erano consapevoli anche i Tedeschi, che non volevano a nessun costo che Pavelic diventasse Capo dello Stato, privilegiando Vladko Macek, il cui partito, l’HSS. godeva del sostegno della maggioranza dei Croati; ma Macek respinse l’offerta e frattanto Pavelic divenne fedele servo tedesco. Il periodo dell’occupazione italiana fu una
stagione del terrore sulla popolazione e l’Italia ha la responsabilità di aver indotto i popoli balcanici alla guerra ed allo spargimento di sangue. Dopo la capitolazione dell’Italia, nel 1943, Pavelic tentò di instaurare nei territori, sino ad allora occupati, il potere ustascia, ma era già troppo debole. L’effettivo controllo fu esercitato dai Tedeschi, sino alla caduta del Reich. I resti dei resti degli Italiani se ne andarono nuovamente. Nel corso del 1945 e del 1946, i comunisti jugoslavi instaurarono un potere totalitario, adottando metodi completamente stalinisti; eliminarono tutti i potenziali nemici del nuovo regime, mentre si registrava una difficile situazione economica. Negli anni Quaranta e Cinquanta, la gente fuggiva in massa, attraversando il mare, dalla Jugoslavia verso l’Italia, per due motivi: repressioni politiche e profonda crisi economica.
Agli Italiani si offrirono, daccapo, due possibilità: la cittadinanza italiana oppure quella jugoslava; la maggior parte optò per la cittadinanza italiana e, di nuovo, emigrò in Italia, il che rientrava nelle aspettative dei comunisti. Quando nel 1953 furono chiuse, a Zara, l’ultima scuola italiana e la Comunità, si inferse il colpo mortale ai Dalmati Italiani. Non era, per la verità, il caso dell’Istria, perché lì gli Italiani erano più numerosi e aderirono alla LPL (Lotta Popolare di Liberazione), venendo risparmiati. La stragrande maggioranza degli Italiani dell’Istria e del Quarnero fece fagotto, e ciononostante vi si conservò una minoranza. Rimasero in Jugoslavia quegli Italiani che diedero importanza all’identità regionale e quelli che credevano nel sogno di una società comunista. La grande maggioranza di Italiani dell’Istria e del Quarnero, ad ogni modo, migrò, ma una minoranza vi sopravvisse e vi si conservò. Soltanto con l’acquisizione dell’indipendenza croata hanno iniziato ad ottenere la vera libertà di espressione e diistruzione.

Quanti ce ne sono ora?
A Zara, credo, circa 300 - 400; a Spalato, appena un centinaio. Questa è la conclusione della storia di gente che non ha appartenuto né all’una né all’altra opzione, che la politica ha sfruttato e diviso in schieramenti opposti; di gente che rappresentava una popolazione autoctona della Dalmazia, specifica per cultura e lingua, ed alla quale le circostanze storiche hanno riservato sorte ingrata.


Peculiarità nazionali e contraddizioni
Nel corso degli anni il prof. Luciano Monzali si è dedicato con particolare attenzione allo studio della storia della questione nazionale in Dalmazia e della rilevanza del problema dalmatico nella politica estera italiana dal 1861 alla Seconda guerra mondiale.

Roberto Ghiglianovich       
Negli scritti dedicati a Roberto Ghiglianovich - “Un contributo alla storia degli italiani di Dalmazia. Le carte Ghiglianovich” e “La Dalmazia e la questione jugoslava negli scritti di Roberto Ghiglianovich durante la prima guerra mondiale” - Luciano Monzali, grazie al ritrovamento dell’archivio privato di Ghiglianovich, conservato alla Biblioteca del Senato, ha delineato, attraverso lo studio della biografia e dell’azione politica di questa personalità, alcuni temi cruciali della storia della minoranza italiana in Dalmazia (definizione dell’identità nazionale, evoluzione ideologica dal municipalismo autonomista al nazionalismo italiano, rapporto con la maggioranza croata, scelta irredentistica) e del rapporto dei dalmati italiani con lo Stato italiano.

Oscar Randi 
Lo scritto su Oscar Randi scrittore di storia dalmata, costituisce il primo tentativo di scrivere una biografia scientifica su una figura non irrilevante della cultura italiana fra le due guerre,
lo         scrittore e pubblicista zaratino Oscar Randi, personalità interessante in
quanto profondamente segnata dalle contraddizioni e dalle peculiarità culturali e nazionali tipiche della componente italiana dalmata.

Antonio Bajamonti  
Il profilo dedicato ad Antonio Bajamonti, “Dalmati o Italiani? Appunti su Antonio Bajamonti e il liberalismo autonomista a Spalato”, è invece un tentativo di ricostruire le vicende politiche di un singolare movimento politico dalmata, il partito autonomo, attraverso la biografia di uno dei suoi leader, podestà di Spalato dal 1860 al 1880. Attraverso queste vicende è possibile delineare il sorgere della questione nazionale italiana in Dalmazia negli ultimi decenni del XIX secolo.
Ampliamento e approfondimento di tutti questi saggi sugli italiani di Dalmazia sono i volumi “Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla grande guerra”, e “Italiani di Dalmazia 1914-1924”.

Equilibri politici      
Una delle tesi fondamentali di Monzali è che le sorti della minoranza italiana in Dalmazia siano state pesantemente condizionate dal corso delle relazioni politiche fra Italia e Impero asburgico, e, successivamente, da quelle tra Roma e Stato jugoslavo unitario e dai mutamenti degli equilibri politici in Europa centro­orientale: da qui l’esigenza di ricostruire, sulla base di un attento studio delle fonti diplomatiche italiane, austriache ed europee edite ed inedite, la politica
delle grandi potenze europee nei Balcani e l’evoluzione dell’atteggiamento della classe dirigente dell’Italia liberale verso la questione dalmatica dall’epoca risorgimentale alla prima guerra mondiale.

Antonio Tacconi      
Il volume “Antonio Tacconi e gli italiani di Spalato dagli Asburgo a Tito” porta a completamento la riflessione storiografica sulle vicende della componente italiana in Dalmazia. Il volume, sulla base di una ricca documentazione, spesso inedita, proveniente dagli archivi italiani, croati e serbi, ricostruisce i momenti fondamentali della biografia politica di Antonio Tacconi, leader degli italiani di Spalato fra le due guerre mondiali, con l’ambizione di analizzare i problemi non solo politici, ma anche sociali, economici e culturali, che hanno segnato la vita della componente italiana nella città di Diocleziano nella prima metà del Novecento. Le vicende personali di Tacconi sono inserite in un quadro più generale di tentativo d’interpretazione delle relazioni fra le due sponde dell’Adriatico. Il saggio “La fenice che risorge dalle sue ceneri. Gli italiani di Dalmazia nella seconda metà del Novecento” costituisce un primo tentativo, sulla scia del volume di Tacconi, di ricostruire i momenti e i problemi fondamentali dell’esodo italiano dalla Dalmazia e il ruolo degli esuli dalmati nella vita politica e culturale dell’Italia repubblicana nella seconda metà del Novecento.


Il tragico destino degli esuli
Tragico è il destino degli esuli della Dalmazia, dell’Istria, del Quarnero. Da 200 a 250mila, dopo la Seconda Guerra Mondiale, fuggirono in Italia, dove li attese una cocente disillusione. Essi nemmeno sapevano che cosa fosse l’Italia: erano vissuti per generazioni in Dalmazia ed in Istria e dovettero iniziare una nuova vita. Sebbene lo Stato si curasse della loro sistemazione, perfino dell’occupazione, dagli Italiani venivano considerati come stranieri che contavano di vivere alle loro spalle. Non comprendevano nemmeno il dialetto che gli esuli parlavano. Gli esuli erano diversi anche fisicamente, di bella statura come i Dalmati. Alcuni cambiarono il cognome, italianizzandolo, per essere meglio accolti. Fu loro avverso, particolarmente, il Partito Comunista Italiano; li riteneva nemici, che fuggivano dal comunismo, creando conflitti con la Jugoslavia comunista. In fin dei conti, quando si conversa con gli esuli si avverte la dolente nostalgia che sentono per la Dalmazia, che è la loro vera patria ed il focolare domestico.



600 - La Voce in più Dalmazia 14/12/13 L'amica e gloriosa Cattaro rivive in una guida trilingue
Pubblicazioni di Ilaria Rocchi

L'AMICA E GLORIOSA CATTARO RIVIVE IN UNA GUIDA TRILINGUE

Il 12 maggio 1797 si consumò il tramonto della Repubblica di Venezia. Non ovunque, però: per oltre cento giorni la bandiera di San Marco continuò a sventolare in alcune enclavese della Dalmazia, dove la Serenissima continuò a esistere fino a tutto agosto. Emblematico e commovente il caso di Perasto, nelle Bocche di Cattaro, dove solo il 23 agosto 1797 il capitano Giuseppe Viscovich ammainò le insegne del “Serenissimo Veneto Gonfalon” con lo struggente addio famoso per la frase ”ti con nu, nu con ti”. Torniamo in quel lembo di terra della Dalmazia meridionale - quella storica, che il Regno di Dalmazia austriaco aveva ereditato da Venezia e dalla Repubblica di Ragusa, cioè fino a sud di Castellastua (Petrovac na Moru) -, nell’“Albania veneta” come veniva definita, per parlare di Cattaro, antica e gloriosa città marittima ora del Montenegro, famosa per la sua maestosa cinta muraria, ancora ben conservata (è inclusa nella lista dei Patrimoni dell’umanità protetti dall’Unesco). l’imponenza di tale complesso e i costi sostenuti per costruirlo sono efficacemente racchiusi nel detto “te me costi come i muri de Cattaro” usato a Venezia per indicare un’amante troppo esigente.

Nozioni, curiosità, aneddoti e immagini 
Ora la città viene offerta in mano a curiosi e/o visitatori con l’analisi nel dettaglio dei suoi più cospicui monumenti sacri e profani, della sua mura marittime (appunto!) e della fortezza, nonché di tutti gli edifici situati entro il perimetro urbano, analizzati nelle loro molteplici valenze. Il tutto corredato e arricchito
da nozioni storiche - basate su fonti d’archivio anche inedite -, da aneddoti, con particolare riguardo all’età veneta (1420 - 1797), e da un interessante apparato iconografico che accompagna la descrizione delle varie parti dell’opera. È infatti fresca di stampa la “Nuova Guida di Cattaro”, un’edizione che supera di gran lunga la precedente e dettagliata “Guida” edita nel lontano 1905.
Pubblicata in co-edizione dalla Fondazione Rustia Traine di Trieste e dall’Associazione Culturale Viribus Unitis di Cattaro, è disponibile in italiano, croato e inglese. Il volume è stato presentato di recente a Venezia, presso la Scuola Grande di San Teodoro da Marino Zorzi (ex direttore della Biblioteca Marciana), Renzo Fogliata, Giorgio Suppiej (presidente dell’Associazione Venezia Serenissima) e da Paolo Borsetto, mentre se ne parlerà fra una decina di giorni pure a Trieste e in occasione delle celebrazioni della Festa di San Trifone a Cattaro

Scambio tra culture diverse          
Il patrimonio di Cattaro è indubbiamente frutto dello scambio tra culture diverse, dell’intreccio di esperienze lasciate nei secoli da popolazioni diverse. Sorta in fondo alle Bocche, in riva al mare e addossata a un monte roccioso, nei secoli che precedono l’avvento di Cristo si insediano gli Illiri rizuniti (o rizoniti), e gli Ardiei; successivamente Rizinium stringe un’alleanza spontanea con Roma, che le assicura ampia autonomia municipale e larghe esenzioni fiscali.
La città appunto viene fondata durante il periodo romano, conosciuta come Acruvium, parte della provincia romana della Dalmazia.
È menzionata per la prima volta come Ascrivium o Ascruvium nel 168 a.C. Occupata dagli Eruli prima e dagli Ostrogoti poi, nel 532 viene ripresa da Costantinopoli, che rinforza il castello da loro chiamato Kàttaros, Dikàtera o Dekàteron. Rizinium viene distrutta nel 639 dagli Avari, ma Acruvium-Catarum resiste e rimane con l’imperatore d’Oriente, mentre la parte occidentale delle Bocche, viene occupata dalle tribù slave dei Trebuniati.
Nell’840 la città subisce il saccheggio dai Saraceni, che nell’867 distrugono Rosa (Porto Rosa) ma Catarum, dove trovano la salvezza molti profughi, si mantiene e conserva la propria identità latina, assumendo il nome italico di Cattaro. Sotto la sovranità dell’Impero romano d’Oriente si sviluppano istituzioni comunali sempre più autonome, legate da rapporti politico-commerciali con le dirimpettaie città pugliesi anch’esse parte di Bisanzio.
Nel 1002 la città è gravemente danneggiata durante l’occupazione dei Bulgari e l’anno lo zar Simeone la cede alla Serbia. Nel 1177 i cattarini soccorrono i ragusei attaccati dal re serbo Nemagna e si alleano con l’Impero romano d’Oriente ma, venuto meno il sostegno imperiale, nel 1184 sono costretti ad accettare la supremazia dei Nemagna (conservano però un’ampia autonomia comunale e la libertà di sottoscrivere trattati, di dichiarare guerre e di professare la religione cattolica).

In bilico tra forze continentali e marittime
Nel 1250 il re serbo Orosio conferma i privilegi ottenuti dai precedenti monarchi; nel 1351 Stefano, oltre alla conferma della libertà comunale, consentì un ulteriore ingrandimento del territorio intorno alla città. L’ultima conferma arriva nel 1356 da Urosio V. I rapporti con Venezia vengono rafforzati al IX secolo, quando nella zona si stabiliscono numerosi sudditi della Serenissima, con ampie libertà e franchigie (nel 1201 il nobile veneziano Lorenzo Zane è alla guida del Comune, mentre almeno dal 1282 è presente a Cattaro un console veneziano). La città resta in bilico tra le forze continentali e Venezia. Il 30 aprile 1335 i cattarini firmano con Venezia un trattato commerciale che rinsalda i rapporti tra Venezia e la Dalmazia montenegrina. Conflittuali i rapporti con i ragusei, che ad esempio nel 1361, sotto l’egemonia degli ungheresi, depredano le navi dirette nel porto di Cattaro e assediano la città che resiste grazie all’intervento di Venezia. Segue un periodo oscuro perché i Serbi premono ai confini e i cattarini, con il consenso veneziano, chiedono protezione a Lodovico, re di Ungheria, il quale riconosce loro gli antichi privilegi.

La dedizione a Venezia     
Continua l’avvicinamento con Venezia: ben sette le richieste inviate dai cattarini, che per decenni ottengono risposta negativa da parte del Senato veneto.
Il 14 gennaio 1396, ad esempio, gli ambasciatori cattarini si offrono di sottoscrivere un atto di dedizione alla Serenissima, ottolineano con forza il pericolo di doversi sottomettere o “agli albanesi, o agli slavi, o ai turchi”. Nel 1415 il Senato veneto accetta che un nobile zaratino, cittadino veneto, assuma la carica di conte di Cattaro. Il 2 febbraio 1420 il Comune nomina un procuratore da inviare in laguna per la conclusione dell’accordo con Venezia, il Senato ne accoglie le richieste e il 15 marzo dello stesso anno, nel Palazzo ducale, viene firmato l’“Atto di accettazione della città di Cattaro” nel quale si legge la volontà della città di mostrare “singolare e devota reverenza e l’affetto della desiderata fedele obbedienza” verso il Doge e la Signoria ducale. I procuratori Rosso Marino e Albano Badoaro accolgono ed accettano la città a nome della Signoria, promettendo di trattare i cittadini come sudditi fedelissimi e devoti.
Vengono quindi stabilite alcune clausole riguardanti i tributi, i dazi ed il compenso dovuto al conte di Cattaro, dopodichè vengono riconosciuti gli statuti e gli ordinamenti comunali e la restituzione di alcuni territori. Il documento si conclude con il giuramento di fedeltà del procuratore di Cattaro.

Una profonda impronta veneta     
Il dominio veneto lascia una profonda impronta nella struttura urbana di Cattaro e nei suoi costumi; l’italiano è la lingua usata in tutti gli atti pubblici e nell’insegnamento, soprattutto per la spinta del ceto nobiliare e della potente classe dei mercanti e capitani marittimi.
Tra i letterati più famosi nominiamo Bernardo Pima, Nicola Chierlo, Luca Bisanti, Alberto de Gliricis, Domenico e Vincenzo Burchia, Vincenzo Ceci, Antonio Zambella, Francesco Morandi. Ancora oggi la popolazione di Cattaro parla un dialetto misto tra veneto e slavo. Un vincolo di continuità con la cultura marinara, latina, veneta, mediterranea e occidentale ancor’oggi domina il territorio, a dispetto della diversità delle lingue e dei popoli sopraggiunti.
Un’impronta che non verrà, non del tutto almeno, cancellata dalle successive vicende politico-amministrative. Dopo il trattato di Campoformio del 1797 Cattaro (e la Damlazia tutta) passa all’Austria; nel 1805, con la pace di Presburgo, è assegnata al Regno d’Italia, e poi annessa nel 1810 alle Province Illiriche dell’Impero Francese; la città viene restituita agli Asburgo in seguito al Congresso di Vienna (1815). Ricordiamo che gli abitanti però continueranno a seguire gli eventi risorgimentali italiani, tanto che tra gli originari Mille, che con Garibaldi salparono da Quarto alla volta della Sicilia, Vera anche Marco Cossovich, nativo di Venezia, ma di famiglia e sentimento bocchese.
Dopo il 1918, assieme all’intero Montenegro, la città venne inglobata nella neonata Jugoslavia. Nell’aprile 1941, a seguito dell’occupazione italiana della costa adriatica e dello smembramento dello stato jugoslavo, Cattaro e il suo retroterra e l’isolotto albanese di Saseno (già parte della provincia di Zara) vengono annessi all’Italia e occupati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943. Dopo la Seconda guerra mondiale passò alla Jugoslavia di Tito, quale parte della Repubblica socialista del Montenegro. Il 15 aprile 1979 un altro terremoto danneggiò la città, che venne prontamente restaurata. Dalla disgregazione della Jugoslavia ha seguito le sorti del Montenegro, e dal maggio 2006 è pienamente parte della nuova repubblica indipendente.

Dal passato al presente     
La “Guida” - oltre 300 pagine - propone dodici possibili itinerari, preceduti da alcune nozioni introduttive, dalla descrizione urbana, dalla toponomastica e dello stemma della città. L’avvicinamento a Cattaro prosegue con gli immancabili cenni storici: si va dal periodo romano e quello bizantino all’ “età d’oro” dei Nemagna (1184 - 1379), per proseguire con quella veneta (1420 - -1797) e austriaca (1797 - 1918), con la situazione tra la fine della Prima e la conclusione della Seconda guerra mondiale, quando la città entra a far parte del Montenegro. Altri brevi capitoli sono riservati alla rappresentazione e cartografia di Cattaro, alla vedutistica,e quindi lingua, popolazione, notabili, corpo nobiliare, cavalieri di San Marco, confessioni religiose - i culti cattolico ortodosso, ortodosso montenegrino e altri - e cimiteri.
Non mancano indicazioni per così dire pratiche sulla città odierna - da come arrivarci al periodo più indicato per visitarla, dalla scelta dell’albergo a dove e cosa mangiare -, ma ci sono pure alcuni “suggerimenti per migliorare Cattaro” articolati in qualità della vita e approcci al turismo, turismo di massa e turismo di qualità. In calce al volume, le immancabili e utilissime note e bibliografia, un’appendice documentaria, una serie di Provveditori “ordinari” e straordinari, indici dei monumenti, delle Illustrazioni e dei nomi e l’elenco delle guide turistiche ufficiali.

Andando per piazze e chiese        
Dunque, la parte più consistente della nuova Guida sono i percorsi che offre a chi intende conoscere meglio la sua realtà sotto l’aspetto storico-artistico- architettonico e dei costumi, con tanto di minutaggio previsto per compiere ciascuno di essi. Sette sono gli itinerari urbani, che portano - nell’ordine - dal Gordicchio a piazza delle Erbe (20 minuti), da quest’ultima a piazza San Trifone (40 minuti), da piazza San Giuseppe a piazza Gregorina (40 minuti); un altro tocca via degli Artigiani - piazza della Colleggiata - piazza della Legna - Chiesa di Sant’Anna (20 minuti), un altro ancora piazza San Luca - la Carampana (20 minuti); il sesto comprende Santa Chiara - Santa Maria degli Angeli - San Michele - Santo Spirito (20 minuti) e il settimo Porta Marina - piazza d’Armi e della Farina (20 minuti). Da rilevare che il centro storico, di straordinaria bellezza
- molti sono di monumenti interessant, dal Palazzo Ducale, con il suo stile misto rinascimentale e barocco, all’antica medioevale Turris torturae, detta più tardi la “Torre dell’orologio” e al teatro, fondato all’inizio del XIX secolo - è caratterizzato da un insieme di dodici piazze, di cui quelle d’Armi è la più grande e la più bella, situata nei pressi della porta della città.

Tesori tra leggendarie mura          
Si diceva della leggendaria cinta muraria di Cattaro che, per la sua peculiarità, costituisce un esempio unico di fortificazione urbana sia dal punto di vista militare che estetico. All’interno della cinta muraria ci sono circa trenta chiese, di cui quattro, risalenti all’epoca medioevale, sono particolarmente importanti dal punto di vista storico: San Luca (1195), Sant’Anna (1195 circa). Santa Maria (1222) e San Paolo (1266), senza ovviamente trascurare la cattedrale di San Trifone. Eretta originariamente nel IX secolo, fu completamente ricostruita nel 1166 e assunse la sua forma attuale dopo la ricostruzione del XVII secolo, dopo il catastrofico terremoto del 1667.
La sezione “mura” distingue l’itinerario tra quelle marittime esterne - da Porta Gordicchio a Porta Fiumera (25 minuti) - e quelle dall’interno (15 minuti), nonché le mura della Fortezza: dalla Via Regia al Castello di San Giovanni (1 ora), dalla piazza delle Erbe al Castello di San Giovanni (1 ora).


Gli Italiani
Nel XIX secolo Cattaro era ancora una realtà multietnica, divisa quasi perfettamente tra Italiani, Croati e Serbo-montenegrini. Una situazione che sarebbe mutata, tant’è che nel (discusso) censimento del 1910 si annoveravano solo 538 italiani in tutto il circondario, anche se scuole italiane sorsero, nello stesso periodo, a Morigno, Perasto, Petrera, Combur e La Bianca. Tuttavia, nel censimento jugoslavo del 1927, gli Italiani risultavano solo 240. Oggi, la convivenza fra le diverse etnie, superati i contraccolpi del conflitto con il quale si è dissolta l’ex- Jugoslavia, è relativamente buona e la cultura e la presenza italiane sono accolte come facenti parte della storia locale. Il desiderio di conoscere la lingua italiana è grande.
Nel gennaio 2004 è nata la Comunità degli Italiani del Montenegro, con sede a Cattaro, e con uno statuto simile a quello degli analoghi sodalizi già esistenti in Dalmazia ed in Istria. Conta oltre 500 persone del territorio bocchese, italiane (per nazionalità, per origine o per cultura) autoctone della costa: una minoranza presente da sempre, parte integrante degli Italiani della sponda orientale dell’Adriatico, cui si sono aggiunti cittadini italiani che vi si sono trasferiti recentemente per lavoro. La Comunità ha dato vita nel giugno del 2004 al Comitato di Cattaro della Società “Dante Alighieri”. Quest’anno inoltre è stato attivato un periodico in lingua italiana, “La Gazzetta di Cattaro”, mensile di informazione storica, culturale e turistica di interesse veneto-istriano-dalmata. Inoltre, vengono organizzati regolarmente corsi gratuiti di lingua italiana per adulti e per bambini.


601 - Il Piccolo 17/12/13 Il Libro -  Ma i triestini nel 1914 andavano tutti al mare aspettando la guerra  
Ma i triestini nel 1914 andavano tutti al mare aspettando la guerra
 
IL LIBRO
 
presentazione

 Quella “Violenta bufera” domani alla Statale Il libro di Fabio Todero “Una violenta bufera - Trieste 1914”, pubblicato dall’Istituto per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia (Irsml Fvg), e in questi giorni nelle librerie, verrà presentato domani, alle 17, nella sala delle conferenze della Biblioteca Statale “Stelio Crise”, in Largo Papa Giovanni XXIII 6, a Trieste. Alla presenza dell’autore, ne parleranno Fabiana Martini, vicesindaco di Trieste, e la presidente dell’Irsml Fvg, la storica Anna Maria Vinci. Fabio Todero, insegnante e ricercatore all’Irsml, ha dedicato numerosi volumi alla Grande guerra, tra cui “Orizzonti di guerra: Carso 1915-1917”.

di Pietro Spirito

Iniziò con una violenta e gelida bufera di neve l’anno 1914 a Trieste. Nei primi giorni di gennaio la bora soffiò a 80 chilometri orari, la neve sferzava il volto dei passanti, la temperatura scese a sette gradi sotto zero. Le strade erano deserte, i mercati anche, e così la pescheria: la città, notò un cronista del “Piccolo”, «presentò tutto il giorno un aspetto di desolazione». Se è vero che a volte i rivolgimenti della Storia si annunciano con infausti presagi persino nel tempo atmosferico, il drammatico 1914 si palesò ai triestini in tutta la sua desolante realtà prebellica, e «di lì a qualche mese una guerra autentica avrebbe provocato in città una situazione non dissimile di cui la natura non avrebbe avuto alcuna colpa». Lo storico Fabio Todero è stato attento a cogliere ogni sfumatura, ogni avvisaglia di quella che in effetti fu “Una violenta bufera - Trieste 1914” (Edizioni dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, pagg. 143, euro 20,00), come titola il suo libro dedicato al primo anno della Grande Guerra nella città adriatica.

Come si viveva a Trieste alla vigilia di un conflitto che avrebbe segnato le sorti del mondo? Com’era la società di allora, e quali le sue reazioni nel contesto della politica internazionale? Quali furono i primi effetti in città dell’entrata in guerra dell’Austria-Ungheria? In un saggio ricco di illustrazioni, aneddoti e curiosità tratte dai giornali dell’epoca, ma sempre inserito nel più ampio quadro della storia politica e diplomatica, Todero offre una visione dettagliata e organica della Trieste all’alba del conflitto. Che appunto si era già annunciato con nuvoloni tempestosi all’orizzonte, con le notizie di «un’alleanza serbo-bulgara in funzione antirumena e antiaustriaca», ma soprattutto con l’accidentato percorso dell’indipendenza albanese, vissuta in presa diretta dai triestini, sia per i rapporti commerciali che Trieste aveva con l’Albania, sia perché la città era punto di passaggio, rifugio e luogo d’intrighi per il movimento nazionale albanese. Insomma i venti di guerra che già da tempo soffiavano sugli inquieti Balcani puntarono dritti alla sponda a Nord dell’Adriatico, e Trieste - come sarebbe anche accaduto in seguito e in tempi a noi vicini - intercettò come un’antenna sensibile le onde sismiche in arrivo.

Tanto più inquietanti, quei segnali, in quanto Trieste viveva allora uno «sviluppo impetuoso», come lo definisce Todero, soprattutto nell’ambito dei commerci e dell’attività cantieristica, mentre «anche il mondo finanziario (...) appariva complessivamente in buona salute, dopo che si era completato il percorso di integrazione del sistema bancario triestino in quello imperiale». Un’opulenza che sarebbe presto stata spezzata da baionette e cannoni. Ma la Trieste del 1914, come tutte le metropoli moderne, è una città a due volti. Accanto alle ricchezze del ceto borghese e mercantile ci sono «larghe sacche di emarginazione sociale e di disagio». Dietro piazza della Borsa, «cuore pulsante degli affari e degli scambi» ci si immerge negli angusti spazi della città vecchia, dove, notava il giornalista e scrittore Silvio Benco, «si insudicia la stessa luce del sole». Nel 1910, ricorda Todero, erano morti 1382 bambini al di sotto di un anno d’età, saliti a 1436 nel 1913. Una situazione rischiosa e complessa, cui l’amministrazione pubblica farà fronte nello sforzo di alleviare i disagi, e i ricreatori comunali, «vanto dell’amministrazione liberal-nazionale», svolgeranno in questo senso un ruolo fondamentale. È il prezzo da pagare per la crescita vertiginosa di Trieste, passata dai 176mila abitanti del 1900 ai 235mila del 1910. Un crescita dovuta anche ai fenomeni migratori, primo fra tutti quello dei “regnicoli”, in un tessuto sociale già quanto mai variegato, malvisti dai triestini perché «disposti ad accettare un trattamento economico e condizioni di lavoro peggiori rispetto a quelle dei lavoratori locali, ampliamente organizzati e sindacalizzati».

Ma quella triestina d’anteguerra è anche una realtà «in cui le tensioni nazionali si vanno acuendo», e il 1914 «fu in effetti un anno denso di scontri che degeneravano frequentemente nella violenza» tra spinte irredentiste, nascenti nazionalismi e rivendicazioni sociali. Ricchezza e povertà, fermenti politici e violenza nelle piazze, incertezze ma pure anelito al futuro e a una modernizzazione galoppante, come dimostrano gli spettacoli aviatori che richiamano all’aerodromo della conca di Zaule ben centomila spettatori. E poi la cultura, «con una vivace attività teatrale, spettacoli circensi messi in scena al Rossetti, sale cinematografiche, caffè e tabarin; e c’erano, naturalmente, l’opera lirica e il Teatro Verdi». Finché, a destabilizzare questa città vitale e ribollente arriva, il 28 giugno del 1914, mentre i triestini frequentano i bagni di mare in ossequio alla modernissima moda di quello che oggi chiameremmo fitness, la notizia dell’assassinio a Sarajevo dell’erede al trono, l’arciduca Francesco Ferdinando.

È la storia che bussa prepotentemente alla porta di Trieste, che assisterà sgomenta al passaggio del corteo funebre con i feretri dell’arciduca e della moglie Sofia fino alla Stazione della ferrovia meridionale. È una lunga striscia luttuosa, che sembra segnare una cesura fra un prima e un dopo. «Di lì a un mese - osserva Todero -, da quelle stesse banchine, da quelle stesse stazioni sarebbero partiti migliaia di giovani per un viaggio che per molti sarebbe stato senza ritorno». Sarà un Natale triste, quello del 1914, il primo Natale di guerra, «pieno di ansia e nostalgia». Eppure le vetrine sono ancora piene di merci, sfavillanti e addobbate a festa, perché in quei primi cinque mesi del conflitto Trieste ha reagito positivamente e con forza: «Erano infatti stati affrontati i problemi più rilevanti quali i licenziamenti di massa, la disoccupazione, l’estrema povertà delle famiglie, l’indigenza di donne e bambini». In seguito, con l’entrata in guerra dell’Italia e l’approssimarsi del fronte e dei combattimenti, le cose sarebbero peggiorate, e di molto.





602 - Il Piccolo 19/12/13 Lubiana vuole una parte del “tesoro” di Tito
IL FANTOMATICO FORZIERE DEL MARESCIALLO

Lubiana vuole una parte del “tesoro” di Tito

 di Stefano Giantin

BELGRADO Oltre ad avere assunto i contorni confusi di una soap opera alla sudamericana, sta ora per trasformarsi in un grosso caso internazionale, possibile prossimo fronte di una feroce guerra diplomatico-giudiziaria tra parenti serpenti, il caso del “forziere di Tito”. Forziere, che nasconde anche ori, gioielli e denaro insieme a documenti del Maresciallo, custodito per più di trent’anni nelle segrete della Banca Nazionale Serba (Nbs) a Belgrado. Forziere su cui ora sembra voglia dire la propria pure la Slovenia. Lo ha svelato alla stampa di Belgrado l’avvocatessa Violeta Ko›i„-Mita›ek, legale di Zlatica Broz, nipote del defunto leader della Jugoslavia socialista e di Aleksandar “Miša” Broz, figlio di Tito e della partigiana Herta Haas e già alto papavero della diplomazia croata.

Avvocatessa che ha spiegato di essere stata informata che Lubiana, attraverso l’ambasciata slovena in Serbia, ha «presentato una richiesta ufficiale» al tribunale di Belgrado, competente in materia di spartizione tra i parenti dell’eredità di Tito, per sapere esattamente cosa contiene e «cosa è stato ritrovato nella cassaforte» che per più di trent’anni ha protetto i segreti di Tito. Slovenia che, dopo essersi rivolta in prima istanza alla presidenza serba, ha presentato poi domanda alla Corte, ha illustrato la legale, come uno dei Paesi «successori della Jugoslavia». Domanda che, ha suggerito l’avvocatessa, nasconderebbe il chiaro intento di Lubiana di spartirsi il ricco bottino scoperto nel cosiddetto “Depo 555” alla Nbs, riaperto in gran segreto in primavera dalla commissione presidenziale di Belgrado incaricata della faccenda.

Le petizioni slovene, come quelle simili annunciate in passato da Sarajevo, «non sono tuttavia ricevibili», come non lo sono quelle dell’avvocatura serba, ha spiegato un altro rappresentante legale dei tanti Broz. Unica eccezione “accettabile”, la partecipazione alla futura spartizione dell’ex famiglia reale serba, i Karadjordjevi„. Nel “Depo 555” sono stati infatti portati alla luce sì i reperti elencati sulla lista compilata alla morte di Tito, che includeva un paio di migliaia di monete d’oro, lingotti e contanti in valuta straniera. Ma una gran parte dei preziosi lì conservati, addirittura «il 99,9%», tra cui uova Fabergé, diamanti e medaglie di grande valore, sarebbero appartenuti prima ai Karadjordjevic, confiscati dopo il 1945, e potrebbero dunque essere legittimamente richiesti indietro dagli eredi dell’ultimo re jugoslavo. Altro che forziere di Tito, insomma. Così ha rivelato il mese scorso il presidente della commissione, Oliver Anti„, che ha specificato che nei forzieri sono state anche «trovate due o tre cose» in più rispetto a quanto elencato nella lista. E forse anche una misteriosa chiave che aprirebbe una ancora non scoperta cassaforte, potenziale colpo di scena per rinverdire i fasti della sempre più intricata telenovela.



603 -  East Journal 18/12/13 Allargamento UE: promossi Serbia e Montenegro, rimandate Albania e Macedonia
Allargamento UE: promossi Serbia e Montenegro, rimandate Albania e Macedonia

by Davide Denti  

Il Consiglio UE del 17 dicembre ha emanato le sue conclusioni sul processo d'allargamento UE per il 2013. Buone notizie per Serbia, Montenegro e Kosovo, cattive per Albania e Macedonia. Non pervenuta, come al solito, la Bosnia-Erzegovina.

La Serbia aprirà i negoziati d'adesione il 21 gennaio

Belgrado ha ottenuto una data per l'apertura della conferenza intergovernativa di negoziato d'adesione, a gennaio 2014. La decisione finale sulla data spetterà alla nuova presidenza greca del Consiglio UE, ma si tratterà con ogni probabilità del 21 gennaio 2014. Significativamente, la notizia è stata diffusa per prima dai ministri degli esteri degli altri stati dei Balcani già membri UE, lo sloveno Karl Erjavec, e la croata, Vesna Pusic. Una notizia "importante per l'intera regione", secondo il ministro degli esteri svedese Carl Bidlt.

Dopo lo storico accordo Dacic-Thaçi sulla normalizzazione delle relazioni con il Kosovo, e dopo i tentennamenti del Consiglio UE di giugno, la Serbia si avvia così nell'ultima parte del suo percorso di avvicinamento all'Unione Europea. I negoziati d'adesione dureranno alcuni anni e si apriranno con alcuni dei capitoli più controversi, come il capitolo 23 su Giustizia e diritti fondamentali. In ogni caso l'apertura dei negoziati conferma la prospettiva europea della Serbia e l'accelerazione impressa dall'amministrazione conservatrice Nikolic-Dacic alle relazioni con Bruxelles: l'apertura dei negoziati è "un obiettivo storico", atteso "da generazioni e da molti governi", secondo il primo ministro Dacic. L'UE continuerà a verificare la messa in atto degli accordi sulla normalizzazione delle relazioni con il Kosovo.

Il Montenegro apre cinque nuovi capitoli dei negoziati d'adesione

Buone notizie anche per Podgorica. Il Consiglio UE ha apprezzato gli sforzi del piccolo stato adriatico nell'ultimo anno e ha dato l'ok all'apertura di 5 nuovi capitoli negoziali, come ratificato dalla conferenza UE-Montenegro del 18 dicembre. Con l'apertura dei capitoli 5 (appalti pubblici), 6 (diritto societario), 20 (impresa e politica industriale), ma soprattutto 23 (magistratura e diritti fondamentali) e 24 (giustizia, libertà e sicurezza) i negoziati tra UE e Montenegro entrano nel vivo. Questi cinque capitoli si aggiungono ai due aperti in giugno, il 25 (scienza e ricerca) e il 26 (educazione e cultura), considerati capitoli "facili". Al contrario, i capitoli 23 e 24 sono tra quelli indicati in rosso nello screening della Commissione europea sulla legislazione montenegrina. Il governo di Podgorica dovrà impegnarsi in profonde riforme per portarli in linea con gli standard europei nei prossimi anni.

Il Kosovo prosegue i negoziati per un accordo d'associazione

Pristina ha avviato durante il 2013 i negoziati per un accordo d'associazione all'UE, il primo passo per la prospettiva europea del più giovane paese dei Balcani. Con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona nell'UE, peraltro, l'accordo d'associazione sarà firmato direttamente tra UE e Kosovo, non richiedendo quindi l'assenso dei cinque paesi membri UE che ancora non riconoscono l'indipendenza di Pristina dalla Serbia. Secondo la Commissione europea, i negoziati d'associazione dovrebbero concludersi già entro fine 2014; l'accordo è propedeutico alla tanto attesa liberalizzazione dei visti.

Nel frattempo, il viceministro degli esteri del Kosovo Petrit Selimi ha annunciato che il Kosovo estenderà il regime di assenza di visti con la Bosnia fino a metà gennaio. "Dopodichè, saranno prese misure di reciprocità con l'introduzione dei visti". Secondo Selimi, "migliaia di studenti e uomini d'affari sono stati sbattuti fuori dalla Bosnia dal 2008 a causa del mancato riconoscimento dei nostri documenti." La Bosnia è uno tra i paesi europei che non riconoscono l'indipendenza del Kosovo, anche a causa del parere negativo espresso costantemente dalla Republika Srpska, l'entità a maggioranza serba della Bosnia. Selimi si è lamentato che la Bosnia sia il paese d'Europa col regime di visti più difficile per i cittadini kosovari: "non ho mai ricevuto un visto per più di 48 ore".

L'Albania perde un giro: lo status di paese candidato è rimandato al giugno 2014

Così come era stato per Belgrado a giugno, questa volta è Tirana che perde un giro nel percorso d'integrazione. Nonostante la valutazione positiva di Commissione e Parlamento europeo, il paese delle aquile non è riuscito a convincere diversi stati membri (in primis l'Olanda, ma anche Germania, Francia, Gran Bretagna e Danimarca, complici anche le paure dell'immigrazione), e il Consiglio UE non ha ratificato la concessione all'Albania dello status di paese candidato.

Non è servita a tal fine la lettera di sostegno a Tirana firmata invece dai capi delle diplomazie di altri paesi membri, tra cui  Italia, Austria, Ungheria, Bulgaria, Croazia, Slovenia, Estonia, Lituania e Irlanda. Il Commissario UE all'allargamento Štefan Füle si è dovuto limitare a dichiarare che il Consiglio ha riconosciuto i progressi dell'Albania e che “un’indicazione chiara che una decisione sarà presa nel primo semestre 2014.″ Se ne riparla a giugno, insomma. I negoziati d'adesione con Tirana, se tutto va bene, dovrebbero iniziare quindi tra fine 2014 e inizio 2015. Il neo-premier albanese Edi Rama aveva recentemente dichiarato di voler portare il paese nell'UE entro dieci anni.

Nessun progresso per Macedonia e Bosnia-Erzegovina

Non ci sono novità per quanto riguarda Skopje, che da anni è bloccata nel suo percorso d'integrazione dalla disputa sul nome con la Grecia. Nonostante proseguano i negoziati con la questione, la debolezza politica della Grecia dovuta all'eurocrisi non fa presagire alcuna novità nel breve termine. La Macedonia è candidata all'adesione all'UE dal 2005 ma, nonostante i continui pareri positivi di Commissione e Parlamento, il Consiglio UE si è sempre rifiutato di aprire i negoziati per via del veto greco, sostenuto anche da Cipro e Bulgaria.  

Anche la Bosnia-Erzegovina resta bloccata nel suo percorso d'integrazione europea. In questo caso, la pietra d'inciampo è costituita dalla sentenza CEDU nel caso Sejdic-Finci del 2009, che richiede a Sarajevo di modificare la sua Costituzione (allegato 4 del trattato di pace di Dayton) per permettere ai membri delle minoranze di candidati al Senato e alla presidenza della Repubblica. Nonostante si sia aperto un dibattito sulla questione, l'UE continua a considerare tale riforma come una precondizione per una candidatura della Bosnia all'UE. Settimana scorsa Sarajevo ha anche perso l'accesso a metà dei fondi europei di preadesione (45 milioni di euro) per via della mancanza d'accordo tra il governo statale e le due entità del paese su un meccanismo di coordinamento per le relazioni con l'UE. A rischio sono 560 milioni di euro nei prossimi 7 anni. Per le stesse ragioni la Bosnia rischia di restare fuori dal programma Erasmus.




Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia
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