Rassegna Stampa

MAILING LIST HISTRIA
RASSEGNA STAMPA SETTIMANALE

A CURA DI MARIA RITA COSLIANI, EUFEMIA GIULIANA BUDICIN E STEFANO BOMBARDIERI

 N. 898 – 14 Dicembre 2013
   
Sommario

579 - La Voce del Popolo 14/12/13 Simone Cristicchi sul tour in Istria: «È stato bellissimo. Prima o poi torno» (Daniele Kovačić)
580 - La Voce del Popolo 12/12/13 Pola - Cristicchi in Comunità Successo senza pari (Daria Deghenghi)
581 - Il Piccolo 12/12/13 Cristicchi: «Basta scontri, vengo in pace» - Da Pola piovono smentite dopo la denuncia di atti intimidatori. Ma l'artista conferma: «Gomma bucata e manifesti lordati» (Furio Baldassi)
582 - La Voce del Popolo 14/12/13 Magazzino18 - Umago: «Immaginate le vostre città svuotate...» (Serena Telloli Vežnaver)
583 - Il Piccolo 12/12/13 Ovazioni e standing ovation per "Magazzino 18" (p.r.)
584 - La Voce del Popolo 11/12/13 L’Atlantide sommersa esce dal magazzino (Kristjan Knez)
585 - La Voce del Popolo 14/12/13 Cambiare il mondo? Simone Cristicchi ci ha provato (Ilaria Rocchi)
586 - La Voce del Popolo 14/12/13 Del sì, del da, dello ja -  Magazzino 18 (Milan Rakovac)
587 - Il Piccolo 12/12/13 Fragiacomo: tromba di latta per ricordare ancora l'esodo (Carlo Muscatello)
588 - La Voce del Popolo 14/12/13 La CNI è il partner naturale del Veneto (Krsto Babić)
589 - La Voce del Popolo  10/12/13 Resa dei beni agli stranieri: presto la legge (Dario Saftich)
590 – La Voce del Popolo  07/12/13 E & R - Basta coi rancori: in trenta si incontrano a Crassiza (Roberto Palisca)




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579 - La Voce del Popolo 14/12/13 Simone Cristicchi sul tour in Istria: «È stato bellissimo. Prima o poi torno»
Simone Cristicchi sul tour in Istria: «È stato bellissimo. Prima o poi torno»

Daniele Kovačić

Dopo aver toccato Pirano, Pola e Umago, con la tappa buiese il mini-tour istriano dello spettacolo che ha emozionato tutti si conclude un capitolo del racconto destinato a ritornare prima o poi dalle nostre parti. Lo vorrebbe lo stesso Simone Cristicchi, protagonista di “Magazzino 18”.

Ce lo conferma a margine dell’ultima rappresentazione dedicata ai ragazzi delle scuole superiori della Comunità nazionale italiana di Croazia e Slovenia. “Per me è stata un’avventura bellissima recitare per le Comunità degli Italiani – dice –, e non dimentichiamo l’emozione di recitare questa storia per alcuni sloveni e alcuni croati, che sono venuti a vedere lo spettacolo, forse incuriositi dal clamore che ha avuto. Sono felicissimo anche che un quotidiano sloveno abbia dedicato una pagina intera a una mia intervista”.

A Cristicchi piace recitare davanti a una platea di giovani, specie “quando si raccontano temi di cui i giovani sanno poco, perché la storia non è stata loro raccontata abbastanza, o perché semplicemente sono troppo giovani”, ha commentato.

Alcuni erano in lacrime

L’emozione è stata forte, come in ogni serata, anche tra i ragazzi. All’uscita dalla sala alcuni erano in lacrime e non hanno voluto rispondere alle nostre domande, forse per imbarazzo. Altri hanno commentato positivamente la messinscena. Due ore di spettacolo, senza pause, erano forse troppe per i ragazzi? Niente affatto, secondo i nostri ragazzi che, eccezion fatta per qualcuno, sono rimasti in silenzio, catturati dalle scene pacate, ma allo stesso tempo contigue e senza pause. Il Cristicchi cantante che emerge nel lato “musical” dello spettacolo ha fatto in modo che l’attenzione dei ragazzi rimanesse piuttosto alta. In platea anche Norma Zani, responsabile del Settore scuola della Giunta esecutiva dell’Unione Italiana.

E ci sono tanti esodi nel mondo

“Magazzino 18” ha colpito pure la preside della SMSI “Leonardo Da Vinci” di Buie, Irena Penko. Spiegando come i giovani siano stati preparati dal docente di storia, che ha trattato il tema dell’esodo, si è detta emozionata. “È stato toccante anche per noi professori. Purtroppo ancora oggi siamo testimoni di altri esodi nel mondo. La storia non insegna, lo spettacolo mi ha segnato. Ci penso spesso... poteva capitare a me. Spero tanto che ai ragazzi sia rimasto quel messaggio lanciato da Cristicchi, di liberare la mente dalle barriere del passato, senza però mai dimenticare”.


Grande festa alla CI

Nel post-serata Simone Cristicchi si è recato presso la Comunità degli Italiani di Buie, dove ad attenderlo sono stati il vicesindaco per la minoranza italiana, Arianna Brajko, la presidente della CI Eliana Barbo e altre personalità. Le due rappresentanti hanno ringraziato l’attore per il suo apporto alla cultura di questi luoghi e per la sua missione che consiste nell’informare gli italiani che vivono nel Bel Paese la nostra storia, compresa quella dei rimasti, ancora sconosciuta ai più.
Diversi connazionali non sono riusciti ad ottenere il biglietto, ma hanno voluto comunque aspettare l’artista fuori dal teatro e incontrarlo di persona in Comunità.
“Ho letto sul giornale la sua intervista e visto in TV degli spezzoni delle scene, ma non sono riuscita a vedere lo spettacolo completo. Le posso assicurare che sono emozionata ugualmente. Grazie per quello che sta facendo”, ha detto una connazionale che ha “catturato” Cristicchi appena giunto in sede. Sull’onda di tale richiesta e interesse per lo spettacolo, non è escluso che l’anno prossimo “Magazzino 18” torni a calcare i palcoscenici di casa nostra.

Daniele Kovačić





580 - La Voce del Popolo 12/12/13 Pola - Cristicchi in Comunità Successo senza pari
Cristicchi in Comunità Successo senza pari

Standing ovation per Simone Cristicchi e “Magazzino 18” al salone degli spettacoli della Comunità degli Italiani di Pola. Ostilità a parte, anche perché di chiara entità minoritaria, il musical del cantautore romano dedicato all’esodo giuliano-dalmata è stato un successo senza pari. Sala gremita, pubblico commosso, lacrime agli occhi, risate di tutto cuore, emozioni a non finire. E poi la sorpresa di scoprire in un cantante famosissimo un attore eccellente, geniale nel ruolo comico (l’archivista-contabile-impiegato-italiano-medio-ignorante-di-storia-e-geografia-patria, probabilmente senza colpa né pena “visto l’oblio collettivo imposto dall’alto”) e ugualmente penetrante nella parte drammatica (lo spettro delle masserizie cui è affidata la narrazione, epica, dello svuotamento di Pola italiana). Ed ancora, dulcis in fundo, la sorpresa di ritrovare in Comunità quella parte non indifferente di connazionali che per un motivo o per l’altro l’hanno più disertata che frequentata nel corso dell’ultimo decennio. Potere del personaggio e potere dell’argomento.

Simone Cristicchi ha conquistato Pola come in precedenza aveva fatto con Trieste, con Pirano e altrove. In questo caso, però, lo spettacolo è stato ridotto ai minimi termini (monologo scandito dai brani musicali legati all’esodo, suoi e di Endrigo, e proiezione dei video, eccellenti) nell’impossibilità materiale di portare in tour il coro dei bambini e l’orchestra. Sulla buona accoglienza della messinscena e le occasionali contestazioni si è espresso le stesso Cristicchi, che abbiamo intervistato nel suo camerino prima dello spettacolo. “Magazzino 18 si sta guadagnando i favori del pubblico ovunque e persino in località come Reggio Emilia, che temevo per la sua tradizione legata alla resistenza. Infatti mi aspettavo una certa ostilità e invece è stato un successo. Il fatto è che questa storia dell’esodo, al di fuori dei confini di queste terre, è quasi completamente sconosciuta: il musical dell’esodo è una cosa decisamente nuova, costituisce un salto di qualità e forse è per questo che il tour si va via via allargando mentre è ancora in pieno svolgimento. Infatti lo riproporremo l’anno prossimo, da ottobre in poi, anche nei grandi teatri regionali che inizialmente non erano stati previsti dal calendario: a Milano, a Torino, a Padova, a Bologna eccetera. Ieri sera a Pirano è stata un’emozione fortissima, paragonabile a quella della prima di Trieste”.
La differenza di percezione nel pubblico “esule” e “rimasto”? “Nessuna, almeno io non ne ho trovata alcuna – prosegue Cristicchi –. In realtà pensavo di trovare persone più ideologizzate, ma non è andata così. Il pubblico trasmette emozioni forti, si sentono i sospiri, i singhiozzi, si vedono lacrime, ci si commuove. Mi chiamano il loro ambasciatore ed è bellissimo sentirselo dire. Naturalmente c’è sempre chi entra ed esce con la stessa idea. Qui a Pola hanno imbrattato alcuni manifesti scrivendoci “spettacolo per fascisti” senza averlo mai visto: non è giusto, ma va bene così”.

Il parere del pubblico. L’applauso lungo, caloroso e sincero tributato all’artista a fine spettacolo è indice di apprezzamento plateale, e tuttavia sottili variazioni di umore sono percepibili intervistando varie tipologie di spettatori. Più emotivi gli anziani e gli esuli da Pola, e più critici i giovani, favoriti da un maggiore distacco (temporale e quindi anche affettivo) dagli eventi storici trattati.

Corrado Ghiraldo (professore di storia) trova lo spettacolo “bello, anche se, al tempo stesso, inevitabilmente pesante, impegnativo, delicato”. Lo considera “riuscito soprattutto dal punto di vista estetico ed in particolare per l’accostamento dei filmati, dei brani d’autore e del coro dei bambini ai lunghi monologhi dell’attore: insomma, uno spettacolo completo anche per il sottile umorismo che serve a smascherare l’ignoranza e dei passaggi estremamente toccanti”. Entusiasta al punto della massima commozione Antonio Mirković (medico in pensione): “Migliore di quanto si aspettasse, sicuramente, sia l’attore che l’opera, eccellenti e assolutamente fuori dagli schemi. Ho avuto l’impressione che Cristicchi abbia recitato con l’anima, che abbia dato se stesso su quel palcoscenico”. Polesana residente a Taranto, Fulvia Siscovich Sizzi ha scelto la sua città per vedere lo spettacolo e si è portata dietro i figli per “insegnare loro la storia della terra materna”. “Avrei potuto vederlo ovunque in Italia, Magazzino 18, ma a Pola è diverso perché qua le emozioni si moltiplicano. Sono con mio figlio di 21 anni e la fidanzata perché volevo imparassero a conoscere il passato e le sofferenze della nostra terra e di un popolo”. Infine l’impressione di Elena Vian, studentessa: “Cristicchi è un grandissimo artista, possiede una voce fantastica ed è molto dinamico ed interessante sul palco. Dal momento però che non è interessante solo il cantautore, ma soprattutto il tema, e cioè l’esodo, penso sia curioso che per la prima volta questo fatto storico, usato e storpiato dalla destra in cause politiche, sia ora stato cantato da un artista che si dichiara di sinistra. Personalmente sono dell’opinione che si debba far risaltare il fatto che Cristicchi sia un artista, e non uno storico. In certi punti credo abbia anche oltrepassato i limiti, e forse anche escluso i ‘’rimasti’’. Non mi sono documentata molto prima di andare ad assistere a questo spettacolo per non farmi influenzare da idee altrui”, ha concluso.

Daria Deghenghi




581 - Il Piccolo 12/12/13 Cristicchi: «Basta scontri, vengo in pace» - Da Pola piovono smentite dopo la denuncia di atti intimidatori. Ma l'artista conferma: «Gomma bucata e manifesti lordati»
Cristicchi: «Basta scontri, vengo in pace»

Da Pola piovono smentite dopo la denuncia di atti intimidatori. Ma l’artista conferma: «Gomma bucata e manifesti lordati»

 di Furio Baldassi

TRIESTE Un putiferio. Quasi uno psicodramma collettivo. L’incidente, chiamiamolo così, in cui è rimasto coinvolto suo malgrado Simone Cristicchi l’altra sera a Pola, ha letteralmente scoperchiato un pentolone. Telefoni caldi e linee roventi, ieri, per tutta la giornata. Tutti a smentire, tutti a contestare l’episodio, a sminuirne la portata, talvolta addirittura a negare che possa essere accaduto. Non a Pola, non in Istria, non in questi tempi di pacificazione. Solo che, alla fine della giornata, al termine dell’ennesimo trionfo colto a Umago, ancora grondante di sudore, lo stesso Cristicchi ha voluto fare chiarezza. E dunque: è vero che aveva segnalato l’episodio, che era stata tagliata una gomma a uno dei suoi furgoni e che aveva visto personalmente dei manifestini ritoccati in maniera oltraggiosa. Punto.

Ma dietro, sotto e attorno, si potrebbe quasi scrivere un romanzo, perchè l’agitazione creata dall’evento è stata notevole ed è andata anche oltre la rilevanza dell’evento stesso. Tra i primi a farsi vivi ieri mattina Maurizio Tremul dell’Unione italiani, preoccupatissimo per la notizia. A stretto giro lo ha seguito il parlamentare del Sabor e presidente dell’Unione italiana, Furio Radin, molto scettico su quanto accaduto. A ruota, è arrivato infine il presidente del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Milos Budin, forse il più perplesso sul misterioso episodio. Atteggiamento che invece non ha seguito il senatore del Pd, Francesco Russo. «Sappiamo che a Trieste le polemiche e i pregiudizi che erano emersi - ha scritto - sono stati spazzati via dagli applausi e dai commenti, tutti entusiastici, di chi ha potuto assistere allo spettacolo di Simone Cristicchi. Per questo è davvero triste constatare che c’è ancora chi cerca di impedire o di strumentalizzare una rappresentazione che è riuscita a raccontare con estrema sensibilità e in modo equilibrato un dramma, tuttora tanto vivo, del passato di queste terre».

In serata, finalmente, il chiarimento finale. «È vero - ha confermato il cantante - ho visto dei manifesti imbrattati e ci hanno tagliato una gomma. Per carità, non accuso nessuno, poteva succedere anche a Roma o Napoli. Certo, mi sarebbe stata fatta cosa gradita se qualcuno avesse subito preso le distanze dal gesto. Del resto finora, ovunque e in varie occasioni, mi hanno dato del fascista, attaccato in varie maniere, non ci faccio più caso. Noi, voglio sia chiaro - conclude Cristicchi - portiamo in giro un messaggio di pace, e questa cosa, lo ammetto, mi ha un po’ spaventato. Ma il successo, il calore riscontrati ovunque, Pola compresa, non può che farmi parlare di bilancio positivo». Oggi pomeriggio ultima replica alle 17.30 per i ragazzi delle scuole a Buie.





582 - La Voce del Popolo 14/12/13 Magazzino18 - Umago: «Immaginate le vostre città svuotate...»
«Immaginate le vostre città svuotate...»

Serena Telloli Vežnaver

Sono le 19: si spengono le luci nel Teatro cittadino di Umago ed entra in scena lui: Simone Cristicchi, unico protagonista dello spettacolo “Magazzino 18”. Il silenzio è assoluto nella sala gremita per quello che è in assoluto l’evento dell’anno a Umago, un evento che resterà sicuramente impresso nella memoria dei fortunati che hanno avuto la possibilità di assistervi. In quasi due ore Cristicchi rievoca una storia lontana, la nostra storia, quella vissuta dai nostri nonni, dagli esuli d’Istria, di Fiume e Zara. Una pagina di storia strappata da tutti i libri scolastici, una tragedia della quale per troppo tempo non si è parlato, non si è indagato e soprattuto per la quale nessuno ha mai pagato. Una tematica certo non facile da affrontare, ma che Cristicchi ha saputo trattare con grandissima sensibilità ed equilibrio, dividendo le colpe tra tutti e senza puntare il dito contro nessuno.
“Immaginate – dice il cantautore italiano – Cristicchi – le vostre città, le strade, le piazze, i negozi con i loro rumori, le voci, i colori e i profumi, insomma la vostra terra, quella dove siete nati e cresciuti... Immaginate che un giorno tutto questo non esista più: niente più voci, niente più rumori e suoni conosciuti..il silenzio e il vuoto assoluto..Ecco, questo è successo quasi 70 anni fa in Istria, a Fiume e in Dalmazia!”.

Due ore con il fiato sospeso

Per due ore Cristicchi ha tenuto il pubblico con il fiato sospeso, elencando date, decenni, tragedie, rastrellamenti, crimini compiuti da entrambe le parti, i comunisti, i fascisti, dagli italiani e contro gli italiani. Gli spettatori si sono trovati ad assistere, come se fossero stati presenti, alla tragedia delle foibe, quando nella sala sono esplosi i colpi di pistola che hanno ucciso migliaia di persone; hanno sentito il gelo nelle ossa provato dagli esuli che con treni e navi di fortuna arrivavano in Italia, stranieri nella loro terra e trattati quali profughi una volta giunti in Italia.
Come ha ricordato Cristicchi, nel Magazzino numero 18 del porto vecchio di Trieste sono rimaste ammassate per decenni le masserizie degli esuli, tutto quello che sono riusciti a portarsi dietro nel viaggio, oggetti che economicamente non hanno nessun prestigio ma di inestimabile valore sentimentale per chi, sradicato dalla sua quotidianità, si aggrappava ai ricordi.

Un solo uomo per migliaia di nomi

E sul palco un solo uomo ma migliaia di nomi, i nomi di tutti coloro che hanno vissuto questa immane tragedia, fantasmi che ancora oggi si aggirano tra le mura del magazzino numero 18..perchè, dice Cristicchi, l’undicesimo comandamento è: non dimenticare! Lo spettacolo è stato più volte interrotto da applausi scroscianti ed è terminato con una lunga standing ovation che Cristicchi, visibilmente commosso, ha virtualmente dedicato ai veri protagonisti della serata: esuli e rimasti. Subito dopo Cristicchi ha avuto il piacere di intrattenersi presso la C.I. “Fulvio Tomizza” di Umago, dove ha potuto conoscere numerosi presidenti delle comunità degli italiani dell’Umaghese e Buiese.
Durante l’incontro il presidente del sodalizio umaghese, Pino Degrassi, ha ringraziato a nome di tutti Simone Cristicchi per la straordinaria serata, mentre il vicesindaco Floriana Bassanese Radin ha ufficialmente invitato l’artista a ritornare ad Umago per il Forum Tomizza, tra aprile e maggio, auspicando che “Magazzino 18” riesca a replicare il successo con ulteriori date.

Serena Telloli Veznaver





583 - Il Piccolo 12/12/13 Ovazioni e standing ovation per "Magazzino 18"
Ovazioni e standing ovation per “Magazzino 18”

  POLA Ovazioni e pubblico tutto in piedi per l'interminabile applauso finale dopodichè tutti hanno voluto complimentarsi personalmente e stringere la mano a Simone Cristicchi che quindi si e' trattenuto presso il bar comunitario. Il suo Magazzino 18 ha sicuramente fatto breccia nel cuore di quei polesani coinvolti più o meno direttamente nelle tragiche vicende dell' esodo tanto che su diversi volti abbiamo notato scorrere lacrime di commozione. Le due ore dello spettacolo sono trascorse all'insegna della massima serenità e tranquillità, merito soprattutto dalle positive vibrazioni emanate dal protagonista e autore nonchè del suo approccio tematico, libero da connotazioni politiche o di parte.

La nota scrittrice Nelida Milani Kruljac considerata il massimo intelettuale della Comunita' nazionale italiana, ha definito il musical «spettacolo commovente, con un forte messaggio umanistico. Con il passare del tempo il cono d'ombra viene rimosso e la libertà della democrazia fa riafforare la verita». Nella sala grande della Comunità la cui capienza massima è di 200 persone, erano stipati 250 spettatori, un record. Dalle vicine Gallesano e Dignano è arrivata una corriera con 50 persone. In sala notati esponenti della Federazione degli Esuli di Trieste, il presidente del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia di Trieste Milos Budin, il Console Generale d'Italia a Fiume Renato Cianfarani, mentre l'Unione Italiana era rappresentata da Rosanna Bernè della giunta esecutiva. Dell'Università Popolare di Trieste notato il vice presidente Fabrizio Somma, a cui abbiamo chiesto se il tour potrebbe avere un seguito. «Come organizzatori - ha spiegato - ci preme molto allestirlo a Fiume però finora non è stato possibile perchè le disponibilità del Teatro Ivan Zajc e quella dell'artista non combaciavano. Nel marzo prossimo molto probabilmente ci sarà ancora qualche tappa istriana e un ulteriore spettacolo per le scolaresche». (p.r.)





584 - La Voce del Popolo 11/12/13 L’Atlantide sommersa esce dal magazzino
L’Atlantide sommersa esce dal magazzino

Kristjan Knez

La sera di ieri l’altro, teatro Tartini a Pirano, gremito, occupato fino all’ultimo posto, ha ospitato la prima tappa istriana di “Magazzino 18”. Simone Cristicchi, noto cantautore prestatosi alla recitazione, rievoca le pagine più dolorose della storia recente della nostra terra nonché lo strappo irreversibile provocato dall’esodo, che sconquassò ed alterò tutto e tutti, con riferimenti alle complesse vicende del confine orientale.

A cimentarsi troviamo un romano, che con noi non ha alcun legame, a parte parlare una lingua comune. Si è avvicinato alla questione con il desiderio di raccontare una pagina di storia italiana ancora misconosciuta, che la Nazione ha rimosso, cancellato dalla memoria, relegando quella porzione della storia nazionale negli anfratti, disinteressandosi di quelle vicende, che rimandavano, inevitabilmente, anche al fascismo, che nella Venezia Giulia, area plurale per antonomasia, aveva condotto una politica discriminatoria e sprezzante nei confronti degli “altri”, e a una guerra persa, con pesanti conseguenze.

Il Paese dimenticò

Quegli accadimenti, i drammi vissuti e la fine di un popolo lungo i lidi orientali dell’Adriatico – che da quel momento in poi si ridusse a sparuta minoranza, quasi una reliquia, ma con un cuore ancora pulsante – furono colpiti da una sorta di ostracismo e accantonati. Per troppo tempo l’argomento era finito nel dimenticatoio.

A Trieste se n’è sempre parlato, ma la città giuliana non è l’Italia intera. Il Paese se ne disinteressò, considerando quegli eventi funesti come un problema esclusivamente locale. Così proprio non era, una parte del suo territorio fu recisa, una fetta consistente dei suoi abitanti – figli di quella terra – lasciò la regione e riparò nella penisola, una presenza e una cultura inscindibilmente legate ad essa furono spazzate.

Tutto ciò fu anche una conseguenza della politica di Roma, oltre che di una guerra scellerata, alle quali si accostarono vecchie ruggini e disegni politico-nazionali risalenti al secolo precedente. Perciò riguardavano eccome l’intero Paese.

Un macigno duro da digerire

Ma a pagare lo scotto furono proprio le genti delle province orientali, quelle più “esposte”, che dopo la Grande Guerra chiusero i “lembi della Patria”.
Fu un macigno difficile da digerire, per chi fu sradicato e perse tutto, ma anche per chi rimase, ritrovandosi improvvisamente orfano.

Scelte dolorose

In quel frangente si dovettero fare delle scelte, indubbiamente dolorose, le famiglie si scissero, le contrade si svuotarono, fu uno stillicidio di partenze. Non servono grandi parole, è sufficiente prendere in mano un registro scolastico di quegli anni per cogliere cosa sia successo; le classi si dimezzavano, quindi si riducevano ulteriormente, per ridursi a poche unità. Finivano amicizie, simpatie o amori, la vita di una comunità.

“Pensate alle vostre città, al vostro quartiere”, sottolinea Cristicchi, ma anche “le voci, i rumori, la gente, le ricette”, sono “luoghi ben precisi, posti come carte d’identità, dicono da dove venite”, dopo però “scende il silenzio, non ci sono più profumi, i luoghi sono senza gente, c’è il vuoto, il silenzio”.

O ancora “immaginate una Napoli senza napoletani, una Firenze senza fiorentini o una Roma senza romani”.

Lo svuotamento

L’artista, mattatore ma anche interprete sensibile, ha individuato ciò che sovente si sorvola e non si affronta: lo svuotamento, che, come l’urto di un maremoto, aveva lasciato rovine e squallore.

Quante pagine di storia sono state scritte? Tante, forse anche troppe, di ogni genere. Ma è stata la cultura ad avvicinare al pubblico più vasto quella sciagura: la letteratura, la musica e ora anche una rappresentazione teatrale, pensata con il cuore, ma al tempo stesso rigorosa nel racconto dei fatti.

Le cose chiamate con il loro vero nome

La narrazione è immediata, le cose vengono chiamate con il loro nome, non vi sono omissioni. Si rammenta la fine della Grande Guerra e il compimento dell’unità nazionale, al tempo stesso non si tace sulla malasorte toccata a sloveni e croati durante il ventennio, che sfaldò il delicato equilibrio etnico, o le efferatezze compiute dal regio esercito e dalle camicie nere nel corso del secondo conflitto mondiale.

Si arriva alla firma dell’armistizio dell’8 settembre, alla dissoluzione istituzionale e militare dello Stato, che alimentò le vendette e fece emergere i vecchi rancori.

A poco a poco affiorano le pagine dimenticate di quella che definisce l’“Atlantide sprofondata”.

Vittime ed eroi, i monfalconesi, Goli...

Si ricordano le foibe, la carneficina di Vergarolla, la figura del chirurgo Geppino Micheletti che, pur avendo perso i suoi due figli in quella che doveva essere una tranquilla giornata agostana al mare, continuò a prestare la sua opera di soccorso, l’esodo straziante da Pola, con i chiodi che mancano per formare le casse in cui riporre gli averi che prenderanno il mare, il “Toscana”, la cui sirena “sembra il lamento di un capodoglio”, la dura realtà dei campi profughi, la piccola Marinella morta assiderata a un anno d’età nella gelida Padriciano, la difficoltà dell’inserimento nell’Italia ancora pesantemente provata, la nostalgia per la terra natia abbandonata, che si conclude con più di un suicidio, e ancora il controesodo dei monfalconesi e Goli otok, che abbrutiva i malcapitati.

Isole di un mondo che scompare

I silenzi. Infine il riferimento anche a noi, che l’ondata non ci ha portato via, per lungo tempo marchiati a fuoco, con le case dei nostri cari che divennero “isole per coltivare un mondo che scompare”. La nostra storia è, finalmente, uscita dal magazzino, per troppi decenni riposta in uno sgabuzzino come una cianfrusaglia. La rappresentazione è arrivata anche in Istria. Un “foresto” è venuto da noi a proporci il racconto della nostra gente. E ci siamo commossi.

Le masserizie accatastate nel Porto vecchio di Trieste sono il simbolo dell’amnesia e al tempo stesso rimandano alla più grande tragedia d’Italia, ma occultata e obliterata. L’archivista Persichetti è l’emblema dell’italiano medio che nulla sa, che ignora, che si trova spaesato, impacciato nell’uso dei toponimi, che considera una “terra incognita” ciò che si trova “di là”.


Ha ridato dignità ai dimenticati

Accanto ai quadretti comici che strappano inevitabilmente il sorriso, la narrazione, accompagnata da momenti musicali, parla di una civiltà perduta, di quel pezzo d’Italia estirpato, tuttavia ancora presente nell’architettura, nelle chiese, nelle pietre e in chi tuttora parla, pensa, sogna e s’illude nella lingua in cui scriviamo queste righe. Sono uno storico e sono avvezzo alle ricostruzioni aride del passato; la presentazione di Cristicchi, però, ha ridato dignità a chi è stato dimenticato e l’ha permeata di sentimento.

Non succede spesso, ma a Pirano sono stato attraversato dalle emozioni.








585 - La Voce del Popolo 14/12/13 Cambiare il mondo? Simone Cristicchi ci ha provato
Cambiare il mondo? Simone Cristicchi ci ha provato

Ilaria Rocchi

Le luci si sono spente, è calato il sipario sulla tournée istriana di “Magazzino 18”, lo spettacolo più atteso e applaudito dell’anno. Almeno dal nostro pubblico. L’auspicio, ora, è che si tratti davvero solo della conclusione di una prima parte della tournée nelle nostre terre. Perché tanti, troppi, sono rimasti “fuori”. Peccato, non hanno potuto assistervi e avrebbero fortemente voluto poterlo fare. I biglietti messi a disposizione (gratuitamente) dagli organizzatori sono volati via subito. Sold out assoluto. Un successo senza pari. Che si spera sia replicato anche a Fiume.

La più bella, suggestiva ed emozionante lezione di storia che si sia mai ascoltata. Ha scosso quanti hanno potuto ascoltarla. Non è stato dimenticato nulla nel racconto del tormentato e complesso Novecento giuliano, dai luoghi simbolo dell’odio etnico – come l’incendio dell’hotel “Balkan” – all’avvento del fascismo con le sue violenze, ai campi di internamento italiani, fino
all’8 settembre e a tutto quel che accadde dopo: l’invasione jugoslava, i nuovi arrivati, i druzi, le foibe, l’esodo, la vita nei campi profughi, la strage di Vergarolla, le vicende dei “rimasti”, sradicati quanto quelli che partirono, i monfalconesi, quelli finiti all’Isola Calva...

Tappate le bocche anche a quanti avevano gridato “al lupo, al lupo fascista”. Hanno perso coloro che avevano cercato di fargli battaglia per partito preso. Una sparuta minoranza, un partitello che voleva creare tensione, inficiare la portata del fenomeno “Magazzino 18” con pretestuose e vacue polemiche. Sconfitti su tutti i fronti. L’Istria ha dimostrato (e non ieri) di essere maggiorenne e vaccinata: i balordi, l’intolleranza, l’ostracismo non fanno presa. Qui, del resto, non è stato necessario schierare carabinieri e poliziotti per scongiurare “incidenti”.

E poi, nelle sale dell’Istria, oltre a tanti connazionali, c’erano anche sloveni e croati, che hanno assistito alla messa in scena. E hanno condiviso sensazioni e lacrime. Non una sola voce di contestazione. Ed è ciò che conta, alla fin fine, come ha ammesso lo stesso artista commentando la faccenda dello pneumatico lacerato e della locandina imbrattata. Pace e bene, hanno mandato a dire Cristicchi e il suo staff. Il messaggio è stato recepito: da Pirano a Pola a Umago a Buie è stato un coro di ovazioni.
Non sarà solo effetto collaterale di “Magazzino 18”, ma guarda caso, in coincidenza con l’entrata in scena di Cristicchi e dell’Istria “divisa”, a Padova si è consumato un dialogo, finora tabù e impensabile, tra la sezione locale dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia e una realtà degli esuli, l’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia.
Nei giorni scorsi, poi, Cristicchi è stato intervistato dai giornalisti sloveni. Un quotidiano sloveno ha titolato, citandolo: “Non ti costa niente se ci provi a cambiare il mondo”. Lui ci ha provato. E, per quanto ci riguarda, ci è riuscito: ha fatto uscire la nostra storia da quel magazzino abbandonato nel Porto vecchio di Trieste, costringendo il grande pubblico a confrontarsi con questa pagina spesso dimenticata.




586 - La Voce del Popolo 14/12/13 Del sì, del da, dello ja -  Magazzino 18
Del sì, del da, dello ja    

Magazzino 18

“Magazzino 18” in tournée in Istria. Un dramma musicale, l’autore e attore Simone Cristicchi, già vincitore di San Remo, ha scritto una canzone che a mio avviso si ricollega direttamente a “Pola 1947” di Sergio Endrigo pur non evidenziandolo. È come se non si potesse raccontare l’esodo istriano in modo diverso che non con una ballata sentimentale che non offende nessuno. Al centro c’è il Magazzino 18 del Porto Vecchio di Trieste, il luogo dove sono conservate le masserizie degli esuli – oggetti d’arredamento, libri, giocattoli, piccoli utensili per la casa… Vi propongo di seguito la canzone di Simone Cristicchi, quella che porta lo stesso nome dello spettacolo:
“Siamo partiti in un giorno di pioggia/cacciati via dalla nostra terra/che un tempo si chiamava Italia/e uscì sconfitta dalla guerra/Hanno scambiato le nostre radici/con un futuro di scarpe strette/e mi ricordo faceva freddo/l’inverno del ‘47/E per le strade un canto di morte/come di mille martelli impazziti/le nostre vite imballate alla meglio/i nostri cuori ammutoliti/Siamo saliti sulla nave bianca/come l’inizio di un’avventura/con una goccia di speranza/dicevi “non aver paura”/E mi ricordo di un uomo gigante/della sua immensa tenerezza/capace di sbriciolare montagne/a lui bastava una carezza/Ma la sua forza, la forza di un padre/giorno per giorno si consumava/fermo davanti alla finestra/fissava un punto nel vuoto diceva/Ahhah/come si fa/a morire di malinconia/per una terra che non è più mia/Ahhah/che male fa/aver lasciato il mio cuore/dall’altra parte del mare/Sono venuto a cercare mio padre/in una specie di cimitero/tra masserizie abbandonate/e mille facce in bianco e nero/Tracce di gente spazzata via/da un uragano del destino/quel che rimane di un esodo/ ora riposa in questo magazzino/E siamo scesi dalla nave bianca/i bambini, le donne e gli anziani/ci chiamavano fascisti/eravamo solo italiani/Italiani dimenticati/in qualche angolo della memoria/come una pagina strappata/dal grande libro della storia…/Quando domani in viaggio/arriverai sul mio paese/carezzami ti prego il campanile/la chiesa, la mia casetta/Fermati un momentino, soltanto un momento/sopra le tombe del vecchio cimitero/e digli ai morti, digli ti prego/che non dimentighemo”.
Mi chiedo se la via d’uscita sia l’oblio, se il ricordo sia uno strumento per mantenere vivo il desiderio di vendetta e la maledizione, come ha detto Ivo Štivičić? Dopo la rappresentazione dei miei DRUXI a Fiume, emozionato per la storicità, ho dichiarato per La Voce: “Perdonatemi per il fatto che i vostri hanno ucciso mio nonno e mio padre e il cugino Giordana e il severo “Fertiko”, e perché i loro prossimi uccidevano i vostri. Perdonare sì, dimenticare però no. E per questo è assolutamente benvenuto in Istria, soprattutto per noi della “maggioranza”, lo spettacolo Magazzino 18. Esattemante come è benvenuto il programma musicale di altissima qualità nel quale tantissimi istriani cantano le canzoni di Sergio Endrigo. QUESTO è il perdono, QUESTO significa fare ammenda per i propri peccati, e questo NON È oblio – perché dimenticare porta all’ignoranza, alimenta gli stereotipi e fomenta l’odio…

Il “Glas Istre (Boris Vincek) usa toni molto positivi per scrivere degli allestimenti dello spettacolo Magazzino 18 in Istria: “Il protagonista principale è l’archivista Persichetti (un tipico ‘Romano de Roma’) che viene inviato a Trieste per archiviare le masserizie nel Magazzino 18. Persichetti, come buona parte degli italiani che non hanno avuto contatti con l’ex Jugoslavia non sa nulla sull’esodo degli italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia e così il pubblico scopre questa storia infinita insieme a lui. Gli oggetti e i nomi scritti su di loro si trasformano in spiriti che raccontano la loro storia e al protagonista principale lo storico-narratore spiega che cosa è successo da queste parti prima e dopo il 1947. Il monodramma è reso ancora più intenso dalle toccanti canzoni attraverso le quali Cristicchi affronta i momenti più dolorosi di questa storia”.

A piena ragione, seppur non tanto dal punto di vista culturale, però, sul Piccolo Furio Baldassi scrive degli incidenti avvenuti nelle file della maggioranza: “Parte bene ma continua male il mini-tour di Simone Cristicchi e del suo ‘Magazzino 18’ in Istria. Alla standing ovation di Pirano è seguita, ieri a Pola, un’accoglienza, a show non ancora iniziato, quantomeno brutale. Forse, la dimostrazione naturale che certe barriere, soprattutto mentali, resistono. Nei fatti il cantante romano ha trovato la città tappezzata di manifesti contro lo spettacolo ‘fascista’. E qualcuno ha pensato bene anche di tagliare gli pneumatici del Tir che trasporta l’allestimento di scena. Certo, il partito socialista dei lavoratori, gruppo politico minimalista, ad essere generosi, aveva già lanciato un avvertimento, accusando l’autore italiano di aver realizzato ‘un recital nel quale gli jugoslavi vengono definiti come violenti usurpatori dei beni abbandonati dagli optanti dell’Istria e della Dalmazia’. Ovviamente senza averlo visto. E aggiungendo che ‘lo spettacolo è più una rappresentazione politica che artistica’. Un po’ di benzina sul fuoco, insomma, anche se il consenso di quella formazione non supera il 2%... Dall’accusa di quasi propaganda, insomma, a un momento di riflessione che, assicura Cristicchi, è stato ben recepito da tutti. ‘Alla fine della rappresentazione mi sono fermato a parlare col pubblico, e ho capito che il mio lavoro è stato inteso come un modo diverso di raccontare la storia. Sono anche rimasto stupito – continua il cantante – dal fatto che tanti, soprattutto giovani, mi hanno raccontato che non sapevano niente della strage di Vergarolla, o ignoravano l’esistenza di figure come quella di Giuseppe Micheletti, il medico che si mise a operare i feriti subito dopo l’esplosione pur avendo perso entrambi i figli... Mi hanno detto – conferma Cristicchi – che adesso il mio compito è di fare il loro ambasciatore in Italia. Mi hanno detto: racconti la nostra storia al resto del Paese, faccia conoscere a tutti quelli che non le conoscono le nostre vicissitudini... Un impegno non da poco, ma a questo punto anche un dovere’.”

Come mia abitudine, ora devo andare un po’ fuori tema. Devo farlo perché questa tournée di successo di Magazzino 18 in Istria (lo spettacolo è stato allestito anche a Pirano), inclusi gli incidenti che possono essere classificati del tipo “cro-referendum”, unitamente alla Fiera del libro di Pola, estranea nuovamente, gli istriani e l’Istria, dal resto del Paese, confermando che siamo praticamente l’unica entità, e collettività, politicamente e storicamente scrupolosa. Da croato istriano, da antifascista per nascita e convinzione comprendo anche i manifestanti e dico loro, anche con queste righe: non sono colpi gli esuli&rimasti e nemmeno i fascisti se noi non abbiamo un nostro Giorno del ricordo (ad esempio i roghi ai Narodni dom di Trieste e di Pola dopo la Prima guerra mondiale o “I campi del duce” by C.S. Capogreco… Noi stessi ci siamo dimenticati il nostro esodo… ma dobbiamo accettare la nostra parte di colpa per la vendetta spietata e la punizione che ha colpito i nostri confratelli.

Milan Rakovac




587 - Il Piccolo 12/12/13 Fragiacomo: tromba di latta per ricordare ancora l'esodo
MUSICA

Fragiacomo: tromba di latta per ricordare ancora l’esodo

 di Carlo Muscatello

TRIESTE Un libro con annesso cd in uscita: “Quella tromba di latta del confine orientale italiano”. Il cofanetto multimediale “Histria e oltre”, con dentro un libro di disegni e commenti di Bruno Chersicla su Portole d’Istria (patria dei genitori dell’artista scomparso), un cd sulla musica popolare istriana e con canti dell’esodo, un dvd del regista Giorgio Diritti sulla storia istriana. E il concerto letterario con il suo Mitteleuropa Ensemble, che per il prossimo Giorno della memoria, il 10 febbraio, dovrebbe arrivare finalmente anche a Trieste.

Insomma, il musicista triestino Mario Fragiacomo - anche se da tanti anni trapiantato a Milano - è più che mai impegnato sul fronte a lui da sempre congeniale: lo studio e la diffusione delle tradizioni culturali e musicali delle sue terre. «Libro e cofanetto usciranno nei primi mesi dell’anno nuovo - dice Fragiacomo -, ma tengo particolarmente a far vedere anche a Trieste lo spettacolo già portato a Torino, Gorizia, Pescara, Alessandria, Monza...». Ancora l’artista: «Raccoglie le testimonianze di tanti italiani d’Istria, di Fiume, della Dalmazia, che dopo la fine della guerra sono stati costretti ad abbandonare tutto: i propri beni, la casa, gli affetti. Quasi un viaggio dentro la memoria di tutto il popolo dell’esodo».

«Sono felice - conclude Fragiacomo - del nuovo interesse su questi temi suscitato dallo spettacolo di Simone Cristicchi “Magazzino 18”. Io seguo da oltre dieci anni l’ambiente dell’associazionismo di istriani, fiumani e dalmati. E da dieci anni mi emoziono sui palcoscenici italiani quando racconto questa storia. La stessa che cantavo nel mio primo album “Trieste, ieri, un secolo fa”, presentato tanti anni fa da Fulvio Tomizza».










588 - La Voce del Popolo 14/12/13 La CNI è il partner naturale del Veneto
La CNI è il partner naturale del Veneto  

Krsto Babić
 
VENEZIA | La Comunità nazionale italiana, coordinata dall’Unione Italiana, forte delle proprie istituzioni storiche a Fiume, in Istria e Dalmazia rappresenta un partner naturale per le iniziative culturali e socioeconomiche della Regione Veneto in Croazia e Slovenia. È questo in sintesi il messaggio lanciato durante la conferenza stampa tenuta ieri a Venezia da Roberto Ciambetti, assessore al Bilancio e agli Enti Locali della Regione Veneto, da Diego Vecchiato, responsabile della Direzione relazioni internazionali in seno alla Segreteria generale della Programmazione del Veneto, e dal presidente della Giunta esecutiva dell’UI, Maurizio Tremul.


Rafforzare i rapporti tra UI e Veneto

L’incontro è stato convocato per fare il punto sui risultati ottenuti negli ultimi anni nella realizzazione dei progetti finanziati dalla Regione Veneto in Istria, nel Quarnero e in Dalmazia con i fondi della legge 15/94 e ribadire la volontà di rilanciare e rafforzare anche in futuro la collaborazione tra la Regione Veneto e l’Unione Italiana nella sua veste di rappresentante della CNI in Croazia e Slovenia. Gli esponenti del Veneto e della Comunità nazionale italiana hanno parlato, inoltre, delle prospettive di collaborazione futura ora che la Croazia è entrata a pieno titolo a fare parte dell’Unione europea. Dal 1995 ad oggi, lo ricordiamo, il Veneto ha investito circa 7 milioni di euro per finanziare corsi di lingua italiana, restauri di palazzi e leoni marciani, nonché per il recupero e la conservazione di numerosi altri beni culturali di origine veneta disseminati lungo la costa e l’arcipelago dell’Adriatico orientale. Opere realizzate dalle istituzioni venete con la collaborazione delle autorità locali e che hanno sempre goduto del massimo sostegno della CNI e delle sue istituzioni. “Iniziative – ha sottolineato Tremul – che il Veneto ha sempre portato avanti con discrezione e tatto, evitando interventi invasivi e rispettando sempre le realtà attuali”.



Un brindisi presidenziale

Nell’elencare i numerosi interventi sponsorizzati dalla Regione Veneto in Croazia, Maurizio Tremul ha rilevato la recente inaugurazione dell’Asilo infantile italiano di Zara “Pinocchio”. Un progetto che il 3 dicembre scorso, in occasione del ricevimento offerto al Quirinale dal presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano in omaggio al suo omologo croato, Ivo Josipović, è stato indicato quale ottimo esempio dei buoni rapporti instaurati tra Roma e Zagabria.


Collaborazione tra CNI ed esuli

“Un’opera – ha osservato il presidente della Giunta esecutiva dell’UI –, che rappresenta il coronamento della collaborazione tra la CNI e gli esuli, nonché un ottimo esempio dei risultati che possono derivare dalla collaborazione tra le istituzioni italiane e quelle croate”. “Eravamo consci di aver realizzato un’opera importante e ora abbiamo la conferma che si tratta di un risultato straordinario”, ha affermato Tremul. Ha spiegato che un risultato di questo genere rappresenta uno sprone a proseguire lungo il percorso intrapreso. Un cammino nel quale il Veneto può contare sull’appoggio dell’UI, che in questo contesto può sfruttare l’esperienza maturata nella realizzazione di numerosi progetti europei. Un’esperienza che potrà indubbiamente tornare utile nell’ambito della messa in atto della cooperazione europea 2014-20 tra Italia e Croazia, che vedrà il Veneto in prima fila. Tremul ha spiegato che il Veneto è conscio del potenziale rappresentato dalla CNI, che in Istria e Dalmazia vanta di un prestigio testimoniato dai numerosi ruoli di primo piano ricoperti dai connazionali (nell’istroquarnerino sono un centinaio i consiglieri a livello regionale e locale, nonché i sindaci e i vicesindaci appartenenti all’etnia). Una risorsa riconosciuta dallo stesso Roberto Ciambetti. A tale proposito sono stati lodati pure gli sforzi profusi dalla CNI nell’organizzazione e nella promozione del Festival dell’Istroveneto, un’iniziativa curata da Marianna Jelicich Buić.


Discorsi accademici

Tremul, Ciambetti e Vecchiato nel corso del proprio incontro hanno parlato anche dell’opportunità di incentivare la collaborazione tra i poli universitari dell’istroquarnerino con quelli veneti. “Gli atenei di Fiume, Pola e Capodistria vantano tutti un dipartimento di italianistica”, ha ricordato Tremul, auspicando una maggiore collaborazione di queste tre centri universitari con l’Università Ca’Foscari di Venezia e anche con gli atenei di Trieste e Udine.

Krsto Babić




589 – La Voce del Popolo  10/12/13 Resa dei beni agli stranieri: presto la legge
Resa dei beni agli stranieri: presto la legge

ZAGABRIA Qualcosa si muove a Zagabria sul fronte della restituzione ai cittadini stranieri dei beni nazionalizzati o confiscati all’epoca del regime comunista jugoslavo. L’Austria non perde occasione per raccomandare alla Croazia la necessità di fare passi avanti su questo argomento che da troppi anni è ormai confinato in un limbo legislativo senza apparenti sbocchi. La questione è stata affrontata anche ieri all’incontro che il presidente del Sabor, Josip Leko, ha avuto con la presidente del Parlamento austriaco, Barbara Prammer. Alla conferenza stampa tenuta dopo il colloquio, Josip Leko ha espresso l’auspicio che si possa procedere speditamente verso la soluzione delle questioni aperte tra i due Paesi. E uno dei problemi sul tappeto è per l’appunto quello della restituzione del patrimonio nazionalizzato ai cittadini austriaci. In questo contesto il presidente del Sabor ha annunciato che sono in preparazione a Zagabria le modifiche alla Legge sul risarcimento per i beni nazionalizzati o confiscati all’epoca del regime comunista jugoslavo.

Procedere in maniera leale e corretta

La presidente del Parlamento austriaco, Barbara Prammer, ha sottolineato a questo proposito che “quando si tratta della restituzione dei beni la cosa più importante è che sia fatta giustizia e che si proceda in maniera leale e corretta”. Questo significa, ha evidenziato Barbara Prammer, che nessuno dev’essere discriminato.

Ed è per l’appunto il principio della non discriminazione nei confronti dei cittadini stranieri che dovrebbe essere l’elemento di fondo delle modifiche alla Legge sul risarcimento per i beni nazionalizzati o confiscati all’epoca del regime comunista jugoslavo, alle quali le autorità croate stanno lavorando ormai da parecchi anni. Tutto risale a una storica sentenza della Corte costituzionale, di oltre un decennio fa, con la quale era stato imposto al Sabor di eliminare dal testo della normativa la discriminazione nei confronti dei cittadini di altri Paesi, ovvero di permettere anche ad essi il diritto di riottenere i beni nazionalizzati o di vederseli risarciti.

Interessati pure gli italiani

L’argomento interessa naturalmente anche i cittadini italiani e quelli di altri Paesi. Pure gli ebrei originari dalla Croazia e sparsi per il mondo attendono giustizia. La questione quindi è estremamente delicata.

Casi non coperti dai trattati

Per evitare una marea di richieste di risarcimenti Zagabria ha fin dall’inizio messo le mani avanti: non si toccano i casi risolti già all’epoca dell’ex Jugoslavia con i trattati bilaterali o internazionali. Quindi tutto si riduce a un discorso sui casi non coperti dai trattati. Ma nemmeno questo è poco. Risolvere tale “pendenza” vorrebbe dire lanciare un preciso segnale politico: far capire che non c’è spazio per le discriminazioni e che è indispensabile fare in modo che la giustizia trionfi, laddove è ancora possibile. Le autorità di Zagabria, a prescindere dal colore politico, hanno sempre fatto presente che quando si tratta di sanare le ingiustizie del passato bisogna prestare attenzione a non crearne di nuove. Questo principio, però, non riguarda solamente i cittadini stranieri, ma anche quelli croati alle prese con la denazionalizzazione. È questo un processo lungo e faticoso: per il momento i Paesi interessati e la comunità internazionale attendono evidentemente un segnale politico da Zagabria sulla volontà di smuovere le acque.

Dario Saftich






590 – La Voce del Popolo  07/12/13 E & R - Basta coi rancori: in trenta si incontrano a Crassiza
A cura di Roberto Palisca
 
Basta coi rancori: in trenta si incontrano a Crassiza
Tra i partecipanti persone giunte da Torino, Venezia, Mestre, Budapest, Milano, Biella, Santa Lucia, Fiume, Belluno, Buie, Mantova, Pirano, Rivignano
Il mondo del web può affascinare, può coinvolgere, può riunire la gente in un semplice pensiero comune o spesso anche in  dibattiti che arrivano a infuocarsi anche al punto da colpire le persone più suscettibili nell’animo e nei sentimenti. È un po’ e in sintesi, ciò  che è accaduto in un gruppo nato su Facebook nel luglio scorso, istituito  con l’intenzione di fare da collante tra esuli e rimasti e loro discendenti.
Una “palestra” di dialogo, fondata con tanta buona volontà. In quattro mesi ad aderire sono state circa  1.200 persone, in assoluta maggioranza esuli, rimasti e discendenti di seconda e terza generazione. Tanti si  sono iscritti per curiosità. Tanti altri “per far un due ciacole in dialeto”.
Ma il denominatore comune si è rivelato subito: “Basta coi rancori”. E ben presto, a prescindere da dibattiti più e meno accesi o polemici e simpatie e antipatie virtuali nate in rete, molti membri del gruppo hanno espresso il desiderio di incontrarsi e conoscersi “dal vivo”. Così, in punta di piedi, in una limpida giornata invernale, il primo giorno di dicembre, in Istria, nel Buiese, ha avuto luogo l’incontro organizzato dai  membri del gruppo. E subito, dopo i convenevoli e le strette di mano, ogni timore latente di chi magari diffidava di qualcuno, è svanito.
Tra  chi già si conosceva e chi invece si vedeva per la prima volta, all’arrivo, davanti all’agriturismo di Crassiza, si sono formati capannelli di persone: alcuni si erano già sistemati in terrazza  per brindare con un bicchiere di vera grappa istriana al miele. Altri si sono aggregati in seguito. In tutto trenta persone, giunte da Torino, Venezia, Mestre, Budapest, Milano, Biella, Santa Lucia, Fiume, Belluno, Buie, Mantova, Pirano, Rivignano... due generazioni di “muli e mule” con la voglia palese ed evidente diapprofondire le conoscenze tra esuli e rimasti e relativi figli.
“Ciò, ma ti xe ti quel dela foto? Ma va va in malorsiga, ti xe più bel dal vivo”. Mentre avvicinavo ciascuno di loro,  tra me e me mi dicevo: “Vara ti che questi i se incontra per la prima volta e come se i fossi sta’ sempre asieme”.  Un caloroso abbraccio ricambiato, il piacere di vedere realizzata un’idea in fondo in fondo semplice: riunire, anche solo per qualche ora, una piccola parte di quella gente che porta  nel cuore la terra di origine in cui ha le radici, tanto quanto coloro che, proprio perchè l’amano tanto,  hanno continuato a viverci.    E, si sa, le emozioni si superano facilmente e gli animi si placano, davanti a “un bel piato de persuto istrian acompagna’ dal vin domacio”.
I bei quadri messi in mostra per l’occasione dal bravo Giulio Ruzzier e le note della fisarmonica di un esule polesan del calibro di Roberto Stanich abbinate al suono del mandolino di Denis  Stefan, figlio di rimasti, hanno fatto il resto. La mula de Parenzo, Quel mazzolin di fiori, Non go le ciave del porton…   Nell’aria si respirava proprio ciò che tutti condividevano: l’amore per la terra dei nostri padri e dei nostri nonni. Un primo riuscito incontro, dunque, che per volere di tutti i partecipanti si ripeterà in primavera.
Di seguito alcune considerazioni dei partecipanti, in risposta all’invito di definire con poche frasi l’incontro:
Lella Cannito (Mantova): “El tono  dell’incontro iera propio bel. Siamo i ‘tenaci’, come ci ha definiti Fabrizio (Brakus n.d.r.), ed ha ragione; tenaci a voler perseguire l’obiettivo di mettere in rilievo ciò che unisce e mettere da parte ciò che divide”.
Flavio Dessardo (Fiume): “Un incontro promettente ‘de gente curiosa de conosserse’. Mi sembra una buona base per andare avanti con le attività del gruppo e con gli incontri”.
Andrea Di Stefano (Biella): “Accogliente, dai colori autunnali, conviviale, riuscito”
Lilly Venucci (Fiume): ”Rilassante e allegro”.
Francesco Ferrante: ”Rispettoso, grande dignità, senza rancori!”
Patrizia Lucchi (Venezia): “Ho avuto il piacere di rivedere vecchi amici e di conoscerne di nuovi. Non sono aggettivi ma realtà”.
Bruno Paladin (Fiume): “Ciao  mule e muli, come primo incontro, devo dir che par che se conosemo de sempre. Xe tutto molto positivo.  Me dispiase de non gaver avudo el tempo de conoser e de comunicar con tutti un poco de più”.
Marin Tudor (Fiume): ”È stato un piacere conoscere tante persone che condividono un amore moltoprofondo per queste terre. Grazie a chi si è prodigato per organizzare il pranzo”.
Roberto Stanich (Milano): “Un confronto positivo, aperto e lungimirante”.
Ivan Pavlov (Fiume): ”Sublime: el magnar e el bever, la musica e l’alegra compagnia. Libero da presentimenti, pregiudizi, anche de parte mia: sarò sincero, pensavo che  andarò a trovar una combricola de ciapai de strighe e predestinazioni de tipo quasicalvinista. Ma specialmente amichevole, con novi volti, nove conoscenze acanto a quele vecie, per nove oportunità de (ri)costruzion de ponti”.
Giuseppe Budicin (Mestre): ”Quest’incontro è stato magnifico nel  conoscerci, piacevole e il vis a vis è stato affiatato”
Sandro Sambi (Lucia): “Go dimenticà cosa che xe suceso. La prosima volta me strasino drio un astemio cola patente. Per queto xe tuto de rifar”.
Nello Lasi: “Rome wasn’t build in a day (Roma non è stata costruita in un giorno nda).... ma il primo mattone è stato messo. Il primo nichelino  c’è: adesso si deve arrivare al deposito di Paperon de Paperoni”.
Giulio Ruzzier (Pirano): “Miei  cari ‘bicierresi’ (da BCR nda), ve go pensado tuto el giorno.... xe sta` un evento de no dimenticar...”.
Luigi Vianelli (Venezia): “Divertente - Interessante - Iniziale. Mi spiego: una bella mangiata con annessa cantata  finale è sempre divertente. Un giro in Istria e lo scambio di opinioni e di storie a tavola è sempre interessante. Ma per gli scopi che si prefigge il gruppo, questo è un seme che ha appena  iniziato a germogliare. Se si vuole andare avanti è necessario coinvolgere più gente, in modo  più approfondito e organizzato. Per organizzato intendo che, a livello conviviale, la tavola va bene, ma non si arriva a un livello più profondo e condiviso”.
Luigi Da Corte (Belluno): ”Sincerità, curiosità, rispetto per le storie di ognuno, cordialità tra persone che si conoscevano - ma magari è solo  il mio caso - soltanto su Facebook, eppure tutti si sono sentiti subito di  casa. È quello che mi detta il cuore,  poichè non sono né esule ne rimasto, direi che sono un “rivado” cioè  uno che è arrivato per altre strade in cerca della verità e con voi credo di avere trovato quella genuina, che si  racconta meglio che in qualsiasi libro scritto sul tema.
Tiziana Dabović


Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’UniversitàPopolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it

Per annullare l'invio della Rassegna Stampa, scrivi a: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.


 

MAILING LIST HISTRIA
RASSEGNA STAMPA SETTIMANALE
A CURA DI MARIA RITA COSLIANI, EUFEMIA GIULIANA BUDICIN E STEFANO BOMBARDIERI

N. 897 – 07 Dicembre 2013

Sommario

 
564 - Mailing List Histria Notizie 01/12/13 Cattaro (Montenegro): premiazione, della componente montenegrina dell'undicesimo concorso Mailing List Histria (Mirella Tribioli)

565 - La Nuova Voce Giuliana n° 291 -  01/11/13 La Storia della Mailing List Histria (Maria Rita Cosliani)

566 - Il Piccolo 05/12/13 Napolitano: «Le ferite sono rimarginate» Il capo dello Stato, al pranzo in onore di Josipovic, rilancia lo spirito di Trieste: «Italia e Croazia lavorino insieme nell'Ue» (Mauro Manzin)

567 - Mailing List Histria Notizie 29/11/13 Venezia: Inaugurazione lapide della cessione  di Zara a Venezia, l'intervento di Franco Luxardo

568 - La Voce del Popolo 05/12/13  1409: Zara venduta per 100.000 ducati (Rosanna Turcinovich Giuricin)

569 - Catanzaro Informa 05/12/13 Cronaca - Furor aiuta Pinocchio di Zara, primo asilo italiano in Dalmazia

570 - La Nuova Voce Giuliana 01/11/13 Discorso di Giorgio Varisco all’apertura dell’asilo italiano di Zara il 12 ottobre 2013 (Giorgio Varisco)

571 - Il Piccolo 30/11/13 Magazzino 18 di Cristicchi diventa disco e libro e lui sogna l'Arena di Pola (Carlo Muscatello)

572 - Il Venerdì di Repubblica 06/12/13 Magazzino 18: A settant'anni dall'esodo l'Istria riprende la scena (Raffaele Oriani)

573 - Il Giornale 01/12/13 I partigiani ora ammettono la vergogna di esodo e foibe (Fausto Biloslavo)

574 - Il Piccolo 30/11/13 È morto all'età di 95 anni Mitja Ribicic triestino e discusso membro dell'Ozna (m.man.)

575 - La Voce di Romagna 03/12/2013 Gabicce e i suoi misteri irrisolti (Aldo Viroli)

576 - Il Piccolo 26/11/2013 Bruno Chersicla, sulla transiberiana per specchiarsi in se stesso - Un libro d'artista inedito del pittore e scultore triestino morto a maggio (Alessandro Mezzena Lona)

577 - La Voce del Popolo 02/12/13  Cultura - La marcia di Ronchi comprendere e ricordare (Rosanna Turcinovich Giuricin)

578 – Corriere della Sera  05/12/13 Lettere a Sergio Romano - L'Italia e la Grande Guerra (Franco Cosulich – Sergio Romano)

 

 

Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :

http://www.arcipelagoadriatico.it/

http://10febbraiodetroit..wordpress.com/

http://www.arenadipola.it/

 

 
564 - Mailing List Histria Notizie 01/12/13 Cattaro (Montenegro): premiazione, della componente montenegrina dell'undicesimo concorso Mailing List Histria

Cattaro (Montenegro): premiazione, della componente montenegrina dell'undicesimo concorso Mailing List Histria

Mercoledì 13 novembre 2013 nella montenegrina Cattaro - patrimonio culturale naturale  protetto dall'Unesco - a palazzo Bisanti, già  appartenente alla nobile famiglia veneziana, ora prestigiosa sede comunale, alle ore 17 si è tenuta la manifestazione di premiazione,    nella componente montenegrina, dell'undicesimo concorso Mailing List Histria. E' questa una associazione virtuale sorta nel lontano 2000 per tutelare le radici istriane, ma subito partecipata da tutte le componenti dell'esodo, in una forte volontà di incontro con i rimasti in queste nostre sfortunate terre istriano - dalmate ora in Slovenia, Croazia, Montenegro, cercando di stabilire solidarietà con le Comunità Italiane locali. Queste, peraltro, sempre si sono adoperate a rispondere all'iniziativa del concorso stesso, che, oltre a richiedere l'applicazione di una curata lingua italiana, sollecita, con mirati enunciati di temi, l'approfondimento e l'appropriamento della cultura italiana. Pur consapevole della nuova realtà della componente slovena, croata contestuale che vivono i ragazzi e di rimando del rispetto di uno specifico culturale di interdipendenza, il concorso valorizza l'identità italiana dei giovani partecipanti.

 

Con gioia ci si è resi conto che la risposta di adesione ad esso quest'anno è stata di gran lunga maggiore degli anni precedenti. Una risposta di lingua italiana, competitiva anche con le  scuole italiane dell'area slovena e croata, appresa nel Montenegro, dove le scuole italiane non ci sono più, per il desiderio di conoscerla in quanto intesa come parte della storia locale: l'idioma veneto, infatti, correda molte parole montenegrine. Di questa risposta ottimale  si fa ringraziamento a tutti gli insegnanti che, con sensibilità e professionalità, si sono adoperati a rispondere al concorso.          

 

Tanti e festosi sono stati i ragazzi presenti alla premiazione  senz'altro anche per la soddisfazione dei premi cospicui che, mai come quest'anno, questi studenti di scuola elementare e superiore hanno ricevuto. Per questo si ringrazia l' opera volontaristica, e perciò più pregevole, dell'Associazione Dalmati Italiani nel Mondo e il contributo operativo di Giorgio Varisco.       

 

Un encomio speciale, per quanto si è adoperato sempre a ben fare, all'uscente Presidente della Comunità degli Italiani Paolo Perugini che ha presenziato la manifestazione con grande cortesia presentando gli intervenuti: la brava dottoressa Martina Saulacic Lompar che, con grande disponibilità, ogni anno si rende  trait d'union tra la Commissione e le scuole montenegrine; il  dalmata residente a Padova  gen. Ricciardi, pilastro della Comunità in quanto da lui fortemente sostenuta, che, con continue trasferte, tiene sempre vivo il legame tra l'Italia e Cattaro e, durante la manifestazione, ha tenuta alta  l' attenzione dei ragazzi incuriosendoli e spiegando loro, nuove generazioni, il perché della lingua italiana a Cattaro; la solerte Maria Rita Cosliani, instancabile segretaria del Concorso, pioniera dello stesso e che già nel 2002 raggiunse città come Buie ed Albona per stabilire  contatti, tanto proficui, tra esuli e rimasti; la sottoscritta Mirella Tribioli che, in quanto membro della Commissione Giudicatrice del Concorso, è onorata di partecipare alla premiazione a Cattaro presentandola ormai da tre anni, avvicinandosi a questa città come se l'avesse da sempre vissuta, ravvisando nelle persone dalla Comunità, degli insegnanti e dei ragazzi volti a lei cari e familiari e che si augura di poter rincontrare alla prossima manifestazione del premio nel 2014.

 

Un ringraziamento doveroso è da esprimere per l'ing. Andro Saulacic per le numerose attività da lui svolte per la Comunità e per la Società Dante Alighieri, perché si è improvvisato, fedele a questo suo fare, fotografo dell'avvenimento.

 

E un augurio di tutto cuore al presidente entrante della Comunità Alessandro Dender ed un grazie per la disponibilità già dimostrata nell'accoglierci, nel voler cementare i rapporti tra rimasti ed esuli per tener cara la nostra storia,la nostra memoria, il nostro affetto.

                                                                               

Mirella Tribioli

 

 

 

 

565 - La Nuova Voce Giuliana n° 291 -  01/11/13 La Storia della Mailing List Histria

La Storia della Mailing List Histria

 

La Mailing List Histria è sorta il 14 aprile 2000.

 

Il suo nucleo originario si era incontrato sul forum telematico dell’Unione degli Istriani e da lì nac­que l’idea ad alcuni amici di creare un’associazione “virtuale”, libera da retaggi ideologici e svincolata da inutili irredentismi, con il solo scopo di tutelare le comuni radici istriane.

 

L’idea venne attuata dal giovanis­simo Axel Famiglini, con il nonno di Rovigno d’Istria, assieme a Gianclaudio de Angelini, esule da Rovi- gno d’Istria, Andrea Clementoni, discendente di esuli da Lussinpiccolo, Mauro Mereghetti, senza ori­gini istriane ma all’epoca laureando in scienze politiche con una tesi in­centrata sull’Istria e Sandro Sambi, istriano residente vicino a Pirano.

Inizialmente sorta come gruppo composto esclusivamente da istria­ni e simpatizzanti, la MLH si aprì fin da subito a tutte le componen­ti dell’Esodo, oltre a quella istriana, a quella fiumana, quarnerina e dal­mata, acquisendo rapidamente nuo­vi iscritti ed ampi consensi. Nel lu­glio dello stesso anno per opera dello stesso Famiglini venne aper­to il sito web collegato alla lista: www.mlhistria.it che offre una va­sta panoramica delle iniziative del­la lista, della storia e della cultura dell’Adriatico orientale.

 

La MLH non si è limitata, quin­di, ad essere una lista di discussione, un serbatoio di idee operante in in­ternet, ma si è caratterizzata per tut­ta una serie di iniziative.

Particolare attenzione è sta­ta da sempre rivolta alla sensi­bilizzazione di istituzioni e me­dia italiani rispetto alle tematiche giuliano-dalmate, cercando di por­tare il proprio fattivo contributo sia alla caduta di quel muro di omertà e di false opinioni che ha caratteriz­zato la divulgazione della storia del Confine orientale italiano negli ul­timi 60 anni, sia alla caduta degli oramai anacronistici steccati tra gli esuli e i “rimasti”, ovvero di coloro che al momento dell’Esodo decise­ro, o furono obbligati, di rimanere nelle proprie terre di origine.

 

Un esempio di questa attività è la lettera al Presidente della Repub­blica Ciampi inviata nel gennaio del 2001, che costituiva una summa de­gli scopi della lista: inserimento del­la storia dei giuliano-dalmati a pieno titolo nei testi scolastici; risoluzione del contenzioso “beni abbandonati” e tutela della nostra Comunità italia­na in Slovenia e Croazia. La lettera riscosse ampie adesioni coinvolgen­do un grande numero di sottoscrit­tori con una positiva eco nei media.

 

Data dal gennaio 2002 inoltre una delle prime “azioni sul campo”, ov­vero la trasferta in Istria di Maria Rita Cosliani, Stefano Bombar­dieri, Mauro Mereghetti che, con il furgone guidato da Bepi Valenti, portarono libri alla Scuola di Buie e alla Comunità italiana di Valle, ol­tre a giocattoli e strumenti didattici all’asilo di Albona. Questo fu il pri­mo di numerosi viaggi consimili, in­tessendo una fitta rete di contatti e di solidarietà con le piccole Comuni­tà ovvero quelle più bisognose di un aiuto fattivo e solidale ed anche con quelle della Dalmazia. Vanno segna­lati gli invii di giochi Clementoni ol­tre che di medicinali, grazie soprat­tutto ad Andrea Clementoni.

A questo proposito va detto che la MLH, essendo una associazione “virtuale”, non ha mai potuto attin­gere neppure ai modesti contributi che lo Stato, le regioni, ecc. hanno elargito alle associazioni dell’Eso­do legalmente riconosciute. Ogni sua attività è stata, pertanto, frut­to dell’autofinanziamento dei suoi aderenti oltre alla capacità di coin­volgere, con le proprie idee, le al­tre associazioni: in particolare l’As­sociazione per la cultura fiumana, istriana e dalmata nel Lazio di cui de Angelini è vicepresidente; il Libero Comune di Zara in Esilio, l’Associa­zione dalmati nel mondo, grazie an­che al contributo di Giorgio Vari- sco; l’ANVGD, il C.D.M. ecc.

 

Da raduno telematico la MLH, già dopo il primo anno di vita, inco­minciò ad effettuare dei raduni veri e propri ed il primo, informale, si svol­se in quel di Cesenatico, città di resi­denza del fondatore Axel Famiglini. Nel 2002 il Raduno divenne un av­venimento istituzionale raccoglien­do significativamente nel quartiere Giuliano Dalmata di Roma, presso l’Archivio Museo della Città di Fiu­me, non solo gli aderenti, ma figu­re di spicco del mondo dell’Esodo.

 

Dal gennaio 2002 si sviluppa una rassegna stampa, coordinata da Ste­fano Bombardieri, che raggiunge tra­mite un invio settimanale di artico­li selezionati dalle principali notizie presenti sui media, oltre gli iscritti, 220 destinatari in tutto il mondo: as­sociazioni dell’Esodo giuliano-dal­mata, comunità italiane dell’Istria, Fiume e Dalmazia, singoli ricercato­ri ed università, ecc. Gli articoli fi­no ad ora recensiti quotidianamente, a cura di Stefano Bombardieri, dal 2000 al 2013, sono circa 30.000, mentre, nella rassegna stampa setti­manale, dal 2002 al 2013 sono stati recensiti circa 10.000 articoli.

 

Con la legge n. 92 del 30 marzo 2004, il Parlamento italiano ha in­detto il 10 febbraio quale “Giornata del Ricordo in memoria delle vitti­me delle foibe, dell’Esodo giuliano­dalmata, delle vicende del Confine orientale e concessione di un rico­noscimento ai congiunti degli infoi- bati” ed anche in questa importan­te ricorrenza la MLH non manca di operare, in collaborazione con le al­tre associazioni del mondo dell’E­sodo, in un’azione di divulgazione presso le scuole e le istituzioni con l’attiva partecipazione di molti suoi aderenti a dibattiti e conferenze.

Nel 2008 è stato pubblicato il pri­mo volume dell’opera “Chiudere il cerchio”, una collana prevista in quattro volumi, che raccoglie una selezione di ricordi e testimonian­ze di esuli giuliano-dalmati, curata da Olinto Mileta e Guido Rumici. Opera che, nata in MLH, grazie an­che alla notevole massa di memo­rie e ricordi dei suoi aderenti, è stata sponsorizzata dall’ANVGD di Go­rizia, grazie all’interessamento del presidente Rodolfo Ziberna e dello stesso Rumici che ha seguito le atti­vità della lista fin dai primordi.

La Mailing List Histria persegue gli obiettivi esplicitati nel manifesto programmatico e, proprio in questi giorni, sta per lanciare la nuova edi­zione del concorso letterario ML Hi­stria 2014, iniziativa che è diventata il suo fiore all’occhiello.

 

Maria Rita Cosliani

 

 

 

 

566 - Il Piccolo 05/12/13 Napolitano: «Le ferite sono rimarginate» Il capo dello Stato, al pranzo in onore di Josipovic, rilancia lo spirito di Trieste: «Italia e Croazia lavorino insieme nell'Ue»

Napolitano: «Le ferite sono rimarginate»

 Il capo dello Stato, al pranzo in onore di Josipovic, rilancia lo spirito di Trieste: «Italia e Croazia lavorino insieme nell’Ue»

di Mauro Manzin

TRIESTE. È stata la riconciliazione definitiva, la cicatrizzazione di antiche ferite che sono state “curate” nello spirito del rispetto della memoria condito da quei valori europei che costituiscono i muri portanti della comune casa che proprio grazie alla Croazia ora può contare su 20 “inquilini”. È questo il senso del discorso tenuto dal Presidente Giorgio Napolitano durante il pranzo di Stato svoltosi al Quirinale in occasione della visita del presidente della Repubblica croata Ivo Josipovic. «La frattura creatasi all’indomani della Seconda Guerra Mondiale tra Esuli, Rimasti e cittadini croati è ormai rimarginata - ha detto Napolitano - in questo spirito rinascono iniziative come il nuovo asilo italiano di Zara, grazie ad un sforzo comune delle autorità italiane e croate, delle Comunità italiane e delle Associazioni degli Esuli. Si tratta di un esempio lungimirante della collaborazione tra i nostri due Paesi, sempre memore delle lacerazioni del passato, ma profondamente rivolta al futuro delle nuove generazioni».

Ora però viviamo nella casa comune europea. «L’Europa unita a 28 - ha proseguite il presidente - è lo storico risultato degli sforzi e dei sacrifici di intere generazioni di cittadini europei che, sulle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, hanno saputo costruire, senza mai rinunciare alle proprie identità nazionali, un modello senza eguali di integrazione e sviluppo basato sul rispetto reciproco e la convivenza pacifica. Modello ispirato a una visione che trascende gli orizzonti e le capacità dei singoli Stati membri». «In effetti - ha sottolineato il Capo dello Stato - il traguardo raggiunto dalla Croazia costituisce un chiaro e positivo segnale per tutti i Paesi dell’Europa sud orientale non ancora membri dell’Unione».

«Oggi - ha ricordato Napolitano - possiamo rallegrarci del nuovo clima che le nostre giovani generazioni possono respirare in Adriatico grazie alla ritrovata sintonia tra Croazia, Italia e Slovenia». Il Presidente ha citato ad esempio del nuovo “clima” il Concerto dell’Amicizia del 2010 a Trieste e lo spettacolo del 2011 a Pola. Uno sguardo poi il Capo dello Stato lo ha rivolto al piano economico e commerciale. «Sono certo - ha detto a tale proposito - che l’appartenenza al mercato unico non potrà che consolidare le già privilegiate relazioni tra i nostri sistemi imprenditoriali, che vedono l’Italia partner commerciale di riferimento di Zagabria e numerosissime aziende italiane operare con grande successo in Croazia, sia nella produzione e fornitura di beni e servizi, sia in funzione di progetti di ampio respiro nel settore dell’energia e delle infrastrutture». Quanto al piano politico, «guardiamo con estremo favore alle consultazioni trilaterali tra i primi ministri croato, italiano e sloveno - ha continuato Napolitano - e registro altresì con grande soddisfazione che, già nei primi mesi di attività in seno alla Ue, numerosi dossier su cui i nostri due Paesi si sono trovati d’accordo, a partire dal tema dell’immigrazione, per il quale condividiamo la necessità di uno sforzo comune al livello europeo per scongiurare il ripetersi di autentiche tragedie quali quelle occorse a Lampedusa».

 Ricordando poi il prossimo semestre italiano di presidenza dell’Ue a partire dal giugno 2014 il Capo dello Stato ha affermato di confidare che «Croazia ed Italia sapranno portare a Bruxelles quelle specificità mediterranee che contraddistinguono i nostri Paesi e che non possono che giovare alla comune causa europea, collocando in questo ambito come dimensione importante la Strategia Adriatico-Ionica. La strada dell’Unione politica, quale vogliamo insieme perseguirla, non può non passare per il vitale crocevia mediterraneo».

 

 

 

 

567 - Mailing List Histria Notizie 29/11/13 Venezia: Inaugurazione lapide della cessione  di Zara a Venezia, l'intervento di Franco Luxardo

Venezia: Inaugurazione lapide della cessione  di Zara a Venezia, l'intervento di Franco Luxardo

INTERVENTO di presentazione di Franco Luxardo, in qualità di Presidente della Società Dalmata di Storia – Venezia

 In apertura permettetemi di ringraziare la Scuola Dalmata dei Santi Giorgio e Trifone, il suo Guardian Grande, il Consiglio di Cancelleria e tutti i collaboratori presenti per l’ospitalità che oggi ci offre in questo splendido ambiente, in cui la nuova illuminazione ci permette di ammirare molto meglio che in passato i teleri del Carpaccio.

 E a seguire, un apprezzamento particolare va alla consorella Società Dalmata di Storia Patria di Roma, e in particolare al suo presidente Marino Zorzi, che fin dai nostri primi contatti ha accettato con entusiasmo di portare a compimento assieme il progetto di ricordare degnamente il

                                                                     9 luglio 1409

 Per la storia è opportuno che io ricordi come nacque l’idea: risale a Nicolò Luxardo, presidente per lunghi anni della nostra Società (mio cugino). In archivio ho rintracciato il documento originale: una lettera degli inizi del 1989 con cui la direttrice dell’ Archivio di Stato veneziano, dr.ssa Maria Francesca Tiepolo, gli forniva gli estremi del trattato tra Venezia e Ladislao d’Angiò re d’Ungheria, firmato nella sacrestia di San Silvestro, e sposava l’dea di ricordarlo con un Convegno di Studi “in occasione del 580° Anniversario” che cadeva dopo pochi mesi.

 Poi evidentemente l’interesse scemò o le difficoltà burocratiche furono forti e fra i pochi a ricordarlo con insistenza fu Tullio Vallery, Guardian Grande di questa Scuola, che ha dedicato tutta la sua lunga esistenza a tener vivi a Venezia gli antichi rapporti con la Dalmazia.

 Così, quando nel 2007 presi in mano le sorti della nostra Società, trovai loro appunti ed altri documenti e sperai – con Marino che avevo nel frattempo contattato – che potessimo almeno portare a termine il progetto (lapide e convegno) per il 600° Anniversario. – Evidentemente non ero abbastanza smaliziato sui “tempi rapidi” degli enti pubblici, soprattutto a Venezia. Così dovemmo superare approfonditi esami:

 -        Con la nostra amata Repubblica per il finanziamento,

-        Con il Patriarcato,

-        Con la Soprintendenza per i Beni Architettonici,

-        Con i tempi delle imprese che curano i restauri veneziani,

-        Con amici molto attenti alla forma e alla sostanza della lapidi veneto-dalmate,

-        E infine con quei modesti ma bravissimi “artigiani della pietra” dei Colli Euganei che, abbandonata l’amata trachite, si sono dedicati con passione alla pietra d’Istria della nostra lapide.

 In conclusione, siamo arrivati al traguardo con qualche ritardo sulla tabella di marcia del 600° Anniversario. Ma in tanti secoli di rapporti – burrascosi prima e di simbiosi poi – tra Venezia e Dalmazia quattro anni sono poco o nulla.

 Poco più di un mese fa è stato aperto a Zara un asilo, per alcuni dei presenti si sono molto spesi. E’ la prima scuola italiana in tutta la Dalmazia dopo 60 anni, l’ultima era stata chiusa di forza nel 1953. E fra poco qui sentirete delle dotte relazioni. – Ebbene, ambedue fanno parte di quel filo rosso di conoscenze e cultura che hanno sempre serpeggiato da qui alla costa orientale dell’Adriatico. – L’importante è che il circuito resti sempre aperto e noi siamo qui oggi anche per questo.

 Grazie.    

 Venezia, 29 novembre 2013

 

 

 

 

568 - La Voce del Popolo 05/12/13  1409: Zara venduta per 100.000 ducati

Zara venduta per 100.000 ducati

 

Venezia, una storia da scrivere anche a cielo aperto. Una lapide sulla parete di San Silvestro, in un campiello veneziano, da qualche giorno ricorda che il 9 luglio 1409 proprio in questa chiesa venne sottoscritto l’atto di cessione alla Repubblica Veneta, da parte del Regno d’Ungheria, dei diritti su ZARA e la DALMAZIA consolidando gli antichi legami tra la Dalmazia e Venezia destinati a durare nei secoli.

 

Il tutto si svolge in una mattinata di sole e aria fredda di fine novembre, la Società Dalmata di Storia Patria ha voluto organizzare la cerimonia per la posa dell’iscrizione sulla quale campeggiano i leoni, uno in teca, gli altri tre a simboleggiare la bandiera dalmata. “Ma sono rovesciati” azzarda qualcuno. “Licenza artistica, fuori dagli schemi, non è forse questo il giusto spirito della nostra storia?” La risposta anche durante il convegno iniziato qualche minuto dopo, raggiunta la sede della Scuola dalmata dei Santi Giorgio e Trifone, Castello 3259/A, Calle dei Furlani, che cela il ciclo di tele del Carpaccio, un vanto per gli Oltramarini che anche con questa istituzione significano il legame stretto con la Serenissima. Nel campiello, attorno alla vera da pozzo si sono dati appuntamento i dalmati che vivono a Venezia e dintorni e tanti ospiti appassionati di vicende veneziane. Non è una giornata d’estate, ma il cielo terso esalta la bellezza della cerimonia con la benedizione del parroco, Antonio Biancotto. Segue l’incontro scientifico, affidato alle Società Dalmate di Storia Patria di Venezia e di Roma con gli interventi di Gherardo Ortalli, Ordinario di Storia Medievale all’Università Ca’ Foscari di Venezia, Marino Zorzi, Presidente della Società Dalmata di Storia Patria di Roma e Bruno Crevato Selvaggi, ricercatore. A porgere il saluto il presidente della Società Dalmata di Storia Patria di Venezia, Franco Luxardo che ringrazia per la collaborazione Tullio Valery, Guardian Grande ed il Consiglio di Cancelleria della Scuola Dalmata di Venezia. Ma si sofferma anche sugli ultimi successi: l’apertura, dopo sessant’anni, dell’asilo italiano a Zara, un progetto a lungo vagheggiato che è ora realtà. Un circuito – sottolinea Luxardo – che deve rimanere sempre aperto, lo studio della storia serve anche a questo.

 

La prima tela del Carpaccio parla di musica, è la visione di Sant’Agostino. Un musicista ha trascritto le note dello spartito che appare nella tela, ed ora, la musica cinquecentesca accompagna i visitatori nelle due sale espositive e, nell’occasione, ha dato il via al convegno con l’intervento del Presidente della Società Veneta di Storia Patria di Venezia, Marino Zorzi.

 

Parte così l’affascinante storia di una dedizione quattrocentesca in uno scenario di alleanze.

 

“All\'accordo del 9 luglio 1409 – avverte subito Zorzi - si giunse dopo lunghi contatti e trattative. Ladislao di Durazzo, re di Napoli, figlio di Carlo III d\'Angiò, era stato incoronato re d\'Ungheria a Zara nel 1402. Il suo rivale al trono, Sigismondo di Lussemburgo, il cui titolo alla corona derivava dal matrimonio con la figlia di Lodovico il Grande, Maria, si trovava in gravissime difficoltà per la disfatta subita da parte dei Turchi a Nicopoli nel 1396. Ladislao pensava quindi di poter dare al titolo regio un contenuto effettivo; ma i baroni ungheresi non lo seguirono, sicché preferì concentrarsi sempre più sul regno italiano. La posizione di Ladislao in Dalmazia andava via via peggiorando, per cui il re pensò a liberarsi di quei domini, cedendoli a Venezia”.

 

Si scatenò una specie di asta, il Zorzi la racconta in cifre: “Ladislao propose la cessione, nel 1408, in cambio di 300.000 ducati. Venezia rifiutò. Nel gennaio 1409 il re ribassò il prezzo a 200.000 ducati. La Repubblica replicò con l\'offerta di 100.000. I rappresentanti napoletani, il giudice Pandello Malanotte, e il giurista Bartolomeo del Duca detto Zizzo, proposero 150.000. La Repubblica mantenne la cifra di 100.000 ducati. Nel marzo il re accettò, perché ormai Nona, Sebenico, Traù gli si erano ribellate, e gli restava solo Zara con le sue pertinenze”.

 

E così il 9 luglio si giunse finalmente alla firma del contratto, a Venezia, nella chiesa di San Silvestro, dipendente dal patriarcato di Grado, a cui spettava la primazia della Dalmazia: la chiesa era quindi una sorta di territorio neutro, dato il particolare status del patriarcato, non ancora assorbito nella diocesi veneziana. L\'atto è pubblicato nella raccolta di Ljubich. In esso si distinguono due oggetti della vendita. Uno è Zara, con "Novigradus, insula Pagi, terra Laverani". L\'altro oggetto è così descritto: "ac etiam omnia et singula jura, actiones et titulos competentes et competituros in et super tota Dalmatia praedicta". I diritti, le azioni e i titoli sono specificati in molte pagine, in cui si cimentano i giuristi presenti: Francesco Zabarella, "doctor utriusque juris", il giurista Albertus de Patrarubea per parte veneziana, molti giuristi per la parte napoletana. E\' comunque evidente che la maggiore utilità per Venezia stava nell\'acquisto di Zara, che il re teneva saldamente in pugno; gli altri diritti erano più che altro teorici, un fatto formale che poteva servire nelle trattative diplomatiche. Le terre che ne erano oggetto andavano tolte a chi le occupava, il duca Hervoje, luogotenente ribelle di Ladislao, o il re Sigismondo.

 

Ma Zorzi si sofferma anche sulle modalità di pagamento: “il prezzo di 100.000 ducati doveva essere così pagato: 40.000 subito, da consegnarsi a Francavilla nel Regno di Napoli, altri 30.000 l\'anno successivo, altri 30.000 entro il secondo anno. Il pagamento venne regolarmente effettuato, come attestato dal re”.

 

 In conseguenza dell\'accordo, Venezia mandò quattro suoi patrizi a Zara, con le galere di Romania, della Tana e del Golfo, bene armate, e due castellani, con balestrieri e altre truppe. La partenza avvenne il 29 luglio. Ai due castellani, Branca Loredan e Piero Diedo, le chiavi del castello furono consegnate il 31 luglio. E\' questa la data tradizionale dell\'entrata a Zara, "la Santa Intrada". Il resto è storia di saccheggi e periodi di pace. A Zara, come in gran parte della Terraferma, il popolo era favorevole a Venezia, l\'aristocrazia ostile.

 

 Solo attorno al 1430 la situazione si andò normalizzando anche grazie alla politica matrimoniale. “Monique O\'Connel – specifica il Zorzi - ha contato tra il \'400 e primi \'500, 53 matrimoni tra famiglie nobili veneziane e famiglie nobili dalmate, di cui 14 con zaratini, 12 con sebenicensi, 7 con spalatini. Si consolidava così quell\'amicizia profonda tra Venezia e la Dalmazia, quella reciproca compenetrazione di lingua, gusto, abitudini, simpatia di cui le testimonianze sono ancora forti e vive”.

 

Anche l’organizzazione amministrativa sul territorio – tema affrontato da Bruno Crevato Selvaggi – contribuisce a spiegare i termini della dedizione. Si trattava innanzitutto di città rette da propri statuti per cui gli atti contrattavano le condizioni secondo le quali la località si sarebbe dedicata a Venezia, nel rispetto degli statuti che eventualmente venivano emendati laddove erano in contrapposizione con gli interessi della Serenissima. Quest’ultima affina i suoi controlli dividendo le competenze tra Stato di terra e Stato da mar e a loro volta in particelle giurisdizionali amministrate dai Rettori, patrizi veneziani, che si occupavano di questioni giuridiche ma anche amministrative e di difesa secondo le commissioni (ovvero indicazioni) del Patriarcato. “Ma usando comunque acume e buon senso” mediando tra le esigenze del territorio e quelle superiori di Venezia. Venivano nominati in Senato o Maggior Consiglio e inviati sul territorio per la durata del loro mandato, detto carico, e dal territorio riportavano giudizi e relazioni che permettono oggi di ricostruire la vita a quel tempo. Molte le caratteristiche dell’amministrazione da Mar che nelle minute raccontano la storia dei rapporti con il territorio. Comunque, nel tempo, Zara, con Corfù e Costantinopoli diventerà uno dei baluardi del controllo di Venezia su tutto lo spazio marittimo. La collaborazione tra le tre realtà rimarrà inalterata fino al giugno del 1797.

 

E qui si potrebbe chiudere il discorso su Zara e Venezia se non ci fosse il bisogno di capire il “prima” come lo definisce il prof. Gherardo Ortalli, ovvero le premesse che portarono alla dedizione attraverso un percorso lungo e tribolato. Con i patti si comincia molto presto – con la Quarta Crociata, quando nel 1202 farà tappa a Zara – e si finisce molto tardi. Ma già allora si arriva al primo accordo, l’area di Zara infatti è fondamentale. La Serenissima ci metterà molto a far diventare l’Adriatico il Golfo di Venezia. I conflitti con Zara furono numerosi, il loro numero esatto è tema di confronto tra gli storici. Ma necessari per giungere ad un accordo stabile. L’ipotesi di Spalato come punto d’appoggio per Venezia era osteggiato per il rapporto stretto e diretto tra Spalato ed Ancona, altra realtà forte nell’Adriatico. L’Arcidiacono Tommaso da Spalato, dice chiaramente che Spalato nel 1200 “chiede ad Ancona di portare un giurista che organizzi il regime latino”, non si rivolge a Venezia. Rivolta dopo rivolta verrà messo a punto un legame variabile ma che creerà le premesse per l’accordo “finale” del 1409 che riassume un lungo rapporto controverso e per tanto di grande importanza.

 

A chi girando per Venezia incontrerà la lapide che ricorda la data, si chiede un attimo di riflessione. Nell’Europa che ricompatta i popoli adriatici, le tante tessere del mosaico si caricano di nuovi e più ampi significati.

 

Rosanna Turcinovich Giuricin

 

 

 

 

569 - Catanzaro Informa 05/12/13 Cronaca - Furor aiuta Pinocchio di Zara, primo asilo italiano in Dalmazia

CRONACA / Furor aiuta Pinocchio di Zara, primo asilo italiano in Dalmazia

 

Raccolta di materiale didattico da donare ai bambini

 

CatanzaroInforma.it: Furor aiuta Pinocchio di Zara, primo asilo italiano in Dalmazia

 

Se il periodo natalizio per  tradizione è un periodo di doni e buone azioni, l’associazione culturale Furor ha scelto il modo migliore per incarnare l’essenza del verbo donare, promuovendo l’iniziativa benefica “aiuta l’asilo Pinocchio di Zara”. Tale iniziativa ha la finalità di aiutare attraverso la raccolta di materiale didattico il primo asilo italiano in Dalmazia, terra martoriata nel secondo dopoguerra e sottratta in modo illegittimo e brutale al territorio italiano .

 

Nonostante le varie vicissitudini storiche avverse, il popolo dalmata però non ha mai rinnegato o dimenticato la sua storia e le sue radici anzi, al contrario ha sempre tramandato e dimostrato nella sua cultura e negli usi l’appartenenza al popolo italiano, tanto da contare all’interno dei suoi confini svariate comunità italiane con numerosissimi iscritti. Proprio da questi sentimenti di vicinanza e appartenenza all’Italia nel settembre 2013 a Zara è stato inaugurato l’asilo Pinocchio, primo asilo italiano nel territorio dalmata.

 

 Da qui  nasce l’iniziativa dell’associazione culturale il BranCo di Milano “aiuta l’asilo Pinocchio di Zara”, che ha trovato pronta adesione in altre realtà in tutta Italia tra cui le associazioni La Fenice di Firenze e appunto  Furor di Catanzaro. Lo scopo è quello di aiutare con la raccolta di materiale didattico questa struttura, per lanciare con questo gesto un messaggio di vicinanza a chi ha creduto in questo progetto sostenendolo, affinché questo faro di italianità continui a illuminare la Dalmazia, ma anche confermando ferma opposizione a chi ha cercato nel tempo di dimenticare quelle terre dell’Italia nord orientale che furono strappate violentemente e annesse con altrettanta violenza a popoli diversi culturalmente ed etnicamente da quello italiano.

 

La raccolta ha già avuto inizio, chiunque sia interessato a contribuire all’iniziativa può rivolgersi tutti i giorni al punto di raccolta sito in corso Mazzini 182.

 

 

 

 

 

570 - La Nuova Voce Giuliana 01/11/13 Discorso di Giorgio Varisco all’apertura dell’asilo italiano di Zara il 12 ottobre 2013

Discorso di Giorgio Varisco all’apertura dell’asilo italiano di Zara il 12 ottobre 2013

 

Siamo qui oggi a celebrare un importante atto di civiltà. Nella casa costruita da un grande sportivo, dove i bambini di un tempo raccoglievano le more, oggi altri bambini giocheranno, impareranno a leggere e a stare insieme parlando l’italiano e il croato. Atto storico, di grande significato, perché questa, consentitemi, “nostra” città, ha fatto un passo avanti sulla strada della democrazia e della libertà. La democrazia è uguaglianza. La libertà è anche il diritto di esprimersi nella propria lingua, scegliere la propria appartenenza o semplicemente voler conoscere gli orizzonti che un’altra lingua può aprire.

 

Per secoli a Zara persone e famiglie di origine diversa hanno scelto se essere italiani o croati. La scelta della nazionalità è un diritto inalienabile della persona in tutte le costituzioni del mondo e nel diritto internazionale. Per questo non ho paura di parlare di una “nostra Zara”, come altri hanno diritto di chiamarla “Zadar naš”. La città è la stessa, sorta da quasi 3000 anni su una piccola penisola dell’Adriatico, una delle città più antiche d’Europa. Liburnica, romana, bizantina, poi latina e slava insieme, infine veneta e italiana fino al 1947 ed oggi croata. Ma è la stessa città. Nessuno può impedire agli italiani esuli da Zara di amare questa città e di sentirci “a casa nostra”, come ci disse il Presidente Ivo Josipović a Pola il 3 settembre 2011 e questo asilo ne è prova tangibile.

 

Gli “zaratini” di sessant’anni fa capiscono i sentimenti di orgoglio e di fierezza dei croati di oggi, che hanno conquistato l’indipendenza della loro patria nella guerra patriottica del 1991-1996 a prezzo di tante giovani vite. Uguale rispetto chiediamo per l’orgoglio e la fierezza di noi dalmati italiani, minoranza sì, ma di un popolo che per generazioni ha animato calli e campielli ed amato la sua patria, l’Italia, fino all’estremo sacrificio, con la vita e l’abbandono della città natale.

 

Centinaia i dalmati caduti nelle guerre italiane. Zara è stata la provincia italiana col maggior numero di decorati al valore; nel 1943-44 oltre 2000 gli zaratini morti sotto i bombardamenti angloamericani e ancora manca una lastra di pietra dalmata che li ricordi. La fierezza è il tratto comune dei dalmati per l’amore appassionato per la Patria – anche se diversa – e la fedeltà agli ideali. Le guerre e le ideologie ci hanno diviso: nazionalismi e sciovinismi contrapposti hanno  lacerato le nostre famiglie e le nostre città. Ma qui siamo in mezzo a bambini, non trasmetteremo loro sentimenti di rivalsa e di frustrazione, ma fiducia nell’avvenire di un’Europa più giusta e civile.

 

Ecco perché oggi qui si celebra un grande atto di civiltà del quale ringraziamo le rappresentanze diplomatiche italiane e gli zaratini croati di oggi che, combattendo per la libertà delle proprie opinioni, hanno aiutato a realizzare questo asilo. Gastone Coen, amico di noi tutti, è qui accanto idealmente con gli occhi umidi di pianto.

Non so se gli alberi di questo giardino sentiranno le filastrocche della nostra infanzia, certo questi bambini impareranno ad usare tablet e ipad in italiano e in croato e ad amare le poesie e i racconti più belli della letteratura italiana, i versi migliori dei poeti di tutto il mondo ed anche la musica di un altro italiano che lasciò la sua Pola, l’istriano Sergio Endrigo, che cantò “Per fare un albero ci vuole un fiore...”.

Questo è il fiore che oggi noi piantiamo insieme e, ne siamo certi, negli anni futuri diverrà un bell’albero

 

Giorgio Varisco

 

 

 

 

 

 

571 - Il Piccolo 30/11/13 Magazzino 18 di Cristicchi diventa disco e libro e lui sogna l'Arena di Pola

Magazzino 18 di Cristicchi diventa disco e libro

E lui sogna l’Arena di Pola

 

Mentre lo spettacolo è in tour, arriva l’album coi monologhi e le canzoni. Il 4 dicembre esce il volume per Mondadori

 

di Carlo Muscatello

 

TRIESTE Un libro e adesso anche un disco. L’onda lunga del grande successo di “Magazzino 18”, lo spettacolo di Simone Cristicchi che ha debuttato al Politeama Rossetti un mese e mezzo fa e che ora sta girando per l’Italia, non accenna a finire e produce nuovi frutti.

 

«Sì, l’album dovrebbe uscire a metà dicembre, a cura dello Stabile regionale - conferma il cantautore romano -, e comprenderà alcuni monologhi e tutte le canzoni dello spettacolo. Sarà corredato da un libretto fotografico e ovviamente dal testo dello spettacolo». «Dopo Trieste - prosegue Cristicchi - finora siamo stati a Tolmezzo, a Cuneo, a Torino. Le prossime date sono il 3 e 4 dicembre al Teatro Ariosto di Reggio Emilia, già esaurito per entrambe le serate in prevendita».

 

Ancora l’artista: «Siamo felici del fatto che dappertutto stiamo ricevendo un’ottima accoglienza. Al Rossetti, nonostante le note polemiche della vigilia, poteva essere una cosa scontata. In altre città molto meno». «Fra l’altro ci tengo a sottolineare, con il senno di poi, che il teatro a Trieste non era pieno solo di esuli e figli di esuli. C’era tanta gente comune. E le richieste di biglietti sono state tali che si sta pensando di fare una ripresa la prossima stagione...».

 

Come detto, intanto lo spettacolo gira l’Italia. E se a Trieste le musiche erano suonate dal vivo dall’orchestra, nelle repliche Cristicchi utilizza le basi registrate proprio al Rossetti da Fulvio Zafret dell’Urban Recording Studio della Casa della Musica. Dove sono poi state completate le parti vocali, musicali e narrative, che ritroveremo nel disco.

 

«A marzo al Teatro Verdi di Gorizia e poi nelle tappe in Istria - sottolinea l’artista - vorremmo però tornare all’orchestra che suona dal vivo. E il mio grande sogno è l’Arena di Pola, l’estate prossima...».

 

Intanto, il 4 dicembre esce per Mondadori il libro “Magazzino 18”, per la collana Arcobaleno. La stessa nella quale sono già stati pubblicati gli altri due volumi firmati dall’artista romano: “Centro di igiene mentale. Un cantastorie tra i matti” e “Mio nonno è morto in guerra”.

 

Il libro racconta le vicende dell’esodo così come Cristicchi le ha messe in scena. Voce narrante ancora quella dell’archivista Persichetti, spedito dal ministero da Roma al porto vecchio di Trieste per fare l’inventario degli oggetti e dei mobili abbandonati tanti anni fa dagli esuli nel Magazzino 18. Dove si imbatte dello “spirito delle masserizie” e scopre lui stesso - romanaccio un po’ ignorante ma sensibile e sveglio - le vicende del tormentato Novecento giuliano, dall’avvento del fascismo con le sue violenze ai campi di internamento italiani. Fino all’8 settembre e a tutto quel che accadde dopo: l’invasione jugoslava della città, le foibe, l’esodo, la vita nei campi profughi, la strage di Vergarolla, le vicende dei “rimasti” e di quelli che partirono, accolti in alcune stazioni italiane al grido di “fascisti, fascisti” (“e invece eravamo solo italiani...”).

 

«Fra l’altro - conclude Simone Cristicchi, ormai triestino quasi d’adozione -, sull’onda di questo spettacolo stanno accadendo cose strane, inaspettate. Per esempio un recente incontro, a Padova, fra la sezione locale dell’Anpi e l’associazione degli esuli istriani e dalmati. I figli e i nipoti di quanti sessant’anni fa stavano su sponde contrapposte, insomma, cominciano finalmente a parlarsi. Mi sembra una cosa buona».

 

 

 

572 - Il Venerdì di Repubblica 06/12/13 Magazzino 18: A settant'anni dall'esodo l'Istria riprende la scena

MAGAZZINO 18  - LO SPETTACOLO REALIZZATO DA SIMONE CRISTICCHI,

ARRIVA IN SLOVENIA E IN CROAZIA. «POLEMICHE? NON CI SARANNO»

 

A SETTANTANNI DALL'ESODO L'ISTRIA SI RIPRENDE LA SCENA

 

di Raffaele Oriani

 

TRIESTE. Ricordate Il cuore del pozzo?  Im­probabile. È la fiction che nel 2005 doveva fissare per sempre la memoria della cac­ciata di 350 mila italiani dall’Istria e dalla Dalmazia. Ma pri­ma della Rai del duo Gasparri- Sacca’ ci aveva provato anche la grande letteratura, con gli straordinari romanzi di Fulvio Tomizza, o con quel piccolo gio­iello che è Verde Acqua di Mari­sa Madieri. Niente da fare. L’e­popea del confine orientale nel dopoguerra è ancora relegata in un cono d’ombra della no­stra storia.

«Ma chi si ricordava del Vajont prima di Paolini?». Il can­tante e performer romano Simone Cristicchi ricorre a que­sto paragone per presentare Magazzino 18, il musical civile che al suo debutto a Trieste ha scosso la città: teatro esaurito in ogni ordine di posti, lacrime e applausi anche da parte di chi era in sala con la voglia di contestare il «foresto» che par­lava dell’esodo.

«Da ragazzo, andando al li­ceo all’Eur, attraversavo ogni mattina il quartiere Giuliano Dalmata. Pensavo che fosse un condottiero o roba del genere» ricorda Cristicchi. Forse è an­che per questa «estraneità» alla questione che ha potuto dribblare ogni polemica politi­ca per cogliere la verità umana di questa brutta pagina del No­vecento.

 

Ora il racconto dell’esodo dei giuliano-dalmati varca il confine e arriva proprio in Slo­venia e Croazia, ovvero nei luo­ghi da cui quegli italiani fuggi­rono. Il 9 dicembre Magazzino 18 è a Pirano, in Slovenia: «In città c’è molta attesa» dice lo storico Kristjan Knez. «E an­che molto bisogno: sono vicende ancora ignorate dalla nostra scuola». Knez è un giovane studioso: «Sono cittadino slo­veno di famiglia italiana. A Pi­rano siamo 1.300 su quindicimila abitanti».

 

Anche Fabrizio Radin è italiano, ma i cambiamenti della storia lo hanno reso cittadino croato. Presiede la comunità degli italiani di Pola, dove il 10 dicembre arriva lo spettacolo di Cristicchi diretto da Anto­nio Calenda. Ed è legittimo chiedersi come lo accoglierà la città che ormai tutti chiamano Pula: «Non ci aspettiamo pole­miche» tranquillizza Radin. «Anche perché della nostra comunità fanno parte anche molti croati che apprezzano la cultura italiana».

 

Eppure Magazzino 18 non è fatto per lasciare indifferenti: «Spero di trasmetterlo presto anche in tv, con una serata su Rail» conclude Cristicchi. Che nel frattempo riattraversa il confine per debuttare il 17 di­cembre alla Sala Umberto di Roma.     

 

 

 

 

573 - Il Giornale 01/12/13 I partigiani ora ammettono la vergogna di esodo e foibe

I partigiani ora ammettono la vergogna di esodo e foibe

 

Il coordinatore dell'Anpi veneto riconosce che molti perseguitati italiani non erano fascisti ma oppositori del nuovo regime comunista e illiberale

 

Fausto Biloslavo

da Padova

 

Si scusa con gli esuli in fuga dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia per l'accoglienza in patria con sputi e minacce dei comunisti italiani.

 

Ammette gli errori della facile equazione profugo istriano uguale fascista e della simpatia per i partigiani jugoslavi che non fece vedere il vero volto dittatoriale di Tito. Riconosce all'esodo la dignità politica della ricerca di libertà. Maurizio Angelini, coordinatore dell'Associazione nazionale partigiani in Veneto, lo ha detto a chiare lettere venerdì a Padova, almeno per metà del suo intervento. Il resto riguarda le solite e note colpe del fascismo reo di aver provocato l'odio delle foibe. L'incontro pubblico è stato organizzato dall'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia con l'Anpi, che solo da poco sta rompendo il ghiaccio nel mondo degli esuli. Molti, da una parte e dall'altra, bollano il dialogo come «vergognoso».

 

Angelini ha esordito nella sala del comune di Padova, di fronte a un pubblico di esuli, ammettendo che da parte dei partigiani «vi è stata per lunghissimi anni una forte simpatia per il movimento partigiano jugoslavo». Tutto veniva giustificato dalla lotta antifascista, compresa «l'eliminazione violenta di alcune centinaia di persone in Istria - le cosiddette foibe istriane del settembre 1943; l'uccisione di parecchie migliaia di persone nella primavera del 1945 - alcune giustiziate sommariamente e precipitate nelle foibe, soprattutto nel Carso triestino, altre - la maggioranza - morte di stenti e/o di morte violenta in alcuni campi di concentramento jugoslavi soprattutto della Slovenia». Angelini ammette, parlando dei veri disegni di Tito, che «abbiamo colpevolmente ignorato la natura autoritaria e illiberale della società che si intendeva edificare; abbiamo colpevolmente accettato l'equazione anticomunismo = fascismo e ascritto solo alla categoria della resa dei conti contro il fascismo ogni forma di violenza perpetrata contro chiunque si opponeva all'annessione di Trieste, di Fiume e dell'Istria alla Jugoslavia». Parole forti, forse le prime così nette per un erede dei partigiani, poco propensi al mea culpa. «Noi antifascisti di sinistra - sottolinea Angelini - non abbiamo per anni riconosciuto che fra le motivazioni dell'esodo di massa delle popolazioni di lingua italiana nelle aree istriane e giuliane ci fosse anche il rifiuto fondato di un regime illiberale, autoritario, di controlli polizieschi sulle opinioni religiose e politiche spinti alle prevaricazioni e alle persecuzioni».

 

Il rappresentante dei partigiani ammette gli errori e sostiene che va fatto di più: «Dobbiamo riconoscere dignità politica all'esodo per quella componente di ricerca di libertà che in esso è stata indubbiamente presente». Gli esuli hanno sempre denunciato, a lungo inascoltati, la vergognosa accoglienza in Italia da parte di comunisti e partigiani con sputi e minacce. Per il coordinatore veneto dell'Anpi «questi ricordi a noi di sinistra fanno male: ma gli episodi ci sono stati e, per quello che ci compete, dobbiamo chiedere scusa per quella viltà e per quella volgarità».

 

Fra il pubblico c'è anche «una mula di Parenzo» di 102 anni, che non voleva mancare. Il titolo dell'incontro non lascia dubbi: «Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti, siamo italiani e crediamo nella Costituzione». Italia Giacca, presidente locale dell'Anvgd, l'ha fortemente voluto e aggiunge: «Ci guardavamo in cagnesco, poi abbiamo parlato e adesso ci stringiamo la mano». Adriana Ivanov, esule da Zara quando aveva un anno, sottolinea che gli opposti nazionalismi sono stati aizzati prima del fascismo, ai tempi dell'impero asburgico. Mario Grassi, vicepresidente dell'Anvgd, ricorda le foibe, ma nessuno osa parlare di pulizia etnica. Sergio Basilisco, esule da Pola iscritto all'Anpi, sembra colto dalla sindrome di Stoccolma quando si dilunga su una citazione di Boris Pahor, scrittore ultra nazionalista sloveno poco amato dagli esuli e sulle vessazioni vere o presunte subite dagli slavi. Con un comunicato inviato al Giornale, Renzo de' Vidovich, storico esponente degli esuli dalmati, esprime «perplessità di fronte alle “prove di dialogo” con l'Anpi» che farebbero parte di «un tentativo del Pd di Piero Fassino di inserire i partigiani nel Giorno del ricordo dell'esodo». L'ex generale, Luciano Mania, esule fiumano, è il primo fra il pubblico di Padova a intervenire. E ricorda come «solo due anni fa a un convegno dell'Anpi sono stato insultato per un quarto d'ora perché avevo osato proporre l'intitolazione di una piazza a Norma Cossetto», una martire delle foibe.

 

In sala tutti sembrano apprezzare «il disgelo» con i partigiani, ma la strada da percorrere è ancora lunga e insidiosa.

 

 

 

 

 

 

574 - Il Piccolo 30/11/13 È morto all'età di 95 anni Mitja Ribicic triestino e discusso membro dell'Ozna

È morto all’età di 95 anni Mitja Ribicic triestino e discusso membro dell’Ozna

 

 È morto, all'età di 95 anni, Mitja Ribicic, politico sloveno tra i più in vista nel regime jugoslavo. Nacque a Trieste nel 1919. Fu membro del partito comunista jugoslavo dal 1941, parlamentare sloveno (1951-1963), parlamentare dell'assemblea nazionale jugoslava negli anni '60, presidente del consiglio esecutivo jugoslavo (1969-1971) e presidente della Lega dei comunisti jugoslavi (1982-1983). Ribicic resta una figura storica molto controversa soprattutto per il suo ruolo nell'Ozna (Dipartimento per la Sicurezza del popolo), servizio segreto militare jugoslavo di spionaggio e controspionaggio.

 

Contro di lui vennero mosse accuse di responsabilità per le uccisioni degli avversari del regime jugoslavo nell'immediato dopoguerra. La macchina della giustizia si è mossa al riguardo nel 2005, quando la magistratura ha aperto un'inchiesta per i fatti avvenuti nella seconda metà degli anni '40 e nella prima metà degli anni '50. Ma la richiesta a procedere fu poi respinta dal tribunale di Lubiana.(m. man.)

 

 

 

 

 

 

 

575 - La Voce di Romagna 03/12/2013 Gabicce e i suoi misteri irrisolti -

 

SI CERCA DI DARE UN NOME AGLI EBREI DI FIUME E ABBAZIA CHE VI AVEVANO TROVATO RIFUGIO

 

Gabicce e i suoi misteri irrisolti

 

Il questore Palatucci aveva chiesto il trasferimento a Riccione o Cattolica e in seguito alla Scuola di Polizia di Cesena

 

Alcuni dei rifugiati alloggiavano nella villa Antinori, oggi dependance di un albergo, dove era presente anche un ufficiale inglese. Non è da escludere che quella villa fosse un centro di spionaggio, si raccontava infatti che la moglie del proprietario fosse inglese o irlandese. Quelli che invece si trovavano in abitazioni private o in albergo, avevano ottenuto carte d’identità autentiche compilate con nomi falsi. I Finzi, divenuti Franzi, erano sfollati da Milano dove abitavano in un palazzo effettivamente distrutto dai bombardamenti, e così anche i Rimini divenuti Ruini; i loro documenti erano rimasti sotto le macerie dell’edificio.

A fornire senza chiedere un centesimo le preziose carte, firmate dal podestà Romeo Zoppi, era il segretario comunale Loris Sgarbi, che sulla vicenda ha sempre mantenuto un rigoroso riserbo. Non si è mai vantato della sua opera umanitaria, in famiglia quando si parlava del periodo trascorso a Gabicce diceva di aver agito secondo coscienza. Lo stesso ha fatto il podestà Zoppi, che aveva accolto nella sua abitazione alcuni ebrei e così il segretario del fascio repubblicano Andrea Franchini, che secondo Palmetti potevano chiamarsi Gandus o Gaudus.

A Gabicce nell’ottobre 1943 si trovavano nascosti anche i generali inglesi fuggiti dopo l’8 settembre dal castello di Vincigliata, nei pressi di Firenze, e che raggiungeranno il sud già nelle mani degli alleati a bordo di un peschereccio, salpato dal porticciolo di Vallugola. Al riguardo esiste la precisa testimonianza del noto regista Bruno Vailati, all’epoca ufficiale di collegamento con il comando alleato per coordinare l’azione tra l’8ª Armata e l’8ª Brigata Garibaldi. Il professor Cesare Finzi, ha riferito di aver parlato con alcuni rifugiati a Gabicce, qualcuno gli aveva raccontato di venire da Fiume e di aver raggiunto la località via mare.

A colpire l’attenzione del giovane Finzi un particolare: i rifugiati non parlavano un corretto italiano. Poteva dunque trattarsi di persone di madre lingua ungherese, come i Weisz, titolari ad Abbazia di una rinomata gastronomia che forniva pietanze prelibate anche ai migliori alberghi della rinomata località balneare. Finzi aveva contattato a Roma una componente di quella famiglia, la signora Margherita Weisz, venuta a mancare alcuni anni fa, che però di quel periodo non ha ricordato praticamente nulla. A parte la conferma di aver trovato rifugio con i suoi a Gabicce, purtroppo non è stata in grado di fornire notizie su altri correligionari provenienti dal Carnaro.

Intervistata da Shalom, il periodico della Comunità ebraica di Roma, Margherita Weisz ha ricordato Giovanni Palatucci; è probabile che ciò sia dovuto all’effetto mediatico di allora. E’ certo che a indirizzare i Weisz a Gabicce è stato il colonnello dell’Esercito Salvatore Schillaci, anche lui residente nella località climatica a pochi chilometri da Fiume. L’ufficiale aveva consigliato loro di rivolgersi al fratello Riccardo, che viveva da alcuni anni nella località dove  aveva sposato una ragazza del posto, Diva Della Santina. La signora Diva, scomparsa alcuni anni fa, ha ricordato perfettamente i Weisz e la presenza di altre persone che parlavano un italiano stentato. Forse non tutti sanno che Palatucci aveva chiesto il trasferimento in Romagna.

Nel suo libro “Capuozzo, accontenta questo ragazzo”, Angelo Picariello racconta del disagio di Palatucci alle prese con superiori intransigenti e di idee così diverse dalle sue; in una nota cita lo storico Marco Coslovich che parla di almeno quattro tentativi tra il 1937 e il 1939 di superare i concorsi indetti dal Ministero della Giustizia. Palatucci aveva anche presentato diverse domande di trasferimento: il 16 giugno 1938 chiede di venire destinato a Riccione o Cattolica, il 21 aprile 1939 di andare a Cesena alla Scuola tecnica di Polizia. Sempre in “Capuozzo accontenta questo ragazzo”, Picariello riporta la testimonianza del brigadiere Amerigo Cucciniello, collaboratore di Palatucci, che si sarebbe recato a Ravenna dove presso amici fidati aveva trovato rifugio una famiglia fiumana. A proposito delle fughe per la salvezza via mare verso il sud, il gruppo di ricerca della Pubblica Sicurezza che ha condotto la ricerca su Palatucci, ha raccolto la testimonianza di Pina Castagnaro che abitava con la madre a Fiume tra il 1943 e il 1944.

Le due donne ospitavano nella loro abitazione piccoli nuclei di ebrei, due o tre per volta, che partivano di notte via mare per Bari. Questi spostamenti avvenivano a tappe? Cesare Finzi è alla ricerca di testimonianze perché Loris Sgarbi venga proclamato Giusto da Israele, senza tralasciare il fatto che potrebbero servire anche per Romeo Zoppi e Andrea Franchini. E’ un’impresa non facile visto che per effetto del Trattato di pace del 1947, la quasi totalità dei pochi ebrei di Fiume e Abbazia scampati ai lager ha intrapreso la via dell’esodo da quelle terre assegnate all’allora Jugoslavia. La testimonianza di Cesare Finzi e dei suoi congiunti è servita per il conferimento del titolo di Giusto a un sarto di Cattolica, Guido Morganti. I Finzi e Rimini si erano rivolti a lui perché realizzasse due cappotti.  Erano però tornati dall’artigiano con la nuova identità, l’uomo aveva risposto di non avere merce abbinata a quei nomi. Una distrazione del genere poteva costare la deportazione. Giuseppe Rimini lo aveva implorato dicendogli la verità. “Lei è per caso parente di Leone Rimini di Mantova?”, chiese Morganti. “Sì era mio nonno”. Leone, all’inizio del secolo, aveva rinunciato a fare causa al padre del sarto che per mancanza di mezzi non aveva pagato una consistente fornitura di stoffe.

Guido Morganti tramite la moglie troverà loro una sistemazione in Valconca, dove rimarranno fino all’arrivo degli Alleati. Era stato lo stesso artigiano a occuparsi del trasferimento dei 13 perseguitati a Mondaino. La zia e la nonna avevano trovato rifugio nel convento  delle Maestre Pie di Morciano per poi trasferirsi in un appartamento, mentre gli altri 11 raggiunsero il convento di Mondaino, la madre superiora era la zia del sarto. Sarà lei a indicare le abitazioni nella zona in cui alloggeranno i Finzi - Rimini fino all’arrivo degli alleati. Secondo quanto riferito dalla figlia di Loris Sgarbi, Maria Laura, allora bambina, che ne aveva sentito parlare dalla madre, gli ebrei a Villa Antinori sarebbero rimasti a lungo, la gente del posto andava a rifornirli di cibo durante la notte e loro ripagavano con il sapone prodotto in casa. La presenza nella villa di ufficiali inglesi lascia pensare a uno stretto legame tra la vicenda dei generali fuggiti da Vincigliata e quella degli ebrei alla ricerca della libertà.

 

Aldo Viroli

 

Quando si svolge la vicenda

Settembre 1943, inizia la catena di solidarietà

 

La vicenda di Giovanni Palatucci, reggente della Questura di Fiume, proclamato Giusto da Israele e beatificato dalla Chiesa per aver salvato numerosi ebrei, oggi accusato da alcuni studiosi di avere addirittura eseguito ordini nazisti, è l’occasione per un ulteriore approfondimento di quanto si verificò a Gabicce tra il settembre 1943 e l’estate 1944. Come risulta da diverse testimonianze, nella località al confine tra Romagna e Marche, avevano trovato rifugio nuclei familiari ebraici provenienti da Fiume e Abbazia, e forse anche da territori dell’ex Jugoslavia occupati dai tedeschi. Secondo alcuni testimoni, Palatucci avrebbe favorito la fuga di alcuni ebrei via mare verso Bari; forse, mancano testimonianze dirette, Gabicce potrebbe essere una tappa del percorso verso la salvezza.

Il primo ad affrontare i fatti di Gabicce è stato lo storico Umberto Palmetti, che sull’argomento ha tenuto diverse conferenze. Nel 2005 Cesare Finzi ha pubblicato “Qualcuno si è salvato ma niente è stato più come prima”, a cura di Lidia Maggioli, dove racconta tutte le peregrinazioni della sua famiglia e degli zii e cugini Rimini per scampare alla cattura. Il professor Finzi, che aveva allora 13 anni, ha ricordato di aver parlato con alcuni rifugiati; qualcuno gli aveva riferito di venire da Fiume e di aver raggiunto Gabicce via mare.

 

 

 

 

 

 

 

576 - Il Piccolo 26/11/2013 Bruno Chersicla, sulla transiberiana per specchiarsi in se stesso - Un libro d'artista inedito del pittore e scultore triestino morto a maggio

Chersicla sulla Transiberiana per specchiarsi in se stesso

Un libro d’artista inedito del pittore e scultore triestino morto a maggio

 

DOMANI 27 novembre  - A TRIESTE

 

 E nella presentazione spunta anche la musica Gli «appunti e disegni in viaggio” di Bruno Chersicla, pubblicati da Silvana Editoriale, verranno presentati domani a Trieste. Alle 16.15, alla Biblioteca Statale “Stelio Crise” di largo Papa Giovanni XXIII, a parlare del libro saranno Diego Nardin, amministratore delegato di Fope Gioielli di Vicenza, che ogni anno promuove la pubblicazione di un libro d’arte; il docente e critico letterario Elvio Guagnini, che firma anche la postfazione al libro. Insieme a loro ci sarà il musicista brasiliano Daniel Rolim, apprezzatissimo da Chersicla, che gli aveva dedicato anche uno dei suoi caratteristici ritratti. Suonerà e parlerà della Bossa Nova e del Samba sincopato, regalando al pubblico un piccolo concerto.

 

di Alessandro Mezzena Lona

 

Si può trovare un pezzo della propria anima lontanissimo da casa. In modo del tutto imprevisto, dentro un dialogo tra i ricordi e le immagini che si fissano negli occhi. Tra il vissuto, il passato, le tracce forti lasciate dalla propria famiglia, e il susseguirsi di città mai visitate, di persone mai incontrate, di suoni e colori che smuovono emozioni ancestrali. Questo testacoda spaziotemporale, questo sovrapporsi di mondi apparentemente lontanissimi, Bruno Chersicla l’ha provato sulla strada che porta da Mosca a Vladivostok. In un viaggio organizzato insieme alla compagna Melitta Botteghelli. Subito, l’artista che era in lui si è messo al lavoro. Per dare forma alle sensazioni. Per non permettere che il ricordo svaporasse, trasformando nella lontananza del tempo le immagini e il brusio linguistico quasi indecifrabile, le facce e l’impasto di odori-sapori colti lungo la strada. Così, lentamente, ha preso forma “Transiberiana. Appunti e disegni in viaggio”, li libro che ha accompagnato Bruno Chersicla fino alla morte, avvenuta il 3 maggio di quest’anno. E che esce solo adesso, pubblicato da Silvana Editoriale con Fope Gioielli di Vicenza.

 

Un volume prezioso, dove trenta tavole a colori stabiliscono un dialogo sommesso e coinvolgente con le parole. Ci teneva a dirlo subito. Non era un «diarista compulsivo», Bruno Chersicla. Nato a Trieste il 10 ottobre del 1937, passato per l’Istituto d’arte “Nordio”, poi per l’esperienza di artista che inventava arredamenti e decorazioni per le grandi navi passeggeri, dopo una prima fase da pittore informale si era subito incamminato sulla strada della sperimentazione. Dando vita al gruppo Raccordosei con Caraian, Cogno, Palcich, Perizi e Reina. E, al tempo stesso, scoprendo il mondo del teatro con le scenografie realizzate per il “Piccolo” di Milano. Ma era nell’essenza dei materiali, nel trattare il legno come fosse materia viva, che avrebbe trovato l’ispirazione per dare forma a opere belle e innovative. Ritratti inconfondibili. Tanto da meritarsi l’appellativo di «poeta del legno». In quel mondo grande, nei paesaggi mai visti tra Mosca e Vladivostok, Chersicla trova un filo conduttore che lo riporta indietro nel tempo. Al suo vissuto, al ricordo, alle voci della famiglia, a quel Novecento capace di lasciare sulla pelle di Trieste più ferite che carezze.

 

Ma all’artista Chersicla non potevano bastare le parole. E allora, sfilano le immagini che si porta dentro gli occhi. Visioni di chiese e palazzi, di Mosca e della linea Transiberiana, ma anche frammenti del grande sogno marxista-leninista, della rivoluzione d’Ottobre, della miseria e delle illusioni, fino ad arrivare allo splendore della Siberia. Che, però, conserva in sé anche l’orrore delle persecuzioni, dei gulag, dei prigionieri piegati fino a spezzarsi. Lavorando da artista, ma anche da scrittore di viaggio e da turista non per caso, Chersicla dà vita a un libro dove prende forma quella che Elvio Guagnini nella sua bella postfazione chiama «la terza linea (mi verrebbe da chiamarla “corsia”), costituita dal commento grafico al commento in prosa. Piccoli schizzi, documenti, annotazioni grafiche di aspetti trattati nel racconto, orari-itinerari, cartine, ritrattini di personaggi citati nel testo». Un universo, insomma, in cui il ricreare la realtà con la fantasia diventa spunto geniale per insinuare nella carta geografica della Russia il profilo stesso dell’artista. In questo viaggio Chersicla riporta alla memoria il finale de “L’artefice” di Jorge Luis Borges. Dove un geografo, che per tutta la vita si è ostinato a disegnare mappe sempre più perfette, finisce per riconoscere in quella ragnatela di linee, segni, tracce di monti e valli, il proprio ritratto. Se stesso.

 

Il TESTO

Una fiction messa assieme dai ricordi e dal viaggio

 

Da “Transiberiana” di Bruno Chersicla pubblichiamo l’inizio del testo che accompagna le opere, per gentile concessione di Silvana Editoriale.

 

di BRUNO CHERSICLA Questo non è un diario di viaggio né un diario di alcunché. Non sono un diarista compulsivo, per il quale la vita è più intensa nel ricordo che nell’attimo fuggevole in cui è vissuta, ma penso comunque che il passato, sia prossimo che remoto, non sia statico ma possa essere rivissuto attraverso il ricordo che riscopre, reinveste, ribalta certe volte alcune situazioni date per certe o addirittura le corregge. In questo viaggio da Mosca a Vladivostok il mio vissuto, nel ricordo e nella rielaborazione del ricordo, si è fuso e impastato imprescindibilmente con il mio passato e con il passato e il vissuto della mia famiglia dando luogo ad una fiction, come in fondo lo è ogni anche minima autobiografia che si rispetti. Naturalmente in questa fiction ha giocato molto l’elemento della mia nascita, della mia collocazione casuale (ma sempre la collocazione è casuale…) nel tempo, il Novecento secolo tumultuoso, e nello spazio, a Trieste, città di confine con l’Istria, luogo delle mie radici in cui per caso storico da un po’ di tempo si parla una lingua che non mi è congeniale e che ho risentito, anche se in una certa diversità, in Russia e che paradossalmente mi è sembrata un “lessico familiare”. Una strana “aria di famiglia” fatta di brusio linguistico quasi indecifrabile, mista a odori e a sapori quasi noti da sempre che tradotta in segno ha preso vita assumendo una propria identità e concretezza, e ha tracciato una linea che da Mosca, attraverso la Siberia, sino a Vladivostok (paesaggi mai visti e già visti) mi ha ricondotto a casa. Negli ultimi otto anni Mosca ha cambiato radicalmente volto, così dicono. Per me che v’ero stato nel 1994 è stato uno choc: ricordavo una città austera, solenne, abbastanza triste e comunque con segni di decadenza neanche tanto dignitosa e ho ritrovato una città entusiasta e diligente seguace del capitalismo con sfoggio di pubblicità luminose, boutique rigorosamente italiane e francesi, ristoranti e casinò nel più vivido stile Vegas. Suv enormi sfrecciano a velocità folli con donne bellissime.

 

 

 

 

 

577 - La Voce del Popolo 02/12/13  Cultura - La marcia di Ronchi comprendere e ricordare

La marcia di Ronchi comprendere e ricordare

 

Rosanna Turcinovich Giuricin

 

Inizia così il racconto del prof. Andrea Zannini, docente di Storia moderna all’Università degli studi di Udine, invitato dal Comune di Ronchi all’inaugurazione del Museo di Ronchi dedicato all’Impresa fiumana di Gabriele D’Annunzio: non solo un’esposizione di lettere, immagini e documenti, ma anche il tentativo di creare un polo didattico che consenta di conoscere meglio il territorio, la storia e le sue implicazioni.

 

Professore, i legionari partono, alla loro testa questo personaggio controverso che la storia ancora cerca di inquadrare…

 

“Certamente, lui è l’eroe della Prima guerra mondiale. Gabriele D’Annunzio è fante, marinaio, aviatore – oltre che naturalmente poeta e scrittore -, celebre per le sue clamorose imprese; egli è, semplicemente, il primo soldato d’Italia. Lungo la strada la colonna D’Annunzio, che procede su una trentina di autocarri sequestrati a Palmanova, si ingrossa di volontari, fanti della brigata Sesia e Arditi dell’8° e 22° reparto d’assalto. All’arrivo a Fiume, il comandante del corpo d’armata Gandolfo li lascia entrare senza colpo ferire. “Prima di far fuoco sugli altri, faccia fuoco su di me” gli dice D’Annunzio, scoprendo sul petto il distintivo dei mutilati e il nastro azzurro della medaglia d’oro al valore militare”.

 

Ma chi sono i personaggi che lo seguono e cosa fu la “marcia di Ronchi”?

 

“A quasi un secolo dall’avventura dannunziana essa appare come il segno più evidente della disgregazione dello Stato liberale, il cui esito fu l’instaurazione della dittatura fascista. Ma il significato della marcia di Ronchi e dell’occupazione per sedici mesi di Fiume non può essere ridotto a semplice anticipazione, o preludio, del regime mussoliniano. Essa fu qualcosa di diverso e più complesso. Per comprenderne il significato storico bisogna calarsi nel clima politico, ideologico e sociale in cui essa ebbe luogo”.

 

Si riferisce alla situazione fiumana, una città che ha conosciuto l’opulenza ma ora è pervasa da una volontà nazionale che supera ogni altra aspettativa?

 

“Infatti, agli inizi del ‘900 Fiume è un crogiuolo di popoli e culture. È l’unico sbocco al mare del Regno d’Ungheria e il Patto di Londra stipulato nell’aprile del 1915, che prelude all’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, non ne prevede il passaggio al Regno d’Italia al termine del conflitto contro gli imperi centrali. Secondo quell’accordo, infatti, al termine della guerra, l’Italia avrebbe ricevuto il Trentino, l’Alto Adige, Gorizia e Trieste, l’Istria e la Dalmazia, ma non il porto nel golfo del Quarnaro, che non era mai stato veneziano se non per brevissimo tempo”.

 

Fiume comunque si schiera, come aveva fatto altre volte, a ribadire la sua appartenenza…

 

“È vero, ma l’andamento della guerra scombinò gli accordi: alla sua conclusione, infatti, l’impero austro-ungarico si dissolse e, soprattutto, comparve sulla scena un protagonista che non aveva firmato il patto di Londra: gli Stati Uniti. Il presidente americano Woodrow Wilson enunciò nel gennaio del 1918, senza consultare le potenze alleate, i 14 punti di un progetto per garantire la pace mondiale: fra di essi una “sistemazione equa dell’area balcanica”, “l’applicazione del principio di nazionalità nella definizione delle frontiere, comprese quelle italiane” e “l’autonomia dei popoli dell’Impero austro-ungarico e dell’Impero ottomano”.

 

 Come questi principi, condivisibili ma astratti, potessero tradursi in realizzazioni politiche condivise è il punto su cui deflagrò la bomba di Fiume. Il censimento di fine 1918 registrava su 45 mila abitanti della città il 62,5 % di italiani, il 19,6% di croati, il 9,6 % di ungheresi e il restante 8,3% di nazionalità varie. I dintorni erano interamente croati. Ma i residenti dalla nascita che avevano diritto di voto erano italiani all’85%”.

 

Cosa succede quindi nei giorni del collasso dell’Impero austro-ungarico e alla vigilia dell’armistizio?

 

“Il 30 ottobre 1918 il locale Consiglio nazionale italiano proclamò l’autodeterminazione e l’annessione della città al Regno d’Italia. Seguirono un’occupazione serbo-croata e quindi l’entrata in città di cinque colonne militari italiane, sotto gli ordini di un Comando militare interalleato, per ben 13 mila uomini.

 

Italiani da una parte, che dall’inizio del 1919 furono rinforzati dai volontari reclutati da un ex-comandante degli arditi, e francesi e serbi dall’altra si guardano in cagnesco. Presto l’astio si trasforma in violenza: nove soldati francesi vengono uccisi e il presidente del consiglio Nitti ordina l’arresto per tutti i volontari che continuano a dirigersi su Fiume. Alla fine di agosto 1919 i granatieri vengono confinati a Ronchi perché considerati poco affidabili a causa dei loro sentimenti filofiumani”.

 

Queste quindi le motivazioni alla base dell’impesa di Fiume?

 

“Consideriamo che varie componenti agitano i militari che si ritroveranno nell’impresa dannunziana. Innanzitutto, l’argomento della ‘vittoria mutilata’, secondo l’espressione coniata dallo stesso D’Annunzio, e cioè l’idea che i morti freschi del conflitto fossero stati traditi: nella conferenza di pace di Versailles, infatti, l’Italia aveva ricevuto i territori pattuiti, compreso il tedeschissimo Sud-Tirol allora italianizzato in Alto Adige, ma non la Dalmazia italiana e Fiume, per l’opposizione del presidente americano che intendeva assegnarla al nuovo stato jugoslavo”.

 

Sono tutte questioni di carattere politico e militare, ma ad esacerbare gli animi c’era anche qualcos’altro?

 

“Certamente, vi era una questione sociale, e cioè la situazione di generale disagio che correva tra le file di un enorme esercito che doveva smobilitare e ritornare alla vita civile in un Paese prostrato dalla guerra, senza reali prospettive di ripresa economica a breve termine per centinaia di migliaia di reduci. Poi vi era la radicalizzazione delle posizioni politiche: l’accentuazione del massimalismo socialista, specie dopo la rivoluzione russa, la crisi dello stato liberale e la mancata transizione verso un sistema democratico, la fondazione a Milano il 23 marzo 1919 dei Fasci di combattimento mussoliniani, di concezione repubblicana e anticlericale. Infine, dal punto di vista psicologico prima che ideologico, la guerra aveva mobilitato diffusi sentimenti di violenza, anzi, la definirei una cultura della violenza diffusa soprattutto tra le più giovani generazioni”.

 

In che modo viene coinvolto D’Annunzio?

 

“Su sollecitazione di un gruppo di ufficiali dei granatieri che a Ronchi di Monfalcone, sulla strada del rientro a Roma nella sede della brigata, scrivono al Vate. Cinquantaseienne, egli era allora la personalità politica più in vista sulla quale convergevano le aspettative non solo degli ex-soldati appena congedati: lo stesso Mussolini lo considerava il primo, possibile antagonista per la leadership della sua stessa area politica.

 

La presa di Fiume, che avviene dunque contro le stesse truppe italiane che vi stanziano ma senza lo spargimento di una goccia di sangue, galvanizza la destra italiana, insofferente della subalternità dimostrata dal governo italiano nei trattati internazionali: in poche settimane defezionano dal Regio esercito e si dirigono a Fiume cinque mila uomini, di cui 300 ufficiali”.

 

Diventa anche un’operazione mediatica ante litteram?

 

“D’Annunzio fu un precorritore in molti campi. Da Fiume, quotidianamente, comunica attraverso i corrispondenti dei principali giornali italiani che lo seguono passo passo. Lancia i suoi strali contro l’imbelle governo di Roma: nella primavera 1920, quando Nitti sarà sostituito dal quasi ottantenne Giovanni Giolitti, l’incapacità del vecchio ceto politico di rinnovarsi per far fronte all’esplosiva situazione politico-sociale italiana toccherà il suo culmine”.

 

Chi erano gli uomini al suo fianco, quali le loro idee, il mondo dal quale provenivano?

 

“Le tendenze presenti all’interno dei “legionari” fiumani sono divergenti. Monarchici e repubblicani, cioè legalitari e sovversivi, si alternano alla guida ideologica dell’occupazione. All’inizio prevale la componente monarchica, ma nel corso del 1920, di fronte alle prese di posizione sempre più decise di Roma, prendono la testa del movimento i radicali. Tra di essi vi è di tutto: arditi-futuristi che si fanno notare per le loro chiassose provocazioni, uomini d’ordine, ma anche sindacalisti rivoluzionari, anarchici di destra. Gli atteggiamenti scalmanati e fanatici, tipici dell’arditismo, sono diffusi fra la truppa, dove l’aggressività è esaltata e l’eccentricità, ad esempio nel vestire la divisa o nella capigliatura, esibita”.

 

E le donne?

 

“Le donne che possono fregiarsi del titolo di legionarie sono ben 279, con gran scandalo dei perbenisti di ogni parte politica. Fra di esse non poche le esponenti dell’alta borghesia e della nobiltà, eccitate dall’atmosfera di libertà e passione che alimenta l’impresa. Il divorzio in città è consentito: vi si reca per liberarsi dal giogo coniugale, tra gli altri, Guglielmo Marconi. L’omosessualità è tollerata, come testimoniano i diari dello scrittore Giovanni Comisso. Ottomila legionari generano un indotto postribolare eccezionale. Non mancano, naturalmente, i cappellani militari, che confortano i legionari con il soccorso della liturgia”.

 

Fiume fu un vero esperimento su tutti i fronti?

 

“L’ideologia prevalente è quella militarista, e il nerbo del fiumanesimo è l’arditismo. In effetti possiamo dire che fu un laboratorio semiologico di applicazione alle masse di un immaginario simbolico che sarebbe passato pari pari al fascismo: il saluto romano, i termini ‘legionario’, ‘duce’ e tutta la paccottiglia che si rifaceva alla romanità e alla grandezza di Roma imperiale, il grido greco ‘eia eia alalà’, il ‘me ne frego’ delle squadre fasciste e così via”.

 

Nel novembre del 1920 veniva firmato il trattato di Rapallo tra Regno d’Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Gorizia, Trieste, l’intera Istria, Zara - che nel frattempo era stata occupata da una colonna di legionari di Fiume - e alcune isole dalmate diventavano italiane e nella città sul Quarnaro si istituiva lo Stato Libero di Fiume. D’Annunzio e i legionari fiumani non accettarono però la sistemazione, preparando la strada per la loro sconfitta.

 

Mussolini non vedeva di buon occhio quanto stava succedendo, come mai?

 

“Il rapporto tra il capo del Partito fascista e l’impresa di Fiume fu sempre incerto. Mimmo Franzinelli e Paolo Cavassini, autori del bel volume fotografico " Fiume. L’ultima impresa di D’Annunzio"   a cui le mie riflessioni devono molto, hanno definito Mussolini ‘fiumano riluttante’. Egli infatti appoggia D’Annunzio, al quale, come si è detto, invidia il sostegno degli ambienti militari, ma diffida di un’iniziativa che nasce per l’appunto da questi senza l’apporto diretto dei fascisti.

 

A ulteriore complicazione delle relazioni tra i due personaggi interverrà la questione della sottoscrizione a favore dei legionari assediati, grazie alla quale il Popolo d’Italia raccoglie nel 1919 circa 3 milioni di lire, di cui ai dannunziani viene consegnata solo la prima tranche, 800 mila lire, il rimanente venne destinato da Mussolini a sovvenzionamento delle squadre fasciste milanesi.

 

La sua accettazione del Trattato di Rapallo lo renderà definitivamente inviso ai dannunziani: si aprirà allora una sorda competizione tra il poeta pescarese e Mussolini, che si concluderà nel 1921 con l’autoesilio del primo al Vittoriale, il misterioso episodio della caduta dalla finestra del Vate dell’agosto 1922 e la definitiva consacrazione di Mussolini con la marcia su Roma nell’ottobre dello stesso anno”.

 

Con il Natale del 1920 si chiude l’impresa di Fiume, apertasi con la marcia di Ronchi. Quale il suo significato?

 

“Non fu né banale, né limitato. Essa dimostra la complessità delle tensioni che nel primo dopoguerra funsero da combustibile per il decollo del fascismo. Come dipinse fulmineamente Giustino Fortunato in una battuta, esso non fu una ‘rivoluzione’ ma una ‘rivelazione’, il disvelamento non tanto di un carattere nascosto degli italiani quanto piuttosto di componenti ideologiche e sociali ben presenti da lungo tempo, parte delle quali emergono con chiarezza nell’impresa di Fiume.

 

Si può dire anzi di più: il fascismo, inteso come disprezzo della democrazia e culto della violenza risolutrice, è ancor oggi una componente, seppur minoritaria, magari confusa, della società italiana, sulla quale è dovere di tutti vegliare”.

 

 

 

 

578 – Corriere della Sera  05/12/13 Lettere a Sergio Romano -  L'Italia e la Grande Guerra

L’ITALIA E LA GRANDE GUERRA UN NEGOZIATO SU DUE FRONTI
ne valeva la pena? Nei giorni scorsi si è celebrato il 95° anniversario della vittoria italiana alla fine della prima guerra mondiale.Molti storici austriaci affermano che nei primi mesi del 1915, al fine di evitare l’apertura di un «terzo fronte» oltre a quelli in Galizia e in Serbia dove l’Impero stava subendo dei rovesci, il governo di Vienna dette inizio a dei negoziati affinché l’Italia restasse neutrale. Sembra che, entrando in guerra, il nostro Paese non ottenne in realtà, alla fine del conflitto, molto di più di quanto le veniva offerto nel 1915 «senza colpo ferire». Alla luce dei documenti oggi accessibili sia negli archivi di Roma sia in quelli di Vienna, ci può spiegare come in realtà andarono le cose? Non dimentichiamoci che l’intervento dell’Italia nella Grande Guerra ci costò circa 600.000 morti, un numero ancora maggiore di feriti e dispersi, e un paese, alla fine del 1918, ridotto allo stremo. Infine occorre ricordare gli anni di disordini sociali che ne seguirono e che ebbero poi, come conseguenza, la fine dello stato liberale.

Franco Cosulich

 

 La prima preoccupazione del governo italiano, dopo l’attentato di Sarajevo, fu quella di dimostrare agli alleati della Triplice che una eventuale dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia non avrebbe comportato obblighi per l’Italia. Questa fu la tesi di Giolitti e divenne da quel momento la linea a cui la diplomazia italiana si sarebbe attenuta per qualche mese. Vi erano personalità e gruppi, nel mondo politico e militare, per cui l’Italia, indipendentemente dagli impegni formalmente assunti, sarebbe dovuta scendere in campo a fianco degli Imperi centrali. Ma il fronte triplicista era largamente compensato dall’esistenza di un altro fronte, democratico e irredentista, per cui il posto dell’Italia era accanto alle grandi democrazie europee, Francia e Gran Bretagna. Quasi tutti, comunque, pensavano che l’Italia non potesse restare estranea a un conflitto che avrebbe ridistribuito il peso delle singole potenze nell’intero teatro europeo. Occorreva quindi negoziare subito i compensi (previsti dalla Triplice Alleanza) per l’eventualità di una vittoria austriaca. Ma Vienna, per qualche mese, sostenne capziosamente che la sua guerra alla Serbia, dichiarata in agosto, non era offensiva ma difensiva e che l’Italia, quindi, non aveva diritto ad alcun compenso. Cambiò parzialmente idea grazie alle pressioni di Berlino e finì per promettere che l’Italia avrebbe avuto il Trentino sino al confine linguistico di Salorno.Ma aggiunse che le sarebbe stato consegnato soltanto dopo la fine della guerra. Sulla questione di Trieste, Vienna fu ancora più rigida: avrebbe accettato tutt’al più di farne una «città libera» legata economicamente all’impero austroungarico. A Roma tutti sapevano quanto poco amichevoli fossero i sentimenti dell’opinione pubblica austriaca per l’Italia e avevano qualche buona ragione per temere che un’Austria vincitrice, alla fine della guerra, non avrebbe rispettato gli impegni. In Italia era cresciuta nel frattempo la febbre interventista e si era creato un fronte anti austriaco che andava da Mussolini a Gaetano Salvemini, dai sindacalisti rivoluzionari ai futuristi, dai democratici ai nazionalisti, dai poeti agli imprenditori. Fu questo il contesto in cui il governo Salandra- Sonnino negoziò a Londra con Francia, Gran Bretagna e Russia un patto molto più generoso di quello che, nella migliore delle ipotesi, avrebbe strappato all’Austria. Credo che la neutralità sarebbe stata la migliore delle scelte possibili, ma riconosco che la guerra ebbe molti padri e che è troppo facile avere ragione con il senno di poi.

 

Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e
l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia

Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :

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Rassegna stampa settimanale a cura di Maria Rita Cosliani, Eufemia Giuliana Budicin e Stefano Bombardieri

N. 896 – 30 Novembre 2013

                                

Sommario


550 – CDM Arcipelago Adriatico 23/11/13   FederEsuli: solidarietà con la popolazione della Sardegna (rtg)
551 - Alto Adige 25/11/13 Femminicidio: Bolzano scopre una stele per Norma Cossetto
552 -  Il Sole 24 ore 26/11/13 Dopo il vertice Slovenia, Croazia e Italia riapre dopo 60 anni un asilo italiano a Zara
553 - La Repubblica 27/11/13 Genova - Tursi, le case ai profughi istriani "svendute" a cinquecento euro (Stefano Origone)
554 - Il Giornale 28/11/2013   Esuli istriani e partigiani: l'incontro tabù è già polemica (Fausto Biloslavo)
555 - CDM Arcipelago Adriatico  29/11/13 Dalmazia 1409: lapide e convegno a Venezia (rtg)
556 - Il Piccolo 25/11/13 Fondi Ue per il restauro di Zara (Andrea Marsanich)
557 – La Voce del Popolo  23/11/13  Tore e Voce testimoni di iniziative fiumane (Rossana Poletti)
558 - La Voce di Romagna 26/11/13 Storie e Personaggi -  Riccardo Gigante e la Romagna (Aldo Viroli)
559 - Difesa Adriatica -  Dicembre 2013 Intervista a Giuseppe de Vergottini . «Un dialogo costruttivo che rispetti la nostra identità e il nostro patrimonio culturale (Patrizia C. Hansen)
560 – Il Resto del Carlino 23/11/13 Intervista - Nino Benvenuti e l’Isola che non c’è (più) (D.Rabotti)
561 - L'Arena di Pola 13/11/13 Presentazione: ultime pubblicazioni: ": Pagine scelte 1948-1960 - "L'Arena di Pola" 1945-1947 - L'esodo dimenticato
562 - Rinascita 25/11/13 Una monografia sulle foibe -  Foibe: tra croati-sloveni e italiani è conflitto (Rosanna Mandossi Bencic)                               
563 - Agenzia Asca 27/11/13 Venezia: Zaia, scelta Generali di tenere leone S.Marco e' identitaria (red/rus)


Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arcipelagoadriatico.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.arenadipola.it/



550 – CDM Arcipelago Adriatico 23/11/13   FederEsuli: solidarietà con la popolazione della Sardegna
FederEsuli: solidarietà con la popolazione della Sardegna

Da Trieste verso la Sardegna un messaggio di solidarietà del Presidente di FederEsuli, Renzo Codarin, che raccoglie la testimonianza di preoccupazione e partecipazione di tanti esuli che conoscono la realtà sarda per tutta una serie di esperienze di vita. In Sardegna, infatti, nella località di Fertilia, si è insediata nel dopoguerra una comunità di giuliano-dalmati. Ma la solidarietà va a tutti, espressa nella nota in cui si legge: “La Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani Fiumani e Dalmati esprime fraterna solidarietà alle popolazioni della Sardegna colpite da una eccezionale e rovinosa ondata di maltempo, che ha causato la perdita di tante vite umane e danni enormi ad una terra amata da tutti gli italiani. Molti esuli dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia hanno trovato rifugio in tutte le città della Sardegna negli anni del dopoguerra, accolti con affetto dalla popolazione e con la tradizionale ospitalità delle genti sarde.

Ancora oggi una prospera e attiva comunità di ex-profughi giuliano- dalmati e dei loro discendenti vive a Fertilia, nel plurilingue Comune di Alghero, ove hanno conservato la loro identità e il loro dialetto istro- veneto. Nel costruire quella borgata abbandonata e averla animata per decenni gli esuli hanno ritrovato serenità, sicurezza e dignità di se stessi e un mare altrettanto bello di quello delle terre natali di oltre Adriatico. Anche per questo un particolare legame di solidarietà e di riconoscenza unisce i giuliano- dalmati alle genti sarde delle località colpite dal violento nubifragio”.

Fertilia venne raggiunta nel 1946 da alcuni pescatori a bordo dei loro pescherecci partiti da Chioggia ed arrivati in Sardegna circumnavigando l’Italia. Genti temerarie e forti che a Fertilia trasformarono ciò che restava del tentativo di Mussolini di costruirvi una cittadina, in una località bella da viverci, laddove c’era la palude crebbe una campagna ricca, buona per coltivarci le viti. I sardi sentirono gli istriani vicini e molto simili per l’attaccamento alle tradizioni e l’amore per il lavoro, caratteristiche che ora li aiuteranno a superare il trauma di questi terribili giorni. (rtg)




551 - Alto Adige 25/11/13 Femminicidio: Bolzano scopre una stele per Norma Cossetto
Femminicidio : Bolzano scopre una stele per Norma Cossetto

Alla studentessa gettata nelle foibe nel 1943 intitolato un passaggio pedonale. Due scarpe rosse davanti alla lapide.
Alla presenza del sindaco Spagnolli e di numerose autorità politiche civili e militari e dei rappresentanti delle associazioni combattentistiche e d'arma si è tenuta, in occasione del 70° Anniversario della morte e in concomitanza con la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, la cerimonia ufficiale di scopertura della Memoria permanente dedicata alla giovane studentessa universitaria istriana Norma Cossetto che, nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1943, al termine di indicibili umiliazioni e torture perpetrate da uomini appartenenti all'Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo, venne uccisa e barbaramente gettata in una foiba.




552 -  Il Sole 24 ore 26/11/13 Dopo il vertice Slovenia, Croazia e Italia riapre dopo 60 anni un asilo italiano a Zara
Dopo il vertice Slovenia, Croazia e Italia riapre dopo 60 anni un asilo italiano a Zara

A Zara, città dalmata in Croazia,  è stata aperta dopo 60 anni una scuola italiana. Lo riporta la Voce Giuliana con una certa enfasi visto che le scuole italiane furono chiuse a Zara nel 1953.

Questa volta l’impegno è stato del Governo italiano (era presente il viceministro degli Esteri Marta Dassù, a riprova dell'importanza dell'evento) , dell’Unione Italiana e della locale Comunità degli Italiani e dello stesso Comune di Zara che, assieme hanno raggiunto il traguardo dell’apertura di questa scuola per l’infanzia in lingua italiana ma aperta a tutti i bambini e non soltanto a quelli della minoranza italiana. La scuola è stata battezzata con il nome di Pinocchio. Storicamente Zara fu città veneziana fino al Trattato di Campoformio (1797) e una provincia italiana in Dalmazia tra il 1923 e il 1944. La sua targa automobilistica era ZA.

Si tratta di un evento simbolico molto importante che nasce all'interno di una nuova fase di rilancio dei rapporti diplomatici tra Slovenia, Croazia e Italia.  Non a caso  il 22 novembre scorso sempre la vice ministro degli Esteri Marta Dassù ha  ospitato il primo incontro trilaterale fra Italia, Croazia e Slovenia a livello di vice ministri, quale seguito operativo del vertice trilaterale del 12 settembre scorso a Venezia fra capi di governo. Per la Croazia, era presente il vice ministro croato agli Affari Europei, Hrvoje Marušic, per la Slovenia, il segretario di Stato agli Affari Europei, Igor Sencar, accompagnati dalle rispettive delegazioni.

L'incontro, si legge in una nota, ha consentito di passare in rassegna i principali temi europei, soprattutto in vista del Consiglio Europeo di dicembre. Fra le questioni toccate: i Balcani e il processo di allargamento dell'Unione Europea, la costruzione di una comune strategia di difesa e l'aumento della cooperazione nel controllo dei flussi migratori mediterranei.

È stato inoltre discusso lo sviluppo della Strategia Ue per la Macro Regione Adriatico - Ionica.

L'incontro trilaterale è servito ad istituire il Gruppo di lavoro trilaterale su infrastrutture ed energia, deciso al passato vertice di Venezia per rafforzare la competitività dell'Alto Adriatico.

 



553  - La Repubblica 27/11/13 Genova - Tursi, le case ai profughi istriani "svendute" a cinquecento euro
Tursi, le case ai profughi istriani "svendute" a cinquecento euro

Sul mercato gli appartamenti affittati mezzo secolo fa ai profughi istriani. Il prezzo fissato da una legge

di STEFANO ORIGONE

Come un frigorifero, meno di un iPhone. Il Comune vende, in questo caso sarebbe meglio dire svende, il patrimonio immobiliare: 500 euro per un appartamento. A far scoppiare il caso è Stefano Anzalone del Gruppo Misto al termine di una infuocata commissione Bilancio in cui l'assessore Franco Miceli ha informato i presenti che 64 appartamenti in via Della Cella a Sampierdarena e via Oregina assegnati più di cinquant'anni fa ai profughi d'Istria, sarebbero stati alienati a un prezzo stracciato. "È una cosa paradossale - tuona Anzalone -, Amt sta sprofondando, le casse sono vuote, e il Comune regala le sue proprietà per incassare la miseria di 32 mila euro. Abbiamo toccato il fondo...".
 
L'assessore Miceli non ci sta. Si difende e precisa che si tratta di un equivoco, che le sue parole sono state mal interpretate. "L'operazione non va vista da questa prospettiva - risponde -. Innanzitutto il Comune ha ricevuto questi immobili da Arte - l'Azienda Regionale Territoriale per l'Edilizia che si occupa, per esempio, della manutenzione per conto di Tursi dei palazzi di via Maritano - e una legge regionale prevede che gli occupanti degli immobili, che hanno più di 50 anni, abbiano titolo ad acquistarli. Questa legge stabilisce anche la procedura, anche il diritto di prelazione di chi ci sta dentro, e che il prezzo va calcolato in misura pari al 50% del valore di costruzione dell'immobile".

Allora, cosa succede? "Che se in quegli anni gli appartamenti mettiamo costassero 500 mila lire, ora andrebbero pagati 500 euro, cioè il prezzo che ci ha detto Miceli - interviene Salvatore Caratozzolo del Pd -. Quando gli ho detto davanti a diversi testimoni che era incredibile, immorale, mi ha aggredito verbalmente, ma devo ammettere che non è colpa sua se esiste questa legge che va applicata ".
 


554 - Il Giornale 28/11/2013   Esuli istriani e partigiani: l'incontro tabù è già polemica
Esuli istriani e partigiani: l'incontro tabù è già polemica

Fausto Biloslavo 

Lo stemma dei partigiani d'Italia e dell'Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia sul volantino che annuncia un incontro pubblico dove si parlerà di foibe ed esodo divide sicuramente gli animi, ma è una novità. Venerdì alle 16.45 nel municipio di Padova i rappresentanti dei giuliano dalmati ed il coordinatore regionale dell'Anpi del Veneto, Maurizio Angelini, affronteranno gli opposti pregiudizi, senza peli sulla lingua. Per la prima volta verrà affrontato di petto uno degli ultimi tabù, a cominciare dal titolo dell'incontro pubblico, che spiega tutto: «Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti. Siamo italiani e crediamo nella Costituzione».

Dopo 70 anni il solco è ancora profondo, ma a Padova provano a rompere il ghiaccio. «Dopo il 10 febbraio, giorno del ricordo dell'esodo, i partigiani mi hanno invitato da loro nella “tana del lupo” - racconta Italia Giacca, presidente provinciale dell'Anvgd esule istriana all'età di 6 anni - Ho sentito un intervento storico equilibrato sul fascismo e le nostre tragedie. Il presidente regionale dell'Anpi ha detto rivolto agli esuli: “A questo punto sento di dovervi chiedere scusa”. Così è nata l'idea dell'incontro pubblico di venerdì».

Angelini interverrà assieme al socio Anpi, esule da Pola, Sergio Basilisco. «Le scuse non vanno a chieste a me, bensì a tutti quelli che hanno avuto pregiudizi, da una parte e dall'altra - spiega a il Giornale - Chi sputava agli esuli appena arrivati in Italia ha fatto qualcosa di ignobile, ma il sindaco comunista di Venezia accoglieva i profughi di Pola». Il coordinatore dell'Anpi sottolinea le colpe di Mussolini, ma ammette che «se nel passato abbiamo sostenuto l'equazione profughi istriani uguale fascisti abbiamo sbagliato».

Da una parte e dall'altra non mancano lettere di protesta. Via Facebook si sono scatenati gli esuli che considerano l'iniziativa «una vergogna».

Massimiliano Lacota, presidente dell'Unione degli istriani si chiede «cosa abbiano in comune Anpi e Angvd. Quando i partigiani ammetteranno che l'esodo fu pulizia etnica ne riparleremo». Per Antonio Ballarin, presidente nazionale dell'Anvgd «a Padova, Torino, Perugia ed in Toscana l'Anpi se non autocritica ha fatto una profonda riflessione sulla tragedia degli esuli. È una vittoria morale fare emergere la verità da chi è sempre stato lontanissimo da noi».





555 - CDM Arcipelago Adriatico  29/11/13 Dalmazia 1409: lapide e convegno a Venezia
Dalmazia 1409: lapide e convegno a Venezia

Perché il 9 luglio 1409 viene considerata una data storica per la Dalmazia? Con una lapide posta sulla chiesa di San Silvestro a Venezia, lo si ricorderà ai posteri, dopo la cerimonia d’inaugurazione che avrà luogo venerdì 29 novembre alle ore 10. Sulla lapide questa iscrizione: “Il 9 luglio 1409 in questa chiesa venne sottoscritto l’atto di cessione alla Repubblica Veneta da parte del Regno d’Ungheria dei diritti su ZARA e la DALMAZIA consolidando gli antichi legami tra la Dalmazia e Venezia destinati a durare nei secoli. La Società Dalmata di Storia Patria pose 29 – 11 – 2013”.

Dopo la cerimonia alla quale partecipano numerosi ospiti ed autorità ma soprattutto i massimi rappresentanti del mondo Dalmato in Italia, prenderà il via il convegno durante il quale verranno spiegati i risolti di tale processo. L’icontro scientifico viene organizzato dalle Società Dalmate di Storia Patria di Venezia e di Roma e si svolgerà, a partire dalle ore 11, nella Chiesa della Scuola Dalmata dei SS. Giorgio e Trifone – Castello 3259/A, Calle dei Furlani, sala del Carpaccio.

I relatori: Gherardo Ortalli, Ordinario di Storia Medievale all’Università Ca’ Foscari di Venezia, Marino Zorzi, Presidente della Società Dalmata di Storia Patria di Roma e Bruno Crevato Selvaggi, ricercatore. A coordinare i lavori sarà il presidente della Società Dalmata di Storia Patria di Venezia, Franco Luxardo. Il tutto reso possibile grazie alla collaborazione con il Guardian Grande ed il Consiglio di Cancelleria della Scuola Dalmata di Venezia. (rtg)





556 - Il Piccolo 25/11/13 Fondi Ue per il restauro di Zara
Fondi Ue per il restauro di Zara

Interessati tre punti dei bastioni veneziani compresa la Porta Marina. Stanziati 400mila euro

di Andrea Marsanich

 ZARA. L’antica città del maraschino attinge ai fondi europei per restaurare e valorizzare alcune tra le parti più significative e caratteristiche del suo centro storico.

Dall’amministrazione cittadina di Zara è stata diffusa la notizia che prossimamente cominceranno i lavori di restauro di tre siti posizionati sui plurisecolari bastioni veneziani oppure nei loro paraggi: il Passaggio dell’imperatore Augusto, nei pressi dell’ambulatorio pediatrico, la Porta Marina, oggigiorno ribattezzata con l’antico nome di San Grisogono e l’area del Piccolo Arsenale, nelle vicinanze dei Tre pozzi.

Gli interventi fanno parte del progetto Hera, che rientra nell’ambito del programma Ipa Adriatic. Secondo quanto dichiarato ai giornalisti da Davor Lonic, assessore zaratino allo Sviluppo e ai Processi europei, il progetto dovrà essere portato a termine entro 27 mesi.

«Dobbiamo completarlo non oltre marzo 2016 – ha detto Lonic – abbiamo ottenuto 400 mila euro, che spenderemo assieme ad alcuni nostri partner. Se parliamo delle attività che intraprenderemo in tutta la regione di Zara, l’aiuto europeo ammonterà a 900 mila euro».

L’assessore ha fatto presente che il progetto Hera, definito strategico, è stato formulato da esperti locali ed ha quale obiettivo la valorizzazione culturale e turistica dei tre menzionati siti.

«I lavori di ristrutturazione – ha così ripreso Lonic – permetteranno di ridare splendore al Passaggio dell’imperatore Augusto, da tanto tempo trascurato e che merita ben altra sorte. È situato a pochi metri dalla Torre del Capitano.

Il progetto comprende anche il restauro dell’antica Porta Marina, costruita nel 1566». Va aggiunto che assunse l’odierno aspetto nel 1571, anno in cui fu ristrutturata per le trionfali accoglienze che gli zaratini riservarono ai marinari delle 14 navi dalmate che presero parte alla storica battaglia di Lepanto. Sulla Porta di San Grisogono (patrono della città di Zara) si può ancora notare la lapide che salutava gli eroici reduci dello scontro tra la flotta dei cristiani e quella dei musulmani.

C’è infine l’area del Piccolo Arsenale, che sarà pure sottoposta a interventi di ricostruzione. Sulla facciata barocca del Piccolo Arsenale, che è in pietra calcare, è presente ancora oggi il simbolo della Serenissima, il leone di San Marco. Quest’ultimo si trova in diversi siti della città dalmata, quale attestato della secolare fedeltà di Zara a Venezia. Anche Zara, come diverse altre città della Dalmazia, dell’Istria e del Quarnero, è un museo all’aperto, che va adeguatamente tutelato e valorizzato.

In questo senso va ricordato il ruolo esercitato dalla Regione Veneto, che negli ultimi decenni ha stanziato somme ingenti per la tutela e il recupero del patrimonio storico–architettonico lungo il versante orientale dell’Adriatico.








557 – La Voce del Popolo  23/11/13  Tore e Voce testimoni di iniziative fiumane
Tore e Voce testimoni di iniziative fiumane
“Sempre fiumani” il motto dell’incontro mondiale di giugno nella città del Quarnero di esuli e rimasti e “fiumano per sempre” sono invece le parole della canzone di Francesco Squarcia, intitolata “Immensamente”, nella quale racconta di essere innamorato della città in cui è nato, che ha lasciato da piccolo e per la quale coltiva un fiore.
Con questa melodia si chiude l’incontro di Trieste alla Lega Nazionale per la presentazione delle due riviste La Tore e La Voce unite in un unico periodico, a simboleggiare finalmente quel riavvicinamento che, come ricorda Rosi Gasparini, caporedattore della Tore, mostra come tanti vogliano guardare avanti, lasciare i dissapori alle spalle e tirare fuori la forza e l’impegno che i fiumani hanno sempre avuto.
 Dopo i gravi danni al cimitero di Cosala – afferma ancora Gasparini - emerge ancora più forte la necessità di mantenere alta l’attenzione per la salvaguardia della cultura italiana e del patrimonio monumentale legato ad essa.
Rosanna Turcinovich, direttore della Voce e curatrice dell’incontro di giugno a Fiume assieme all’efficiente Roberto Palisca, sottolinea come i tempi siano veramente maturi per una svolta: a Fiume il sindaco è stato collaborativo e presente nell’organizzazione dell’evento; a Ronchi dei Legionari un’amministrazione di sinistra ha aperto un museo dedicato alla figura di D’Annunzio, piccolo ma interessante per l’impresa che il poeta soldato compì, attenzioni impensabili fino a pochi anni fa.
Ricorda come Diego Bastianutti, poeta e scrittore, presente all’incontro mondiale di giugno, avesse più volte espresso l’amarezza di non ritrovare le sue radici nei pur numerosi viaggi compiuti nella sua città natale. “E’ riuscito a stringere la sua terra nel pugno grazie all’incontro con le persone - ricorda Turcinovich -; il colloquio e confronto con tanti di quelli che erano andati via ma anche con coloro che ancora vivono a Fiume sono stati illuminanti”.
In apertura dell’incontro il presidente della Lega Nazionale Paolo Sardos Albertini, ricorda come ospitare un’iniziativa su Fiume gli faccia emergere il ricordo vivido di Aldo Secco, che fu presidente della sezione triestina dei fiumani, pensiero al quale si associa l’attuale presidente Elda Sorci, che riporta alla memoria i tanti raduni, in uno dei quali Agnese Superina aveva affermato con foga ”Mi no so cosa spetè de venir a Fiume”.
E così i fiumani sono andati con la banda dei bersaglieri – racconta Guido Brazzoduro presente alla serata - che ha sfilato in Corso, a cui ha fatto eco la banda civica di Tersatto, immagini che il portale   www.mojarijeka.hr/   rimanda in ricordo di un incontro felice.
Rossana Poletti




558 - La Voce di Romagna 26/11/13 Storie e Personaggi -  Riccardo Gigante e la Romagna
STORIE E PERSONAGGI

IL SENATORE FIUMANO ORGANIZZATORE DEI PELLEGRINAGGI DEGLI IRREDENTI A RAVENNA

Riccardo Gigante e la Romagna

UNA LETTERA conservata dalla Società di Studi Fiumani documenta il suo impegno per favorire l’espatrio in Argentina di un bancario ebreo e della sua famiglia

Arrestato dai titini, è stato trucidato e sepolto con una decina di sventurati in una fossa comune nel bosco di Castua

Fiume, che all’epoca dei fatti faceva parte dell’Impero Austro Un­garico, era attiva l’asso­ciazione irredentista ‘Giovine Fiume’, che venne iscritta alla Lega Nazionale di Trieste. Quando a Fiume nel 1908 ar­rivò la notizia che gli irredenti di Tren­to, Trieste, Gorizia, Istria e Dalmazia intendevano compiere un pellegrinag­gio a Ravenna per offrire alla tomba di Dante un’ampolla per l’olio destinato a alimentare una lampada votiva, Ric­cardo Gigante si attivò immediata­mente perché Fiume non doveva es­sere da meno. Riccardo Gigante, nato a Fiume il 27 gennaio 1881, è sempre stato in prima fila nelle varie manife­stazioni irredentiste nel periodo ante­cedente il primo conflitto mondiale. Con l’entrata in guerra dell’Italia, si ar­ruola volontario nel Regio Esercito raggiungendo il grado di capitano. Propugnerà in tutti i modi l’inclusione di Fiume nel pacchetto delle rivendi­cazioni italiane verso l’Impero Austro­Ungarico, cosa che gli procura una condanna a morte in contumacia. Ter­minate le ostilità, rientrato a Fiume, fa parte del locale Consiglio Nazionale, propugnando fortemente l’annessio­ne della sua città all’Italia. Prenderà parte alla “Marcia di Ronchi” e sarà u­no dei più fedeli collaboratori di Ga­briele d’Annunzio nell’Impresa Fiu­mana. Amleto Ballarini, presidente della Società di Studi Fiumani, nel li­bro ‘Quell’uomo dal fegato secco’, rie­voca la figura del senatore e racconta anche dei pellegrinaggi a Ravenna. Fiume avrebbe donato una corona di quercia in argento per ornare la sta­lattite carsica destinata a reggere l’am­polla. I fiumani offrirono l’argento ne­cessario a fondere un busto e una ghirlanda. La fusione venne curata dalla fonderia Skull, la cesellatura dal laboratorio di oreficeria del padre di Gigante, seguendo il modello di cera dello scultore De Marco. La ‘Giovine Fiume’ ripeterà il pellegrinaggio a Ra­venna nel 1911; sul piroscafo ‘Roma­gna’ si imbarcarono in 400. Nel grup­po c’erano anche delle spie del gover­no ungherese, che al ritorno a Fiume stilarono un dettagliato rapporto suf­ficiente a far sì che il governatore un­gherese della città disponesse lo scio­glimento dell’Associazione irredenti­sta. Ballarini sottolinea come nessuno allora potesse prevedere quali tragedie si sarebbero abbattute sulle famiglie degli artigiani e degli artisti che si era­no impegnati per portare a Ravenna un omaggio a Dante. Il figlio di Skull, Nevio, e il figlio di Gigante, Riccardo, verranno assassinati dai titini nel mag­gio del 1945, il figlio di De Marco, Vit­torio, cadrà combattendo a Doberdò, nei pressi di Gorizia, nel 1917. Grazie alla testimonianza della vedova del maresciallo della Guardia di Finanza Vito Butti, che condivise l’orribile fine del senatore, è stato possibile indivi­duare la fossa comune nel bosco di Castua (Kastav in croato), nei pressi di
Fiume, dove vennero sepolti somma­riamente i corpi di Gigante e di una decina di altri sventurati. Ogni anno nella chiesa di Castua viene celebrato dal parroco don Franjo Jurcevic un ri­to in memoria delle vittime di quel fe­roce eccidio. Anche Gigante si era a­doperato per aiutare gli ebrei fiuma- ni.“Noi sappiamo - spiega Marino Mi- cich, direttore del Museo di Fiume - che anche Riccardo Gigante si ado­però per agevolare alcuni ebrei pre­senti a Fiume sin dal 1938 perché po­tessero espatriare. Ma su Gigante, che aveva la moglie ebrea, nessuno, a par­te noi, ha mai speso ricerche in tal senso o messo in risalto le sue qualità morali”. Il senatore scrive al dottor Luigi Cirelli, capo della prima divisio­ne del Ministero dell’Interno, per chie­dergli di favorire la concessione del passaporto ad Andrea Panzer, funzio­nario della sede di Trieste della Banca Commerciale Italiana. La lettera porta la data del 9 ottobre 1938. Panzer, avendo ottenuto la cittadinanza italiana presumibilmente nel 1930, l’avrebbe persa per effetto delle leggi razziali. Così scrive Gigante a Cirelli: “Egli Vi chiederà di agevolarlo di fargli ottene­re il passaporto richiesto. Io lo appog­gio caldamente in quest’aspirazione che considero legittima e lo racco­mando alla Vostra benevolenza e al Vostro sentimento di umanità. Si trat­tasse d’un celibe, la cosa rivestirebbe un altro aspetto; ma dovendo egli provvedere alla moglie e ai figli,è bene ch’egli provveda quanto prima ai casi propri”. La lettera di Gigante è datata 9 ottobre 1938, Andrea Tanzer, la mo­glie Bianca Krieger e i figli Giorgio, Paolo e Lidia risultano giunti a Buenos Aires con la nave Neptunia il 25 gen­naio 1939. Il susseguirsi ravvicinato delle date lascia pensare che l’espatrio sia avvenuto proprio grazie all’interes­samento del senatore fiumano. Per quanto riguarda il rapporto tra Gigan­te e il fascismo esiste l’autorevole testimonianza di un personaggio al di sopra di ogni sospetto: il senatore a vi­ta Leo Valiani, fiumano, che aveva ap­poggiato l’idea per commemorare i due senatori del Regno e suoi concit­tadini, Riccardo Gigante e Icilio Bacci, assassinati nel 1945. Quel convegno non si terrà mai e la morte di Leo Va- liani farà venire meno un autorevole sostenitore dell’iniziativa. A proposito di Gigante, aveva dichiarato: “Non a­veva commesso nulla per cui dovesse essere assassinato” E su Icilio Bacci: “Era iscritto al partito fascista ma so­prattutto era stato uno dei capi dell’ir­redentismo; perciò fu nominato sena­tore del Regno”. Mentre grazie alla pre­cisa testimonianza delle vedova del maresciallo Butti è stato possibile in­dividuare il luogo della sommaria se­poltura di Gigante, non ci sono notizie per quanto riguarda Bacci. La Società di Studi Fiumani, con l’esplosione del caso Palatucci, ha affermato di non a­vere dubbi sull’onestà del Questore a favore degli ebrei pur ritenendo spro­porzionato il numero delle persone salvate e chiedendo che si accerti la verità su tutta la vicenda. Si va dall’ar­resto di Palatucci, certamente tradito da qualcuno che li era vicino, alla stra­ge degli agenti della Questura arrestati il 3 maggio 1945 e scomparsi nel nulla. La Società chiede anche chiarezza su­gli agenti rimasti in servizio a Fiume e sul ruolo svolto dopo il maggio 1945. In questo contesto la Società ha voluto anche ricordare l’impegno del senato­re nell’aiuto ai perseguitati; da oltre dieci anni si è attivata presso Onorca- duti per il recupero delle salme che giacciono della fossa nel bosco di Ca- stua. Oltre a Gigante vi sono stati se­polti il giornalista Nicoletto Mazzucco ed altri sventurati. Tra questi dovrebbe esserci anche il vice brigadiere dei ca­rabinieri Alberto Diana, che alcuni e­lenchi danno erroneamente nato a Montiano, e che per alcuni anni aveva prestato servizio presso la stazione di Castel San Pietro Terme, sotto la giu­risdizione della Compagnia di Imola.

Aldo Viroli

L’omaggio alla tomba di Dante

Donata una corona di quercia in argento

Il dibattito sorto recentemen­te sull’azione di Giovanni Pa­latucci, reggente della Que­stura di Fiume allora italiana a favore degli ebrei, accusato da alcuni ricercatori di aver eseguito direttive naziste, è l’occasione per riprendere il discorso sulle perse­cuzioni razziali nel capoluogo del Carnaro e ricordare il senatore Riccardo Gigante. Storie e perso­naggi lo scorso 15 ottobre ha ri­cordato i rapporto tra Palatucci e la famiglia Berger che aveva tro­vato rifugio in Romagna grazie a Vincenzo Tambini. La risposta della Questura di Fiume, datata 23 magio 1944, a un telegramma in­viato da Ravenna il giorno 12, se­condo gli accusatori di Palatucci avrebbe danneggiato i Berger, che invece si trovavano già a Au- schiwitz. A Fiume, Riccardo Gi­gante, nei primi anni del ‘900 or­ganizzatore di pellegrinaggi degli irredentisti a Ravenna per rendere omaggio alla tomba di Dante, a­veva sposato Edith Ternyei, di o­rigini ebraiche, e aiutato alcuni e­brei ad espatriare. La Società di Studi Fiumani conserva la copia di una lettera, datata 9 ottobre 1938, inviata dal senatore a un funzionario del Ministero dell’In­terno con la richiesta di aiutare un bancario, Andrea Tanzer, che per effetto delle leggi razziali avrebbe perso la cittadinanza italiana, ad ottenere il passaporto. Tanzer, as­sieme alla moglie e ai tre figli rag­giungerà l’Argentina.




559 - Difesa Adriatica -  Dicembre 2013 Intervista a Giuseppe de Vergottini . «Un dialogo costruttivo che rispetti la nostra identità e il nostro patrimonio culturale
«Un dialogo costruttivo che rispetti la nostra identità e il nostro patrimonio culturale»

Intervista a Giuseppe de Vergottini

Lei è esule da Parenzo, pro­viene da un’antica e presti­giosa famiglia che appartiene alla storia della città istriana. Quali ricordi Le sono più cari, e meno dolorosi, tra quelli legati ad essa?
Il ricordo primo è la casa di Via della Stazione 7 dove per l’ultima volta ho visto mio non­no Tomaso nell’estate del 1941 e da cui fu prelevato mio zio Anto­nio il 24 settembre 1943 per non più ritornare dai suoi cari. Quel­la casa dove nacque mio padre fu trasformata in fabbrica di conser­ve di pesce, gli alberi del giardino abbattuti, le finestre murate. La prima volta che andai a Parenzo non riuscivo neppure a ricono­scerla tanto era stata sfigurata.
Solo dal mare erano riconoscibili le finestre del primo piano. Tutte le volte che sono tornato ho ri­visto una informe struttura che posso ricostruire soltanto con le fotografie del tempo anteguerra.

Nella Sua Parenzo il Palazzo de Vergottini è un edificio antico e altamente rappresentativo. Oltre ad esso, con l’esodo e l’espropriazio­ne da parte del regime jugoslavo la sua famiglia ha perduto beni di rilevante entità, compresa una pre­ziosa biblioteca. Ce ne può parlare?
Il palazzo prossimo alla Ba­silica Eufrasiana nella antica via Decumana, altri beni immobili e l’azienda agricola sono sta­ti espropriati sia in seguito alle confische gravanti sui nemici del popolo imposte dal regime jugo­slavo sia in seguito alle leggi di riforma agraria e hanno seguito la trafila classica delle richieste di indennizzo che hanno offerto un ristoro del tutto inadeguato. Poi abbiamo iniziato un conten­zioso con lo Stato ottenendo un supplemento di indennizzo, con­tenzioso peraltro ancora in parte aperto.
La questione della biblioteca rappresenta l’aspetto più dolo­roso di questa triste storia. Era considerata, per unanime parere confortato da perizie e da atte­stati anche del Centro di Ricer­che Storiche di Rovigno, la più importante biblioteca privata dell’Istria. Nella denuncia pre­sentata nel 1949 si parla di ben undicimila volumi giuridici. È stata dispersa con i saccheggi della casa paterna di Via del­la Stazione. Lo Stato ha negato l’indennizzo in quanto mancava l’inventario dei volumi.

Lei è fondatore nel 1993 e presidente dell’Associazione “Co­ordinamento Adriatico”, che «si propone la tutela delle memorie storiche, artistiche e letterarie di Istria, Fiumano e Dalmazia uni­tamente alla salvaguardia della presenza culturale italiana nel territorio del suo antico insediamento storico», come si legge nel suo sito. Da allora, quanto e come è cambiata presso la pubblica opi­nione la percezione della storia giuliana e dalmata?
Indubbiamente, soprattutto dopo il superamento dei blocchi e la fine della Jugoslavia comuni­sta, il clima politico è profonda­mente cambiato. Si è cominciato a parlare anche pubblicamente della vicenda dell’esodo. La legi­slazione ha preso posizione assi­curando il concorso dello Stato alle nostre iniziative culturali. Gli studi storici sono emersi dalla clandestinità e si sono progressivamente aperti a un pubblico più ampio.
Anche gli ambienti culturali di sinistra hanno dovuto rasse­gnarsi di fronte alla evidenza sto­rica. Siamo riusciti ad avvicinarci al mondo della scuola tramite un rapporto nuovo con il competente Ministero. Sulle grandi testate, an­che se in modo disorganico, appa­iono contributi che si dimostrano attenti e informati. Ciò non toglie che sia ancora molto diffuso il
pressappochismo di chi riproduce con insistenza vecchi stereotipi e continui con la tradizionale iden­tificazioni degli esuli con i fascisti fuggiti alla giustizia popolare e simili idiozie e che pseudo storici siano ancora invitati a manife­stazioni ostili alle comunità degli esuli.

Nel 2012, in occasione del Giorno del Ricordo commemorato al Quirinale, Lei ha espresso tra l’altro l’auspicio che si possa ricostruire «un tessuto di relazioni con le nazioni al di là dell’Adriatico per percor­rere insieme, alla luce dei principi dell’Unione Europea, un cammi­no comune di comprensione e di rispetto reciproci». Lei pensa che i Paesi sorti dal disfacimento della Jugoslavia, ovvero la loro opinione pubblica, i loro ambienti politici e culturali, siano pronti?
Sono convinto che l’Unione Europea che include oggi i no­stri vicini, escludendo però Ser­bia, Montenegro e Bosnia, sia il contenitore in cui l’Italia debba convivere con le etnie slave e che col tempo ci aiuterà ad appianare le persistenti asperità. Da parte italiana si sono fatti molti passi avanti per un dialogo costruttivo che rispetti la nostra identità e il nostro patrimonio culturale. Non dobbiamo rinunciare a difendere la verità dell’esodo e delle atroci­tà subite negli anni Quaranta del secolo trascorso. Dall’altra parte abbiamo dei cenni interessanti e in certi casi molto positivi di di­sponibilità ma dobbiamo avere il coraggio di ammettere che il per­corso della convivenza sarà molto lungo e terribilmente faticoso.

Lei è stato relatore al primo Seminario nazionale sul confine orientale (2010) con un inedito intervento sull’esclusione della Vene­zia Giulia e di Zara dall’Assemblea Costituente, dunque della impos­sibilità, per una significativa parte del corpo elettorale, a votare i suoi rappresentanti. Ce ne può accennare meglio in sintesi?
L’occupazione militare delle province di Trieste, Pola, Fiume e Zara presente nel 1946 rese im­possibile svolgere le operazioni elettorali nei territori di riferimen­to. In questo modo tredici depu­tati non poterono essere eletti alla Assemblea Costituente. La col­laborazione con la assemblea av­venne quindi a titolo personale da parte di alcuni esponenti del’eso- do. Questa mancata presenza dei giuliani alla formazione della Co­stituzione è uno degli indici delle difficoltà incontrate dagli esuli a raccordarsi con l’apparato statale italiano dopo la fine del conflitto mondiale.

Un tema a Lei molto caro è la toponomastica in Istria, Quarnero e Dalmazia,alla quale ha dedicato, con altri Suoi collaboratori, tre co­spicui volumi (La toponomastica in Istria, Fiume e Dalmazia in col­laborazione con l’Istituto Geografico Militare di Firenze): riscontra qual­che passo avanti, in Italia, nell’uso delle denominazioni storiche italia­ne di quei territori?
Purtroppo questo è uno dei problemi apparentemente più in­credibili che viene posto da un mi­sto di ignoranza e cattiva volontà.
La ignoranza innanzi tutto: quasi nessuno ha insegnato ai più giovani la storia nazionale; figu­riamoci se ragazzi che hanno dif­ficoltà a conoscere i fatti essenziali del nostro Risorgimento possano avere soltanto l’idea che una parte della nazione italiana stava al di là del mare e aveva contribuito alla creazione del paesaggio artistico della Dalmazia costruendo prati­camente tutte la città della costa.
Poi la cattiva volontà, e su questo ci sarebbe molto da dire, proposte per l’uso dei toponimi storici italiani presentate in Parla­mento sono rimaste lettera morta. Paradossalmente sono ora le ini­ziative promozionali del turismo locale in Istria che pubblicano pa­gine col nome italiano per attrarre clientela italiana.

E in Slovenia e Croazia?
Qui la risposta è incerta. Abbiamo qualche soddisfacente riscontro nei comuni dove è uffi­ciale il bilinguismo e a volte nella segnaletica stradale. Ma in genera­le la tendenza dominante è quella di cancellare il cancellabile.

Nel 2011 Lei si è recato a Parenzo per partecipare, quale rela­tore, al Convegno internazionale promosso in occasione dei 150 anni dall’istituzione della Dieta provin­ciale istriana. Era la prima volta che vi tornava, dopo l’esodo? Quali sono state le Sue impressioni?
Ero già tornato in precedenza. Nell’incontro di due anni fa or­ganizzato dalla Società Storica di Pola il comportamento degli orga­nizzatori mi è parso molto aperto e corretto con la maggioranza del­le relazioni fatte da colleghi italiani in italiano. Atmosfera molto posi­tiva rispetto a un passato non lon­tano ho notato nei luoghi turistici.
Abbiamo oggi un’ ottima collaborazione colla direzione del Museo cittadino dove stiamo portando avanti un progetto di restauro del Palazzo Sincich, sede dello stesso Museo.

La domanda che po­niamo infine: quale ricor­do tra 50 anni?
Domanda che com­porta una risposta non facile. Credo si debba riconoscere che ricorda chi sa qualcosa. I resti dell’esodo sono destinati a sparire. Il vero proble­ma è quindi far sapere informando e documen­tando i più giovani in modo che siano al cor­rente di quanto accaduto e possano trasmettere ad altri. Quindi non è solo un problema di “ricordo” ma di conoscenza.

BIO-BIBLIOGRAFIA
Il Prof. Giuseppe de Vergottini è Professore emeri­to alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Bologna. È stato insignito di Laurea Honoris Causa in Giurisprudenza presso l’Uni­versità di Lisbona.
Su iniziativa del Presidente della Repubblica, gli è stata con­ferita l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
È componente dell'Advisory Council della John's Hopkins University-SAis, Washington. vi­cepresidente del Consiglio della Magistratura Militare (dal 2004). Dal 2006 membro del Comitato Direttivo dell'Associazione Italia­na dei Costituzionalisti di cui è stato socio fondatore.
Membro del Comitato Scientifico del IMT (Institutions Markets Technologies) di Lucca. Membro del Consiglio Scientifi­co della Fondazione Magna Carta (Roma); membro del Consiglio Scientifico della Fodazione Res Publica (Milano).
A Bologna ha curato la istitu­zione di un Centro di studi costi­tuzionali e per lo sviluppo demo­cratico, formato dalla Facoltà di Giurisprudenza della Università di Bologna e dalla John's Hopkins University (Ccsdd) attivo dal 1995. Tale Centro ha per oggetto, tra l'altro, studi per la tutela dei diritti con particolare riferimento all'Est Europeo.
È direttore responsabile della Rivista “Percorsi Costituzionali” edita dalla Fondazione Magna Carta. Fa parte dei comitati di direzione/redazione di: “Archivio Giuridico”; “Diritto e Società”; “Nomos”; “Diritto dell'Econo­mia”; “Studi parlamentari e di politica costituzionale”; “Rassegna parlamentare”; “Archivio Giuridi­co” ed altre testate ancora.
Nel 2003 è stato nominato dal ministro per i Beni Culturali e Ambientali Giuliano Urbani tra gli esperti in materia di salvaguar­dia del patrimonio artistico, indi­viduazione degli indirizzi strate­gici per la tutela dei beni artistici, storici, archeologici e paesaggistici italiani, insieme con Salvatore Set- tis e Giacomo E. Vaciago.
Nel maggio 2013 è stato in­cluso dal presidente del Consiglio Enrico Letta tra i 35 «saggi» chia­mati a studiare le riforme della Costituzione.
È fondatore e presidente dell'Associazione culturale “Coor­dinamento Adriatico” e direttore del suo bollettino.

SAGGIE E TESTIMONIANZE

E’ autore di numerose pubblicazioni nel settore del diritto pubblico e del diritto pubblico dell’economia, nonché di diritto comunitario europeo. È presidente onorario dell’Asso­ciazione Internazionale Diritto Costituzionale (Iacl).
È coautore e coordinatore dei tre volumi di cui si compone La toponomastica in Istria, Fiu­me e Dalmazia (Firenze, 2009), che ricostruire la cartografia dell’Adriatico orientale dalle origini alla metà del XIX secolo. In Ide Vergottini di Parenzo (Bo­nonia University Press, 2012) ha voluto scrivere la storia della sua famiglia e del suo ruolo nella formazione dell’identità nazio­nale e liberale della sua Istria, restituendo, pur in sintesi, la cospicua dimensione del valore perduto ma, forse più ancora, la profondità e l’estensione delle radici istriane.
Nelle celebrazioni al Quiri­nale del Giorno del Ricordo del 2006 con il Presidente Ciampi e del 2012 con il Presidente Napo­litano ha rappresentato e preso la parola a nome delle associazioni dell’esodo giuliano-dalmato.

Patrizia C. Hansen





560 – Il Resto del Carlino 23/11/13 Intervista - Nino Benvenuti e l’Isola che non c’è (più)
Nino Benvenuti e l’Isola che non c’è (più)

Sport

di D. Rabotti

IL PUGILE dai lineamenti gentili le ferite vere le porta dentro. Nino Benvenuti sembrerebbe averne presi pochi, di pugni, se uno dovesse giudicare solo dal suo aspetto di splendido settantacinquenne. Ma i segni veri sono nascosti nel cuore. Li hanno lasciati gli affetti entrati in anticipo nello spogliatoio della morte negli ultimi mesi, come l’arcirivale sul ring e poi quasi fratello nella vita, Emile Griffith. O come l’amico Giuliano Gemma, con cui Benvenuti condivise il servizio di leva nei pompieri e recitò in un western di Tessari. Quello che brucia di più, però, è il ricordo della sua Istria, dalla quale fu costretto a fuggire nel 1954, a 16 anni. Un ricordo che ha voluto tramandare nel suo libro, “L’Isola che non c’è”.

Benvenuti, ha scelto un titolo che rimanda a Peter Pan.
«È vero, perché in fondo anche io ho perso la mia Isola, che non c’è più. Isola d’Istria è il posto dove sono stato bambino, ma dove sono dovuto diventare grande in fretta. Un ambiente meraviglioso che mi è stato portato via, il luogo dove si è svolta la parte più importante della mia vita, quella lontana dal ring e dai titoli di giornali».
Un sogno infranto dall’esilio?
«Ho parlato della mia adolescenza e ho voluto dare voce a chi non c’è più. Non è un’accusa, ma la necessità di difendere la memoria».
In Italia sembra che non si possa ricordare senza essere faziosi.
«Infatti anche chi racconta verità storiche note a tutti, come quella di noi esuli istriani, a volte fatica ad essere creduto. E invece la nostra storia dovrebbe pesare sulla coscienza di chi per anni ha negato, di chi sapeva e non ha fatto niente per intervenire».

È vero che baratterebbe le sue medaglie per tornare a casa?
«Certamente. Anche se in realtà le mie vittorie sono il frutto di quella sofferenza, del dolore di non essere più il padrone di me stesso. Quegli anni strazianti mi hanno insegnato a lottare».

Quindi nessun rimpianto nostalgico per l’infanzia?
«Sono cose collegate, senza quelle esperienze il mio corpo non avrebbe imparato. Quando ho iniziato a tirare pugni per sport, avevo già provato prima che cosa potevo fare. E quando salivo sul ring, nei miei match portavo la rabbia degli esuli della mia terra».
Però si arrabbia se paragonano la vostra tragedia a quella dei profughi di oggi.

«Perché sono storie diverse».
In che senso?
«Noi non saremmo mai andati via da casa, ci hanno cacciati. Non pativamo la fame, non eravamo disperati. Eravamo felici, e un giorno del 1954 abbiamo dovuto lasciare la nostra bellissima terra a chi la voleva perché la sua era più misera».

Lei racconta un episodio toccante che ancora le brucia. Sulla pelle e nell’anima.
«Sì, quando mio fratello Eliano era nel campo di reclusione a Capodistria, io ogni giorno facevo in bicicletta i sei chilometri da casa alla prigione. Lo facevo portando una pentola di brodo che mia madre preparava per Eliano».

Ed era bollente?
«Sì, io pedalavo forte perché non volevo che si raffreddasse, ma così il brodo usciva dal coperchio, mi finiva sulle gambe e mi scottavo. Ma brucia di più il ricordo».

Se non fosse diventato un campione, che cosa avrebbe fatto?
«Di sicuro non il prete. Avrei frequentato l’università e avrei provato a diventare medico o avvocato, perché poi mi sono accorto che sono un chiacchierone».

Ha preso a pugni la vita, ma lo ha fatto sempre con stile.
«Merito della famiglia. Per fortuna sono cresciuto in un ambiente dove non si urlava, dove le cose si chiedevano per favore e dopo averle ricevute si diceva grazie».

Magari sarà anche una questione di carattere?
«No, è l’educazione. Noi eravamo quattro fratelli e una sorella, e tutti erano educati come me. Perché i nostri genitori non ci dicevano soltanto quello che dovevamo fare. Ci davano l’esempio con i loro comportamenti, ogni giorno».

Benvenuti, ci toglie una curiosità?
«Se posso».
Come si fa ad arrivare a 75 anni in forma come lei, fisicamente e mentalmente?
«Molto dipende da quello che le ho raccontato sulla mia famiglia e sull’armonia che regnava in casa. Non essere arrabbiato ti aiuta molto a stare bene. Al fisico sicuramente ci ha pensato la natura».





561 - L'Arena di Pola 13/11/13 Presentazione: ultime pubblicazioni: ": Pagine scelte 1948-1960 - "L'Arena di Pola" 1945-1947 - L'esodo dimenticato
LCPE: presentate le ultime pubblicazioni

Il Libero Comune di Pola in Esilio ha presentato le sue ultime pubblicazioni la mattina del 20 ottobre in sala ENEL.

L’Arena di Pola”: Pagine scelte 1948-1960
Argeo Benco, attuale assessore ed ex sindaco dell’LCPE, ha esordito lodando le belle iniziative degli esuli fiumani appena esposte da Marino Micich e Guido Brazzoduro e spiegando che l’LCPE ha iniziato da oltre una decina d’anni un processo di riavvicinamento ai polesani “rimasti”, a partire dalle cerimonie comuni per le Vittime della strage di Vergarolla e per i Defunti, ed ha coltivato un rapporto positivo sia con la Comunità degli Italiani sia con la parte culturale della città, in particolar modo con l’Università e il Museo Archeologico dell’Istria. Tale collaborazione ha reso possibile nel 2012 il convegno a Pola sul prof. Mario Mirabella Roberti, con tre relatori italiani e tre croati, due dei quali hanno parlato in italiano. A breve il Museo ne pubblicherà gli atti in italiano e in croato con un riassunto in inglese. Il 18 agosto 2011 una trentina fra esuli e residenti, tra cui l’on. Furio Radin, si sono recati in pellegrinaggio alla foiba di Vines, su iniziativa di Francesco Tromba. Negli ultimi tre anni i Raduni hanno avuto luogo sempre a Pola riscuotendo un notevole successo di partecipazione. In tale ambito sono stati effettuati pellegrinaggi alle foibe di Terli e Surani d’intesa con l’Unione Italiana.
Il relatore ha precisato che il primo nucleo attivo di esuli polesi in Italia si formò nel 1952 a Novara e da allora si riunì ogni anno. Nel 1967 prese forma l’Unione del Comune di Pola, che nel 1995 fu costituita ufficialmente presso un notaio con il nome di Libero Comune di Pola in Esilio.
L’assessore Benco ha poi illustrato, valendosi di immagini e schede in PowerPoint, l’intera collana delle Pagine scelte de “L’Arena di Pola” dal 1948 al 2000, ovvero del periodo goriziano post-esodo, quando l’organo di stampa usciva a cadenza settimanale. L’opera, composta da quattro volumi per un totale di 731 pagine con alcune immagini originali in bianco e nero, è stata realizzata nell’arco di 9 anni. Lo scopo è quello di preservare e divulgare un patrimonio giornalistico di valenza sia storico-documentale sia affettiva, che permette di scoprire o riscoprire eventi, luoghi, tematiche, personaggi e autori di ieri. La collana, edita con il contributo della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, è dedicata alla memoria di quanti hanno collaborato nel tempo con il giornale e vuol essere in particolare un omaggio a Pasquale De Simone, che lo diresse per oltre 50 anni fino al 2000 da Gorizia.
Il primo volume, di 184 pagine, comprendente i 20 anni dal 1981 al 2000, uscì nel 2004. Il secondo, di 190 pagine, che tratta i 10 anni dal 1971 al 1980, vide la luce nel 2008. Il terzo, di 175 pagine, relativo ai 10 anni dal 1961 al 1970, fu pubblicato nel 2011. Il quarto e ultimo, di 183 pagine, inerente i 13 anni dal 1948 al 1960, è andato in stampa nel 2013; distribuito ai soci-abbonati partecipanti all’ultimo Raduno, è stato di recente spedito per posta a tutti gli altri, oltre che a biblioteche, archivi e associazioni. Il primo volume fu curato dal compianto ammiraglio polese Guglielmo Belli, mentre gli ultimi tre sono a cura di Argeo Benco.
Si è compiuto un percorso a ritroso nel tempo cominciando dalle ultime annate, poiché all’inizio più facilmente reperibili per la Redazione, allora da poco trasferitasi a Trieste. In ognuna delle 2.575 “Arene” settimanali del periodo 1948-2000, per un totale di oltre 15.000 pagine, compare almeno un articolo interessante, ma purtroppo ragioni economiche non hanno consentito di riproporli tutti. Quelli selezionati, tra i più significativi, sono stati scansionati con un programma OCR e infine confrontati con gli originali onde evitare refusi. Gli argomenti che trattano sono i più vari.
Il quarto e più recente volume contiene 128 articoli scritti da 84 autori diversi. Di questi il 41% riguarda tradizioni e cultura locale, il 27% personaggi, il 17% eventi del dopoguerra e il 15% riferimenti storici e leggende. Fra il 1948 e il 1960 uscirono in tutto 662 numeri del settimanale. Hanno coadiuvato il curatore nella realizzazione dell’opera il figlio Enrico, la moglie Renata, l’allora direttore Silvio Mazzaroli, nonché gli allora assessori Salvatore Palermo e Graziella Cazzaniga.
Le annate del giornale dal 2000 in poi sono interamente scaricabili in pdf dal sito www.arenadipola.it.


“L’Arena di Pola” 1945-1947
Paolo Radivo, direttore de “L’Arena di Pola” e segretario dell’LCPE, ha illustrato i tre voluminosi e ponderosi tomi contenenti le riproduzioni anastatiche in carta patinata delle annate 1945-47 del giornale. Il primo va dal 29 luglio 1945 al 23 marzo 1946, il secondo dal 24 marzo al 20 novembre 1946, il terzo dal 21 novembre 1946 al 24 dicembre 1947.
L’impegnativa e costosa operazione, coordinata da Argeo Benco, è consistita nel raccogliere tutti i 591 numeri del giornale (131 del 1945, 307 del 1946 e 153 del 1947) conservati rispettivamente nella nostra Redazione (lascito dell’esule polese Tullio Gabrielli), nella Biblioteca Universitaria di Pola, nella Biblioteca Statale Isontina di Gorizia e nell’archivio del consigliere Lino Vivoda. Il giovane Andrea Battolla li ha fotografati con metodo professionale fornendone un’immagine nitida e ripulita. Alcune foto si devono poi a Luca Tedeschi. Del reperimento dei numeri presenti a Pola e a Gorizia si sono occupati rispettivamente Argeo Benco e la consigliera Maria Rita Cosliani. L’introduzione è di Silvio Mazzaroli, direttore dal gennaio 2003 al giugno 2013. L’opera, finanziata dal Governo italiano tramite la legge 72/2001, mette a disposizione del pubblico l’introvabile serie completa 1945-47, comprendente il periodo polese, il primo periodo triestino e gli inizi di quello goriziano. In tal modo si è voluto preservare un bene prezioso di valore storico-documentale.
Il giornale uscì: a Pola dal 29 luglio 1945 al 14 maggio 1947 dal martedì alla domenica su 2 pagine (salvo le edizioni a 4 pagine del 1° gennaio ’46, 1° maggio ’46 e 1° gennaio ’47); a Trieste dal 23 maggio al 31 luglio ’47 il lunedì, il mercoledì e il venerdì; a Gorizia dall’11 settembre ’47 come settimanale su 4 pagine (con il numero speciale del 24 dicembre su 8 pagine). Ebbe un formato di 5 colonne dal 29 luglio al 27 settembre ’45 e, con un progressivo ingrandimento, di 6 dal 28 settembre al 22 novembre ’45, e di 7 dal 23 novembre ’45 al 20 gennaio ’47. Fu quest’ultimo anche il periodo di maggior diffusione, con picchi di 7.000 copie vendute su oltre 30.000 abitanti. Dal 21 gennaio (con un’anticipazione il 14 gennaio) al 28 luglio ’47 si ridusse a 5 colonne su formato più piccolo. Il triste ridimensionamento anche di notizie dipese, oltre che da difficoltà tecniche, dalla contrazione sia delle copie vendute sia del personale per l’esodo in corso. Il numero speciale del 31 luglio tornò nuovamente su 7 colonne. Dall’11 settembre al 24 dicembre ’47 il settimanale uscì su 6 colonne. Per adeguare i formati variabili de “L’Arena” a quello dei tre volumi, alcune riproduzioni sono state rimpicciolite, altre ingrandite.
Il prezzo fu di 2 lire dal 29 luglio al 30 settembre 1945, 3 dal 2 ottobre ’45 al 5 marzo ’46, 4 dal 6 marzo al 14 novembre ’46, 5 dal 15 novembre ’46 al 14 maggio ’47, 6 dal 23-24 maggio al 4-5 giugno ’47, 8 dal 6-7 giugno al 28-29 luglio 1947, 10 il 31 luglio, 15 dall’11 settembre al 29 novembre ’47, 20 dal 6 al 14 dicembre ’47 e 30 il 24 dicembre ’47.
Il Comitato Cittadino Polese promosse la nascita del giornale attraverso una sottoscrizione popolare. Essendone il proprietario, ne designò il consiglio di amministrazione. Il primo numero uscì quando il Governo Militare Alleato non aveva ancora ultimato il passaggio dai “poteri popolari” all’amministrazione civile filo-italiana. Il CCP si trasformò l’11 agosto ’45 in Comitato di Liberazione Nazionale di Pola. Ne facevano parte Democrazia Cristiana, Partito d’Azione, Partito Liberale Italiano e Partito Socialista Italiano. Sotto la testata comparve fino al 9 febbraio ’47 la dicitura «Quotidiano democratico d’informazioni», dal 12 febbraio ’47 al 31 luglio ’47 «Bollettino d’informazioni del CLN» e dall’11 settembre ’47 al 24 dicembre «Settimanale del Movimento Istriano Revisionista».
Nel periodo polese la prima pagina presentava notizie di agenzia dall’Italia e dal mondo, quelle di maggior rilievo riguardanti Pola, nonché editoriali, commenti e proclami del CLN o dei partiti membri. La seconda pagina riportava sotto la dicitura All’ombra dell’Arena articoli di cronaca cittadina, appuntamenti, orari di cinema e teatri, elargizioni, compravendite, oggetti smarriti, pubblicità e varie. Eccetto i principali articoli titolati su più colonne, specie in seconda l’impaginazione era continua, a “tamburino”, per guadagnare spazio.
Direttore dall’agosto 1945 a fine gennaio 1947 fu il socialista Guido Miglia, giovane insegnante polese già ricercato dai nazi-fascisti per attività cospirativa, che impresse una linea editoriale democratica, antifascista, repubblicana e filo-operaia. Sfidò i titoisti sul loro stesso terreno per eroderne il consenso tra i ceti popolari. Si rivolse direttamente ai lavoratori smentendo che avrebbero potuto emanciparsi solo in Jugoslavia, dove un marxismo di facciata celava un aggressivo imperialismo, e cercò di convincerli che la nuova Italia avrebbe fornito loro tutti gli strumenti necessari al riscatto sociale.
La coraggiosa e intelligente politica della “mano tesa” verso i ceti popolari non sempre trovò il consenso dell’intero CLN. Miglia tuttavia non desistette e con il dialogo riuscì a fidelizzare all’“Arena” non pochi lettori proletari, favorendone il distacco dal movimento jugo-comunista o quantomeno una crisi di coscienza. Dopo i ripetuti ignominiosi attacchi de “Il Nostro Giornale”, per spaccare il fronte annessionista agevolò la nascita di una sezione polese del PCI, che tuttavia non aderì al CLN e non riuscì a calamitare molte adesioni.
Fino all’aprile 1946 “L’Arena” spalleggiò il Governo De Gasperi, giustificò la “Linea Wilson” (senza Zara e Fiume), rassicurò i lettori sull’esito delle trattative e appena dal 18 maggio, in sintonia col CLN e in difformità dal Governo ma quando ormai la partita era già chiusa, perorò il plebiscito come prima scelta con in subordine la Linea Wilson. Accusò con sempre maggiore frequenza i Quattro Grandi di mercanteggiare il destino dei popoli in barba al principio di autodeterminazione. Fino al luglio ’46 pubblicò spesso titoli a caratteri cubitali, sintomo di combattività e residua fiducia nel mantenimento di Pola all’Italia o almeno nella sua assegnazione al Territorio Libero di Trieste. Poi basta: la demoralizzazione crebbe di pari passo con i rimproveri alla debole politica governativa. L’ultimo titolo a tutta pagina fu quello successivo alla strage di Vergarolla. La mestizia e il disappunto presero il sopravvento in vista dell’esodo, considerato ormai inevitabile.
A fine gennaio subentrò quale direttore il democristiano dignanese Corrado Belci, che gestì il giornale nell’avvilente periodo dell’esodo e del trasferimento prima a Trieste e poi a Gorizia. Con lui cessarono gli attacchi al Governo, nel frattempo privatosi della componente social-comunista, ma non quelli ai titini e all’amministrazione anglo-americana.
Gli interessati ai tre volumi possono scriverci all’indirizzo Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. o telefonare allo 040 830294. Se abitano a Trieste o comunque vi si recano con facilità potranno prelevarli alla tipografia ArtGroup di via Malaspina 1 previo accordo, onde evitare la spedizione postale, costosa e difficile vista la voluminosità e pesantezza dell’opera. Queste le condizioni: 1) per biblioteche, archivi e istituti di ricerca gratis; 2) per soci-abbonati e ricercatori offerta libera; 3) per tutti gli altri offerta di almeno 60 euro o, in alternativa, di almeno 50 euro (20 per i tomi + 30 per l’abbonamento/iscrizione).

L’esodo dimenticato
Successivamente il sindaco dell’LCPE Tullio Canevari ha presentato il librettino-tesina (49 pagine) di Erica Cortese L’esodo dimenticato. “La guerra è la lezione della storia che i popoli non ricordano mai abbastanza”, allegato a “L’Arena di Pola” dell’ottobre 2010. Quando lo scrisse, la giovane genovese, nipote di esuli, aveva 18 anni e frequentava la V Liceo scientifico. Canevari ha definito il testo «molto documentato, completo e sentito», gustando in particolare il nostalgico commento finale riferito ai parenti esodati della ragazza: «Ma a Pola era un’altra vita!». Un apprezzamento che assomiglia a quello formulato dal nipotino dello stesso sindaco durante la sua prima visita alla città quando disse: «Pola è un posto magico». Il volumetto è scaricabile dal sito www.arenadipola.it alla voce “Inserti”. «Simili produzioni – ha affermato Canevari – sono utili perché servono a far conoscere correttamente le nostre tematiche al di fuori del nostro ristretto mondo».
Il sindaco ha poi ricordato il volume collettaneo Ierimo del Filzi (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2010, con 170 immagini d’epoca), cui ha contribuito quale ex studente del convitto “Fabio Filzi”, che dal 1948 a Grado e dal 1950 a Gorizia ospitò per anni tanti ragazzi profughi curandone in particolare l’attività sportiva, corale e teatrale e lasciando in loro un segno indelebile in termine di formazione ai valori.
Quanto agli esuli fiumani, Canevari ha dichiarato in tutta sincerità di provare una sana invidia per le cose che loro sono riusciti a fare mentre gli esuli polesi ancora no, come ad esempio farsi ricevere dal sindaco della propria città.





562 - Rinascita 25/11/13 Una monografia sulle foibe -  Foibe: tra croati-sloveni e italiani è conflitto
Foibe: tra croati-sloveni e italiani è conflitto
      
di Rosanna Mandossi Bencic

Una monografia sulle foibe     

Perdura ancora lo “scontro” tra sloveni e croati da una parte e italiani dall’altra.           

Rosanna Mandossi Bencic                                  

POLA L’opera monografica “Fojbe” (Cankarijeva založba, Skupna Mladinska knjiga), ha portato martedì pomeriggio a Pola i suoi autori: lo storico e politico Jože Pirjevec, Nevenka Troha (assente), Gorazd Bajc, Darko Dukovski e Guido Franzinetti. La presentazione ha avuto luogo nell’Aula Magna della Facoltà di Filosofia dell’Università degli Studi “Juraj Dobrila” di Pola. Moderatore Ivan Žagar. La presentazione è dovuta alla Società storica istriana.      È la monografia (384 pagine) più esaustiva sulle foibe in Istria e nel Litorale sloveno, è stato detto in apertura di serata. Un’opera in cui si è cercato di valorizzare, smitizzandoli, una serie di fatti tragici; certamente, vicende “minori” della Seconda guerra mondiale, che si è portata via milioni di vite umane, però altrettanto gravi sono state per le conseguenze che hanno avuto sull’individuo e sui popoli. Vicende che sono state, e lo sono ancora, motivo di scontro tra sloveni e croati da una parte e italiani dall’altra.     

L’obiettivo è «informare»     

Gli autori hanno passato al setaccio documenti scovati negli archivi sloveni, italiani, britannici e americani, è stato ancora detto nei primi momenti dell’introduzione. E da tanto certosino lavoro è nata l’opera monografica che vorrebbe coraggiosamente “informare”, laddove una tale parola è difficile da mettere in pratica quando va a toccare i brutti destini di tanta gente innocente.     

Non è una risposta alla Destra  

“La monografia – puntualizza Darko Dukovski, docente di ruolo a Pola – è stata impostata secondo una metodologia che la renda fedele ai fatti per come essi si sono svolti, perché fa ampio uso di materiale d’archivio. In secondo luogo, il libro non vuole essere una risposta a quanto scrivono, e a quanto hanno scritto nel corso dei decenni, gli storici della Destra. Infine, il successo è determinato dal fatto che chi lo ha steso non ha proprio che cosa nascondere”.     

Analisi storica e null’altro, aggiunge Dukovski – che nel volume ha analizzato il fenomeno delle foibe in Istria nel 1943 –, su eventi tragici che hanno macchiato il volto di interi territori dalla realtà mistilingue, in cui le opposte idee sulle frontiere “giuste” sono state a lungo in conflitto tra loro. Ricordi ancora vivi nella memoria collettiva di un’area più ampia, fra quella istriana litoranea e giuliana, ancora sfruttabile a fini politici interni e internazionali.    

 L’autore principale è Jože Pirjevec, italiano di origini slovene, storico e politico, in passato professore di Storia contemporanea dell’Europa orientale all’Università di Padova, docente di Storia dei popoli slavi all’Università di Trieste ed altro ancora. Nella sua lunga bibliografia annovera opere come “Niccolò Tommaseo tra Italia e Slavia”, “Storia della Russia del XIX secolo (1800-1917)”, “Tito, Stalin e l’Occidente”, “Trieste, città di frontiera”, “Il Giorno di San Vito. Jugoslavia 1918-1992: storia di una tragedia”, “Serbi, Croati, Sloveni: storia di tre nazioni”, “Storia degli sloveni in Italia, 1866-1998”, “Dal conflitto all’incontro”, “Le guerre jugoslave, 1991-1999”, “Foibe, una storia d’Italia”.      Appellativi che fanno male  Pirjevec ha parlato dei sempre presenti tentativi di manipolazione, ricordando con amarezza quanto era stato detto da parte italiana (Giornata del Ricordo) a proposito del “conquistatore aggressivo” (croato e sloveno o slavo e “sciavo”, per dirla con l’autore), e di quanto possano far male simili “appellativi”. Del resto, lo stesso storico, è stato tacciato di revisionismo.      

Il brutto arrivò dopo la Resistenza  Gorazd Bajc, del Dipartimento di Storia dell’Università del Litorale di Capodistria, che ha trattato le foibe nel periodo anglo-americano, quindi nel ’45 e dopo, ha ricordato che è stato dopo la vittoria della Resistenza che è venuto il brutto: il cosiddetto fascismo di frontiera, ossia la negazione aggressiva del fascismo stesso, che è stato il momento peggiore attraversato in quegli anni dagli istriani e in Istria.




563 - Agenzia Asca 27/11/13 Venezia: Zaia, scelta Generali di tenere leone S.Marco e' identitaria
Venezia: Zaia, scelta Generali di tenere leone S.Marco e' identitaria

ASCA - Venezia, 27 nov - ''Una scelta identitaria e globalizzante del leone marciano, che porta con se i valori della Repubblica veneta, la Serenissima''. Cosi' il presidente del Veneto Luca Zaia ha salutato il rinnovato logo del gruppo Generali, che ripropone ancora una volta il Leone alato di San Marco, che da oltre un secolo e mezzo lo contraddistingue e che si rifa' al simbolo della piu' longeva Repubblica della storia umana, resa forte e ricca dai commerci e dalle innovazioni nell'economia.

''Il Leone alato che regge il vangelo aperto su parole di pace, ma che puo'
reggere anche la spada - e' divenuto un simbolo universale - ha ricordato Zaia - che in tutto il mondo identifica Venezia in chi lo guarda, e con Venezia la sua storia straordinaria, la sua cultura e il suo territorio.

Le Generali lo hanno fatto proprio in tutti i continenti e questo e' motivo ulteriore orgoglio''.

Il brand del Leone Marciano e' stato presentato oggi a Londra all'Investor Day di Generali e sara' utilizzato in tutto il mondo a partire dal 2014, sostituendo e unificando i diversi simboli di San Marco presenti attualmente nel Gruppo triestino. Le Generali adottarono nel 1848, per la prima volta l'emblema del Leone alato, con la spada in mano, eliminata nel 1881 e sostituita dal solo Vangelo con la scritta di pace. Il disegno ha subito piu' ammodernamenti dal 1971, da ultimo con la stilizzazione della sola meta' anteriore del Leone. Ora il Gruppo torna al simbolo nella sua interezza, con strisce orizzontali con le diverse tonalita' del rosso.

red/rus


Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it

LA GAZETA ISTRIANA N. 40 - MENSILE CULTURALE DELLA MAILING LIST HISTRIA

 

La Gazeta Istriana  a cura di Stefano Bombardieri, M.Rita Cosliani e Eufemia G.Budicin

anche in internet ai seguenti siti  :

http://www.arcipelagoadriatico.it/

http://10febbraiodetroit.wordpress.com/

http://www.arenadipola.it/

 

Ottobre - Novembre  2013 – Num. 40

 

 

59 -  L'Arena di Pola 16/10/13 I nazisti deportano 30 civili da Gallignana (Lino Vivoda)

60 - Nuovo Monitore Napoletano 20/10/13  L'agonia della Dalmazia italiana sotto Francesco Giuseppe (Marco Vigna)

61 - Il Dalmata n° 80 - Sett.2013 - D'Annunzio apostolo della Dalmazia grande riformatore politico e sociale d'Italia

62 - La Voce in più Cultura 19/10/13 Riflessioni - L'esilio quale condizione dell'essere (Dario Saftich)

63 – La Nuova Voce Giuliana 16/09/13 La "Gnagna Maria" di Villa Gardossi, cioè la levatrice del paese (Romano Gardossi)

64 - Il Piccolo 29/09/13 Trieste - Campo Marzio, a pezzi il glorioso capolinea della Transalpina (Igor Buric)

 

 

 

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59 -  L'Arena di Pola 16/10/13 I nazisti deportano 30 civili da Gallignana

 

I nazisti deportano 30 civili da Gallignana

 

In questo numero pubblichiamo un altro capitolo del libro di Lino Vivoda In Istria prima dell’esodo – Autobiografia di un esule da Pola, Edizioni Istria Europa, Imperia 2013, al fine di ricostruire gli eventi successivi all’8 settembre 1943 in Istria. Narra del violento sopraggiungere a Gallignana dei nazisti, che dopo una sparatoria deportarono a Dachau una trentina di paesani.

 

Arrivano le SS

 

Al mattino del 5 ottobre all’improvviso echeggiò sinistro per il paese il tremendo urlo: «I Tedeschi! Njemski su tuka!». Tutti furono colti dal panico. Dopo notti e notti passate nei boschi e lungo i ruscelli all’addiaccio, ecco che improvvisamente tutte le precauzioni per nascondersi all’arrivo dei tedeschi erano saltate. Ora i tedeschi stavano arrivando all’improvviso e non c’era più tempo per fuggire nei boschi paventando la loro reazione per gli infoibamenti avvenuti a settembre.

Fu quindi un fuggi fuggi a precipizio lungo il declivio sotto la chiesa parrocchiale, nella vallata verso Pedena, che scendeva alla chiesetta di San Simon, alta su un cocuzzolo e meta di tante processioni propiziatorie. La fuga dalla parte posteriore del paese infatti era l’unica possibile dato l’arrivo sul davanti dei tedeschi provenienti da Pisino. Anche noi riuscimmo a raggiungere un grosso cespuglio sul declivio. Ci fu qualche scarica di fucileria dei tedeschi, fermatisi alla cappelletta sulla strada prima del paese, dalla quale partiva una carreggiata verso Scopliaco, contro le prime case del paese essendosi arrestati per saggiare qualche eventuale resistenza. Poi un lungo silenzio mentre i gruppi di paesani si nascondevano negli anfratti del terreno.

Tutto ad un tratto quattro cinque tedeschi si affacciarono sul muretto dietro la chiesa e incominciarono a sparare coi fucili sul terreno sottostante. Vedevo le pallottole rimbalzare sui sassi vicino a noi e mi accorsi della precarietà del riparo. Mamma mise in bocca a Lele una bottiglia di latte con il ciuccio per farla stare zitta, avendo incominciato a piangere. Attraverso il vetro bianco della bottiglia si vedeva chiaramente che il latte era cagliato, ma bisognava farla tacere subito per salvare tutti dagli spari. Causa quel latte “andà de mal” mia sorella, che all’epoca aveva appena otto mesi, ne risentì fisicamente per parecchi anni, ma il suo silenzio salvò noi tutti. Infatti un giovane più giù, vicino la chiesetta di Santo Stefano, che si era sporto dal terreno per indicare con il braccio i tedeschi sul ciglio della chiesa venne freddato da parecchi colpi di fucile. Noi appiattiti sul terreno ci sentivamo indifesi come i piccioni del tiro a segno.

Improvvisamente la sparatoria cessò e alta sul muretto dietro la chiesa apparve la tonaca nera del parroco con le braccia alzate al cielo. Don Mauro incominciò a gridare: «Venite subito in paese che i tedeschi vi danno solo mezz’ora di tempo. Ascoltatemi vi prego». Io pensai: avrà i fucili puntati e lo costringono a parlare. Perciò dissi a Papà: non ci muoviamo e aspettiamo un momento a vedere cosa succede agli altri che, alzatisi, incominciavano a risalire lentamente l’erta. Dopo un po’, visto che non succedeva niente di peggio, ci unimmo agli altri nella risalita. Entrammo nel paese dal varco nella cinta delle mura vicino al campanile di fianco al quale due soldati tedeschi si divertivano a sparare alla campane per sentire il balzo delle pallottole. Quando si girarono per guardarci vidi che sulla bustina avevano il macabro marchio delle SS: il teschio con le ossa incrociate. Proseguendo passammo accanto alla casa della Pierina Bazon che bruciava perché vi avevano trovato una bustina con la stella rossa, ed i soldati tedeschi impedivano che qualcuno salvasse l’asino, la capra ed il maiale coi quali avevo giocato parecchie volte.

Appena davanti la porta del paese ci separarono: papà col gruppo degli uomini e noialtri tutti raccolti in un altro gruppo più a lato verso i gradini di casa Martini.

Mentre aspettavamo tutti raggruppati e spauriti stringendoci per cercare riparo nel mucchio, vidi venire verso di noi un giovane ufficiale tedesco. Essendo, a Pola, un lettore del giornale bilingue “Signal”, pensai che senz’altro proveniva dall’organizzazione giovanile nazista Hitler-Jugend ed ebbi un lampo di genio. Facendo sfoggio delle poche parole tedesche che avevo imparato a Scoglio Olivi dai sommergibilisti della Kriegsmarine gridai: «Herr Offizier, ich bin ein Mussolini-Jugend und hier für Fliegeralarm in Pola». L’Ufficiale tedesco si fermò di scatto, mi squadrò e gridò: «Schnell zu Haus! Gehe Weg!», e con la mano mi fece segno di andarmene. Non me lo feci dire due volte, presi per mano Sergio e Daria e corsi nel centro del paese, seguito da Mamma con la Lelle in braccio, dove c’era la casa della santola, mamma di Romano, che abitavano in via Minerva a Pola, ritenuta più sicura perché dove abitavamo da zio Giacomo c’era un anziano ucciso sul pavimento. Dopo un po’ ci raggiunse Papà che aveva potuto esibire un documento del Cantiere Navale di Pola. Papà conosceva perfettamente il tedesco per aver fatto le scuole sotto l’Austria. Gli altri uomini, una trentina, finirono tutti a Dachau nel Lager ed a guerra finita ritornarono solo in quattro, tra i quali Poldo, il figlio di teta Elena, sorella di Nonna Catina, padre di due gemelli, maschio e femmina, coi quali giocavo sempre.

Passati alcuni giorni, i combattimenti erano finiti ed i tedeschi avevano occupato tutta l’Istria. Papà decise quindi di ritornare a Pola e lo accompagnai sino a Pisino a prendere il treno. Erano otto chilometri all’andata ed altrettanti al ritorno. La strada la conoscevo bene perché l’avevo fatta più di una volta per andare a Pisino a comperarmi il giornale. Quando arrivammo al Dersei, la discesa verso Pisino, erano evidenti grandi chiazze di sangue a fianco della strada. Decine di giovani erano stati ammazzati dai tedeschi contro i quali avevano sparato con i fucili da caccia. Poveri ragazzi partigiani indottrinati al punto di non ragionare più sulle reali conseguenze di andare praticamente a mani nude contro i blindati delle SS. Un memoriale li ricorda oggi all’entrata del cimitero, mentre due croci di legno su due tumuli di terra anonimi accolgono i resti degli infoibati nel prato tra la chiesa ed il cimitero. Povera gente, entrambi i due gruppi, che ha pagato con la vita il peso di una guerra capitataci tra capo e collo! Povera Istria!

Finita la vendemmia ritornammo a Pola anche noi.

 

Lino Vivoda

 

 

 

 

 

 

60 - Nuovo Monitore Napoletano 20/10/13  L'agonia della Dalmazia italiana sotto Francesco Giuseppe

L'agonia della Dalmazia italiana sotto Francesco Giuseppe

 

Marco Vigna

 

Lo scrittore e critico letterario Claudio Magris ha coniato la fortunata espressione di “mito asburgico” per esprimere l’immagine, sorta in ambito letterario presso alcuni scrittori della Mitteleuropa, d’un impero asburgico ordinato e cosmopolita, capace d’assicurare la convivenza fra i suoi vari popoli componenti.

 

Si tratta però appunto d’un “mito” d’origine letteraria: la realtà  storica era ben diversa.

 

Il Magris stesso ha dichiarato che il suo libro nasce appunto come critica e demolizione del mito stesso, nonostante esso sia stato ben presto frainteso e considerato da certuni quale una sua esaltazione.

L’impero austriaco ha avuto nel secondo dopoguerra una ricostruzione letteraria che ha colpito l’immaginario collettivo, ma che trova ben poca corrispondenza nella realtà storica.

Il divario esistente fra la storia effettiva della compagine statale asburgica e la sua visione immaginaria corrisponde, all’incirca, quello fra storiografia e letteratura.

 

D’altronde, come ha osservato Magris stesso, la medesima letteratura che ha creato il “mito asburgico” si presenta in modo caratteristicamente ambivalente nel suo giudizio sullo scomparso stato imperiale, tanto che il suo autore più rappresentativo, il Musil [1], nel suo L’uomo senza qualità, evidenzia il sostanziale vuoto su cui poggia l’impero nel vano tentativo del comitato creato per i festeggiamenti dell’anniversario di Francesco Giuseppe di reperire un valore unificante.

 

Questo testo offre un’immagine tagliente dell’impero asburgico prossimo  al tracollo, in una trama in cui all’uomo senza qualità del romanzo s’affianca il finto perno dell’azione (o meglio inazione) drammatica, l’inconcludente “Azione parallela” volta a celebrare i 70 anni di regno di Francesco Giuseppe (ironicamente, Musil immagina che i preparativi incomincino prima della guerra, in attesa del 1918, data del “giubileo imperiale” suddetto, e che sarà invece quella della dissoluzione dell’impero), sullo sfondo di un’entità statale amletica, che non sa chi è e che cosa vuole fare.

 

È rimasta giustamente celebre la descrizione della “Cacania”, ossia dell’Austria-Ungheria (Cacania è un neologismo musiliano creato da kaka, pronuncia dell’abbreviazione K.K. di Kaiserlich-Königlich, “imperial-regio”) offerta da questo grande scrittore viennese, con la sua intelligente e corrosiva ironia:

 

«Questo concetto dello stato austro-ungarico era cosî stranamen­te congegnato che sembra quasi vano tentar di spiegarlo a chi non ne abbia personale esperienza.

 

Non era fatto di una parte austriaca e di una parte ungherese che, come si potrebbe credere, si com­pletavano a formare un tutto, ma di un tutto e di una parte, cioè di un concetto statale ungherese e di un concetto statale austro­ungarico, e quest'ultimo stava di casa in Austria, per cui il con­cetto statale austriaco era in fondo senza patria.

 

L'austriaco esi­steva soltanto in Ungheria, sotto forma di avversione; a casa sua si dichiarava suddito dei regni e dei paesi della Monarchia austro­ungarica rappresentati alla Camera, che sarebbe come dire un au­striaco più un ungherese meno quest'ungherese; e non lo faceva per entusiasmo, ma per amore di un'idea che gli ripugnava, perché non poteva soffrire gli ungheresi, così come gli ungheresi non po­tevan soffrire lui, cosicché la faccenda diventava ancor più com­plicata.

 

Molti perciò si definivano semplicemente polacchi, cèchi, sloveni o tedeschi, e questo produceva ulteriori divisioni ».[2]

 

Il “padre nobile” della storiografia americana sull’Austria, Arthur J. May, nella sua importante ed influente opera The Passing of the Habsburg Monarchy è reciso nel giudicare lo stato austroungarico una realtà istituzionale in preda ad una grave crisi interna.

Egli inoltre respinge il mito asburgico, non avendo problemi a riconoscerlo come una realtà posteriore all’impero ed indotta da cause accidentali ed esterne allo stesso.

May ritiene che questa rievocazione nostalgica ed immaginosa dello scomparso stato asburgico sorga soltanto quando Stalin s’impadronisce, al termine della seconda guerra mondiale, di gran parte dei vecchi territori imperiali.[3]

 

In Italia è abbastanza conosciuto il ruolo dell’Austria asburgica nel mantenere l’Italia divisa al suo interno e sottomessa allo straniero.

 

È invece meno diffusa la consapevolezza di come l’impero abbia direttamente attentato all’identità nazionale italiana, proponendosi obiettivi di snazionalizzazione e di vera e propria sostituzione etnica.

 

Già il Lombardo-Veneto si trovò sotto il dominio asburgico in condizioni di crescente dipendenza dal governo centrale viennese[4] e di sua germanizzazione imposta dall’alto, come denunciavano i suoi stessi rappresentanti politici e la sua società civile.[5]

 

Questo avvenne per la struttura interna stessa dell’impero asburgico, poiché non fu un evento accidentale od una misura secondaria, ma corrispose alla dinamica naturale di questo tipo di stato.

 

In sostanza, l’autorità imperiale cercava d’inserire il Lombardo-Veneto all’interno di un’area storica, geografica, culturale ed etnica ad esso estranea, la cosiddetta “Mitteleuropa”, subordinandone l’economia e la società agli interessi di quella austriaca ed imponendo leggi e misure contrarie alle sue tradizioni ed interessi.[6]

 

Significativamente, esso veniva sottoposto ad un intensissimo sfruttamento economico da parte del potere centrale viennese, che si serviva delle risorse locali, drenate con la tassazione, per finanziare le regioni d’oltralpe.[7]

 

Il feldmaresciallo austro-boemo Josef Radetzky giunse a minacciare gli abitanti del Lombardo-Veneto di far ripetere in Italia le cosiddette “Stragi di Galizia”.

 

In questa regione asburgica una grave crisi agraria determinò nel 1846 un’estesa insurrezione di contadini ruteni, che condusse al massacro di diverse centinaia di proprietari terrieri polacchi.

 

La rivolta non incontrò nessuna efficace resistenza dalle autorità militari e di polizia asburgiche e si sospettò che gli amministratori imperiali avessero fomentato e favorito l’insurrezione, per poter meglio controllare la regione galiziana aizzando tra di loro le sue diverse etnie.

 

Anche nel Lombardo-Veneto vi furono nel 1846-1847 diversi tumulti provocati dalla crisi agraria, che furono attribuiti da buona parte dell’opinione pubblica all’azione sobillatrice del governo.[8] Scrive uno studioso competente sulla materia come lo storico Marco Meriggi: «La definizione di germanizzazione, che i contemporanei coniarono e che quasi tutti gli storici hanno ripreso, trovandosi a descrivere la caratteristica saliente delle dinamiche politiche dell’Impero nel periodo in questione, è sicuramente fondata».[9]

 

Il “regno” del Lombardo-Veneto chiudeva la propria esistenza nel 1866. Rimanevano però sotto il dominio asburgico altre regioni abitate da italiani: il Trentino-Alto Adige, la Venezia Giulia, la Dalmazia.

 

L’imperatore Francesco Giuseppe decise pertanto di procedere alla loro de-italianizzazione, tramite la sistematica “germanizzazione e slavizzazione” di queste terre.

 

La sua decisione in tale senso fu formalizzata nel Consiglio della Corona del 12 novembre 1866. Il verbale recita testualmente: «Sua Maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno».[10]

 

L’ordine imperiale è abitualmente tanto conosciuto dagli storici quanto sconosciuto al grande pubblico, ad ulteriore  riprova del contrasto fra la realtà storica ed il falso “mito asburgico”.

 

La citazione del verbale del consiglio dei ministri asburgico del 12 novembre 1866, con l’ordine categorico di procedere alla germanizzazione e slavizzazione delle popolazioni italiane suddite dell’impero, si ritrova in innumerevoli studi, compiuti da storici di differenti nazionalità, in anni diversi e nel corso di studi indipendenti fra loro.[11]

 

Si può riportare a suo commento il parere espresso dal professor Luciano Monzali nel suo fondamentale studio sugli italiani di Dalmazia.

 

«I verbali del Consiglio dei ministri asburgico della fine del 1866 mostrano l'intensità dell'ostilità antitaliana dell'imperatore e la natura delle sue direttive politiche a questo riguardo.

 

Francesco Giuseppe si convertì pienamente all'idea della generale infedeltà dell'elemento italiano e italofono verso la dinastia asburgica: in sede di Consiglio dei Ministri, il 12 novembre 1866, egli diede l'ordine tassativo di “opporsi in modo risolutivo all'influsso dell'elemento italiano ancora presente in alcuni Kronländer e di mirare alla germanizzazione o slavizzazione, a seconda delle circostanze, delle zone in questione con tutte le energie e senza alcun riguardo”».[12]

 

La decisione di Francesco Giuseppe non segnava comunque una frattura radicale con la politica austriaca del recente passato, sia perché, come si è visto, già nel Lombardo-Veneto s’erano attuate politiche di germanizzazione, sia giacché questo famoso verbale del 1866 dava corpo a progetti coltivati in precedenza da altissime personalità dell’impero.

 

Ad esempio, già il feldmaresciallo Radetzky aveva progettato una pulizia etnica in Dalmazia, affermando: «Bisogna slavizzare la Dalmazia per toglierla alla pericolosa signoria intellettuale di Venezia alla quale le popolazioni italiane si rivolgono con eccessiva ammirazione».[13]

 

Minacce analoghe contro gli italiani erano giunte ben prima del 1866 anche da un governatore di Trieste, il generale Ferencz Gyulai (poi feldmaresciallo, vicerè del Lombardo-Veneto e comandante l’esercito austriaco nella guerra del 1859).

 

Nel 1848 fu pubblicato sul giornale ufficiale governativo l’Osservatore Triestino un articolo di sua ispirazione, in cui s’avvisava in termini minatori che era possibile incitare le masse slave dell’Istria contro gli italiani, provocando una guerra civile.[14]

 

L’idea espressa dal Gyulai era quindi analoga, ancora una volta, allo schema delle “Stragi di Galizia”, con il proposito di sobillare un’etnia più fedele all’impero per aggredire un’altra che desiderava l’indipendenza.

 

Per gli intenti di snazionalizzazione prefissi dal consiglio dei ministri imperiale nel 1866 più che di novità si può pertanto parlare di continuità.

 

Questo indirizzo politico si manifestò in Venezia Giulia e nel Trentino in misure ed iniziative che interessarono specialmente il settore scolastico (favorendo gli istituti in lingua tedesca o slovena, non aprendo oppure chiudendo istituti scolastici italiani) ed il pubblico impiego e la burocrazia (avvantaggiando le assunzioni e promozioni di slavi, la cui immigrazione era fortemente favorita, mentre al contempo si procedeva ad espulsioni d’italiani), mentre nella stampa s’adottarono restrizioni contro i giornali liberali (ad esempio, in un caso Il Piccolo fu soggetto a sequestro, mentre L’Indipendente fu colpito da sospensione).

 

La comunità italiana, talvolta per tramite del comune di Trieste o dell’episcopato di Trento, criticò sovente le scelte delle autorità statali, contestando anche la politica religiosa (con la nomina di vescovi slavi per Trieste e l’aumento d’ecclesiastici sloveni e croati, spesso sostenitori dei rispettivi movimenti nazionali, oppure le politiche di germanizzazione con connotazioni anticattoliche e vagamente protestanti nel Trentino) e l’attività della polizia (accusata d’arbitri a scapito degli italiani).

 

S’ebbero anche accuse di germanizzazione o slavizzazione dei nomi geografici e dei cognomi, con pubbliche proteste e denunce per iscritto.

 

Il contrasto politico fra l’autonomismo degli italiani ed il centralismo dello stato, in cui era egemone l’establishment austriaco, s’intersecò in tal modo alla rivalità nazionale fra italiani da una parte, austriaci e slavi del sud dall’altra.[15]

 

Uno dei più grandi storici italiani, Ernesto Sestan, nel suo classico studio sulla Venezia Giulia ha dato risalto alla duplice azione di difesa condotta dagli italiani di tale regione sia contro la germanizzazione proveniente dal centralismo statale sia contro la slavizzazione operata dai nazionalisti slavi e croati.

 

Germanizzazione e slavizzazione, ossia potere centrale e nazionalismo slavo, erano alleati fra loro, in parte perché Vienna riteneva più fedeli sloveni e croati, in parte perché il senso nazionale di questi ultimi trovava spesso espressione nel cosiddetto austro slavismo, un’ideologia politica che si prefiggeva il raggiungimento delle finalità nazionalistiche degli slavi del sud all’interno della compagine statale asburgica e con l’appoggio dell’impero.[16]

 

Un recente studio di Gerd Pircher contribuisce invece a documentare quale destino si progettasse per il Trentino durante il primo conflitto mondiale: una volta ottenuta la vittoria si doveva conservare parzialmente la giurisdizione militare, proclamare il tedesco come unica lingua ufficiale, imporre il tedesco nelle scuole, procedere ad una epurazione dell’amministrazione, germanizzare i toponimi e le insegne (come già s’era iniziato a fare), favorire l’immigrazione austriaca con fini di colonizzazione ecc.

 

Questi piani erano sostenuti da una cerchia di militari, capeggiati dall’arciduca Eugenio e dai generali Alfred Krauss e Viktor Dankl, che si proponevano la snazionalizzazione del Trentino e la sua germanizzazione, ritenendo praticamente ogni italiano un individuo potenzialmente ostile all’impero ed internando o deportando chiunque  fosse ritenuto politicamente inaffidabile.[17]

 

Anche se coinvolse pesantemente pure il Trentino e la Venezia Giulia, la snazionalizzazione degli italiani ordinata dall’imperatore raggiunse comunque il massimo della sua pressione in Dalmazia.

 

Lo strumento principale per slavizzare la regione fu la cancellazione sistematica della cultura italiana nelle scuole.

 

Osserva il professor Monzali: «Da questi presupposti ideologici, che negavano una realtà di fatto esistente, quella delle città dalmate bilingui e multietniche […] il passaggio ad una politica di snazionalizzazione e assimilazione nei confronti dei dalmati italiani e italofili fu rapido.

 

La questione scolastica divenne ben presto centrale, con l’abolizione dell’italiano come lingua d’istruzione nelle scuole dalmate ed il rifiuto delle autorità provinciali e comunali nazionaliste di finanziare con soldi pubblici le scuole in lingua italiana che sopravvivevano.»[18]

 

A partire dal 1866 non solo nessuna scuola italiana fu aperta dalle autorità, ma finirono con l’essere chiuse quasi tutte quelle che esistevano, questo in una regione in cui in pratica da sempre la cultura scritta e dotta era stata principalmente od esclusivamente in lingua latina prima, italiana poi.

 

Su 84 comuni in cui era ripartita all’epoca la Dalmazia, rimasero scuole primarie in lingua italiana in uno solo, quello di Zara, mentre scomparvero in tutti gli altri: si finì così con l’avere sole 9 scuole elementari in lingua italiana su 459 complessive.

 

Rimasero come scuole superiori in lingua italiana soltanto due istituti, oltretutto bilingui, e solo perché legati al mondo marinaresco, in cui l’impiego dell’italiano era una tradizione fortissima ed esisteva una terminologia specifica, assente in lingua croata: si trattava infatti delle scuole nautiche di Ragusa e Cattaro.

 

Naturalmente, non esistevano università in lingua italiana, né in Dalmazia né in tutto il resto dell’impero. In sintesi, gli studenti italiani di Dalmazia potevano avere scuole primarie nella propria lingua solo a Zara (1 comune su 84, nonostante gli  italiani fossero presenti ovunque), scuole secondarie solo Cattaro ed a Ragusa (in 2 comuni su 84, e si trattava di due soli istituti nautici), mentre il sistema scolastico terziario ossia l’università non vedeva in tutto l’impero una sola facoltà italiana.[19]

 

La questione scolastica, per quanto importantissima, non fu l’unica a travagliare la comunità italiana dalmata. Un’altra forma di slavizzazione della regione fu la «croatizzazione completa dell’amministrazione statale»,[20] che faceva del croato la lingua ufficiale ed in sostanza espelleva l’italiano, nonostante tentativi da parte dei rappresentanti politici italiani d’ottenere una forma di bilinguismo, che poteva essere concesso soltanto a facoltà dei singoli funzionari, che però erano quasi tutti croati.[21]

 

Lo stesso personale politico era stato progressivamente croatizzato, con la sostituzione continua delle vecchie amministrazioni italiane con altre croate.

 

Nel 1861, tutti gli 84 comuni esistenti nella regione amministrativa della Dalmazia avevano sindaci italiani. Nell’anno 1900 ne era rimasto uno solo, Zara, che significativamente fu l’unico a conservare scuole primarie italiane, chiuse invece in tutti gli altri comuni.

 

Allo stesso modo la Dieta provinciale, che era sempre stata a maggioranza italiana, divenne a maggioranza croata.

 

Le sconfitte elettorali degli italiani furono dovute in misura determinante a pesanti brogli elettorali, compiuti con la connivenza delle autorità governative, in cui ebbero il loro ruolo anche forme di corruzione ed estese violenze ed intimidazioni.

 

Il potere centrale viennese era infatti in grado di condizionare in maniera decisiva le elezioni di Dalmazia ed aveva scelto d’appoggiare i nazionalisti croati e la loro politica italofoba.[22]

 

Questo accadde anche aggredendo le tradizionali ed antichissime prerogative giuridiche della Dalmazia, le cui città, latine sin dal II-I secolo a. Cristo, avevano conservato sino al secolo XIX alcune norme e leggi risalenti all’Alto Medioevo, che ne riconoscevano determinate forme d’autonomia ed autogoverno.

 

Siffatte prerogative, che erano state rispettate nel corso della lunghissima dominazione veneziana, furono invece cancellate in poco tempo sotto l’impero asburgico.

 

Soltanto in questo modo fu possibile, nel giro di pochissimi anni, portare la Dalmazia, regione nella quale gli italiani avevano sempre avuto il ruolo di classe dirigente anche politica, grazie ad un’indiscussa superiorità culturale ed economica, ad un predominio degli croati, che se ne servirono per slavizzare a forza l’intera area.

 

Anche la slavizzazione della toponomastica e dell’onomastica in Dalmazia fu parte integrante del tentativo d’assimilare interamente il gruppo etnico italiano.

 

La toponomastica dalmata era abitualmente italiana sulla costa e sulle isole, slava all'interno, tuttavia, essendo sempre stata quella italiana la lingua di cultura, tradizionalmente anche i nomi croati erano trascritti in forma italiana.

 

Bisogna ricordare inoltre che l’intero territorio dalmata ha avuto un plurisecolare insediamento latino ben prima che vi giungessero e s’infiltrassero, lentamente, gruppi d’invasori od immigrati slavi.

 

In breve, fin dal II secolo a.C. queste aree erano interamente latinizzate, mentre invece le prime presenze slave in Dalmazia risalgono al VII secolo d.C. e rimangono piuttosto deboli sino al secolo XIV.

 

La toponomastica latina ossia italiana era quindi originaria ed anteriore di gran lunga a quella slava.

 

La snazionalizzazione in corso dopo il 1866 condusse ad una cancellazione di nomi italiani oppure all’imposizione d’un bilinguismo anche laddove ci si era sempre serviti della forma italiana.

 

La Luogotenenza della Dalmazia giunse al punto d’emettere un decreto, nel 1912, che dichiarava abrogati per sempre i nomi italiani di 39 località che erano state interamente croatizzate.

 

Lo stravolgimento della toponomastica riguardava gli atti del catasto e le stesse carte geografiche, con una slavizzazione pervasiva.[23]

 

Al contempo si  procedeva ad una trasformazione in forma slava persino dei cognomi. Scriveva lo storico Attilio Tamaro, autore fra l’altro d’una monumentale Storia di Trieste: «Cooperavano a questo sistema di snaturamento dei lineamenti storici ed etnici della Regione Giulia e della Dalmazia i preti.

 

I vescovi delle provincie, fuorché quello di Parenzo, ligio però con cieca devozione al Governo austriaco, erano tutti slavi, per espressa volontà di Vienna.

 

Come tali, per mezzo dei seminari vescovili e per mezzo delle loro relazioni con le provincie dell'interno, aumentarono con grande intensità la produzione di sacerdoti slavi e, approfittando dello scarso numero di preti italiani che le provincie potevano dare, empirono con quelli tutte le parrocchie, anche le italiane.

 

Tengono i parroci in Austria i registri dello stato civile. Gli slavi, non curanti delle proteste degli abitanti, forti della protezione del Governo, con cui erano organicamente collegati nell'opera e nel fine, slavizzarono i cognomi nei libri delle nascite, in quelli matrimoniali ed in quelli delle morti.

Il fine era di ottenere dei dati statistici, dei documenti ufficiali che, per una dimostrazione necessaria alla politica del Governo, sembrassero comprovare o la non esistenza o la graduale estinzione dell'italianità.».[24]

 

Un’altra forma ancora di slavizzazione riguardò la chiesa cattolica stessa, con la liturgia, i testi sacri, il clero.

 

Il legame fra trono ed altare era stretto nell’impero, specie dopo il concordato del 1855 che concedeva all’imperatore notevole ingerenza negli affari ecclesiali, e gli ecclesiastici si potevano considerare in una certa misura funzionari imperiali.

 

Inoltre, i croati ebbero per tutto il secolo XIX come capi del proprio movimento nazionalista proprio preti e vescovi.

 

L’aspetto più visibile e più sentito da larga parte della popolazione italiana di tale operazione di slavizzazione fu l’introduzione forzata d’un rito in lingua slava, il cosiddetto glagolitico.

 

Si trattava d’una forma di liturgia sorta in era moderna in ambito cattolico ma per imitazione della liturgia ortodossa, che era stato tacitamente tollerato dalle autorità ecclesiastiche della Chiesa ma era rimasto limitato a piccole zone.

 

Nel secolo XIX esso era comunque praticamente scomparso, quantomeno nelle terre di popolamento italiano della Venezia Giulia e della Dalmazia.

 

La Curia pontificia, e per essa i papi Leone XIII e Pio X, richiamarono i sostenitori del glagolitico ai principi del rito latino e li diffidarono dalla reintroduzione della liturgia paleoslava laddove non fosse mai stata praticata.

 

Nonostante l’opposizione delle popolazioni italiane della Dalmazia e la diffidenza dell’autorità pontifica stessa, la liturgia romana in lingua slava (anziché latina) finì con l’essere introdotta sotto la pressione del clero nazionalista croato.

 

La diffusione della liturgia in lingua slava, che s’accompagnò anche a prediche, canti ecc. in croato, fu un modo con cui questi nazionalisti  tentarono di slavizzare a forza le popolazioni italiane.

 

Il culto glagolitico non solo fu reintrodotto, ma venne imposto anche in località che non l’avevano mai conosciuto ed in cui gli abitanti erano in stragrande maggioranza italiani. Il malcontento fu naturalmente molto forte fra le popolazioni, che sovente preferirono abbandonare le funzioni religiose in rito glagolitico.

 

L’isola di Neresine fu teatro di ripetuti tentativi di slavizzazione nel culto religioso, in contrasto all’ortodossia cattolica, alle consuetudini ivi vigenti ed all’esplicita volontà degli abitanti.

 

Un frate croato, tale Smolje, pretese di celebrare la messa in glagolitico nella parrocchia di Neresine, la domenica 22 settembre 1895, determinando l’abbandono della cerimonia da parte di tutti i presenti e l’inizio di un vero tumulto.

 

Questo stesso sacerdote pretendeva d’impartire il battesimo in croato, in modo da slavizzare i nomi, rifiutandosi di farlo in latino anche qualora fosse direttamente richiesto dal padre del bambino.

 

Il padre guardiano del convento francescano di Neresine, Luciano Lettich, pretese d’imporre il croato alla cerimonia di sepoltura delle salme dei coniugi Sigovich, Antonio e Nicolina Sigovich, provocando da parte dei parenti e degli altri fedeli l’abbandono volontario del rito. Si può citare un altro episodio fra i tanti, accaduto nella seconda domenica d'aprile de1 1906, quando un frate croato pretese di celebrare in rito glagolitico nella chiesa di San Francesco di Cherso, isola prettamente italiana di storia e cultura.

 

I fedeli, dinanzi a questa celebrazione, che appariva loro come un abuso nazionalistico, abbandonarono in massa l’edificio religioso, lasciando da solo il frate croato.

 

Dopo queste ed altre vicende simili, gli abitanti di Neresine e di altre località minacciate di slavizzazione forzata (Ossero, Cherso, Lussinpiccolo) s’appellarono inutilmente al vescovo di Veglia, Mahnich. Vista l’inanità dei loro tentativi presso il presule slavo, decisero di fare ricorso direttamente a Roma.

 

La gravità dei fatti riferiti spinse Pio X ad intervenire, rimuovendo Mahnic dal suo incarico di vescovo.

 

Anche in seguito il Vaticano dovette intervenire direttamente per denunciare e condannare sia l’abuso liturgico del ricorso al rito glagolitico, sia l’appoggio diretto di sacerdoti slavi al nazionalismo sloveno e croato, come avvenne ad esempio il 17 giugno 1905, quando il Cardinale Segretario di Stato, per ordine del papa Pio X, trasmise una lettera dura e preoccupata al ministro generale dell’ordine dei frati minori francescani, con l’ordine preciso d’intervenire in modo energico per porre termine al comportamento dei francescani croati in Dalmazia, che operavano per introdurre la propria lingua nazionale nella liturgia.

 

La stessa chiesa cattolica non vide per nulla con favore la pretesa dei nazionalisti croati di ripristinare il rito glagolitico, sia per ragioni strettamente liturgiche, sia perché spesso tale richiesta proveniva da panslavisti con palesi simpatie per il cristianesimo greco-ortodosso. In conclusione ed in sintesi, il glagolitismo ricomparso dopo il 1848 fu quindi un’innovazione liturgica imposta da nazionalisti slavi con cariche ecclesiastiche, che ferì profondamente i sentimenti sia nazionali, sia religiosi dei cattolici italiani di Dalmazia, i quali si videro obbligati a riti in lingua straniera e di dubbia conformità all’ortodossia cattolica.[25]

 

Le persecuzioni rivolte agli italiani per cercare di costringerli ad assimilarsi ai croati compresero anche l’esercizio della violenza, che divenne praticamente endemica nei loro confronti, con aggressioni quotidiane alle persone od alle proprietà italiane:

 

«Nel 1910, a Cittavecchia, gente sconosciuta penetra di notte nei locali dell'Unione italiana dalmata, scassinando le porte: ruba e getta in mare qualche specchio, due quadri veneti storici, un busto di Dante, la lampada, un orologio da muro. È un vandalismo che urta. A Sebenico, un operaio regnicolo, che, interrogato per via in croato, risponde in italiano che non capisce, è aggredito e malmenato. Per questi usi il podestà di Sebenico ha potuto un giorno consigliare i croati di Zara: “Fratelli zaratini! Fate come noi a Sebenico: scendete nelle strade, con le pistole in pugno, e sparate. Gli italiani saranno buoni. Se c'è bisogno di me chiamatemi: verrò con voi”. Sono episodi di ogni giorno.»[26]

 

Le testimonianze sulla diffusione massiva della violenza contro gli italiani da parte dei nazionalisti croati nella Dalmazia asburgica sono numerose e dettagliate, descrivendo un contesto nel quale anche la polizia era connivente con le aggressioni italofobe, talora mortali:

 

«La pubblica amministrazione era terrorizzata; la poli­zia dei vari municipi era un congegno di partito. A Spalato un poliziotto del Co­mune ha ucciso con un colpo di rivoltella un pescatore chioggiotto; e l'omicida fu salvato dallo psichiatra; a Sebenico, un poliziotto di quel Comune ha tagliata, netta, la testa a un cittadino; a Traù un poliziotto, certo Macovan ha freddato con due sciabolate un povero operaio, di par­tito avverso a quello del Comune, che si trovava in istato di completa ubbriachezza. II partito croato scusava la persecuzione col dire che gli italiani rifiutavano di riconoscere il carattere nazionale croato della Dalmazia.»[27]

 

L’archivio storico del Ministero degli Esteri italiano serba un’ampia documentazione sui moltissimi incidenti che avvennero ad inizio Novecento non solo in Dalmazia, ma anche in Trentino e Venezia Giulia.[28]

 

La finalità era quella di spegnere ogni vita politica e culturale autonoma ed obbligare gli italiani dalmati a croatizzarsi.

 

L’impatto di questa serie combinata di misure contro gli italiani fu devastante, determinando una rapidissima diminuzione del gruppo etnico italiano di Dalmazia.

 

Scrive il professor Monzali: «Nei primi studi statistici austriaci non ufficiali compiuti negli anni Sessanta e Settanta, il numero dei dalmati italiani variava fra i 40 e i 50.000; nel censimento ufficiale del 1880, il loro numero scendeva a 27.305, per poi calare drasticamente nei decenni successivi; 16.000 nel 1890, 15.279 nel 1900, 18.028 nel 1910 (su una popolazione dalmata complessiva di 593.784 persone nel 1900, di 645.646 nel 1910)».[29]

 

Dati parziali riferiti a singole località esemplificano egregiamente l’andamento demografico complessivo sopra enunciato ed il tracollo della popolazione italiana. Si può riferire brevemente del caso di Lissa.

 

Questa piccola isola, latinizzata in epoca romana, rimase per lunghi secoli popolata quasi esclusivamente da dalmati autoctoni, quindi da una popolazione neolatina, prima d’entrare a far parte dei territori di Venezia, a cui appartenne ininterrottamente per molti secoli. Sino al 1797 ed a Campoformio, gli abitanti di Lissa parlavano praticamente tutti il cosiddetto “veneto da mar".

 

Il censimento tenutosi nell’epoca napoleonica calcolava, anche se in maniera approssimativa, gli italiani quali l’80% della popolazione di Lissa.

 

Rispetto a tale cifra, il primo censimento asburgico accurato, quello del 1880, vedeva già un netto declino dell’etnia italiana, che però rimaneva nettamente maggioritaria: essa era valutata al 64% del totale.

 

Ma dopo solo vent’anni gli italiani di Lissa apparivano quasi scomparsi. Secondo il censimento asburgico dell’anno 1900 gli abitanti di Lissa erano per il 97% slavi e solo per il 2,4% italiani.

 

Il censimento asburgico dell’anno 1910 confermò che il gruppo etnico italiano era ridotto al lumicino nell’isola, poiché contava solo un 2,5% degli abitanti. Riassumendo, gli italiani di Lissa erano passati dall’80% circa all’inizio del XIX secolo al 64% del 1880, infine al 2,4% del 1900.

 

Spicca particolarmente la differenza fra le dimensioni del gruppo etnico italiano nel 1880, con 3.292 unità (il 64%) e quello di soli vent’anni dopo ridotto a sole 199 (il 2,4%), con un calo del 94%.

 

Stime analoghe della diminuzione del gruppo etnico italiano si possono rintracciare in molte altre località della Dalmazia: dal 1880 al 1900, sempre sulla base dei censimenti asburgici, gli italiani calarono nell’isola d’Arbe da 567 a 223, a  Cittavecchia di Lesina da 2.163 a 169, a Comisa dal 1197 a 37, a San Pietro della Brazza da 421 a 43, in una città di medie dimensioni come Spalato da 5.280 a 1.046, a Traù da 1960 a 170 ecc.

 

Sempre nello stesso periodo i documenti amministrativi asburgici segnalano la totale scomparsa degli italiani in una serie di località: Bua, Isto, Meleda, Sestrugno, Zirona Grande ecc.

 

Un’enumerazione completa dei dati statistici che descrivono il crollo della presenza italiana in Dalmazia sarebbe troppo lungo e d’altronde inutile, poiché sfonderebbe una proverbiale porta aperta: si tratta di fatti da tempo noti.[30]

 

Per farla breve, il numero dei dalmati italiani aveva subito in pochi anni un tracollo, sia in termini numerici assoluti, sia nel rapporto percentuale con la popolazione complessiva, come si può affermare sulla base delle stesse fonti statistiche dell’impero asburgico.

 

L’esito imponente di questo processo di snazionalizzazione può essere così riassunto: nel 1845 una stima delle autorità calcolava gli italiani essere il 19,7% della popolazione della Dalmazia; il censimento asburgico registrava nel 1865 un totale di 55.020 italiani, pari al 12,5% degli abitanti; il censimento del 1910 ne contava più solo 18.028, pari al 2,7% dei dalmati.

 

Dal 1845 al 1910 gli italiani di Dalmazia erano quindi passati dal 19,7% al 2,7% della popolazione.[31] In rapporto alla popolazione dalmata totale, la percentuale d’Italiani del 1910 era all’incirca 1/7 di quella del 1845.

 

La diminuzione del gruppo etnico italiano in confronto a quello dell’insieme complessivo degli abitanti di Dalmazia era stato quindi di 6/7: dal 19,7% del 1845 al 2,7% del 1910.

 

Il professor Luciano Monzali può parlare esplicitamente per il periodo 1866-1914 di «snazionalizzazione» subita dagli italiani di Dalmazia sotto l’azione congiunta dello stato imperiale e dei nazionalisti croati locali.[32]

 

Mutatis mutandis, questo giudizio può essere applicato anche alla sorte degli italiani della Venezia Giulia e del Trentino nello stessa fase storica, giacché le misure adoperate contro i dalmati di nazionalità italiana furono all’incirca le medesime di cui ci si servì anche contro giuliani e trentini.

 

 

 

 

 

Note Bibliografiche

 

[1] C. Magris, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Torino 1963.

 

[2] R. Musil, L’uomo  senza qualità, Torino 1972, p. 162.

 

[3] A. J. May, The Passing of the Hapsburg Monarchy. 1914-1918, Philadelphia (Penn.) 1966.

 

[4] M. Meriggi, ll regno Lombardo-Veneto, Torino 1987, p. 268.

 

[5] Ibidem, pp. 269-270.

 

[6] Ibidem, p. 100.

 

[7] Ibidem, pp. 271 sgg.

 

[8] C. A. Macartney, L’Impero degli Asburgo, 1790-1918, Milano 1976., pp. 356-359; Meriggi, Il regno, cit., p. 327. Cattaneo, Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra, cap. III, “Il generalissimo Radetzki, attorniato da uno stato maggiore di teutomani, agognava al momento di far sangue e roba, millantandosi di voler rifare in Italia le stragi di Galizia. Come dubitarne, quando si vedeva comparire nello stesso tempo in Brescia con autorità militare il carnefice Benedek, e con autorità civile il fratello del carnefice Breindl?”

 

[9] Meriggi, Il regno, cit., p. 100. Uno dei molti osservatori diretti di tale opera di germanizzazione, il Cattaneo, non ha avuto dubbi nel definire l’impero quale una “potenza tedesca”, che perseguiva intenti nazionalistici germanici. Cattaneo, Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra, cap. I

 

[10] La versione originale in lingua tedesca è la seguente: «Se. Majestät sprach den bestimmten Befehl aus, dass auf die entschiedenste Art dem Einflüsse des in einigen Kronländern noch vorhandenen italienischen Elementen entgegentreten durch geeinignete Besetzung der Stellen von politischen, Gerichtsbeamten, Lehrern sowie durch den Einfluss der Presse in Südtirol, Dalmatien und dem Küstenlande auf die Germanisierung oder Slawisierung der betreffenden Landesteile je nach Umständen mit aller Energie und ohne alle Rücksicht hingearbeitet werde. Se. Majestät legt es allen Zentralstellen als strenge Plifcht auf, in diesem Sinne planmäßig vorzugehen.» Essa si ritrova in Die Protokolle des Österreichischen Ministerrates 1848/1867. V Abteilung: Die Ministerien Rainer und Mensdorff. VI Abteilung: Das Ministerium Belcredi, Wien, Österreichischer Bundesverlag für Unterricht, Wissenschaft und Kunst 1971; la citazione compare alla Sezione VI, vol. 2,  seduta del 12 novembre 1866, p. 297.

 

[11] Senza pretendere d’indicare esaustivamente tutti gli studi in proposito, bastino qui alcuni riferimenti essenziali: G. Novak, Političke prilike u Dalmaciji g. 1866.-76, Zagreb 1960, pp. 40-41; A. Filippuzzi, (a cura di), La campagna del 1866 nei documenti militari austriaci: operazioni terrestri, Padova 1966, pp. 396 sgg.; C. Conrad, Multikulturelle Tiroler Identität oder 'deutsches Tirolertum'? Zu den Rahmenbedingungen des Deutschunterrichts im südlichen Tirol während der österreichisch-ungarischen Monarchie, in J. Baurmann/ H. Günther/U. Knoop, (a cura di), Homo scribens. Perspektiven der Schriftlichkeitsforschung, Tübingen: Niemeyer, 1993, pp. 273-298; U. Corsini, Problemi di un territorio di confine. Trentino e Alto Adige dalla sovranità austriaca all’accordo Degasperi-Gruber, Trento, Comune di Trento 1994, p. 27; H. Rumpler, Economia e potere politico. Il ruolo di Trieste nella politica di sviluppo economico di Vienna, in R. Finzi-L. Panariti-G. Panjek (a cura di), Storia economica e sociale di Trieste, vol. II, La città dei traffici: 1719-1918, Trieste 2003, pp. 87-88; A. Cetnarowicz, Die Nationalbewegung in Dalmatien im 19. Jahrhundert. Vom «Slawentum» zur modernen kroatischen und serbischen Nationalidee, Frankfurt am Main, Berlin, Bern, Bruxelles, New York, Oxford, Wien, 2008, p. 110.

 

[12] L. Monzali, Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla Grande Guerra, Firenze 2011, p. 69.

 

[13] M. Scaglioni, La presenza italiana in Dalmazia. 1866-1943, tesi di laurea, università degli studi di Milano.

 

[14] B. Benussi, L'Istria nei suoi due millenni di storia, Venezia-Rovigno 1997, pp. 480 sgg.

 

[15] La bibliografia su questi temi è sterminata, cosicché ci si limita qui ad alcune indicazioni: B. Benussi, L’Istria nei suoi due millenni di storia, Venezia-Rovigno, 1997; B. Coceani, Un giornale contro un Impero. L’azione irredentistica de “L’Indipendente” dalle carte segrete della polizia austriaca, Trieste 1932; U. Corsini, La questione nazionale nel dibattito trentino, in A. Canavero- A. Moioli (a cura di), De Gasperi e il Trentino tra la fine dell’’800 e il primo dopoguerra,  Trento 1985, pp.593-667A. Fragiacomo, La scuola e le lotte nazionali a Trieste e nell’Istria prima della redenzione, in “Porta orientale”, 29, 1959; M. Garbari, L’irredentismo nel Trentino, in R. Lill-F. Valsecchi (a cura di), Il nazionalismo in Italia e in Germania fino alla prima guerra mondiale, Bologna 1983; V. Gayda, L'Italia d'oltre confine. Le provincie italiane d'Austria, Torino 1914; A. Sandonà, L’irredentismo nelle lotte politiche e nelle contese diplomatiche italo-austriache, voll. 3, Bologna 1932-1938; A. Tamaro, Le condizioni degli italiani soggetti all'Austria nella Venezia Giulia e nella Dalmazia, Roma 1915; A. Tamaro, Storia di Trieste, Roma 1924; G. Valdevit, Chiesa e lotte nazionali: il caso di Trieste (1850-1919), Udine 1979; P. Zovatto, Ricerche storico-religiose su Trieste, Trieste 1984

 

[16] E. Sestan, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, Udine 1997, pp. 91, 95-103; A. Moritsch, Der Austroslawismus. Ein verfrühtes Konzept zur politischen Neugestaltung Mitteleuropas, Wien 1996

 

[17] G. Pircher, Militari, amministrazione, e politica in Tirolo durante la prima guerra mondiale, Societa di Studi Trentini di Scienze Storiche, Trento 2005. Essa è la traduzione in italiano dell’opera originale Militar, Verwaltung, und Politik in Tirol in Estern Welkkrieg, Universitatsvelag Wagner, Innsbruck 1995.

 

[18] Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., p. 142.

 

[19] G. Deuthmann, Per la storia di alcune scuole in Dalmazia, Zara 1920; A. Ara, La questione dell’Università italiana in Austria, in «Rassegna storica del Risorgimento» LX, 1973, pp. 52-88, 252-280.

 

[20] Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., p. 300.

 

[21] Ibidem, pp. 297-301.

 

[22] G. Praga, Storia di Dalmazia, Varese 1981; Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., pp. 138 sgg., 168-178.

 

[23] G. Dainelli, Carta di Dalmazia, Roma 1918; A. Tamaro, Le condizioni degli italiani soggetti all'Austria nella Venezia Giulia e nella Dalmazia, Roma 1915.

 

[24] Tamaro, Le condizioni, cit.

 

[25] A. Cronia, L'enigma del glagolismo in Dalmazia dalle origini all'epoca presente, in “Rivista Dalmatica”, Zara 1922; M. Lacko, I Concili di Spalato e la liturgia slava, in A. Matanić (a cura di), Vita religiosa, morale e sociale ed i concili di Split  (Spalato) dei sec. X-XI. Atti del Symposium internazionale di storia ecclesiastica (Split, 26-30 settembre 1978), Padova 1982, pp. 443-482; S. Malfer, Der Kampf um die slawische Liturgie in der österreichisch- ungarischen Monarchie - ein nationales oder ein religiöses anliegen? in “Mitteilungen des Österreichischen Staatarchivs”, 1996, n. 44, pp. 165-193; J. Martinic, Glagolitische Gesange Mitteldalmatiens, Regensburg 1981; G. Valdevit, Chiesa e lotte nazionali: il caso di Trieste (1850-1919), Udine 1979; P. Zovatto, Ricerche storico-religiose su Trieste, Trieste 1984.

 

[26] V. Gayda, L'Italia d'oltre confine. Le provincie italiane d'Austria, Torino 1914, p. 297.

 

[27] R. Deranez, Alcuni particolari sul martirio della Dalmazia, Ancona 1919.

 

[28] Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., p. 239.

 

[29] Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., pp. 170-171.

 

[30] D. De Castro, Cenno storico sul rapporto etnico tra italiani e slavi nella Dalmazia, in Studi in memoria della prof. Paola Maria Arcari, Milano 1978; G. Perselli, I censimenti della popolazione dell'Istria, con Fiume e Trieste, e di alcune città della Dalmazia tra il 1850 e il 1936, Trieste-Rovigno 1993; O. Mileta Mattiuz, Popolazioni dell’Istria, Fiume, Zara e Dalmazia (1850-2002), Centro di Ricerche Storiche di Rovigno-Ades, 2005; Scaglioni, La presenza italiana, cit.

 

[31] Š.Peričić, O broju Talijana/talijanaša u Dalmaciji XIX. stoljeća, in Radovi Zavoda za povijesne znanosti HAZU u Zadru, n. 45/2003, p. 342.

 

[32] Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., p. 142.

 

 

 

 

 

 

 

 61 - Il Dalmata n° 80 - Sett.2013 - D'Annunzio apostolo della Dalmazia grande riformatore politico e sociale d'Italia

RISCOPRÌ IL GIURAMENTO BOCCHESE DI PERASTO “TI CO’ NU, NU CO’ TI”

 

GABRIELE d’ANNUNZIO APOSTOLO DELLA DALMAZIA GRANDE RIFORMATORE POLITICO E SOCIALE D’ITALIA

Il Vate, comunicatore moderno ed efficace, impose la Dalmazia al centro delle rivendi­cazioni italiane limitate allora a Trento e Trieste. Fiume la Dalmazia e la Vittoria mutilata

 

Quest’anno, il 12 marzo sono stati festeggiati i 150 anni del­la nascita a Pescara dell’Uomo che rivoluzionò la politica ita­liana, la propaganda moderna e lo stile che elevava per la pri­ma volta un poeta e letterato a protagonisti di atti eroici che poi avrebbe raccontato con ra­ra forza evocativa. Fu imitato da Hemingway e da altri che non gli furono grati, anzi lo in­vidiarono fino ad odiarlo.

Con una sola immagine ed un solo discorso riuscì a far sco­prire all’Italietta di Giolitti l’esistenza degli Italiani di Dalmazia e la centralità di que­sta terra, da sempre protagoni­sta nell’Adriatico. Dopo la II Guerra mondiale, la Dalmazia sembra essere ricaduta nel di­menticatoio, se si eccettuano poche frasi di circostanza che qua e là emergono. Per la veri­tà la sola eccezione è rappre­sentata dalle forze politiche nazionali che sono riuscite, quando hanno conquistato il governo (vedi legge sul Giorno del Ricordo), ad ottenere il consenso della sinistra mode­rata, ma mai quello della sini­stra comunista.

 

È bene ricordare che è stato d'Annunzio a riscoprire il dis­corso del conte Giuseppe Vi- scovich pronunciato a Perasto, la città gonfaloniera di Venezia situata nel ramo destro delle Bocche di Cattaro, quando la Marina veneta rifiutò l'indecorosa resa della Sere­nissima a Napoleone, catturò la nave da guerra francese Le Libérateur d’Italie e portò in pellegrinaggio il Vessillo sa­crale della Repubblica di Ve­nezia in tutti i principali porti dell’Istria e della Dalmazia. Nei Duomi di tutte le città adriatiche fu celebrato un so­lenne Te Deum ed il popolo e l'intera classe dirigente versa-

rono lacrime per San Marco che portò civiltà e benessere su tutta la costa orientale dell'A­driatico, senza distinzione del­la lingua parlata o della reli­gione, perché i dalmati erano accomunati dalla stessa storia e civiltà mediterranea ed adria­tica, erede dell’Impero romano d’Occidente. Il giuramento di fedeltà “Ti co’ nu, nu co’ ti” che chiudeva il discorso del conte Viscovich, costituisce tuttora il collante che i dalma­ti, qualsiasi lingua parlino, hanno nei confronti della tradi­zione veneta e della Civiltà mediterranea dell'Olio e del Vino che Roma e Venezia han­no incarnato per oltre 20 seco­li.

L’Impresa dannunziana di Fiu­me fu un intervento di rilievo mondiale in cui gli italiani di­mostrarono di sapersi ribellare allo strapotere delle potenze guidate dall'alta finanza che, grazie all'Italia, avevano vinto la Prima guerra mondiale e che poi si preoccuparono solo di frenare l'irruzione del Regno sabaudo sulla scena politica in­ternazionale, forte del grande contributo di sangue versato,

che superò i 600 mila Caduti e del ruolo primario svolto dal­l'Italia per ottenere la vittoria. Furono, purtroppo, cannoni e fucili dell'Italietta di Giolitti, succube delle grandi potenze finanziarie, che spararono con­tro i Legionari dannunziani nel Natale di sangue di Fiume e di Zara ed i battaglioni dei Legio­nari (vedi Dalmazia nazione, Appendice storica, pp. XXI- XXIV, consultabile anche on- line sul sito (www.dalmaziaeu .it), asserra­gliati a Zara, non riuscirono a forzare l’accerchiamento del­l’esercito italiano. Solo Zara si salvò e rimase nel Regno d’Italia, mentre il resto della Dalmazia, assegnatoci dai Pat­ti di Londra, (sottoscritti il 15 aprile 1915 per indurci ad en­trare in guerra con gli Alleati) furono tranquillamente violati da Francia ed Inghilterra con l’appoggio americano, che, per la prima, volta si opponeva agli italiani di Dalmazia. L’ultima volta è rappresentata dai bombardamenti terroristici americani ed inglesi, che un quarto di secolo dopo distrug­geranno Zara su richiesta di Ti­to e colpiranno Spalato e Ra­gusa.

Ma i festeggiamenti saranno sicuramente molto compressi perché Gabriele d’Annunzio è odiato da certa classe dirigente politica per un atto di grandis­simo rilievo storico, ben na­scosto in Italia ma oggetto di studi in tutto il mondo: la Car­ta del Carnaro. La Costituzio­ne Fiumana di Gabriele d’Annunzio, con un sostanzio­so apporto di Alceste De Am- bris, costituisce il primo adat­tamento moderno della Dottri­na corporativa della Chiesa cattolica, ulteriormente inte­grata dal fascismo, che costi­tuisce la vera causa per la qua­le i banchieri mondialisti si scatenarono contro l’Italia de­gli anni ’30 ed oggi opprimono l’Europa mettendo in crisi la nostra economia, imponendoci un’austerità che consenta alla cupola finanziaria mondialista di comprare tutte le aziende italiane, come Telecom, Ilva, Alitalia, ecc.

Nessuno si meravigli, quindi, se verrà ripescato tra i Fiumani un personaggio poco noto co­me Zanella, autonomista, e tra i Dalmati qualcuno che lasci intendere che fu causa del fiu- manesimo se abbiamo perso una parte della Dalmazia già negli anni ’20, che d’Annunzio chiamò la Vittoria mutilata. Nessuno si preoccupi: d’Annunzio resta un simbolo per i Dalmati da contrapporre a quanti vogliono chiudere il Consolato di Spalato, non ap­plicare in Dalmazia l’Accordo Granic-Dini che riporterebbe la nostra lingua e la nostra cul­tura in tutta la Dalmazia, ma anche per coloro che cercano di capire come, improvvisa­mente, il nostro benessere, uni­tamente a quello di altri stati europei, si vada sfaldando.

 

 

 

 

 

 

62 - La Voce in più Cultura 19/10/13 Riflessioni - L'esilio quale condizione dell'essere

RIFLESSIONI

 

di Dario Saftich

 

L’esilio quale condizione dell’essere

 

LA LETTERATURA PUÒ ESSERE UNO STRUMENTO PER LENIRE LE FERITE DELLA STORIA

 

L’esperienza dell’esilio nel mondo globalizzato è foriera di ispirazioni letterarie, che permettono da un lato di conservare la memoria e dall’altro di lenire le ferite della storia e favorire la riconciliazione. Anche se la partenza dalla terra natia assume spesso connotati diversi rispetto a quelli a noi più vicini dell’esodo istriano, fiumano e dalmata, l’esilio finisce in tutti i casi per lasciare tracce psicologiche simili. Spiega la scrittrice di origine polese Anna Maria Mori: “Esodo o Esilio? Perché non è la stessa cosa. Anzi. l’esodo ha a che vedere con la cronaca, la storia, la politica. l’esilio è metastorico, metapolitico, psicologico, vorrei dire metafisico. l’esodo, in altre parole, riguarda i corpi, la terra, la casa, mentre l’esilio diventa una condizione dell’essere, quello che si dice una dimensione dello spirito”.

 

 

Luogo dello spirito

 

l’esilio può trasformarsi, dunque, in una sorta di luogo dello spirito che consente di sviluppare la creatività, liberi da vincoli che altrimenti potrebbero manifestarsi sotto varie forme: l’esilio - sembrerà magari un’affermazione paradossale, rileva Anna Maria Mori - anche se è e resta un dolore di tutta la vita dopo lo strappo violento dell’esodo, può persino costituire un grande, doloroso, lungo momento di libertà interiore. E non necessariamente l’esilio deve essere figlio dell’esodo: Ognuno coltiva nel profondo della sua anima il dolore di un esilio: dalla propria infanzia, giovinezza, da un amore, da un progetto di vita o di lavoro, da un sogno, una speranza...

 

 Parte della personalità

 

In ogni caso la dimensione dell’esilio diventa una dolorosa parte integrante della personalità dell’esule, del suo stare al mondo, della sua anima, e come tale ha più a che fare con la psicanalisi (e, naturalmente, la letteratura), che non con la politica e le politiche. E l’esilio può essere tale anche per chi non si è mosso da casa sua, se l’ambiente circostante muta in maniera radicale, devastante, come accaduto nelle nostre terre. Perché se l’esodo divide nel nostro gli “andati” dai “rimasti”, l’esilio invece ci unisce, privati gli uni e gli altri della nostra identità originaria, della nostra storia e troppo a lungo del diritto-dovere di farla conoscere al mondo intero. Perché questa tragedia trovi parole (magari, speriamo letteratura nazionale, non solo locale) che la traghettino dal passato al presente e al futuro, rendendola universale e facendola uscire dai confini orientali in cui si è consumata - rileva Anna Maria Mori - essa dovrebbe liberarsi dai condizionamenti (e magari anche dalle lusinghe) della politica: deve diventare Cultura, parte integrante del patrimonio e della complessiva rilettura culturale delle tragedie del cosiddetto secolo breve.

 

 

Abbandono traumatico

 

La sindrome dell’esilio, dell’abbandono traumatico della terra natia trapela con chiarezza dalle parole di Anna Maria Mori, “Io sono nata in un altrove che adesso non c’è più”, sottolinea la scrittrice, che aggiunge: “E la verità è che da allora, da quando sono partita su una nave nera insieme a molti altri, io non ho più messo radici da nessuna parte: sono rimasta una specie di turista ovunque e per sempre... una che si porta addosso il costante sentimento della provvisorietà, e di conseguenza non si lega, non riesce a legarsi ai luoghi, considerandoli sempre in qualche misura estranei, in prestito.

 

Né trovo pace nella città d’origine: non la riconosco, non mi ci riconosco, e neppure ho voglia di fingere con me stessa di riconoscerla attraverso pellegrinaggi un po’ patetici alla ricerca di qualcosa che racconti a te stessa di aver trovato o ritrovato, e che invece non c’è proprio più. Forse è proprio questo il senso della perdita del luogo delle origini: diventare un viandante, una turista per caso...”.

 

Ma l’esilio finisce per plasmare anche le opere di uno scrittore, come lascia chiatamente intendere un altro letterato di punta della diaspora, lo spalatino Enzo Bettiza: “C’è una parte di me, la quale nutre più o meno direttamente anche le mie opere d’invenzione della propria linfa autobiografica, che si è espressa con intensità e talora drammaticità nella vita pura e nuda. Questa parte più intensamente personale non era dovuta né a una particolare vocazione alle avventure, né a particolari ingorghi di fortuna o di sfortuna. Era dovuta soprattutto alla mia particolare condizione di esule, condizione che per lunghi anni, combinandosi all’attività giornalistica, mi ha portato a vivere e a spostarmi per il mondo. Del resto il rapporto tra vita, non vita e opera letteraria è sempre molto complesso: uno scrittore, soprattutto un romanziere non può fare a meno delle luci e delle melme della vita se vuol scavare nei misteri dell’esistenza”.

 

 

La patria in un fagotto

 

Fenomeni simili, segnati dall’esperienza traumatica dell’esilio portano il marchio intimo del nostro tempo. Colui che abbandona la terra natia se ne va da qualche parte su una zattera e porta con sé la patria in un fagotto - la zattera e il fagotto sono contemporaneamente realtà e metafore che accompagnano il destino dell’esilio e dell’emigrazione. Il viaggiatore a volte arricchisce l’ambiente nel quale arriva con la sua arte o la sua maestria.

 

A parte le riflessioni di carattere storico, lo spaesamento fa sì che l’esule inizi a provare un sentimento di ripulsa per il mondo con il quale è venuto o meglio è ritornato a contatto e che ai suoi occhi appare così diverso rispetto all’immagine idealizzata, coltivata con cura nei meandri della coscienza, durante l’esilio. L’impulso, a questo punto, è nuovamente quello della fuga: una volta che sono state sradicate le radici, che quel naturale senso di doppia appartenenza è stato mozzato alla vista della metamorfosi dell’ambiente originario, in pratica, rimane ben poco da rivivere. l’esilio iniziale finisce per rinnovare sé stesso, diviene l’unica scelta assoluta in un mondo che di assoluto non ha più nulla.

 

 

Nuova frontiera dell'anima

 

l’esilio diviene, in questo contesto, una nuova frontiera dell’anima: lo straniamento rispetto a una società che si è chiusa in rigidi schemi semplificatori. l’esilio diventa l’emblema della crisi dell’intellettuale che non accetta di venire catalogato e che, nel rifiuto di farsi affibbiare etichette di comodo, trova l’ispirazione per la propria arte. Il fluire della memoria, alla ricerca delle radici perdute, non è facile né lineare. I ricordi non seguono un filo conduttore unico: hanno bisogno di richiami per emergere. A volte basta poco perché nasca l’ispirazione, acciocché la memoria prenda a scorrere come un fiume in piena. Sono soprattutto i paesaggi che, interiorizzati, divengono paesaggi dell’anima. Vie, spiagge, monti si ergono a elementi che danno lo spunto per far riemergere ed esprimere una parte di sé, della propria anima. Nella poesia di Montale l’aspro paesaggio ligure, privo di ogni successivo fascino turistico, era la molla ispiratrice di versi essenziali, scabri, ma pregnanti, veicoli di verità profonde.

 

Nel nostro caso il paesaggio istriano e dalmata, unito all’irresistibile attrazione di antiche mura che trasudano storia, al contrario lenisce le ferite, suggerisce condivisioni di idee, di modi di sentire, anche tra conterranei che hanno scelto vie culturali o politiche diversissime tra loro. Ma non è tutto idilliaco il panorama di queste nostre terre, soprattutto non nell’opera di Bettiza. Alle spalle delle ridenti cittadine costiere dalmate si ergono i brulli massicci dinarici: figure minacciose che ricordano quella storia che si vorrebbe forse rimuovere, che rappresentano il collegamento con l’altra parte di sé. Non è questo il Carso verdeggiante che vuole restare fedele alle proprie radici, opposto alla città che si espande. Quelle montagne, che assomigliano a infinite pietraie, sono il simbolo della necessità di fare i conti con miti ancestrali, remoti, di staccarsi dal quieto vivere di placide cittadine avviate a una irrimediabile metamorfosi. Alle spalle di quelle montagne s’intravede un mondo diverso, con il quale il piccolo mondo antico delle città dalmate è alfine costretto a misurarsi.

 

 

L'esilio diventa letteratura

 

E quel mondo antico è in buona parte sparso per il mondo. L’esodo, ovvero l’esilio, a questo punto diventa letteratura, lì trova il modo di fermare per un istante l’attimo fuggente, di immortalarlo, di tramandarlo ai posteri.

 

Per quanto grande possa essere la forza dello spirito e del cuore, l’uomo non può recuperare il tempo passato. Il luogo in cui ritorniamo è divenuto altro e così pure è divenuto altro colui che ritorna. Il tempo ha cambiato entrambi. Per colui che ritorna il compito che si pone è quello di ritrovare un nuovo linguaggio. Il problema è dunque per colui che ritorna nella propria patria, l’originario problema dell’essere al mondo, e cioè superare l’estraneità.

 

Ed è fondamentalmente il compito della letteratura portare alla parola, all’espressione ciò per cui non vi sono più, o non vi sono ancora, delle parole adatte. Il ritorno alla terra d’origine diventa di fatto un ritorno alla poesia e alla letteratura; è la riscoperta dell’originario luogo della parlata materna, dell’originario luogo della parola che solo può portare e garantire la reciproca comprensione ed accettazione. Non c’è ricomposizione senza letteratura; questa è la via maestra per un ritorno ideale dall’esilio, e cioè un ritorno alla reciproca comprensione per tutti coloro che sono stati divisi da steccati e che cercano una nuova, comune identità.

 

 

Passaggi dolorosi

 

Dal punto di vista psicologico l’identità è il frutto di un difficile, complesso e singolare processo che inizia per ognuno di noi prima della nascita stessa, nelle fantasie della coppia genitoriale, nella storia della famiglia e del gruppo di appartenenza. L’identità è il risultato di molteplici appartenenze, non sovrapposte ed assemblate fra di loro, ma esito di una complessa e continua elaborazione. Diciamo che la capacità dell’individuo di continuare a sentirsi se stesso, nel susseguirsi dei mutamenti nella propria vita, sta alla base dell’esperienza emozionale dell’identità. L’esilio si pone in questo contesto come un’esperienza indubbiamente traumatica. Ogni partenza è segnata da passaggi dolorosi: il distacco, il viaggio, l’arrivo e l’inserimento in una realtà nuova e forse sconosciuta. Ci possiamo chiedere qual è il limite di tollerabilità del cambiamento perché l’identità non subisca danni irreparabili o troppo gravosi. L’esilio diventa quindi anche momento di meditazione. Perduta la patria ideale, non è facile trovare un approdo tranquillo e pacificante. Nell’esilio c’è pure tutto il dramma dell’uomo libero, costretto a fuggire perché non si piega a ruoli servili, perché non accetta compromessi umilianti.

 

 

L'ostacolo della memoria

 

La volontà di ricostruire il passato, di sondarlo e tramandarlo ai posteri, si scontra con un ostacolo, quello della memoria, che spesso concede poco, mentre la scrittura, suo veicolo ideale, concede ancor meno.

 

Con il passare del tempo tutto viene avvolto in una sorta di nebbia, dalla quale non traspare tutta la realtà. La memoria, piaccia o no fa la sua parte, suggerendo questo o quel tema, spingendo o raccomandando questo o quel volto dimenticato, come rileva Bettiza, che alla fine però ammette che sarà la scrittura, alla sua maniera sovrana, che valuterà, più o meno istintivamente, i materiali grezzi che la memoriale offre: sceglierà infine e lavorerà sul materiale che le apparirà maggiormente utile od opportuno per la salvaguardia dell’economia generale del libro. Molto verrà sacrificato, alfine, per alcuni forse troppo. I personaggi “veri” magari cadranno nel dimenticatoio, mentre dall’altro lato forse degli spettri usciranno dalla bottiglia: Non si può disegnare “tutto” quello che l’occhio vede, così come non si può scrivere “tutto” quello che la mente ricorda. Il sacrificio fa parte del mestiere. I morti che lo scrittore lascia riposare nei cimiteri sono in genere più numerosi del fantasmi ai quali, per un attimo, egli dà il soffio di una vita artificiale.

 

 

Selezione forzata

 

Per evitare le trappole insite nella selezione forzata degli eventi storici e il pericolo di lasciarsi trascinare dalle emozioni prorompenti, la via migliore da percorrere è quella di puntare a una sorta di relativizzazione del passato e della verità. Bisogna comprendere che ogni interpretazione del passato è inevitabilmente il frutto di interessi particolari, delle pressioni dell’opinione pubblica, delle emozioni celate e dell’approccio giocoforza selettivo alle fonti storiche, sia pure imperniate sui ricordi dell’autore.

 

Soltanto evidenziando tolleranza verso le difformi interpretazioni storiche, fatto questo che dovrebbe essere possibile grazie ai moderni conseguimenti in questo campo, si può spianare la strada verso un tentativo sereno di comprendere gli avvenimenti del passato e i loro legami reciproci. Naturalmente, questo non significa ancora che si debba relativizzare per forza di cose proprio tutto. Almeno a livello dei fatti eclatanti bisogna accettare l’evidenza e la verità incontrovertibile.

 

 

 

 

 

 

 

63 – La Nuova Voce Giuliana 16/09/13 La "Gnagna Maria" di Villa Gardossi, cioè la levatrice del paese

La “Gnagna Maria” di Villa Gardossi, cioè la levatrice del paese

 

 Arrivati alla mia età, è normale impegnarsi in cose limitate nel tempo, anche il mio vecchio computer mi pone questo problema: lo sostituisco o no?  Lo stesso problema mi si presenta quando entro nella cantina; i tavoloni di noce e ciliegio istriano sono finiti, dai tavoli alle credenze sono passato a costruire, con i ritagli, scatole porta oggetti, l’ultima di questa serie contiene i sedici dischetti nei quali è registrata la storia della mia famiglia, raccontata alla radio.

 

E’ successo però che in una delle mie ultime veglie notturne, mi sia sentito prendere da un senso di colpa, che mi ha spinto a sedermi di nuovo davanti a questo mio “vecchio” arnese, per raccontare la vita di una persona che precede la storia della mia famiglia, anche se con essa ha delle cose in comune. Voglio parlare di una donna alla quale Villa Gardossi deve, o almeno avrebbe dovuto, serbare riconoscenza. Il suo nome era, Maria Calcina, lo stesso nome di mia madre, ma erano soltanto cugine, perché figlie di due fratelli, Giovanni e Antonio Calcina. Maria Calcina, la cugina di mia madre, andò sposa ad Antonio Benvegnù, con il quale mise al mondo sette figli, portati tutti all’età adulta, cosa a quei tempi molto difficile da riuscire. Oltre al ruolo di una grande madre, Maria Calcina Benvegnù, coprì il ruolo di “levatrice” per gran parte delle nascite, che avvenivano nel villaggio, che non erano poche. Pensando oggi a questo ruolo, dovuto alla sua grande generosità ed al coraggio; perché ritengo che il compenso sarà consistito, quasi sempre, in un riconoscente ringraziamento, sul quale oggi sarebbe molto utile meditare.

 

 

Da allora la società si è evoluta, oggi ci sono gli “Ordini professionali”, nessuno si assumerebbe le responsabilità della “gnagna Maria”, come veniva da noi bambini chiamata. Succede però che a forza di Ordini professionali, Sindacati, patronati ed orpelli burocratici d’ogni genere, l’essere umano si sta sterilizzando, perdendo quei valori che gli permettevano, nel lontano passato, di superare senza drammi le difficoltà che s’accompagnano alla vita. Il cittadino ha imparato leggere e scrivere, ma non a interpretare quel linguaggio burocratico, che spesso sfugge al comune buon senso. E’ nato da ciò un nuovo tipo di lavoro, “l’azzecca garbugli”, che non produce ricchezza, ma soltanto un affanno collettivo paralizzante, che ci umilia, facendoci sentire ignoranti delle cose più elementari, che ci servirebbero per avere un rapporto schietto e sereno con le istituzioni che ci rappresentano.

 

Quando il sole volgeva al tramonto Maria, con le sue borse o con il cesto in testa, prendeva le scorciatoie che  portavano nei villaggi vicini, dove le donne gia sapevano sarebbe venuta a fare la raccolta delle uova e dei polli, che sarebbero finiti alle famiglie da Pirano a Fiume; così lontana era la sua clientela. A chi le chiedeva perché andasse a quell’ora tarda nelle case sperdute nella campagna, rispondeva che quella era l’ora in cui i polli si trovavano a dormire nei pollai ed era facile catturarli. Quando aveva raccolto merce a sufficienza per compiere un viaggio, allestiva il carretto al quale attaccava Pino, il suo asino e partiva; a sinistra se la destinazione era Fiume, a destra se era Pirano. Quando nella notte del giorno seguente stava per arrivare nei pressi di casa, era Pino ad annunciare l’arrivo con il suo immancabile raglio di benvenuto, che si espandeva nel silenzio della campagna. Maria Calcina Benvegnù riposa ora nel cimitero di Villa Gardossi, nella tomba che fu della mia famiglia, assieme ai miei nonni e bisnonni e al suo cugino Giovanni Calcina.

 

 

Percorrendo con i miei ricordi al vissuto di quelle generazioni, m’accorgo che alle attuali generazioni qualcosa è venuto a mancare. Sono venuti a mancare molti di quegli stimoli che aiutavano a superare le tante avversità. Nella sua solitudine l’uomo s’ accompagnava ad una fede che non gli avrebbe mai permesso di intraprendere un lavoro, un impegno qualsiasi come la  semina di un campo oppure un viaggio, che non fosse preceduto dalla frase: se Dio vorrà. “Se Dio vol farò, se Dio vol sarà”. La speranza s’accompagnava ad ogni nostra azione perché, come disse un grande filosofo e pensatore, la speranza appartiene alla vita, mentre la certezza, la sicurezza appartengono alla morte. Riappropriamoci, quindi, della speranza, e non lasciamoci imbrogliare da chi ci promette  la certezza, che la incontreremo nella vita una volta soltanto, nel momento della nostra morte.

 

Romano Gardossi

 

 

 

 

64 - Il Piccolo 29/09/13 Trieste - Campo Marzio, a pezzi il glorioso capolinea della Transalpina

Campo Marzio, a pezzi il glorioso capolinea della Transalpina

 

L’edificio inaugurato nel 1906 non regge più il degrado Tram e carri marciscono lungo le banchine, Museo in affanno Le tappe percorse a partire dalla Trieste-Erpelle

 

Delle 16 stazioni ferroviarie costruite dall'Austria fra Trieste e Duino sopravvive solo la "centrale". La Trieste-Erpelle venne soppressa dalle Ferrovie italiane negli anni Sessanta. Della "Meridionale", che congiunge ancora la città con Vienna e il Vecchio Continente, è sfruttato soltanto il tratto che va da viale Miramare ad Aurisina. La "Transalpina" funziona tuttora ma è lasciata alle ortiche. Prosegue il nostro viaggio lungo le stazioni: con l’arrivo a Trieste Campo Marzio oggi si conclude l’itinerario lungo la Trieste-Erpelle. Dalla prossima puntata sarà la volta della “Transalpina” con Rozzol-Montebello, Guardiella e Opicina. di Igor Buric La stazione di Campo Marzio cade a pezzi e nessuno interviene. Un gioiello unico in Europa - è il solo museo ferroviario che sorge in una stazione - rischia di crollare sotto i nostri occhi. Le facciate esterne non vengono restaurate da un quarto di secolo. Sul marciapiede che costeggia i muri di Riva Traiana e via Giulio Cesare ti imbatti in pezzi d’intonaco che si sgretolano come pane secco, porte logorate dal degrado, finestre dai vetri sfondati o rattoppate alla buona con travi di legno. Se la stazione, terminal italiano della linea Transalpina e della Trieste-Erpelle, respira ancora, è solo grazie alle fatiche erculee dei volontari del Museo ferroviario. Le Fs (proprietarie del fabbricato) hanno loro imposto infatti sia la manutenzione ordinaria che straordinaria: ma i costi per i volontari sono ormai insostenibili. Di conseguenza, l’interno di quello che fu uno spazio internazionale di investimenti dell’impero degli Asburgo versa in uno stato miserabile. Il soffitto dell’edificio inaugurato da Francesco Ferdinando nel 1906 non regge più le precipitazioni e da un paio d’anni piove nelle sale: tre sono state allagate dalle interperie. Stampe, disegni, orari e montagne di cimeli risalenti anche a metà Ottocento risultano danneggiati dall’acqua. Senza rimedio. Essere una perla unica è anche la più tremenda maledizione per Campo Marzio. In altri Paesi del Vecchio continente (Svizzera, Austria e Germania in testa) e in altre città della Penisola (Pietrarsa, vicino a Napoli) gli spazi adibiti alla memoria su rotaia vengono ricavati da officine e depositi in disuso, perché le stazioni lì lavorano. A Trieste, no. Il Museo, ossia quanto resta del più nobile capolinea ferroviario del Nord Adriatico, funziona da sé e senza un euro di finanziamento pubblico o privato. La spending review varata dall’allora governo Monti completa l’opera demolitrice della bora e della pioggia. Il sindaco Roberto Cosolini si è appellato all’amministratore delegato di Trenitalia Mauro Moretti, il quale «ha risposto che si sarebbe trovata una soluzione entro fine 2012, ma siamo ad autunno 2013 e tutto tace», dice Maurizio Fontanot, volontario del Museo. La stazione è ancora collegata con la Baviera, Vienna, Praga, Bratislava, l’Istria e la Dalmazia sulla direttrice Transalpina. Solo il tratto italiano della linea transfrontaliera (che tocca Friuli Venzia Giulia, Slovenia e Austria) è stato soffocato, il traffico soppresso e le Ferrovie hanno chiuso il rubinetto delle finanze. La tratta Trieste-Erpelle invece venne cancellata a fine anni Cinquanta e le rotaie smantellate nel ‘66. Campo Marzio, luogo di infiniti arrivi e partenze, ha quattro binari che erano tutti elettrificati. Oggi si salva il terzo, solo perché è ritenuto ancora utile ai sempre più rari viaggi panoramici lungo le strade di ferro “in sonno” di Trieste. «L’edificio vale più per l’Austria che per l’Italia», lamenta Roberto Carollo, capo dei volontari. Difatti, due volte l’anno, scendono da Vienna comitive di studenti della facoltà di Architettura per studiare la splendida stazione del “secolo breve”, l’unica di testa europea in stile Liberty. I carri, che in mancanza di fondi marciscono lungo le banchine, sono pezzi unici. Il muschio cresce su una locomotiva del 1911, lo scheletro di un piccolo tram che veniva trainato da cavalli è in decomposizione, e la prima carrozza italiana ad aver fatto le prove per i 200 chilometri orari si deteriora.

Così la stazione di Campo Marzio lancia il suo ennesimo e disperato grido d’aiuto per poter sopravvivere.

 

Igor Buric

 

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