Rassegna Stampa

RASSEGNA STAMPA 
MAILING LIST HISTRIA 

a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri

N. 925 – 06 Dicembre 2014
Sommario


313 - Il Dalmata n° 85 - Ottobre 2014 Per una Dalmazia plurale e unita (Dario Fertilio)
314 – Il Giornale 02/12/14  Il Friuli targato sinistra finanzia chi nega le foibe (Fausto Biloslavo)
315 - La Voce del Popolo 29/11/14 – Intervista - Massimliano Lacota: La battaglia mai 
conclusa per i diritti degli esuli (Rossana Poletti)
316 – La Voce del Popolo 04/12/14  Trieste: Museo degli Istriani, Fiumani e Dalmati completato il percorso espositivo (Ilaria Rocchi)
317 - La Voce del Popolo 05/12/14 Capodistria, il Leone Marciano tornerà a casa? (Jana Belcijan)
318 - La Voce del Popolo 02/12/14 - Cultura - Lingue in via d’estinzione in Croazia ce ne sono tre (krb)
319 – La Voce del Popolo 06/12/14  E & R : Ricordi di Bruno Tardivelli : Fiume: Quando veniva San Nicolò! (Bruno Tardivelli)
320 - Il Piccolo 29/11/14 Lettere - Storia -  La mozione sulla liberazione (Antonino Martelli)




Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :
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313 - Il Dalmata n° 85 - Ottobre 2014 Per una Dalmazia plurale e unita

PER UNA DALMAZIA PLURALE E UNITA

di Dario Fertilio

Gentili lettrici e cari lettori, as­sumo la direzione de “Il Dal­mata” anzitutto come atto d’amore verso la terra da cui discendo, grato per la fiducia che mi è accordata da Franco Luxardo e da tutti voi. E come impegno in favore del nostro popolo tormentato, che merita un presente e un futuro all’al­tezza del suo glorioso passato. Credo fermamente nella neces­sità di conciliare, oggi, apertu­ra globale e identità locale, in vista di un'autentica Europa delle patrie. E non nascondo di essere rimasto fedele a quella idea di Dalmazia che anni fa, durante una conversazione con Enzo Bettiza poi pubblicata col titolo “Arrembaggi e pensieri”, definimmo “plurilinguistica” e “pluriculturale”. Non dimenti­co che dietro alle teste di leo­pardo su fondo blu della nostra bellissima bandiera si possono riconoscere le tre grandi cultu­re fondanti del Sacro Romano Impero: latina, slava e germa­nica. Un patrimonio spirituale che ci rende diversi da tutti.
Per questo motivo “Il Dalma­ta”, compatibilmente con le mie forze, contando sull’aiuto decisivo di Giovanni Grigillo e di tutti gli amici che vorranno partecipare, non trascurerà nessun aspetto della identità mediterranea e centroeuropea che ci appartiene (come sem­pre mi ricordava durante i suoi mitici appuntamenti conviviali Ottavio Missoni). Fedele all’antico autonomismo dalmati­co, sarà lontano da tutti i nazio­nalismi chiusi e aggressivi, ma riconoscerà ogni opinione che non sia frutto di esclusione o pregiudizio. Cercherà i contri­buti di quanti, abitanti attuali, esuli, trasferiti altrove, e loro discendenti, si sentano parte vi­va della nostra terra. Accanto al patrimonio storico e alle pre­ziose memorie, si sforzerà di valorizzare l'attualità, le occa­sioni di confronto, scambio, sviluppo, in grado di aprire nuove prospettive politiche, culturali, economiche per il do­mani.

Il “Dalmata”, pubblicato su carta e su web, accoglierà sem­pre opinioni differenti; allo stesso tempo, sia l’editore che i lettori devono aspettarsi indipendenza di giudizio riguardo a ciò che sarà giusto e utile pubblicare - cominciando dal valore e dalla lunghezza degli scritti - e ciò che invece non potrà trovare accoglienza. La linea del giornale intende caratterizzarsi principalmente per la qualità giornalistica degli articoli e per lo spazio riserva­to alle voci dei lettori. Le opi­nioni diverse sono il sale della libertà e non ci spaventano, an­che perché ... sangue dalmata non mente! Invece polemiche distruttive, che possano dan­neggiare l’ immagine del gior­nale, di singole persone e della stessa patria dalmata, non sa­ranno apprezzate.
Spero con tutto il cuore che l’ origine della mia famiglia brazzana, che si è sempre sen­tita altrettanto a casa a Spalato, Trieste o Vienna, possa essere considerata una garanzia per tutti coloro che, dovunque sia­no nati e abitino, continuano a provare un fremito speciale al suono della parola Dalmazia.

Dario Fertilio


314 – Il Giornale 02/12/14  Il Friuli targato sinistra finanzia chi nega le foibe

Il Friuli targato sinistra finanzia chi nega le foibe
La governatrice Pd Serracchiani dà 20mila euro all'editore che pubblica libri negazionisti. La denuncia di Forza Italia
Fausto Biloslavo 

Trieste - La Regione Friuli-Venezia Giulia guidata da Debora Serracchiani, la stellina nazionale Pd, finanzia una casa editrice   in aula per cancellare il finanziamento. La colonna portante della Kappa Vu è Alessandra Kersevan, «riduzionista» delle foibe per sua stessa ammissione. L'ultima opera pubblicata è il tomo sulla Fenomenologia di un martirologio mediatico: le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi . In vendita on line si può acquistare a soli 6,38 euro «Da Sanremo alle foibe», un libello che cerca di demolire l'opera teatrale di Simone Cristicchi sul dramma dell'esodo istriano alla fine della seconda guerra mondiale. Secondo la casa editrice la pubblicazione «offre agli antifascisti, ma anche a un pubblico più vasto, alcuni mezzi “di difesa culturale” di fronte all'aggressività psicologica e mediatica del nuovo pensiero unico, cosiddetto “condiviso”, di cui il lavoro di Cristicchi è secondo noi espressione». Kersevan sostiene che la memoria delle foibe fu creata ad arte nel dopoguerra per screditare il movimento partigiano. Secondo lei gli infoibati non sono certo migliaia ed in gran parte collaborazionisti o fascisti. La foiba di Basovizza, monumento nazionale, è frutto di propaganda e nessuno sarebbe mai stato lanciato nella voragine dai partigiani di Tito.Nel disegno della legge finanziaria 2015 all'articolo 6, comma 10, sono previsti 20mila euro per la Kappa Vu s.a.s. di Udine. I soldi verranno elargiti secondo la norma «per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana». La casa editrice beneficiata stampa anche dei libri nell'idioma locale, ma è specializzata nella revisione storica che punta a demolire il dramma degli infoibati ed i crimini di Tito.
«La nostra regione ha vissuto questa tragedia e finanziamo una casa editrice che lo nega? È come se elargissimo soldi a chi dice che l'Olocausto è un'invenzione», dichiara l'azzurro Novelli. L'assessore alla Cultura, Gianni Torrenti, spiega che «la Kappa Vu è stata finanziata anche in passato da giunte di centrodestra. Non sono assolutamente d'accordo con le tesi negazioniste del dramma storico sulle foibe, ma se bloccassimo i fondi andremmo ad intaccare la libertà d'espressione e pensiero». L'assessore auspica l'apertura di un dibattito sul tema in aula consiliare. In passato era scoppiato un pandemonio per l'invito a un ex SS a Trieste da parte dell'associazione Novecento. L'assessore comunista, Roberto Antonaz, della giunta Illy di allora, aveva tuonato: «Neanche un euro alla Novecento». I contributi furono ridotti ed oggi cancellati. Quest'anno sono in tanti a storcere il naso accusando che i finanziamenti regionali sono a senso unico verso un mondo vicino alla sinistra, compresi i negazionisti delle foibe.


315 - La Voce del Popolo 29/11/14 – Intervista - Massimliano Lacota: La battaglia mai conclusa per i diritti degli esuli

La battaglia mai conclusa per i diritti degli esuli

Scritto da Rossana Poletti
 
TRIESTE

Il 5 ottobre 1954 venne ratificato il Memorandum di Londra, che sancì il ritorno di Trieste all’Italia, ma affidò i comuni italiani della cosiddetta zona B all’amministrazione fiduciaria jugoslava. Al primo numerosissimo esodo dalle zone più lontane dell’Istria se ne aggiunse uno nuovo, che coinvolse altri cinquantamila istriani che avevano sperato fino all’ultimo in un’inversione di rotta. L’Unione degli Istriani nacque meno di due mesi dopo la firma del trattato per volontà dei tanti nuovi esuli che arrivavano a Trieste proprio dai comuni più vicini alla città: Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Cittanova. Domenica 28 novembre 1954 presso la sede del cinema Alabarda si tenne l’assemblea costitutiva che, eletti gli organi, vide poi nominati Nicolò Martinoli, presidente, e Lino Sardos Albertini, vicepresidente. Quest’ultimo nel gennaio successivo diventò presidente della giunta esecutiva.

Si festeggia ora il sessantennale della fondazione - sotto la presidenza di Massimiliano Lacota, eletto per la prima volta nel 2005 e recentemente riconfermato -, con una cerimonia in Municipio a Trieste che vede riunite assieme tante personalità del mondo istriano. A Lacota abbiamo chiesto di fare un bilancio di quest’ultimo decennio della sua attività.

“È un bilancio non negativo per le iniziative culturali e politiche che abbiamo promosso, ma anche per le battaglie fatte, dai confronti anche accesi. La nostra posizione è nota e riguarda in particolare le incongruenze della politica italiana rispetto ai problemi sempre aperti: la mancanza dell’avvio dei rapporti bilaterali tra l’Italia, la Slovenia e la Croazia sull’indennizzo e la restituzione dei beni abbandonati, la cui mancata soluzione rende ancora una volta vittime gli istriani. In questi dieci anni non c’è stata la volontà da parte di Italia, Slovenia e Croazia, nonostante l’avvenuto processo di democratizzazione, di arrivare a ipotesi di soluzione. Da segretario generale dell’Unione degli Esuli e degli Espulsi a Bruxelles potei osservare come il governo serbo, giovane di costituzione, e quello ungherese avessero fatto una legge che riconosceva le persecuzioni a danno dei tedeschi civili; leggi di riconciliazione che prevedono peraltro un risarcimento simbolico ai familiari delle vittime. Perché Slovenia e Croazia non riescano ancora a riconoscere quello che è successo durante e dopo la Seconda guerra mondiale in Istria, a Fiume e in Dalmazia, è una domanda che mi pongo e che non trova mai risposta”.

Una parte di risarcimento c’è già stata da parte della Slovenia, si parla tanto di questi famosi novanta milioni di dollari.

“La questione è più complessa. Segretamente Italia e Jugoslavia perfezionarono nel 1983 l’accordo per il regolamento definitivo di tutte le obbligazioni reciproche derivanti dall’articolo 4 del Trattato di Osimo. Si ratificavano i confini, si sanciva la disponibilità dei beni agli aventi diritto e il risarcimento dei beni privati e demaniali. La Jugoslavia si impegnava a versare 110 milioni di dollari in 13 rate uguali annuali dal 1990 al 2002.
L’accordo era stato preso senza mai consultare le associazioni degli esuli. La Jugoslavia versò le prime due rate, poi la guerra interruppe il flusso di denaro. La Convenzione di Vienna prevede espressamente la nullità dell’accordo nel momento in cui è venuto definitivamente meno uno dei due contraenti. I contenuti di quell’accordo vanno quindi rinegoziati. Le associazioni chiedono di non confermarli a fronte di una diversa visione della questione e chiedono al Governo italiano di farsene carico.
C’è poi comunque da sottolineare che anche in un’ipotesi di conferma del vecchio accordo non c’è uguaglianza nel debito tra Slovenia e Croazia, perché si ritiene che nella parte slovena ci sia una maggior presenza di edifici. Il debito dovrebbe essere pertanto suddiviso tra Slovenia al 70 % e Croazia al 30%. La Slovenia ha deliberato unilateralmente, senza nessun accordo con l’Italia, di aprire un conto in Lussemburgo in cui verrebbero versati i soldi solamente qualora l’Italia facesse un passo in questo senso, talché su questo conto non corrono interessi. La Croazia dal canto suo non ha mai versato niente”.

Che cosa si dovrebbe comunque fare con questi soldi secondo lei? In questi ultimi mesi corre sempre più la notizia di una ipotesi di fondazione.

“Per quanto riguarda la fondazione è in gioco una piccola parte dell’intero finanziamento. Sempre troppi soldi comunque se vanno a implementare associazioni di affari e soprattutto di malaffare. I risarcimenti devono andare a quelle persone che hanno perso i loro averi. Resta il fatto comunque che l’accordo deve prendere avvio da un altro punto di partenza e azzerare le posizioni anacronistiche di Slovenia e Croazia nei confronti delle vicende degli esuli”.

Il Governo però vorrebbe chiudere celermente questa questione, anche se c’è stata la proposta della governatrice Debora Serracchiani l’altro sabato al vostro convegno di riaprire un tavolo al governo in cui trattare i problemi irrisolti degli esuli istriani.

“Restano aperti ben nove contenziosi confinari in Europa. Il Governo italiano preme perché si chiuda in qualche modo il caso e lo fa anche nei confronti delle associazioni, affinché si trovi una soluzione unitaria. Con una soluzione che veda tranquille le associazioni, il Governo prenderebbe due piccioni con una fava: chiuderebbe il contenzioso e si toglierebbe la palla al piede dei propri finanziamenti pubblici alle associazioni, che fa sempre più fatica a trovare. Ma questo rischia di soddisfare soprattutto l’appetito di certe associazioni, mentre per il futuro bisogna fare una riflessione seria”.

L’Unione degli Istriani l’ha già fatta?

“In parte sì, ma dobbiamo fare molta attenzione a quello che si propone. Non si può pensare che le associazioni portino avanti da sole il carico di tenere vivi questi argomenti. Bisogna costringere tutte le istituzioni a prendersi alcune responsabilità. Non parlo infatti di soli finanziamenti, il supporto deve essere più ampio sul territorio e non si può pensare di restare fermi al discorso del ricordo. E’ importante che si visitino i luoghi dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. E’ fondamentale far conoscere la storia ai ragazzi italiani, ai giovani delle scuole. Per fare questo è essenziale la collaborazione con le associazioni dell’Istria, le comunità italiane, l’Unione Italiana, il Centro di ricerche storiche di Rovigno. Un concorso scolastico mirato, preparato ad hoc, che porti qualche centinai di studenti ogni anno in visita sarebbe auspicabile. Un viaggio in un posto è una memoria che resta per sempre. Le associazioni potrebbero essere in questo senso una testa di ponte”.

L’IRCI, di cui si parla tanto in questi giorni, che funzione potrebbe avere nel futuro?

“Credo che un museo abbia molta importanza, si pensi che a Monaco hanno completato in questi giorni il museo dedicato ai profughi boemi e cechi; ce ne furono un milione, che per una gran parte furono ospitati proprio nella capitale bavarese. Allo stesso modo ha senso un museo a Trieste che spieghi l’esodo, non un museo della civiltà istriana, come è stato chiamato erroneamente, perché la civiltà istriana non è univoca. 
Di che istriani si parla? di quelli italiani delle città costiere? di quelli istrocroati o istrosloveni, dei cici o istroromeni?”

Si può pensare di avere ancora tanta frammentazione nel mondo dell’esodo?

“Per realizzare quello che dicevo e tant’altro occorre riunire la associazioni in un unico organismo, di eccellenza però. Un ente scientifico che faccia formazione e prepari le persone non solo per il mondo della scuola, ma anche per gli uffici turistici, per il ministero degli Esteri. E poi comunque bisogna agire anche su un altro versante, si tratta di favorire il discorso economico. Ne ha parlato anche il sen. Livio Caputo, già sottosegretario agli Esteri, nel convegno della scorsa settimana sulla necessità di investimenti economici”.

Che cosa si aspetta da qua a dieci anni?

“Un finanziamento importante, come quello che è stato, fa sì che ci siano più associazioni. Se sono vive è corretto che ci sia pluralità, anche perché rappresentano e hanno rappresentato connotazioni diverse, politiche e di territorio. Le associazioni hanno poi il ruolo e la funzione memorialistica. 
Nel momento in cui le persone che hanno fatto realmente l’esodo inevitabilmente vengono meno per questioni anagrafiche e mancano le risorse, non ha più senso tale rappresentanza. L’Unione degli Istriani ha maggior vitalità al proprio interno perché la maggior parte dei suoi soci è fatta dagli esuli della zona B, che vennero via più tardi e sono quindi un po’più giovani. 
Gli scambi culturali vanno invece affrontati con grande competenza e preparazione, vanno poste quindi le basi chiare, le strutture adeguate per poter fare un lavoro serio che coinvolga anche tutti gli attori dei territori di provenienza. C’è bisogno infatti che anche le istituzioni pubbliche dell’Istria si assumano impegni e responsabilità, che facciano insomma la loro parte”.





316 – La Voce del Popolo 04/12/14  Trieste: Museo degli Istriani, Fiumani e Dalmati completato il percorso espositivo
Museo degli Istriani, Fiumani e Dalmati completato il percorso espositivo

Scritto da Ilaria Rocchi

TRIESTE A sei anni dal completamento dei lavori di ristrutturazione del palazzo che lo ospita, sta per essere finalmente completato l’allestimento del Civico Museo della Civiltà Istriana, Fiumana e Dalmata di Trieste, nato in attuazione di quanto previsto dalla legge che ha istituito il Giorno del Ricordo, per valorizzare le peculiarità della civiltà delle terre dell’Adriatico settentrionale e orientale. Come annunciato giorni fa, tra le polemiche che hanno investito l’Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata che lo ha in gestione, si conta di inaugurarlo prossimamente.

Domani, intanto, nella sede di via Torino 8 verrà presentato alla stampa il progetto di allestimento del Museo, per la realizzazione del quale inizieranno a breve i lavori. Ne parleranno la presidente dell’IRCI, Chiara Vigini, la direttrice dei Civici Musei, nonché vicepresidente dell’IRCI, Maria Masau Dan, e Massimiliano Schiozzi, progettista dell’allestimento.


Complesso intervento di restauro

L’edificio, di proprietà comunale, era stato aperto al pubblico nel 2009 al termine di un complesso intervento di restauro realizzato dall’IRCI sotto la presidenza di Silvio Delbello, in stretta collaborazione fra lo stesso Istituto, il Comune di Trieste e la Direzione dei Civici musei, con il contributo finanziario anche dell’Unione Italiana.
“Ci sono voluti tre anni e 5 milioni di spesa per rimettere a nuovo il vecchio palazzo, costruito alla fine dell’Ottocento, che fu sede dell’Ufficio igiene e profilassi del Comune”, ricorda Silvio Delbello. Nello stabile, messo a disposizione dal Comune e ristrutturato dall’IRCI – con la progettazione dell’architetto Giorgio Berni con criteri e tecnologie d’avanguardia –, per il Museo sono disponibili circa 2.300 metri quadrati di superficie, e ospita inoltre pure la sede dell’IRCI con gli uffici, la direzione, la biblioteca, la sala convegni e la sala multimediale.


Sinergia di enti e persone

“L’on. Roberto Menia aveva inserito nella Legge 92/2004 per l’istituzione del ‘Giorno del Ricordo’ il riconoscimento del costituendo Museo e il contributo annuale di centomila euro – rileva Delbello –. Lo stesso Menia ci fece assegnare prima trecentomila e poi settecentomila euro dai fondi statali per interventi culturali. Poi la concessione da parte della Fondazione CRTrieste, grazie all’interessamento del presidente Massimo Paniccia, di un primo finanziamento di oltre trecentomila euro, seguito da un ulteriore contributo di duecentomila euro. La Federazione degli Esuli, con il presidente Codarin, dopo un primo momento di incertezza, appoggiò l’inizio dei lavori assegnando un contributo di trecentomila euro, seguito da uno di duecentomila euro. L’Unione Italiana, grazie all’interessamento del suo presidente on. Furio Radin, concesse un contributo di circa centocinquantamila euro. Mancava, comunque, la gran parte dei fondi per completare l’opera e, fortunatamente, ci venne in aiuto la nostra Regione Friuli Venezia Giulia, con due stanziamenti per complessivi due milioni e mezzo di euro, grazie al personale interessamento del presidente Riccardo Illy e di altri amici”, osserva ancora Delbello, rilevando come l’iniziativa del museo nasca contestualmente all’IRCI, al quale l’atto costitutivo (Art. 5 della Legge Regionale 62/1983) assegna il compito della “conservazione e della valorizzazione del patrimonio storico e culturale e delle tradizioni delle popolazioni istriane”.


Un polo di attrazione

“Va anche ricordato l’obbligo morale che il Comune di Trieste e l’IRCI hanno, non solo nei confronti della città di Trieste ma di tutti gli esuli e anche nei confronti di chi ha reso possibile il reperimento di oltre cinque milioni di euro per la ristrutturazione del palazzo. Il nome del Museo già ne indica lo scopo: quello di illustrare vita, società e cultura delle terre che siamo stati costretti ad abbandonare con l’esodo e per valorizzare la civiltà istriana fiumana e dalmata pure in tempi precedenti i tragici avvenimenti che hanno sconvolto le nostre terre dopo la Seconda guerra mondiale. Deve dunque diventare il riferimento culturale non solo per gli esuli di Trieste e della nostra Regione, ma per tutti quanti in Italia ed in altre parti del mondo guardano alla nostra città quale ‘capitale dell’esodo’. Può rappresentare – conclude l’attuale presidente della Famiglia Umaghese, già presidente dell’IRCI, dell’Unione degli Istriani e dell’Università Popolare di Trieste –, assieme alla mostra permanente nell’ex campo profughi di Padriciano, un polo di attrazione turistico-culturale per Trieste”.


Gli autori del progetto

E veniamo all’allestimento, il cui percorso è stato elaborato in seno alla Commissione per il Museo della Civiltà Istriana, Fiumana e Dalmata. I lavori sono incominciati all’inizio dell’anno 2014, con una prima fase la predisposizione dell’inventario del patrimonio dell’IRCI, alla quale ha fatto seguito una seconda fase, la vera e propria progettazione dell’allestimento della sede di via Torino. 
La Commissione per il Museo della Civiltà Istriana, Fiumana e Dalmata è composta, come da Convenzione tra l’IRCI e il Comune di Trieste, da tre membri dell’IRCI (la presidente Chiara Vigini, il segretario Raoul Pupo e direttore Piero Delbello) e tre membri designati dal Comune di Trieste (Maria Masau Dan, nella duplice veste di direttore dei Civici Musei di Trieste e di vicepresidente dell’IRCI, Francesco Fait e Marzia Vidulli Torlo).
L’incarico di progettare l’allestimento è stato affidato a Massimiliano Schiozzi, che si è avvalso della collaborazione di un gruppo di lavoro composto dallo storico Roberto Spazzali e dalle collaboratrici scientifiche Anna Krekic, Karen Drioli e Serena Paganini.

Finalità e caratteristiche

“Il progetto è basato su un’approfondita analisi del patrimonio di oggetti, opere d’arte e documenti messi a disposizione dall’IRCI e conservati nelle sue diverse sedi, tra cui il Magazzino 18, e tiene conto anche dell’intensa attività di ricerca promossa dall’IRCI e da altre associazioni e istituzioni culturali sulla storia, sull’arte e sulle tradizioni istriane e dalmate, documentata in numerose mostre e pubblicazioni degli ultimi trent’anni”, si legge nel comunicato che accompagna l’invito all’appuntamento per la stampa.


Rappresentare il dramma dell’esodo

Si è, dunque, operato con l’intento di “rappresentare nel modo più ampio e approfondito i caratteri originali della civiltà istriana e dalmata dall’antichità ad oggi, con particolare attenzione al dramma dell’esodo”, al contempo conservando, studiando e valorizzando il patrimonio di oggetti e memorie raccolto dall’IRCI in tutti questi anni.
L’obiettivo è stato quello di costruire un percorso espositivo efficace dal punto di vista della comunicazione, comprensibile sia dal pubblico che fa parte della comunità istriana e dalmata, sia da chi vi si accosta senza conoscere questo mondo e, non meno importante, inserire il nascente museo nel sistema museale triestino, nel quale non è presente una sezione dedicata specificamente all’Istria e alla Dalmazia. La struttura avrà un carattere fortemente evocativo nella ricostruzione di ambienti e situazioni tridimensionali (ad esempio la cucina). Dal punto di vista scientifico, in stretta collaborazione con l’IRCI, sarà un punto di riferimento imprescindibile per gli studi e le ricerche sulla cultura istriana, fiumana e dalmata, mentre da un punto di vista turistico potrà essere un polo attraente per chi vorrà ampliare le conoscenze su questa parte del mondo e avvicinarsi alla sua ricchezza storica, culturale, etnografica e naturalistica.


Uno spazio anche per i rimasti

Al pianoterra resteranno la sala conferenze “Arturo Vigini” e lo spazio adibito a mostre temporanee, nonché una tipica cucina istriana, dove, oltre al riallestimento di una cappa e un fogolèr originali e alcuni oggetti e utensili (tutto dal Magazzino 18), sarà predisposta una parete dedicata alle tradizioni alimentari, come esempio di conservazione e trasmissione della memoria e dell’identità. 
Verranno realizzati pannelli di testo monografici e video esplicativi sul “ricettario” della tradizione (pane, jota, fusi, brodetto, strùcolo, ecc.).
Al secondo piano verrà offerta al visitatore la storia del territorio e la ricostruzione del “ciclo della vita” dei suoi abitanti (“Le acque”, “La terra”, “L’industria e il commercio”, “La scuola e l’educazione”). 
Al terzo piano saranno protagonisti la cultura, alcuni personaggi chiave del ’900 istriano, per arrivare alla rottura della metà del secolo scorso, al capitolo delle foibe, dell’esodo, del mondo degli esuli... Al quarto piano, infine, in una sala denominata “Istriani” tre tavoli multimediali racconteranno gli Istriani dell’esodo illustri (Mario Andretti, Laura Antonelli, Sergio Endrigo, Ottavio Missoni, ecc.), gli Italiani in Istria oggi – non a caso si è voluta “documentare l’Istria storica e l’Istria scomparsa, ma anche l’Istria attuale, con le sue ricchezze paesaggistiche e culturali – e gli istriani e Trieste. Infine, in una saletta del sottotetto si riallestirà la sala monografica dedicata a Pier Antonio Quarantotti Gambini.
Ora non ci resta che attendere il giorno in cui il Museo, finalmente terminato, aprirà i suoi battenti.

Ilaria Rocchi




317 - La Voce del Popolo 05/12/14 Capodistria, il Leone Marciano tornerà a casa?

Capodistria, il Leone Marciano tornerà a casa?

Scritto da Jana Belcijan

CAPODISTRIA Non si è riusciti a chiarire per mano di chi e in quale anno il Leone Marciano in pietra d’Istria, che si trovava sulla facciata dell’Armeria (Monte di Pietà), sia stato portato via da Capodistria, approdando al Castello di Tersatto a Fiume. Nonostante ciò, la tavola rotonda “Il Leone Marciano dell’Armeria. Da Capodistria a Tersatto”, organizzata mercoledì sera dalla Società umanistica “Histria” in collaborazione con la Comunità degli Italiani “Santorio Santorio”, ha proposto alcuni interessanti spunti e ricostruzioni, illustrati nella gremita sala di Palazzo Gravisi dai quattro relatori, coordinati da Edvilijo Gardina, esperto di storia dell’arte e curatore presso il Museo regionale capodistriano. 


Approcci diversi

Come riportato nell’articolo del 1° dicembre 1876, apparso nel giornale “La Provincia dell’Istria”, anche all’evento di ieri l’altro è stato ribadito che il prezioso pezzo d’arte merita di venir riposizionato in modo più consono a Fiume oppure di ritornare nella sua città d’origine. Il tema è stato quindi affrontato partendo da approcci diversi, in base all’area di specializzazione di ciascuno degli storici convenuti. Tra i presenti, Alberto Rizzi, storico dell’arte, massimo esperto di Leoni marciani sui quali ha pubblicato diversi volumi tra cui quello relativo al Leone di San Marco in Istria. “Un Leone, questo, che mi è particolarmente caro”, ha introdotto lo studioso di Venezia, evidenziandone la grinta e la ferocia, ricordando come questo dovrebbe personificare lo stato della Repubblica. In base alla sua esperienza, si tratta di una scultura di fattura istriana, in cui si evidenzia la potenza corporea che indica il Dominio (nelle terre sotto la Serenissima). Importante comunque, che quest’opera si sia salvata, al contrario di altre disseminate in Dalmazia, spesso distrutte. “Nessuna regione dell’antico dominio veneziano conserva intatti tanti Leoni come l’Istria”, anche per questo Rizzi ha appoggiato la proposta di realizzazione del calco del Leone capodistriano, al fine di ristabilirne almeno la copia nella piazza cittadina. 


Modalità di trasferimento dell’opera

L’intervento della filologa ed archeologa viennese, studiosa di storia dell’archeologia e della tutela dei beni culturali in particolare del patrimonio artistico istriano negli archivi viennesi, Brigitta Mader, ha fatto luce su alcune delle ragioni e delle modalità di trasferimento dell’opera. All’epoca, inizi e prima metà del sec. XIX, Steffaneo di Carnea, Commissario aulico plenipotenziario per l’Istria, la Dalmazia e l’Albania, incaricato da Francesco II, Imperatore del Sacro Romano Impero, registrava e indirizzava molti pezzi d’arte e reperti archeologici alla corte di Vienna. Fu poi il generale Laval Nugent, acquistato il rudere di Tersatto, a volervi instaurare un mausoleo per la propria famiglia e anche un museo dove esporre le numerose creazioni di cui si appropriò. Su questo punto mancano però date e percorsi esatti del Leone di Capodistria, tanto che Matteo Gardonio, storico dell’arte di Pordenone, esperto di neoclassicismo, in particolare della figura del Nugent collezionista di antichità e del suo scultore Paronuzzi (sulla cui opera ha anche scritto una monografia), ha concluso che la scultura non sarebbe giunta a Tersatto prima della fine del 1838. Figura, infatti, per la prima volta in un inventario del possedimento in data 28 aprile 1839, mentre analizzando pitture, litografie e altri elenchi, non lo si individua nemmeno nel 1837. 


La «camera delle meraviglie»

Il fiumano Nenad Labus, conservatore e documentarista, coautore presso la Soprintendenza di Fiume del progetto di risistemazione del Museum Nugent e del Castello di Tersatto, ha rilevato che il rudere non è stato ristrutturato dal generale, bensì completamente ricostruito a nuovo, dando vita a un tempio greco all’interno di un castello medievale. Secondo Labus, la volontà di Nugent era semplicemente quella di possedere una collezione di opere quanto più fantastica, al fine di creare una “camera delle meraviglie”. Per quanto riguarda il riposizionamento del Leone sul parapetto del mausoleo personale (punto in cui originariamente sorgeva l’ingresso alle prigioni), l’esperto ha spiegato che sono necessari alcuni sondaggi della struttura (che oramai richiede diversi interventi di manutenzione), per assicurarne la stabilità alla portata dell’oltre tonnellata di peso che ha la scultura. 
Risultati inattesi

Marijan Bradanović, storico dell’arte, professore all’Università di Fiume, che in veste di conservatore si è spesso interessato della valorizzazione del Leone a Tersatto, ha infine rilevato come gli interventi e la modalità operazionale di Nugent siano stati quasi precursori di quello che di lì a poco intraprese a realizzare parte dell’élite europea, con i loro rifacimenti romantici di ruderi di epoche precedenti. 
“Un incontro che ha dato alcuni risultati inattesi”, ha concluso Gardina, anticipando che s’intende inserire in una pubblicazione tematica gli interventi esposti in serata. L’incontro di mercoledì si è svolto nell’ambito del programma di “Questa gioiosa giornata della cultura” promossa dal ministero della Cultura sloveno.



318 - La Voce del Popolo 02/12/14 - Cultura - Lingue in via d’estinzione in Croazia ce ne sono tre

Lingue in via d’estinzione in Croazia ce ne sono tre

Scritto da krb

Di un totale di 24 lingue europee a rischio di estinzione, tre vengono parlate sul territorio croato. A lanciare l’allarme è stato il quotidiano britannico “Telegraph”. Il 13.esimo posto sulla scaletta è occupato dalla lingua istrorumena, appartenente al gruppo delle lingue romanze. Questa lingua conta 300 parlanti nativi e viene parlata in alcune località nel nord dell’Istria, per la maggior parte nella zona ai piedi del Monte Maggiore e nella Cicceria, a Seiane e Valdarsa (Susgnevizza).

Al 16.esimo posto la lingua istriota, con 400 parlanti, pure del gruppo di lingue romanze (lingue italo-occidentali), parlata nella zona occidentale della penisola istriana. Una delle lingue in maggior pericolo di estinzione è il livonian, parlato sull’omonima isola di Lettonia. L’anno scorso è morto l’ultimo parlante nativo di questa lingua, Grizelda Kristina, che era considerata l’ultima persona vivente cresciuta parlandolo. Viene usato oggi come lingua secondaria da una cinquantina di persone.


Gli idiomi istriani seriamente in pericolo

Il rischio d’estinzione del valacco e del seianese è simile alle altre parlate autoctone dell’Istria, come l’istrioto, che comprende le parlate romanze autoctone di Rovigno, Valle, Dignano, Fasana, Gallesano e Sissano. Infatti, l’istrioto e l’istrorumeno sono entrati nell’Atlante delle lingue in pericolo di estinzione redatto dall’UNESCO, nella categoria “seriamente in pericolo”, che indica quegli idiomi usati dagli anziani e dai nonni e che i genitori capiscono ma non usano nella comunicazione quotidiana e con i bambini. La differenza maggiore tra i due è che l’istrioto ha sicuramente una maggiore testimonianza scritta, mentre l’istrorumeno è una lingua prettamente orale. 
Zvjezdana Vrzić e John Victor Singler, docenti del Dipartimento di linguistica della prestigiosa New York University, stanno collaborando a un progetto per la preservazione dell’idioma autoctono dei valacchi d’Istria e dei seianesi.


La situazione linguistica in Italia

In Italia, una delle lingue in via d’estinzione, parlata in alcuni sobborghi di Trento, è il cimbro, un idioma parlato anche in alcune comunità del Veneto. Tutelato dalla provincia di Trento, il cimbro è una lingua che conta sempre meno parlanti e che rischia di scomparire, come molte altre lingue minori parlate sul territorio italiano e nel mondo. Proprio l’Italia è considerata dai linguisti e dagli studiosi uno dei Paesi europei con la maggiore diversità (e dunque ricchezza) linguistica: oltre all’italiano si contano una dozzina di lingue minoritarie parlate in tutto da 4 milioni di persone. Il sardo, il friulano, il ladino sono le più note, ma in Italia nelle zone di confine si parlano anche lo sloveno, l’occitano o provenzale, il patois. Ci sono poi in Molise piccole comunità che parlano il croato, mentre in certe zone della Calabria si parla una variante dell’albanese e in Puglia alcuni dialetti discendono direttamente dal greco.


Nel giro di una generazione

Una lingua in pericolo è una lingua di cui sopravvivono così pochi locutori che essa corre il rischio di non essere più utilizzata nel giro di una generazione. Ad esempio, molte lingue native americane negli Usa si sono estinte a causa di politiche del XIX e della prima metà del XX secolo quando se ne scoraggiava o vietava l’uso. Lo stesso è accaduto nel XX secolo in Unione Sovietica, per lo più nelle lingue di popolazioni nomadi. Una lingua morta (o estinta) è una lingua che non ha locutori nativi. Alcuni linguisti sostengono che almeno 3000 delle 6000-7000 lingue del mondo si perderanno prima del 2100. (krb)






319 – La Voce del Popolo 06/12/14 E & R : Ricordi di Bruno Tardivelli : Fiume: Quando veniva San Nicolò!
Quando veniva San Nicolò!

Scritto da Bruno Tardivelli

Mi è rimasta impressa nella memoria una cantilena che, all’avvicinarsi del 6 dicembre, certi monelli usavano intonare per la strada e a noi era proibita.
“San Nicolò de Baaari, xe festa dei scolaaari, se non ne vien la feeesta ghe demo per la teeesta!”
Se tentavamo di imitarli, venivamo severamente redarguiti dalla mamma e dalla zia Francesca:
“Guai se ti canti ancora ste robe dei mulazi de strada, ti ciapi una papina e San Nicolò non te portarà un bel gnente. Ghe contarò anche al Padre Andrea cossa ti bamboli stupidade, cussì el te meterà in ginocio per penitenza!”
Padre Andrea era il frate cappuccino che ci insegnava la Dottrina all’Oratorio e pretendeva che la apprendessimo a memoria. Sono ricordi lontani, di quando ero bambino, all’inizio degli Anni ‘30. Il nostro San Nicolò non era come il bonario e ridanciano Babbo Natale, di questi tempi, panciuto e consumistico. Era ben altro, più serio e poi era un vero Santo! Appariva vestito da Vescovo, col piviale, la mitria e il pastorale.

A Fiume si faceva vedere, con le prime luci della sera, in Piazza Regina Elena, o Piazza Elisabetta - come la chiamava mia madre - dietro la vetrina del Moskowitz, un negozio di chincaglierie e giocattoli, ubicato in una casa a tre piani che venne poi demolita per fare posto al grattacielo. Io, intirizzito dal freddo andavo a vedere il San Nicolò accompagnato dalla mamma o dalla zia Francesca: i miei fratelli restavano a casa, erano troppo piccoli. C’era, davanti al negozio un gran assembramento di mularia chiassosa e litigiosa, in ansiosa attesa, le sere prima del 6 dicembre.

San Nicolò spuntava da dietro una renda rossa in una vetrina su cui era allestita una pedana alta più di un metro, per mettersi bene in mostra. Aveva una gran barba bianca e l’aria sorniona. Trascinava un diavoletto nero, peloso e con la coda, legato a una catena, come i cani feroci, che faceva sberleffi agli astanti fino a quando San Nicolò non gli dava una legnata. Allora si accucciava in un cantuccio. Quindi il Santo si metteva all’opera sollevando con solennità, lentamente, con fare misterioso, uno dei tanti giocattoli vistosi e costosi che gli erano ammucchiati intorno.

Tutta la mularia, io compreso, iniziavamo a gridare: “A mi, a mi!“ sollevando le braccia e facendo i salti per farsi notare ed essere il prescelto.

San Nicolò metteva bene in mostra il giocattolo, in modo che se ne scorgessero i particolari: erano un trenino lucente con i vagoncini multicolori; un cavalluccio a dondolo di cartapesta, sul quale si poteva cavalcare; un monopattino di legno con le ruote rosse; lucenti pattini a rotelle, e per le femminucce, un bambolotto col “ciuciolo” che apriva e chiudeva gli occhi; una bambola bionda grande come una bambina, con le trecce e il vestito lungo di organza celeste; un passeggino per la bambola; un vestito da fata. Tutta quell’infanzia infreddolita, figli di gente modesta e povera, che mai si sarebbe potuta permettere simili balocchi, andava in visibilio e noi fanciulli, per poco tempo potevamo sognare ad occhi aperti.



320 - Il Piccolo 29/11/14 Lettere - Storia -  La mozione sulla liberazione
Storia - La mozione sulla liberazione 

Volevo rispondere alla segnalazione del signor Klaudij Cibic  riguardo la mozione del consiglio comunale di Trieste che indica come giorno della Liberazione il 12 giugno 1945, giorno in cui i titini abbandonarono la città; i titini non ci liberarono il primo maggio ’45 dall’occupazione tedesca perché già il 30 aprile la città era in mano dei triestini del Cln formato da forze essenzialmente anti-comuniste, liberazione avvenuta sia per la fuga dei tedeschi ma anche con qualche scontro e qualche morto mentre i comunisti aspettavano con le armi in pugno nascosti l’arrivo dei titini avvenuto il giorno seguente; il 1.o maggio i tedeschi o avevano sgomberato la città oppure erano asseragliati in tribunale e nel castello, in attesa di arrendersi ai neozelandesi come poi avvenne puntualmente; detto questo, i crimini dei tedeschi non giustificano quelli dei titini ai quali essi si dedicarono unicamente in quei 43 giorni da incubo, con tanto di volontà annessionistica fino almeno al Tagliamento e relativa pianificazione di pulizia etnica come confessato dal Gilas se non sbaglio nel 1954, in cui disse: «Nel 1945 io e Kardelj fummo mandati da Tito in Istria a organizzare la propaganda antitaliana. Si trattava di dimostrare alle autorità alleate che quelle terre erano jugoslave e non italiane. Certo che non era vero. O meglio lo era solo in parte, perché in realtà gli italiani erano la maggioranza nei centri abitati, anche se non nei villaggi. Ma bisognava indurre tutti gli italiani ad andar via con pressioni di ogni tipo. E così fu fatto». 

Antonino Martelli presidente Associazione Trieste Pro Patria


Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia





MAILING LIST HISTRIA
RASSEGNA STAMPA

a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri

N. 924 – 29 Novembre 2014
    
Sommario


305 – Avvenire 28/11/14 Milano - Teatro. I bambini di Cristicchi ci svelano la verità sulle foibe (Lucia Bellaspiga)
306 - Il Gazzettino 23/11/14 Beni degli esuli: si riapre il tavolo (Maurizio Balt)
307 – La Voce del Popolo 25/11/14 - L’eccellenza nel mondo parla anche l’italiano (Rosanna Turcinovich Giuricin)
308 - La Voce del Popolo 27/11/14 Un atto terroristico che cambiò Pola (Gianfranco Miksa)
309 – L’Arena di Pola 20/11/14 Pola: ripristinata la targa del dottor Micheletti (Paolo Radivo)
310 – La Repubblica 24/11/14 L'Istria scarica Galan (Alessandra Longo)
311 – La Gazzetta del Mezzogiorno 18/11/14 Prima Guerra Mondiale. Il lager di Wagna (Stiria) (Giuseppe Dicuonzo)
312 - La Voce del Popolo 22/11/14 Emozioni e ricordi riascoltando Endrigo (Kristina Blecich)





Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arenadipola.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.adriaticounisce.it/


305 – Avvenire 28/11/14 Milano -  Teatro. I bambini di Cristicchi ci svelano la verità sulle foibe

Teatro. I bambini di Cristicchi ci svelano la verità sulle foibe

Lucia Bellaspiga

La bimba sul palcoscenico, esile e minuta, improvvisamente di­venta un fascio di nervi. Allo scoppio delle mine, il viso è con­tratto in un urlo muto che è più gran­de di lei, poi precipita a terra morta. Il pubblico del Carcano trattiene il fiato, Simone Cristicchi raccoglie quel pic­colo corpo e racconta: «Era l’agosto del 1946, sulla spiaggia di Pola, a Vergarolla, avveniva la strage più sanguinosa della storia d’Italia in tempo di pa­ce...». È finalmente approdato anche a Milano il “musical civile” Magazzi­no 18 scritto, recitato e cantato dal “cantattore” Simone Cristicchi, non nuovo a imprese del genere (ha rac­contato in passato la malattia men­tale o la guerra), ma questa volta en­trato con coraggio nel tema più sco­modo e censurato della nostra sto­ria: l’esodo dei giuliano-dalmati e la tragedia delle foibe.

Il tour, partito un anno fa dal Teatro Rossetti di Trieste, la città che ospita il numero maggiore di esuli dall’Istria e dalla Dalmazia ma dove le ferite sono ancora aperte e resistono frange di ne- gazionismo, nel giro di pochi mesi è letteralmente “esploso” e gli inviti an­ziché scemare sono raddoppiati: nel­la stagione 2014/2015 lo spettacolo an­drà in almeno cento teatri d’Italia, ma il calendario è continuamente in fieri. Ovunque il tutto esaurito - anche ieri sera, con ovazione finale -, persino quando si replica: «Solo a Trieste l’an­no scorso sono venute 10 mila perso­ne e quest’anno, che siamo tornati con meno serate, ne abbiamo avute 7mila», sorride Cristicchi alla fine dello spettacolo, intrattenendosi come al suo solito con loro, i protagonisti veri della Storia, quegli esuli da Pola, Fiu­me, Zara il cui dramma, prima di Cri­sticchi, era naufragato nel silenzio qua­si totale. «Tutto esaurito anche a Rovigno, a Fiume, a Buie, Pirano, Pola...», racconta soddisfatto, e questa è lapar- te meno scontata di un percorso già di per sé unico, perché raccontare di Vergarolla, di foibe e di esodo in Croazia e Slovenia era operazione fino ad og­gi impossibile.

Ma c’è un altro aspetto che è inedito, ed è il fatto che i passaggi più dram­matici sono affidati a un coro di bam­bini: «È stata uriidea geniale del regi­sta Antonio Calenda- sottolinea Cri­sticchi -. All’inizio ero preoccupato perché oggi i piccoli sono spesso mer­cificati, invece quando ho visti i bam­bini dello StartsLab di Trieste inter­pretare i miei brani sono rimasto ful­minato. Alleggeriscono i contenuti semplicemente con la loro presenza scenicae d’altraparte nel finale, quan­do canto quel “non dimentighemo!”, rappresentano i depositari della futu­ra memoria».

Ma i 35 bambini di Trieste non avreb­bero potuto girare l’Italia e il mondo, hanno dai 6 agli 11 anni e vanno a scuola, così Cristicchi per le parti del coro utilizzava le loro registrazioni... fi­no a quando Magazzino 18 non ha preso a crescere “dal basso”, con sempre più cori locali di bambini che quando spettacolo sta per arrivare in città offrono la loro competenza. Un feno­meno probabilmente unico. Al Carca­no di Milano cantano i “Mitici Angio­letti”, un coro di Bergamo che si è già esibito a Verona e Pavia e ora replicherà a Gallarate e Brugherio, a Bologna ci sa­ranno i bambini dell’Antoniano con orchestra dal vivo, e altri cori si sono già offerti a Locarno, Biella, Montecarlo.
Teatro Rossetti di Trieste fornisce vi­deo e basi audio e loro arrivano pre­paratissimi, senza quasi bisogno di prove. Proprio ai bambini sono affida­ti ad esempio il canto sulle foibe Dentro la buca noi siamo la classe ope­raia, il dramma degli operai di Monfalcone attratti nel dopoguerra dal mi­to del maresciallo comunista Tito e in realtà da lui deportati nel gulag jugo­slavo di Goli Otok. «È ogni volta stu­pefacente come i piccoli siano consa­pevoli. Sanno affrontare temi tanto du­ri con purezza, senza pregiudizi».

Milano, Teatro Carcano
MAGAZZINO 18
Fino al 7 dicembre


306 - Il Gazzettino 23/11/14 Beni degli esuli: si riapre il tavolo

Beni degli esuli: si riapre il tavolo

Debora Serracchiani ha chiesto al governo di riesaminare le questioni ancora aperte

Maurizio Balt

NOSTRO INVIATO

TRIESTE - Si riapre la partita dei beni abbandonati nelle terre perdute d`Istria, Quarnero e Dalmazia. Debora Serracchiani, presidente della Regione Friuli Venezia Giulia ma anche vicesegretario nazionale del Pd, annuncia che Trieste ha chiesto ufficialmente alla Presidenza del Consiglio dei ministri la riapertura a Palazzo Chigi del Tavolo di coordinamento governativo con le associazioni degli esuli e dei loro eredi.
Ciò significa che saranno riesaminate le molte questioni ancora aperte, a cominciare da quella dei beni abbandonati.
Un occasione speciale: un convegno promosso al Palazzo del Lloyd nel 60. anniversario dalla fondazione dell`Unione degli istriani per fare il punto fra quanto avvenne dal Memorandum di Londra (1954), che formalizzò il passaggio alla Jugoslavia di gran parte della Venezia Giulia e del Litorale, fino all`allargamento dell`Unione europea. Serracchiani ha detto che «a fianco delle associazioni sempre di più le istituzioni devono farsi carico di perseguire la memoria storica dell`Esodo, per garantire che lo spirito della legge istitutiva del Giorno del Ricordo non si affievolisca e si spenga con il
succedersi delle generazioni».
Senza ricorrere a giri di parole che un tempo sarebberostati obbligati dalle convenienze diplomatiche, Serracchiani ha anche parlato del «lungo elenco dei silenzi e delle omissioni dei Governi succedutisi nei decenni, consumati proprio ai danni di coloro sui quali ricadde più duramente la colpa di aver perso una guerra sciagurata».
All`evento triestino dí ieri sono giunti anche i messaggi del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e quello del Senato, Pietro Grasso. Il Capo dello Stato ha auspicato che le celebrazioni si dimostrino «occasione per rinnovare la memoria di uno dei periodi più bui della nostra storia, nonché momento di riflessione sui traguardi raggiunti dal nostro Paese nel superamento di un tragico passato che ha lasciato aperte, per lungo tempo, ferite profonde».
Mentre la caduta dei Muri del Novecento favorisce l`integrazione sovra-nazionale e una migliore accettazione del ricordo in un presente migliore, il conto degli indennizzi agli Esuli resta in larga misura insoluto. Un conto che in ogni caso non restituirebbe alle coscienze se non pochi quattrini e che in base al Trattato di Osimo del 1975 andrebbe onorato dallo Stato italiano.


307 – La Voce del Popolo 25/11/14 - L’eccellenza nel mondo parla anche l’italiano

L’eccellenza nel mondo parla anche l’italiano
 
Scritto da Rosanna Turcinovich Giuricin

I giuliano-dalmati nel mondo continuano a mietere successi. Il prof. Konrad Eisenbichler, durante una cerimonia a Quebec City, è stato accolto nella prestigiosa Società Reale del Canada (Canada Royal Society). Strutturata in tre diverse accademie, delle lettere e delle arti, delle scienze sociali e delle scienze mediche e dell’ambiente, nasce alla fine dell’Ottocento con lo scopo di coinvolgere l’eccellenza del Paese nel processo di crescita e sviluppo dello stesso. Le migliori menti messe a contatto nella possibilità di collaborare a progetti condivisi. Ne fanno parte docenti universitari, ricercatori, scienziati che vengono nominati, per meriti speciali, dai membri già attivi nella Società. Importante anche il coinvolgimento delle strutture universitarie che supportano le varie iniziative, oltre che sponsorizzando gli incontri annuali.

Tre italiani

Nei giorni scorsi uno di questi appuntamenti, con la partecipazione di centinaia di studiosi, soci e nuovi membri, si è svolto a Quebec City, capitale della provincia omonima, francofona. Giornate intense, contraddistinte dal rinnovo degli impegni nei confronti della società civile, fine ultimo dell’attività dell’associazione che ha sede a Ottawa ma si “muove” in tutto il Paese. Uno dei momenti più attesi, l’investitura dei nuovi membri, circa una novantina tra cui anche tre italiani, due dei quali cittadini canadesi e uno proveniente da Padova. Si tratta del dott. Tullio Pozzan, accolto come membro “dall’estero”, direttore del centro di ricerche CNR, premiato per gli alti risultati del suo lavoro scientifico. Già membro di altre accademie a livello internazionale, in particolare degli USA, Svizzera e Francia. Professore di patologia, ha lavorato con premi Nobel e con le migliori menti a livello internazionale nella ricerca sui recettori molecolari, alla base di molte cure. E sempre nel campo delle scienze, è stato insignito dell’alto riconoscimento il dott. Federico Rosei, che fa parte del gruppo degli scienziati italiani che operano in Canada, dove risiede da una quindicina d’anni. Rosei ha fornito un contributo fondamentale allo sviluppo delle nanotecnologie e loro applicazioni nel campo dei semiconduttori, alla creazione di nuovi materiali e loro impiego pratico, ma si dedica attivamente anche alla formazione di giovani talenti sin dal 2003.

Impegno a favore del Paese

Il terzo nuovo membro italiano della prestigiosa società canadese è il corregionale, lussignano, prof. Konrad Eisenbichler, dell’università di Toronto, dove insegna letteratura del Rinascimento italiano nei corsi post laurea, ovvero di Phd della struttura universitaria nord americana. Non si tratta solo di un riconoscimento al suo lavoro, di un nuovo impegno a favore del Paese attraverso i suoi studi e pubblicazioni, ma anche a livello sociale e civile, in quanto educatore e formatore di nuovi talenti di una realtà in continuo sviluppo. Uno dei suoi meriti, l’aver aperto, da pioniere, nuovi aspetti nella ricerca sul Rinascimento italiano nel mondo anglo-americano, attraverso lo studio del ruolo delle confraternite, ma anche negli studi su genere/sesso e sulla donna. Le sue scoperte negli archivi italiani, pubblicate in libri di successo, gli sono valsi numerosi premi, mentre i numerosi articoli scientifici hanno permesso di far conoscere il nuovo approccio all’interpretazione del Rinascimento ispirando così gli studiosi in tutte le discipline umanistiche.

Rispetto della diversità

Tra i premiati anche il prof. Nicholas Terpstra, che all’Università di Toronto si occupa di storia rinascimentale italiana e partecipa alla formazione dei giovani nei corsi che si svolgono a Firenze e a Siena. Storico di fama internazionale, esplora il modo in cui interagiscono la società civile e il capitale umano nel Rinascimento italiano. Ciò che va esplorando sono i meccanismi che hanno prodotto fenomeni di degrado come la massa di orfani, i rifugiati per cause religiose e la schiacciante povertà. La sua opera interdisciplinare ha permesso di disegnare una mappa socio-geografica della popolazione del cinquecento a Firenze attraverso il censimento dei nuclei familiari.
La cerimonia e tutte le attività della società si svolgono nelle due lingue ufficiali inglese e francese in un bilinguismo avanzato dove non c’è il bisogno della traduzione ma il rispetto della diversità si manifesta nell’uso dei due registri linguistici in alternanza per esprimere i diversi concetti. Il risultato è un’armoniosa manifestazione di alti valori culturali in due lingue di vasta diffusione nel mondo, chiaramente una ricchezza nella spontaneità ed estrema naturalezza dello svolgimento.

Conferma per l’FVG

Il premio al prof. Eisenbichler rappresenta per l’FVG un’ulteriore conferma dell’importanza dell’eccellenza regionale nel mondo. Solo pochi mesi fa durante una cerimonia presso il Consiglio regionale il prof. Eisenbichler con altri corregionali nominati dall’Associazione Giuliani nel Mondo era stato premiato per la sua attività che contribuisce a far conoscere l’FVG e l’Italia su scala internazionale.


308 - La Voce del Popolo 27/11/14 Un atto terroristico che cambiò Pola

Un atto terroristico che cambiò Pola

Scritto da Gianfranco Miksa

TRIESTE Sono stati tanti gli argomenti sulla storia e cultura della nostra realtà comunitaria trattati nell’ottobre scorso all’VIII edizione de “La Bancarella – Salone del Libro dell’Adriatico orientale” di Trieste, rassegna ideata, diretta e coordinata dal Centro di Documentazione multimediale della cultura giuliana, istriana, fiumana e dalmata e co-organizzata dall’Università Popolare di Trieste.

Un documentario su Vergarolla

Tra questi un particolare interesse ha suscitato l’incontro tra il giornalista Paolo Radivo, Direttore de “L’Arena di Pola”, e Lino Vivoda, consigliere benemerito dell’A.N.V.G.D. Nazionale e cofondatore del Libero Comune di Pola in esilio, i quali hanno discusso con Domenico Guzzo, componente della sezione eventi cinematografici e culturali dell’Istituto di Cultura Italiano di Marsiglia, l’ipotesi per la realizzazione di un documentario sulla strage di Vergarolla. Il documentario, per la cui realizzazione si attende lo sblocco di una questione finanziaria, dovrebbe iniziare a metà 2015, con una distribuzione per la fine dell’anno. Nonostante il progetto sia ancora lontano dalla sua realizzazione, abbiamo voluto parlarne con uno degli autori, ovvero con Domenico Guzzo.

Una strage dimenticata e rimossa

“L’idea di un documentario dedicato alla strage di Vergarolla nasce da una combinazione di fattori – esordisce Domenico Guzzo alla domanda sulla genesi del progetto –. In primis, il felice sodalizio che come storico del Novecento italiano ho instaurato con il valente regista indipendente Alessandro Quadretti e con il quale lavoro da tempo sulle cosiddette stragi dimenticate del dopoguerra italiano. Dopo la realizzazione del documentario del 2011, sull’attentato al treno Italicus avvenuto il 4 agosto 1974, che ha contemporaneamente tenuto a battesimo la nascita della casa di produzione audio-visiva ‘Officinemedia’, abbiamo deciso di affrontare la tragedia di Vergarolla con i suoi innumerevoli morti. Una strage poco ricordata e studiata, addirittura rimossa dal discorso pubblico per oltre un quarantennio. La scelta di Vergarolla trae origine dalla gravità del dramma, ma anche dalla sua collocazione temporale, 18 agosto 1946, che costituisce l’anello di congiunzione tra la fine del conflitto mondiale e l’avvio della guerra fredda, in un limbo che precedette perfino la nascita effettiva della Repubblica in Italia. Una strage che ha inaugurato quella scia di tensione che ha costantemente influenzato lo sviluppo delle dinamiche socio-politiche italiane lungo tutta la seconda metà del Novecento. Infine, ma non certo per ordine d’importanza, ha pesato sulla scelta una dimensione biografica: il regista Alessandro Quadretti è figlio di un esule polese e nipote di un ufficiale di marina, vittima dei massacri delle foibe. Per noi e per ‘Officinemedia’, immergersi nuovamente nella strage di Vergarolla denota una volontà d’impegno civile e di divulgazione sociale assolutamente ineludibile, vista anche la mancata giustizia che ha contraddistinto la valutazione di quel tragico evento”.

Una ricostruzione storiografica

“Il documentario sarà un lungometraggio basato su una solida ricostruzione storiografica, ma arricchito da una capillare elaborazione artistica – ci ha spiegato Domenico Guzzo –. Sarà composto pertanto da uno scheletro d’interviste, corredato da inserti di fiction in super-8 (pellicola che permette di recuperare il clima e la pasta fotografica dell’epoca) volti a ricreare situazioni e ambientazioni coeve, da materiali di repertorio filmico e iconografico, da performances artistiche spazianti dalla musica al cinema d’autore. Il documentario si affaccerà su un intervallo storico che va dal contesto generale della situazione giuliano-istriano-dalmata nell’immediato dopoguerra sino al processo di reintegro sociale e geografico degli esuli negli anni successivi alla strage di Vergarolla”.

Previste tante interviste

Anche se le riprese del documentario non sono ancora iniziate, abbiamo chiesto al nostro interlocutore chi intendesse intervistare. “Il piano di lavoro – ci ha rivelato – prevede la realizzazione di lunghe interviste a polesani che in un modo o nell’altro quella strage l’hanno vissuta, a studiosi ed esperti dell’accaduto e della storia della questione giuliano-dalmata, a personalità che oggi si occupano di tutelare e promuovere il ricordo di quegli eventi, nonché a politici che si confrontano con la spinosa eredità di quegli anni”.

Una ricostruzione empatica

“La bibliografia sulla strage – ci ha raccontato Guzzo – è praticamente assente, se si fa eccezione per il recentissimo lavoro monografico di Gaetano Dato. È stato necessario, quindi, un enorme lavoro di ‘scavo’ giornalistico e memorialistico – le uniche fonti che si sono con costanza occupate della vicenda – al fine di ottenere una base interpretativa da passare al vaglio della storiografia consacrata al confine orientale, all’esodo e ai rapporti italo-jugoslavi all’interno della guerra fredda. In effetti, come già detto, uno degli impegni morali alla base di questo documentario è quello di fornire finalmente una ricostruzione solida, compiuta ed empatica della vicenda, al fine di promuovere nelle nuove generazioni memoria e interesse”.

Il principio della «funzionalità»

Abbiamo chiesto poi a Domenico Guzzo a quali conclusione fosse giunto. “In termini di conclusioni – ha detto – non possiamo che ribadire quanto ormai chiarito dagli studiosi più attenti, e cioè che la strage è sicuramente di origine dolosa. Se il disinnesco degli ordigni fosse stato realizzato secondo la prassi, soltanto un intervento esterno e volontario sarebbe stato in grado di far detonare la catasta d’armamenti. Per le responsabilità, invece, non ci si può spingere oltre una plausibile presunzione che porta in direzione degli apparati di guerra non ortodossa, quali servizi segreti, gruppi sovversivi e polizie politiche. In mancanza della ‘pistola fumante’, della prova provata – impossibile da reperire sia per il lungo lasso di tempo trascorso, sia per la superficialità delle indagini all’epoca dei fatti, sia perché ovviamente le operazioni terroristiche non si registrano e non si protocollano –, ci si deve quindi attenere al principio storiografico della ‘funzionalità’. A prescindere dalle responsabilità individuali, quel che conta in termini storici è che quella strage ha polverizzato ogni margine di manovra per la comunità italiana di Pola, stretta tra la volontà di non passare sotto altra bandiera e la costante intimidazione jugoslava, determinando l’esodo nelle proporzioni in cui è poi avvenuto e ponendo una pregiudiziale grave e duratura nei rapporti fra partiti e rimasti, fra italiani e jugoslavi”.

Tra ipotesi e teorie

Qualcuno parlò di incidente, più recentemente si è affermata l’ipotesi di un attentato, come emerso da certi documenti custoditi negli archivi dell’intelligence britannica. Addirittura è emerso un nome, quello di Giuseppe Kovacich, quale esecutore dell’attentato organizzato dall’Ozna...
“Le teorie che portano alla colpevolezza di elementi dell’OZNA – ha detto in merito il nostro interlocutore – sono verosimilmente le più plausibili e avvalorate. Detto ciò, la mancanza di elementi incontrovertibili (il nome del Kovacich emerge ad esempio da una missiva del controspionaggio italiano, facilmente opinabile in una controversia così aspra e spesso autistica come quella attiva sulla strage di Vergarolla) spinge nel mantenere separati la ricostruzione verosimile e le conclusioni storiografiche. A 70 anni di distanza, l’eventuale responsabilità del Kovacich o di qualsiasi altro suo accolito risulterebbe ininfluente ai fini della riflessione e della comprensione del fenomeno: la pratica dinamitarda stragista si connota infatti per la mancata rivendicazione e per la capacità di indurre effetti di panico e tensione verso un pubblico ben superiore alla platea colpita dall’esplosione. In questo senso, a fronte delle poche fonti che si hanno a disposizione, l’interesse documentario finisce allora per concentrarsi su chi dal crimine dinamitardo traeva vantaggi, piuttosto su chi lo fece. Tutto ciò porta a ritenere che a trarre vantaggio da quell’atto terroristico furono coloro che avevano a cuore un’Istria deitalianizzata”.

309 – L’Arena di Pola 20/11/14 Pola: ripristinata la targa del dottor Micheletti

Pola: ripristinata la targa del dottor Micheletti

Hanno avuto luogo la mattina di lunedì 3 novembre a Pola le cerimonie per i Defunti, promosse come ogni anno dal Consolato Generale d’Italia a Fiume, dalla Comunità degli Italiani di Pola e dal Libero Comune di Pola in Esilio.

La messa di suffragio è stata celebrata anche questa volta da mons. Desiderio Staver nel duomo cittadino. Vi hanno assistito un’ottantina di persone: un numero ormai costante nel tempo. Oltre alla delegazione dell’LCPE, c’erano fra gli altri il console generale Renato Cianfarani, la vicepresidente italiana della Regione Istriana Giuseppina Rajko, il presidente della CI e vice-sindaco di Pola Fabrizio Radin, la presidente dell’Assemblea della CI, vicepresidente dell’Assemblea regionale istriana e direttrice degli asili italiani di Pola Tamara Brussich, il vicepresidente della CI Davide Giugno, la presidente della Società artistico-culturale “Lino Mariani” Loretta Godigna, la presidente della sezione polese della Società “Dante Alighieri” Silvana Wruss e l’attivista Claudia Millotti.

Graziella Cazzaniga, della segreteria dell’LCPE, ha proclamato la prima lettura e il salmo responsoriale, mentre il vice-sindaco dell’LCPE Tito Lucilio Sidari la seconda lettura. Il Coro misto “Lino Mariani”, dopo aver splendidamente accompagnato l’intera cerimonia con canti sacri latini e italiani al suono dell’organo, ha infine eseguito la sempre toccante Signore delle cime. Subito prima il connazionale polese Roberto Hapacher Barissa, socio dell’LCPE, ha declamato la sua nuova poesia La pace per tutti, applaudito dai presenti: Sembra di vedere un autunno eterno quando il freddo vento soffia sul campo del silenzio, e l’oblio non lascia avanzare la giustizia per quelli che non hanno trovato la pace.

Ed è dolore, pianto, angoscia e anche rabbia, con la ragione che prevale e una forza di andare avanti che non fa sbiadire il ricordo.
Una storia spezzata li divide, ma una preghiera li unisce nei nostri cuori assieme a quelli che hanno l’eterno e dovuto riposo. Cippi, sepolcri, pietre, aria e mare, le loro anime sparse!
E noi che vogliamo affiancarli tutti come martiri ed eroi nel grande paradiso.


Nasce un’altra alba con i colori e i rumori in questa terra persa inondata di lacrime che per loro deve essere soltanto più lieve, come quel vento più caldo e il campo con il silenzio rotto dal canto degli uccelli, con un mare mai più tinto di sangue che torna limpido e calmo.

Dopo la funzione religiosa i convenuti si sono diretti nell’attiguo Largo Vittime di Vergarolla sia per rendere omaggio al cippo in memoria di quei loro concittadini innocenti sia per assistere alla breve cerimonia di riposizionamento della foto del dottor Geppino Micheletti che nella prima decade di ottobre ignoti vandali avevano nuovamente sfregiato sulla targa bilingue dedicatagli dalla Città di Pola nel 2007 in quanto «cittadino benemerito di Pola». La notizia del danneggiamento, riferitaci dalla nostra socia Giuliana Goitani, era stata trasmessa dal direttore de “L’Arena di Pola” nonché consigliere, assessore e segretario dell’LCPE Paolo Radivo al vice-sindaco e presidente della CI Fabrizio Radin, il quale aveva sostituito la foto. Il Coro maschile “Lino Mariani” ha eseguito il Requiem, dopodiché Fabrizio Radin e il sindaco dell’LCPE Tullio Canevari hanno deposto assieme un mazzo di fiori con nastro tricolore. Canevari ha rinnovato la promessa che il monumento sarà a breve completato con i nomi e le età dei 65 morti identificati (fra i circa 110 complessivi).

Poco dopo, presso il sacrario al cimitero di Marina, il Consolato Generale d’Italia e l’LCPE hanno deposto grandi corone di fiori davanti alla lapide che ricorda i caduti italiani. Il console generale Cianfarani ha ribadito che «l’Italia non dimentica ed è sempre riconoscente verso chi le ha dato tutto». A seguire, gli esuli da Pola hanno deposto una corona d’alloro ai piedi del cippo in memoria di Nazario Sauro. Nella circostanza il vice-sindaco dell’LCPE Sidari ha ricordato che il manufatto, «ridotto in condizioni vergognose», era stato fatto ricollocare dal nostro sodalizio, il quale presenterà un libro sul martire capodistriano lunedì 24 novembre a Milano.

La tappa successiva si è svolta al cimitero civico di Monte Ghiro, dove il Coro “Mariani” ha cantato alcuni brani in onore dei Defunti: il solo Coro femminile Quando busserò alla tua porta e l’Ave Maria, il solo Coro maschile Una voce di pianto infinito e il Requiem, mentre il Coro misto al completo Signore delle cime e il Va, pensiero. E’ quindi seguito il tradizionale giro commemorativo presso alcune tombe: quella della famiglia Sidari, quella della Medaglia d’oro al valor militare Riccardo Bombig, quella dei consiglieri comunali polesi Fortunato Dorigo, Antonio Sinsich e Mario Zanetti morti durante l’internamento in Austria durante la Prima guerra mondiale, quella di Enrico Majonica, comandante della base sommergi-bilistica italiana di Pola perito il 9 gennaio 1944 durante il primo bombardamento anglo-americano della città, la tomba della famiglia Saccon ospitante i resti di 28 delle vittime di Vergarolla, nonché i sei cippi eretti dalla Città di Pola per commemorare i polesi morti nei campi di sterminio nazisti (1943-45), nella lotta di liberazione (1941-45), nella Guerra di Spagna (1936-39) o per mano fascista (1920-1923).

L’indomani mattina il sindaco dell’LCPE Tullio Canevari, il vicesindaco Tito Lucilio Sidari e l’assessore Argeo Benco hanno avuto un cordiale e proficuo incontro presso il Museo Archeologico dell’Istria con la nuova responsabile del Dipartimento di Conservazione di Pola per il Territorio della Regione Istriana Lorella Limoncin Toth, nostra connazionale, il direttore del Museo Archeologico dell’Istria Darko Komso e la funzionaria dello stesso Ondina Krnjak. Insieme hanno discusso sulle modalità di completamento del cippo alle vittime della strage di Vergarolla, sulla collocazione di una targa in onore del prof. Mario Mirabella Roberti presso il Tempio di Augusto e sulla presentazione al prossimo Raduno degli Esuli da Pola di quanto emerso nella campagna di scavi e restauri attualmente in corso in vari punti della città.

Paolo Radivo


310 – La Repubblica 24/11/14 L'Istria scarica Galan

BELPAESE

ALESSANDRA. LONGO

L` Istria scarica Galan

COME un ufficiale degradato sul campo, Giancarlo

Galan, ex governatore del Veneto, non potrà più fregiarsi dello stemma della Regione istriana ricevuto nel 2007 quando era ancora in carica e potentissimo.
La decisione di privarlo dell`onorificenza è stata presa dall`Assemblea regionale istriana a causa del coinvolgimento di Galan, accusato di corruzione, nello scandalo Mose di Venezia. Clima acceso, accuse irripetibili di alcuni membri dell`Assemblea, difese d`ufficio di altri ma, alla fine, la decisione: «L`etica ci impone a questo punto di revocare lo stemma». Per Galan, che ha patteggiato la pena, (due anni e 10 mesi aì domiciliari e 2,6 milioni di multa) un`altra botta. Lui, che ha casa a Rovigno, centro storico, vista mare, un vero affare immobiliare, lui che diceva: «Amo l`Istria, ho casa lì e ci vado spesso».
Adesso l`Istria Serenissima gli ha voltato le spalle.


311 – La Gazzetta del Mezzogiorno 18/11/14 Prima Guerra Mondiale. Il lager di Wagna (Stiria)  

Prima Guerra Mondiale. Il lager di Wagna (Stiria)  
 
Come noi tutti sappiamo, quest'anno ricorre il centenario dello scoppio della Prima Guerra Mondiale che, dal 24 maggio del 1915, segnò la partecipazione dell'Italia al fianco dell'Intesa con Regno Unito, Francia ed Impero Russo: si aggiunsero, successivamente, nel 1917 gli USA contro l'uscita della Russia per la crisi prodotta, nel suo territorio, dalla Rivoluzione d'ottobre.
Ricordare per me questo anniversario è rivivere le memorie di mia madre, Sansa Maddalena, italiana di Dignano d'Istria, la donna dei due esodi (uno con ritorno, 1^ guerra mondiale, l'altro senza ritorno, 2^ guerra mondiale) che ha vissuto per quarant'anni a Barletta e che subì con i miei nonni ed i miei zii un esodo forzoso da parte delle autorità militari austriache. Tanto appartiene alla storia di una comunità cittadina ed è dovere rievocarla perché il loro ricordo rientra in una pagina di storia sconosciuta agli italiani e penso debba essere tramandato ai figli, ai nipoti ed a tutte le nuove generazioni. In quei tragici giorni, gli abitanti italiani dell'Istria meridionale accolsero l'improvvisa notizia della "dichiarazione di guerra" dell'Italia all'Austria come tutti gli altri Italiani ma, essi, in più, con stupore e dolore ricevettero la drastica ordinanza del Capitanato austriaco di Pola di lasciare subito la propria casa e prepararsi all'immediata partenza per destinazione ignota. L'impero austro-ungarico voleva assicurarsi libertà di manovra militare nell'Istria meridionale: così decise di far evacuare la popolazione civile.
Era il pomeriggio (15,30 circa) del 17 maggio quando mia madre con suo padre Adamo, sua madre Domenica ed i suoi quattro fratelli e cioè i miei zii Andrea, Vittore, Piero e Giovanni furono costretti dai gendarmi e dai soldati austriaci a salire su camion blindati dell'impero austroungarico tutti laceri, affamati e disperati, impossibilitati a dare un senso a quanto stava avvenendo per essere trasferiti a Pola dove furono caricati sui carri bestiame, che sostavano nelle rispettive stazioni ferroviarie del territorio per essere trasportati verso la Città di Fiume e, successivamente in Austria. Mia madre e mia nonna mi raccontavano spesso che quello fu un viaggio da bestie durato alcuni interminabili giorni: senza acqua, senza pane, senza neanche un po' di paglia per far riposare le stanche ossa e dove vi erano bambini che gridavano, vecchi che morivano ecc.
Attraversata la Stiria il treno si diresse nella vicina Ungheria ed essi furono sistemati in un piccolo abitato dove trovarono odio e disprezzo perché considerati traditori. Trascorsero poche settimane e quindi il governo austroungarico di Vienna decise di trasferirli e raccoglierli con gli altri dignanesi nell'accampamento Lager di Wagna nei pressi di Leibnitz (Stiria) in desolanti e pietose condizioni igieniche. Ora, per il lettore voglio chiarire: perché un esodo forzoso così imponente di cittadini italiani, quando apparentemente non vi erano serie ragioni per farlo?
Ebbene, l'Austria voleva allontanare dalle terre italiane irredente i cittadini ed impossessarsi delle loro abitazioni per sistemarvi ufficiali e soldati, mentre i veri padroni erano costretti a vivere con le loro famiglie nelle baracche prive di tutto in quanto in quelle terre con un imperialismo soffocante l'Austria considerava l'Italia sinonimo di miseria, sporcizia, grettezza, inettitudine. Inoltre essa con il motto Aeiou (Austriae est imperare orbi universo) teneva a bada con la forca espressioni eroiche come Nazario Sauro, Guglielmo Oberdan, Fabio Filzi, Rismondo ecc. con l'appoggio della minoranza slava nella quale l'imperatore aveva piena fiducia apprezzando la loro fedeltà e sentendo il dovere di esaudire i loro desideri specie agevolando il rinfoltimento dell'etnia slava la cui popolazione dei territori interni veniva premiata se si insediava nelle zone costiere dell'Istria meridionale.
Ma, allora, com'era il lager di Wagna? Come si viveva? Il lager era un accampamento di 1,5 Kmq tra i fiumi Mur e Sulm racchiuso da un reticolato di filo spinato, ben guardato da sentinelle militari che comprendeva 150 baracche di legno con le fondamenta fissate in un terreno fangoso ed infestate dagli insetti, in particolare dalle anofele che trasmettevano la febbre malarica. In questa prigione non si usciva né si entrava senza uno speciale lasciapassare. Vi si accedeva da un ampio portone alla cui sommità spiccava la grande scritta: "Fluchlingslager" sul cui fianco c'era la garitta del cecchino armato sempre pronto a sparare contro chiunque fosse contravvenuto ai regolamenti del campo. Ogni baracca poteva contenere ben 200 persone che venivano sistemate in comparti grandi poco più di una stanza dove, prima di accedere e poter occupare il posto assegnato dal "capo baracca", venivano sottoposte ad un bagno caldo per poi venire irrorate da una doccia fredda e per tanti vecchi un simile trattamento fu fatale.
I Sansa furono sistemati nel comparto di una baracca centrale che divenne la loro prigione dove mancò per oltre tre lunghi anni il pane, il vestiario necessario, la propria casa, la libertà, dove in poche parole dovettero sopportare il martirio del corpo e quello dell'anima! In questa dolorosa città di legno vissero ben 22.000 italiani dell'Istria e dove perirono ben 2920 dal 1915 al 1918. Lì oggi tutto è scomparso, distrutto dal tempo e dagli uomini e a ricordare questi martiri c'è una grande e bianca croce di sasso in un desolato prato di pianto fatta costruire, anni orsono, dalla Municipalità di Leibnitz.
Con la vittoria dell'Italia sull'Austria nel novembre del 1918 i Sansa potettero ritornare alla loro casa di Dignano ma si accorsero che durante la loro assenza tutto ciò che era costato anni di lavoro e di sacrifici era stato disintegrato dagli slavi rimasti per cui una frattura psicologica, sociale ed economica, che non potette essere del tutto rimarginata e che ancora oggi è bene che le nuove generazioni conoscano. Quanto descritto ha valore di testimonianza diretta di alcuni personaggi secondari senza lode e gloria ma grandi protagonisti di un dramma mondiale che dovrebbe suscitare curiosità ed interesse storico in queste celebrazioni del centenario della "Grande Guerra" che nessuno conosce e che nessuno, non conoscendo, può ricordare!!
 
Giuseppe Dicuonzo


312 - La Voce del Popolo 22/11/14 Emozioni e ricordi riascoltando Endrigo


Emozioni e ricordi riascoltando Endrigo

Scritto da Kristina Blecich

FIUME Musica, ricordi ed emozioni ieri sera a Palazzo Modello. Valter Milovan “Maer”, Riccardo Bosazzi, Daniel Načinović, Vito Dundara e Tatiana Šverko sono gli artisti che nel Salone delle Feste della Comunità degli Italiani hanno reso omaggio a uno dei maggiori cantautori italiani: Sergio Endrigo. La serata ha coinvolto musicisti provenienti dall’area della musica classica, jazz, etno, acustica e canzone d’autore. Il concerto è stato introdotto dai membri del “ForumEndrigo” di Pola, Valter Milovan, in arte Maer, con Riccardo Bosazzi alla chitarra. I due hanno presentato una dolcissima “Dove credi di andare” e “Via Broletto 34”. Ad applaudire i musicisti un pubblico numerosissimo che ha occupato in ogni ordine di posti la platea. Riccardo Bosazzi ha presentato l’“Arca di Noè”, “Lontano dagli occhi” e la canzone firmata da lui stesso, “Caro papà”.

Una speciale “Amiamo ancora più le persone stupide”, nell’interpretazione di Valter Milovan. Nelle mani di Daniel Načinović “Va Opatije” (“In Abbazia”). Vito Dundara poi in scena per sentire “Aria di neve”. Infine “1947”, la canzone che Endrigo dedicò alla sua città natale e all’esodo degli italiani da Pola. Le modulazioni di voce di Vito Dundara hanno affascinato il pubblico fino a commuoverlo sulle note di quest’ultima elegia che ripete nelle parole “come vorrei essere un albero che sa dove nasce e dove morirà...”.

L’albero simboleggia la vita

Un sogno impossibile ma anche una metafora importante, se è vero che non si può nascere alberi è anche vero che l’albero simboleggia la vita, la famiglia e quindi si può costruire, con la buona volontà di chi è in grado di credere.

Tra le diverse canzoni di Endrigo che Milovan, Bosazzi, Načinović e Dundara, in alcuni casi accompagnati alla chitarra da Bosazzi e al pianoforte da Tatiana Šverko, hanno offerto al pubblico, non sono mancati ancora “Il dolce paese”, “La casa”, “Dimmi la verità” e “Come stasera mai”. In conclusione “Il primo bicchiere di vino” eseguito da tutti i membri del “ForumEndrigo”, che ha incantato la platea con un’esecuzione magistrale. Con le canzoni interpretate, ognuno ha ripercorso la carriera musicale di Endrigo, trasmettendo ai presenti i messaggi che emergono dalle sue canzoni e che molto spesso non sono stati compresi dalla critica.
Un cast vocale e strumentale d’eccezione, quindi, che non si è fermato a ricordare ma è riuscito a costruire sull’omaggio a Sergio Endrigo, un evento straordinario. All’evento, organizzato dalla Comunità degli Italiani di Fiume e dall’Associazione “ForumEndrigo”, tra un vasto pubblico, la vicepresidente del sodalizio fiumano, Gianna Mazzieri Sanković.

Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia



Mailing List Histria
Rassegna stampa

a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri
 
922 – 01 Novembre 2014
                                                   
Sommario
 
 
 
280 – La Voce del Popolo 24/10/14 Fondi per l’Asilo italiano di Zara e il Festival dell’Istroveneto (Ilaria Rocchi)
281 – Il Piccolo 23/10/14 A Zara bomba a mano contro la via “italiana” (Andrea Marsanich)
282 – La Voce del Popolo 31/10/14 Spalato celebra la «cancellazione» dell’italiano
283 – Il Piccolo 16/10/14 Intervista: la liberazione? A Trieste l’ha fatta l’esercito di Tito (Fabio Dorigo)
284 – Il Piccolo 16/10/14 Trieste:  Consiglio comunale, 15 firme per la sfiducia a Furlanic
 (Piero Rauber)
285 – Corriere della Sera 24/10/14 L’onorificenza al Quirinale: Rosita Missoni – cavaliere dopo Ottavio ma io lavoravo di più
286 – Secolo d’Italia 11/10/14 Illy non finanzia il monumento sulle foibe (Guido Liberati)
287 – Italia Oggi 18/10/14 La Croazia bagna il naso all’Italia nella forte riduzione delle Regioni (Dario Fertilio)
288 – La Voce del Popolo 20/10/14 Ricordo e memoria, la prospettiva della Bancarella diventa europea (Ilaria Rocchi)
289 – La Stampa 16/10/14 Intervista a Slavenka Drakulic (Giordano Stabile)
290 – Panorama 26/10/14 Cultura -  Trieste torna italiana (Edoardo Frittoli)
291 – Avvenire 23/10/14 1954: il tricolore toma su Trieste (Francesco Dal Mas)
292 – La Voce di Romagna 28/10/14 Gianni Ruzzier: Il giorno che Trieste tornò italiana (Aldo Viroli)
293 – Il Giornale 23/10/14 La stanza di Mario Cervi,  L`angoscia di Trieste fra liberazione e sovietizzazione (Armando Vidor – Mario Cervi)
 
Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arenadipola.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.adriaticounisce.it/
 
280 – La Voce del Popolo 24/10/14 Fondi per l’Asilo italiano di Zara e il Festival dell’Istroveneto
 Fondi per l’Asilo italiano di Zara e il Festival dell’Istroveneto
 Scritto da Ilaria Rocchi
 VENEZIA Sulle orme della Serenissima nell’Adriatico orientale, cercando una simbolica seconda vita dell’eredità storica e culturale di quella che, per cinque secoli e passa, è stata la Dominante. Con Deliberazione del Consiglio Regionale del Veneto del 14 ottobre scorso è stato approvato il Programma degli interventi per l’anno 2014 in attuazione della Legge regionale n. 15 del 7 aprile 1994, che recita appunto “Interventi per il recupero, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale di origine veneta nell’Istria e nella Dalmazia”.
 Un capitolo che offre “gli strumenti per l’affermazione dei valori di amicizia e di coesistenza pacifica da sempre condivisi dalle popolazioni del Veneto, dell’Istria e della Dalmazia”, come si rileva nella documentazione diramata dalla Regione Veneto. I finanziamenti, va ricordato, sono destinati principalmente a enti locali veneti e istro-dalmati, alle Comunità degli Italiani di Slovenia e Croazia, oltre che a una vasta gamma di associazioni e istituti culturali veneti, croati e sloveni. Tra le voci inserite, il Festival dell’Istroveneto, organizzato a Buie dall’Unione Italiana, e l’Asilo italiano di Zara, di cui è propritaria la locale Comunità degli Italiani.
Complessivamente, per questa voce di spesa la Regione Veneto aveva messo a bilancio 450mila euro; ne ha ripartiti 420mila, mentre 30.000 euro sono riservati per l’organizzazione di un seminario di studi. Alla Direzione Relazioni Internazionali erano pervenute 57 domande, di cui 4 ritenute non ammissibili; ne sono state promosse 27, di cui 18 afferenti a iniziative culturali di vario genere – ma sempre legate al patrimonio storico, culturale e ambientale o allo sviluppo delle attività culturali delle Comunità italiane in Istria e Dalmazia – e 9 riguardanti interventi di restauro di palazzi o antiche mura.
 Ricerche su Momiano, Buie, Salvore
 Dunque, per quanto ci riguarda più da vicino, l’Unione Italiana passa con il Festival dell’Istroveneto, manifestazione che ha lo scopo di recuperare e promuovere un dialetto che ha una diffusione in modo particolarmente capillare soprattutto nel territorio di Buie e nel centro storico della cittadina. È previsto un contributo di 25mila euro. È di 21.300 euro quello invece destinato alle attività culturali e d’istruzione che si svolgono nella Comunità degli Italiani e nella Scuola italiana dell’infanzia “Pinocchio” di Zara.
All’Università Popolare Aperta di Buie sono stati riconosciuti 6.300 euro per la pubblicazione degli atti del convegno scientifico internazionale “Momiano e l’Istria: una comunità e una regione dell’Alto Adriatico (storia, arte, diritto, antropologia)”, che si è tenuto a Momiano il 14-16 giugno 2013 (il volume è la testimonianza scritta delle ricerche e degli studi eseguiti negli archivi di Venezia, Pisino e Capodistria, aventi per oggetto il territorio del Momianese, con specifico riferimento ai suoi abitanti, alle radici storico culturali ed ai suoi legami con la Repubblica Serenissima, nonché ai rilievi architettonici descrittivi del castello di Momiano; al convegno erano stati presentati per la prima volta documenti e immagini inedite del castello e, oltre a quelli del Tommasini, del Manzuoli, dello Zinnato e di Neami, non esistono scritti e ricerche eseguite in epoca moderna su questo territorio).
Per la ricerca archivistica su Salvore e il suo territorio nell’età della Serenissima, la Comunità degli Italiani salvorina potrà beneficiare di 11.400 euro, mentre la CI di Buie potrà usufruire di 2.200 euro per la stampa in un libro delle relazioni presentate alla tavola rotonda incentrata sulla tematica “Seicento anni dalla dedizione di Buie a Venezia (1412-2012)”, tenutasi il 18 dicembre 2012, con interventi di Kristjan Knez, Gaetano Benčić, Lorella Limoncin Toth, Lucia Moratto Ugussi, Denis Visintin, Rino Cigui e Marino Dussich, in occasione del 65.esimo anniversario della CI. La Società di Studi storici e geografici di Pirano, invece, potrà avvalersi di 3.900 euro per un volume sul pensiero politico e gli strumenti storiografici utilizzati da Tomaso Luciani (Albona 1818 – Venezia 1894), uno dei più importanti uomini del Risorgimento che l’Istria abbia dato alla luce.
Alla Deputazione di Storia patria per la Venezia Giulia (Trieste) vanno 11.000 euro per una ricerca sul problema della ri-cattolicizzazione delle diocesi istriane di Capodistria e quella di Parenzo, e un importo identico va alla Società Dalmata di Storia Patria per il progetto MARE 5 – Le Relazioni dei Rettori dello Stato da Mar; 9.500 euro per il Centro studi cultura, ambiente, territorio di Noale, che intende recuperare gli antichi formulari, di epoca medievale, redatti per le commissioni o capitolari ai rettori veneziani inviati in Istria e Dalmazia, con le istruzioni per operare nei reggimenti di destinazione (Relazioni e comunicazione politica in area adriatica: i rettori veneziani d’Istria e Dalmazia e le loro commissioni, secoli XIII-XVI); 3.800 euro invece per la seconda edizione di “Radici comuni”, scambio tra l’Istituto superiore E. Mattei di Conselve e la scuola superiore italiana “Pietro Coppo” di Isola.
 Pensiero rivolto alle scuole
 Al Ginnasio “Gian Rinaldo Carli” di Capodistria vanno 6.900 euro per la realizzazione di un’edizione bilingue (italiano sloveno) sull’istituto, con la ricostruzione storica della scuola, dal XVII secolo ai giorni nostri, evidenziando gli aspetti più significativi e i cambiamenti registrati nel corso del tempo, con particolare riguardo al periodo successivo al 1675, quando l’istituzione, con l’approvazione della Repubblica di Venezia, fu riaperta con il nome di Collegio dei Nobili. Tra i personaggi illustri usciti da questa scuola figurano Giuseppe Tartini, Gian Rinaldo Carli, Girolamo Gravisi, Pietro Kandler, Francesco e Carlo Combi, Bernardo Benussi… Invece 13.800 euro sono stati riservati per la nuova Scuola elementare di Cittanova (preliminare alla realizzazione dell’edificio è la progettazione, per la quale è stato richiesto il sostegno finanziario anche del Veneto).
L’Associazione Veneziani nel Mondo riceve invece 6.100 euro per avviare un corso sulla storia, la cultura, sulle tecniche di lavorazione e applicazione nella storia del vetro fuso nei territori di dominio veneziano. L’iniziativa è rivolta a persone provenienti dal Ginnasio “Gian Rinaldo Carli” di Capodistria, dalla Scuola media superiore italiana “Dante Alighieri” di Pola, dalla CI “Dante Alighieri” di Isola d’Istria e dalla Comunità degli Italiani del Montenegro; mentre la C.C.I.A.A. di Venezia, per il corso sul merletto di Burano e la sperimentazione della lavorazione con filati preziosi utilizzando durante il corso il rame o l’argento per l’esecuzione dei punti, ottiene 4.600 euro (ospiterà connazionali provenienti dalle medesime località).
 Al Centro Ricerche Culturali Dalmate di Spalato, per l’attività didattica e organizzativa in collaborazione con il Liceo linguistico informatico “Leonardo Da Vinci”, sono stati assicurati 11mila euro. Inoltre, 5.600 euro sono stati accantonati dalla Regione per consentire il completamento della stampa, a cura del Dipartimento di Italianistica dell’Università degli studi di Zara, della pubblicazione dal titolo “Civiltà veneta e umorismo in Istria e Dalmazia. Il giornalismo umoristico – satirico in istroveneto e dalmatoveneto nelle riviste italiane dell’Adriatico orientale”.
 Restauri di palazzi, mura, sculture
 Altri progetti promossi, il restauro della Torre detta del Porto o Porporella nel centro cittadino di Cittanova (17.200 euro, CI di Cittanova); il risanamento strutturale del seicentesco palazzo Sincich a Parenzo (46.800 euro, Coordinamento Adriatico); l’allestimento di un “cantiere scuola” per il restauro di 10 manufatti lapidei di araldica veneziana siti su edifici civili, su iniziativa della Comunità degli Italiani di San Lorenzo Babici (25.500 euro); il completo restauro della scultura in legno risalente alla fine del XV secolo, raffigurante un Sant’Antonio Vescovo, assiso e benedicente, con una folta barba grigia, ora sita nel deposito del museo diocesano di Parenzo, per una sua successiva esposizione (8.900 euro, Regione Istriana – Assessorato alla Cultura); la ristrutturazione della vecchia scuola esistente a Grimalda, con l’obiettivo finale di attrezzare l’edificio per l’istituzione di un Centro di eccellenza per l’educazione dei giovani della Regione Istriana (17mila euro, Comune di Cerreto); restauro del corpus centrale del castello di Pietrapelosa – proseguimento dei lavori sul muro orientale, parte delle mura meridionali e il muro interno del palazzo (62.700 euro, Città di Pinguente); le fasi finali di recupero dei Castelli di Grisignana e di Piemonte d’Istria (46.800 euro, Comune di Grisignana).
 Inoltre, è stata inserito nella Programmazione il progetto (assegnato alla Comunità degli Italiani di Montenegro 18.700 euro), di studio e conoscenza, recupero e valorizzazione di un importante bene architettonico e culturale di origine veneta a Cattaro, quale la Porta Settentrionale, parte del tratto delle mura difensive di Cattaro. Con una lunghezza di circa 4,5 chilometri, la forma attuale di Porta Marina risale al 1555. E, sempre in questa terra a sud, sì (e 3.300 euro) alla proposta della Provincia di Venezia per un corso di restauro di oreficeria rivolto a 10-15 appartenenti della Comunità degli Italiani e a professionisti dell’Istituto nazionale per la tutela dei beni culturali del Montenegro, focalizzato sulle metodologie di restauro di antichi gioielli ed arte sacra antica risalenti alla tradizione veneziana.
 Infine, al Comune di Montebelluna, vanno 8.600 euro per il progetto “Origini comuni: un patrimonio da salvaguardare e valorizzare”, che prevede un gemellaggio con Montona sulle tracce del patrimonio boschivo. I boschi del Montello e di Montona rappresentano un collegamento storico rilevantissimo con Venezia, poiché per secoli hanno rifornito di legnami pregiati la prima industria della storia occidentale: l’Arsenale. Il gemellaggio intende rinsaldare, in un contesto generale, il rapporto tra le relative comunità, ma soprattutto forse recuperare e valorizzare questa speciale unione tra i due paesi che trovano comuni radici in una storia dove il bosco assume una connotazione di bene culturale, perché elemento di identità.
 281 – Il Piccolo 23/10/14 A Zara bomba a mano contro la via “italiana”
A Zara bomba a mano contro la via “italiana”
Gettata con una mina antiuomo nel giardino del consigliere che si batte per il ripristino del toponimo Calle Larga
di Andrea Marsanich
Anche ordigni esplosivi contro il ripristino del toponimo storico Calle Larga (ora la principale via di Zara è intitolata Široka ulica o Strada larga), iniziativa che vede contraria la destra nazionalistica croata, al potere nella città dalmata. L’altro giorno una bomba a mano e una mina antiuomo sono state gettate nel cortile dell’abitazione del consigliere comunale di Azione giovani (centrosinistra, all’opposizione), Marko Pupi„ Bakra„, che si batte per la ridenominazione dell’antica passeggiata zaratina.
Gli ordigni non sono fortunatamente esplosi, costituendo comunque un esplicito messaggio a Pupi„ Bakra„, una minaccia per il suo adoperarsi nel parlamentino comunale a favore del nome Calle Larga. Il consigliere municipale ha dichiarato ai giornalisti che si tratta di un atto intimidatorio, non tale però dal farlo desistere: «Se qualcuno dovesse fare del male al sottoscritto o ai membri della mia famiglia – ha detto – di ciò ne sarà direttamente responsabile il sindaco di Zara, Božidar Kalmeta».
Chiamata ad intervenire, la polizia zaratina ha preso in consegna i due micidiali ordigni, sporgendo denuncia contro ignoti. Il primo cittadino, interpellato dai media, ha respinto ogni accusa e insinuazione, affermando di non avere a che fare con l’opera di un folle. «Spero che le forze dell’ordine agiscano alla svelta e in modo efficiente – ha rilevato Kalmeta nel comunicato diffuso dopo l’inquietante episodio – Zara è una città sicura dal punto di vista dell’ordine pubblico e fatti del genere non devono accadere più».
Pupi„ Bakra„ ha smentito quanto asserito dal sindaco, sottolineando come negli ultimi anni vi sia stata una decina di episodi, con lanci di bombe, auto fatte saltare in aria o incendiate, tra cui anche macchine di giornalisti.
«Se la polizia non farà il suo dovere – ha concluso il consigliere – mi riservo di agire per autodifesa, proteggendo anche le persone che mi sono più care». Va rammentato che la scorsa primavera circa 11 mila persone (Zara ha 76 mila abitanti) posero la loro firma in calce alla petizione per il ripristino dell’antico toponimo. Un numero sufficiente per avviare il procedimento in sede di consiglio cittadino. Ebbene da allora la questione non è stata inserita nell’agenda dei lavori del parlamentino (guidato dal centrodestra), con giustificazioni più o meno opinabili.
Il consigliere Pupi„ Bakra„ ha protestato con forza nell’ultima sessione, chiedendo che la richiesta fosse finalmente dibattuta e sottoposta a voto. Una richiesta inascoltata. Ora anche le bombe.
 282 – La Voce del Popolo 31/10/14 Spalato celebra la «cancellazione» dell’italiano
 Spalato celebra la «cancellazione» dell’italiano
 SPALATO | In ricordo del 28 ottobre 1882, quando fu istituita la prima amministrazione croata della città di Spalato, il vicesindaco del capoluogo dalmata, Goran Kovačević, ha posto una corona di fiori sulla lapide che ricorda quest’avvenimento. Alla cerimonia hanno partecipato anche altre autorità. “Questa è una delle date più importanti della storia di Spalato, è una pietra miliare, perché ha segnato un cambiamento di rotta per la città. Infatti, da quel giorno si cominciò a parlare in lingua croata, ma non soltanto in Municipio. Anche nelle biblioteche e nelle altre istituzioni si smise di parlare in lingua italiana”, ha sottolineato il vicesindaco. Goran Kovačević, come riporta il quotidiano Slobodna Dalmacija, ha fatto capire che in futuro la municipalità intende celebrare ufficialmente quest’anniversario. “La celebrazione di quest’importante ricorrenza verrà fatta propria anche dal Consiglio municipale, per cui in futuro le cerimonie avranno forma ufficiale. In questo modo dimostreremo gratitudine nei conronti dei nostri antenati che hanno combattuto per la lingua croata e la sopravvivenza croata in questa regione”, ha concluso il vicesindaco Goran Kovačević.
Il quotidiano spalatino “Slobodna Dalmacija” ha accompagnato l’articolo con un titolo dal tono trionfalistico, di tipo ottocentesco: “Sono passati 132 anni dalla vittoria sui talijanaši”. Un termine quest’ultimo utilizzato di frequente in Dalmazia, ma non solo lì, per indicare la componente italiana o filoitaliana della popolazione. E per la minoranza italiana “sconfitta” quel lontano 1882 segnò l’inizio dell’inesorabile declino. La lingua italiana venne in pratica cancellata a Spalato. Sparì rapidamente dalle scuole e dagli uffici pubblici, relegata sempre più nel privato. Oggi gli uni esultano, mentre per gli altri c’è poco da festeggiare…
 
283 – Il Piccolo 16/10/14 Intervista: la liberazione? A Trieste l’ha fatta l’esercito di Tito
«La Liberazione? A Trieste l’ha fatta l’esercito di Tito»
Il presidente del Consiglio Iztok Furlanic non cambia idea sullo sloveno in aula:. «È un diritto garantito dalla legge. I soldi ci sono ed è stupido non prenderli». Sul Pd e sul suo segretario: “Non è più un partito di sinistra. Renzi è più a destra di Berlusconi. Mi sorprende la posizione di Cok, che è della minoranza”. Sul sindaco: “Meglio Romoli di Cosolini”
 di Fabio Dorigo
 «Il 12 giugno è una data inesistente. Lo dico da storico. L’esercito jugoslavo ha liberato Trieste dai nazisti. Altro che occupazione». Iztok Furlanic, presidente del Consiglio comunale di Trieste, si è laureato in storia contemporanea a Lubiana. E non cambia idea sui soldi spesi dal Comune per «targhe a commemorare eventi inesistenti». E neppure sull’introduzione della lingua slovena in Consiglio comunale con la traduzione simultanea come a Gorizia. «Mi dispiace ma questo è un costo della democrazia che deve essere sostenuto».
Ma come le è venuto in mente di introdurre lo sloveno nel Consiglio comunale di Trieste?
Sono stato contattato dal Primorski per un commento dopo l’avvio della traduzione simultanea nel Consiglio comunale di Gorizia. E, in base alle leggi vigenti, si dovrebbe fare lo stesso a Trieste introducendo la possibilità di intervenire in sloveno.
Ma è davvero convinto, come ha dichiarato al Primorski, che i tempi siano maturi?
Ero più convinto alcuni giorni fa prima di vedere alcune reazioni. Ma credo che solo introducendolo la gente si abituerebbe. Devo sottolineare che le reazioni da parte di alcuni sono state spropositate.
A cosa si riferisce?
Il consigliere Igor Svab (Pd) è stato oggetto di telefonate minatorie. Il problema è che alcuni non saranno mai pronti. Attendere questi è inutile. È un motivo in più per andare avanti a rivendicare il diritto dei consiglieri sloveni a esprimersi nella propria madrelingua, come fanno gli italiani a Capodistria.
Ma alla commissione capigruppo, che sta lavorando alla revisione del regolamento comunale, l’ha mai proposto?
No, non l’ho mai proposto. Ma ho intenzione di farlo, visto che si tratta dell’attuazione di un diritto previsto per legge.
Quindi lo proporrà?
Assolutamente sì. Poi vedremo chi a parole si proclama progressista e chi lo è nei fatti.
A partire dal sindaco che mi pare l’abbia profondamente deluso…
Sono sdegnato. Non può far finta di non sapere che i fondi per la tutela dello sloveno sono altra cosa rispetto a quelli destinati alle biblioteche. Se il Comune non utilizza quei fondi li utilizzerà un altro comune. Non c’è nessuna spesa in più. In realtà chi è abbastanza furbo e intelligente utilizza quei fondi, gli altri no.
«Furlanic ha preso cavoli per capuzi» ha dichiarato il sindaco…
Magari. Le sue ulteriori precisazioni non cambiano la sostanza di una virgola. È stata l’uscita di un sindaco convinto che esprimendosi più apertamente a favore dell’uso dello sloveno avrebbe perso voti al centro. Sicuramente ne ha persi tra l’elettorato sloveno. Sono deluso, ma prendo atto della scelta.
Meglio Ettore Romoli (sindaco di Gorizia, ndr) di Roberto Cosolini?
Assolutamente. È la dimostrazione che i sindaci di centrodestra sono più aperti e meno timorosi su questo argomento.
Il bilinguismo è ancora un tema sensibile. Non crede?
Non lo nascondo. Ma Romoli a Gorizia ha fatto un altro ragionamento politico.
La presa di posizione del segretario del Pd Stefan Cok?
Mi sorprendo che uno sloveno si esprima in quel modo. Sono doppiamente deluso. Posso al massimo capire il sindaco, ma non un segretario politico che fa parte della minoranza slovena. Stiamo parlando di un diritto, non di un capriccio.
Lei punta al modello Capodistria…
A Capodistra tutti capiscono entrambe le lingue. La gente non ha idea di quello che succede oltreconfine. I diritti della minoranza italiana sono tutelati in modo molto ampio e dettagliato non da 20 ma da 60 anni. A me basterebbe che la tutela della minoranza slovena in Italia fosse uguale a quella della minoranza italiana in Slovenia e Croazia. Ben venga l’equiparazione. Ne guadagneremmo come sloveni.
«Il Comune di Trieste trova i soldi per targhe a commemorare eventi inesistenti». A cosa si riferiva?
Quando si parla del 12 giugno 1945 come fine del secondo conflitto mondiale a Trieste si parla di un evento inesistente. L’ho ribadito anche al consigliere Franco Bandelli quando ha chiesto chiarimenti in Consiglio comunale. Dal punto di vista storico è un fatto inesistente. Non vedo perché mi dovrei scusare con la città.
C’è di mezzo il Primo Maggio di quell’anno?
Una parte della città vede il Primo Maggio del 1945 come la Liberazione. L’esercito jugoslavo che entra in città era un esercito di liberazione. Così era considerato dagli anglo-americani. Non lo dico io. Lo dicevano Franklin D. Roosevelt e Winston Churchill. Una parte della città si sente profondamente offesa dalla commemorazione del 12 giugno.
Non c’è stata nessuna occupazione?
Qualcuno forse dimentica che è stato l’esercito jugoslavo a liberare questa città dai nazisti. Io la considero una Liberazione. Se poi si vuole parlare di occupazione, Trieste non è stata liberata il 12 giugno 1945, ma il 26 ottobre 1954 visto che molti considerano come forza occupante gli angloamericani.
La fine del Tlt come Liberazione?
Sì, se consideriamo come forze occupanti gli eserciti stranieri.
Nessun 12 giugno da commemorare?
È un falso. Lo dico da storico visto che ho fatto il post laurea in storia contemporanea a Lubiana.
Mi sa che stavolta non si scrollerà di dosso la fama di ultimo “titino”…
Non mi considero titino, perché non mi piace il termine. La mia personale opinione sul maresciallo Tito è ben risaputa. È un personaggio che ha fatto la storia del Novecento creando i Paesi non allineati. Ci sono dei lati oscuri, ma è riuscito a trasformare un paese arretrato in uno dei più importanti al mondo.
“Trst je nas!”
“Trieste è nostra”. Non solo italiana, ma anche slovena. Tutto qua.
Ma qual è la sua posizione rispetto alla giunta Cosolini?
Esiste una disparità di vedute su tutta una serie di tematiche. Dall’operazione Acegas Hera (con l’ipotesi di usare le azioni come fidejussione per i lavori pubblici) al piano del traffico.
“Non vedo tutta questa sinistra nella giunta Cosolini” ha dichiarato il capogruppo di Sel Marino Sossi…
Il Pd, che ha la maggioranza relativa, non è di sinistra. Lo si è visto quando si è votata la mozione sull’articolo 18. A livello nazionale si sta attuando il programma di Berlusconi. Renzi lo sta addirittura superando a destra.
Non vi tenta l’opposizione?
Non lo escludo se verrà confermata l’operazione Acegas Hera con il prossimo bilancio.
Come valuta la scelta del nuovo assessore alla Cultura?
Non conosco Tassinari. Devo dire che rispetto al predecessore si nota la sua presenza. Il che è positivo. Non è positivo che in tre anni e mezzo si sia cambiato quattro volte.
E l’assessore allo Sport?
All’inizio c’era un assessore che si occupava di quello a tempo pieno.
Solo che si chiamava Emiliano Edera?
Non parlavo di nomi. Serve uno presente.
Marino Andolina, il vostro capogruppo, è coinvolto pesantemente nell’inchiesta su Stamina. Nessun imbarazzo?
Non sono mai stato giustizialista. Ci sono sentenze e sentenze, condanne e condanne. La battaglia di Andolina è giusta e sono al suo fianco.
 
284 – Il Piccolo 16/10/14 Trieste:  Consiglio comunale, 15 firme per la sfiducia a Furlanic
 Mozione presentata da Bandelli e Rosolen di Un’Altra Trieste e sottoscritta da vari gruppi dopo le dichirazioni rilasciate dal presidente dell’aula al Piccolo
 Consiglio comunale, 15 firme per la sfiducia a Furlanic
 Piero Rauber
 In 15 ne reclamano le dimissioni, poiché 15 sono le firme sulla mozione di sfiducia della coppia di Un’altra Trieste Bandelli-Rosolen, cui si sono accodati tutti gli esponenti delle opposizioni tranne l’ex leghista Maurizio Ferrara. Spuntassero altri sei favorevoli – non servirebbe che la firmino, basterebbe che la votino – si arriverebbe a 21 teste su 41. A quel punto Iztok Furlanic - protagonista di un’audace, diciamo così, intervista rilasciata sul Piccolo di ieri in cui rende grazie a Tito per la Liberazione di Trieste del ’45 – non sarebbe più il presidente del Consiglio comunale. Scenario remoto? Non lo è la discussione della mozione, che lo stesso Furlanic dovrà calendarizzare per regolamento non prima di dieci giorni dalla presentazione di ieri, e dopo non più di un mese. E potrebbe non esserlo, remoto, neanche un epilogo col benservito. Sarebbe sufficiente che al momento del voto prudesse la mano a qualcuno del Pd. Il partito di un sindaco, Roberto Cosolini, definito da Furlanic peggio del collega di centrodestra di Gorizia, Ettore Romoli, che le traduzioni simultanee sloveno-italiano in Consiglio comunale le ha già battezzate.
 Il partito, per giunta, di un senatore, Francesco Russo, che ieri è stato lapidario: «Furlanic non è all’altezza di rappresentare Trieste. Ha disonorato la sua carica. Spero che, spontaneamente e in tempi brevi, presenti le dimissioni prima che il Consiglio decida di votare una mozione di sfiducia. Al caso, mi auguro che tutti i consiglieri, compatti, scelgano di sollevarlo da un ruolo che non ha saputo interpretare nel modo corretto».
Stavolta, dunque, il “dossier Furlanic” (ricordate la lista dei suoi “scheletri” nell’armadio filotitini che il centrodestra aveva raccolto tre anni fa alla vigilia della sua investitura come presidente del Consiglio?) lui se l’è costruito da solo. La giornata di ieri – a intervista-choc pubblicata – è stata una grandinata di reazioni indignate e pretese di dimissioni, con tanto di richiesta che sia Cosolini a intervenire. «Neanche il Pci di Vidali si spingeva a tanto, Furlanic può avere le sue idee da libero cittadino, ma da presidente del Consiglio comunale non può esprimersi in direzione opposta a quella in cui vanno documenti votati dal Consiglio stesso, come ad esempio la mozione sul 12 giugno, fine dell’occupazione titina, ora la palla passa a chi la mozione non l’ha firmata, il Pd e le civiche di centrosinistra», osserva Alessia Rosolen. «Fratelli d’Italia – scrive Claudio Giacomelli – non riconosce più Furlanic come presidente del Consiglio. Lo invitiamo quindi a trasferirsi in uno dei “paradisi comunisti” che ancora deturpano il mondo per un’esperienza “dal vivo” dell’ideologia che tanto ama».
E di «dichiarazioni deliranti che portano pericolosamente indietro l’orologio» parla l’ex Fli Michele Lobianco, mentre il capogruppo di Fi Everest Bertolisostiene che «il primo maggio ’45 ha inizio per la popolazione italiana un periodo di persecuzioni e terrore». «Per fare campagna elettorale – incalzano i grillini Paolo Menis e Stefano Patuanelli – ha riaperto ferite che erano rimarginate». «La storia Furlanic l’avrà pure studiata ma forse non l’ha pienamente compresa», così il segretario della Lega Pierpaolo Roberti. «C’è chi ancora in questa città pensa di vomitare simili idiozie», annota il consigliere provinciale di Un’altra Trieste Andrea Sinico coi colleghi circoscrizionaliFrancesco Clun, Paolo Silvari, Marco Ianza, Dario Lonzaric e Andrea Balanzin. I capigruppo circoscrizionali Pdl/Fi Roberto Dubs e Alberto Polacco, ancora, vogliono da Furlanic le «scuse a tutte quelle famiglie che hanno perso i loro cari nelle foibe». Scuse e dimissioni servono anche per Alternativa Tricolore mentre il coordinatore di Fi Giovani Piero Geremia spara più alto: pretende si faccia da parte pure Cosolini.
 
 285 – Corriere della Sera 24/10/14 L’onorificenza al Quirinale: Rosita Missoni – cavaliere dopo Ottavio ma io lavoravo di più
 L’onorificenza al Quirinale: Rosita Missoni – cavaliere dopo Ottavio ma io lavoravo di più
 Davanti agli studenti della Statale di Milano, Rosita Missoni, 83 anni che nessuno le darebbe mai, l’altro mercoledì aveva fatto anche dell’ironia – non polemica, da gran dama della moda italiana qual è. «Lo aveva già detto Ottavio vent’anni fa: “Dovevate nominare cavaliere del lavoro la Rosita, non me”. Lui con il lavoro ha sempre avuto un rapporto un po’ particolare. Insomma, da creativo. Ripeteva: non capisco perché mi debbo alzare alle otto quando non mi sveglio prima di mezzogiorno», lasciando intendere che quella che si è sempre sporcata di più le mani in azienda, alla Missoni ora a Sumirago, in provincia di Varese, che hanno fondato insieme nel 1953, è stata lei, non lui.
Ieri, ventuno anni dopo la nomina a cavaliere del lavoro conferita al marito – era il 1993, Ottavio Missoni è morto nel maggio del 2013, a 92 anni – è arrivato finalmente il suo turno. Rosita Jelmini Missoni è una delle sette donne insignite al Quirinale dal presidente Napolitano. Moda, arredo e meccanica fra i settori più rappresentati in questo giro di nomine. Ci sono, fra gli altri, Giancarlo Dani del Gruppo Dani, fornitore di pellami di alta qualità, Claudio Del Vecchio, figlio del patron di Luxottica, presidente e amministratore delegato di Brooks Brothers, Simonetta Stronati, ad del marchio di abbigliamento per bambini Simonetta, Patrizia Moroso, dell’omonima azienda di design. «All’estero ogni volta che ci hanno premiato, e sono state tante, c’era un premio per Ottavio e uno per me. In Italia, no: tutto solo per lui», aveva continuato la signora nella lezione ai ragazzi, trascinando l’uditorio in una risata collettiva.
Una storia da manuale, quella dei Missoni, tanto da diventare materia di insegnamento per il corso di «Editoria, culture della comunicazione e della moda» dell’Università di Milano. Dall’incontro a New York all’inizio degli Anni Settanta con la mitica giornalista Diana Vreeland («guardate bene questi due, disse alle sue assistenti indicando me e Ottavio, perché sono due geni»), alle collezioni che via via si sono succedute e che hanno creato uno stile personalissimo, quello zig zag nella maglia che equivale a una firma. «Eravamo così ingenui in quegli anni. Ricordo che sta-vamo stringendo un accordo commerciale e la nostra controparte americana ci chiese: quando possiamo incontrare i vostri avvocati? Ci siamo messi a ridere: io e Ottavio non sapevamo neppure che esistessero gli studi legali per queste cose. Facevamo tutto noi e a volte ce ne siamo anche pentiti».
Ma Missoni è un caso da manuale anche per il modo in cui ha risolto la questione del passaggio generazionale. «Quando mia figlia Angela, dopo una serie di belle collezioni prodotte con il suo nome, ha deciso di essere pronta per assumersi la responsabilità della prima linea, io ho fatto un passo indietro – riprende la signora -. La moda è un mestiere devastante: devi uscire, stare con le persone, la mia vita non corrispondeva più a quelle richieste». Ora segue la linea casa di Missoni. E la sua famiglia. Ieri, con lei a Roma, c’erano Angela e i nipoti Teresa, Francesco e Ottavio junior.
 
286 – Secolo d’Italia 11/10/14 Illy non finanzia il monumento sulle foibe
 Illy finanzia lo stand Usa all’Expo, ma ha finito i soldi per il monumento sulle foibe
 di Guido Liberati
 Neanche un euro per finanziare il monumento in ricordo delle vittime delle foibe a Milano: lo ha deciso la Fondazione Illy dopo richiesta da parte degli esuli istriani che confidavano nella sensibilità di Riccardo Illy, l’imprenditore del caffè, già sindaco di Trieste e governatore del Friuli. Illy, che per qualche tempo aveva aspirato al ruolo di Berlusconi del Pd, non ha finora lesinato finanziamenti ai progetti più disparati.  La Fondazione Illy risulta anche tra i principali finanziatori dello stand degli Stati Uniti d’America per l’Expo 2015 di Milano. La struttura, che costerà 45 milioni di euro, sarà realizzata con un fund raising principalmente di investitori privati americani, con l’eccezione di Illy. Niente da fare, invece, per il monumento dedicato agli esuli della sua terra, un’opera che ha ricevuto anche il via libera del Comune di Milano. Un rifiuto che ha sorpreso in senso negativo Romano Cramer, segretario dell’associazione culturale “Movimento nazionale Istria Fiume Dalmazia”. «Con grande amarezza e delusione – ha detto l’esule istriano a Il Giornale – ci hanno comunicato che il monumento trova difficile collocazione nella loro strategia di comunicazione legata all’arte contemporanea«. Inoltre, «per l’anno 2015, i fondi per la sponsorizzazione sono già programmati e destinati ad altre iniziative». Ormai gli esuli istriani e le foibe sono il passato: più conveniente finanziare gli americani (dove il consumo di caffè Illy va a gonfie vele) che ricordare i morti della propria terra.
 
287 – Italia Oggi 18/10/14 La Croazia bagna il naso all’Italia nella forte riduzione delle Regioni
 La Croazia bagna il naso all’Italia nella forte riduzione delle Regioni
 di Dario Fertilio
 Se Roma chiama, Zagabria risponde: è, si direbbe, lo spirito del tempo. Mentre Renzi impone alle spese delle Regioni : italiane una dieta sostanziosa, intorno : ai quattro miliardi di euro, la Croazia, i a sua volta, si appresta a ridurre dra-i sticamente il numero delle Contee, ; chiamate Zupatiije, per evitare un rovinoso deficit economico e finanziario.  Solo che Zagabria non può limitarsi a intervenire su trasporti e sanità, o a ; imporre livelli standard; deve invece : ridisegnare (su preciso mandato della Commissione europea) l’intero assetto ; territoriale.
 Le 21 Contee attuali dovranno ridursi verosimilmente a cinque o sei, ; resuscitando così antiche entità seminazionali come la Dalmazia (e infatti gli esuli di lingua italiana, oltre a molti 1 degli attuali abitanti, già provano un brivido di orgoglio); ma riaccendendo : anche timori antichi, ad esempio fra le popolazioni dell’Istria, dove l’accorpamento con l’area di Fiume e Quarnero suscita sgradevoli ricordi di jugoslava memoria. E creando inevitabilmente nuove rivalità: per esempio fra Spalato e Zara, riguardo al ruolo di capitale della nuova Dalmazia.
 Quel che colpisce, però, non è soltanto la parallela urgenza delle riforme dettate dalla necessità, ma anche la relativa incertezza sulle prospettive. Infatti il ridimensionamento del ruolo regionale italiano (qualunque sia l’esito del braccio di ferro già iniziato con il governo) non potrà comunque spingersi oltre un certo segno, se non vorrà incorrere in una vasta reazione anticentralistica. Così potrebbe uscire dal congelatore l’utopia delle Macroregioni tenuta a battesimo da Miglio, poi ripresa in Lombardia da Maroni e Formigoni: l’idea di ridurre drasticamente le spese ma non le competenze, collegandosi al percorso avviato dal governo Berlusconi, e attribuendo ad enti territoriali sufficientemente grandi la facoltà di esercitare un vero federalismo fiscale.
 Per la Croazia questo percorso di fatto è già iniziato: le nuove Macroregioni sono state varate dopo anni di studio dall’Istituto economico di Zagabria, j con una commissione di geografi. Ora, mentre si riaffaccia inquietante lo spettro greco e crescono le pressioni della  Ue, è facile prevedere un percorso di riforma accelerato, subito dopo l’elezione del nuovo Parlamento e del Presidente I della Repubblica. Ma la somiglianza fra i due Paesi non finisce qui, perché altri j punti deboli affini riguardano la pletora di città e comuni anche microscopici i (in Croazia, grande un sesto dell’Italia, rispettivamente 128 e 428) che gravano sul bilancio generale.
 Anche qui sussidiarietà dal basso e federalismo, uniti a uno sfoltimento drastico, potrebbe ridare vigore agli enti locali e alle antiche identità territoriali. Snellire, tagliare ma non umiliare le autonomie potrebbe essere la i scommessa obbligata sia di Roma che ; di Zagabria. Altrimenti le mezze riforme, come quella che ha finto di abolire : le province in Italia mantenendo i costi ; del personale, finiranno per presentare il conto in rosso: politico prima che finanziario.
Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile.
 
288 – La Voce del Popolo 20/10/14 Ricordo e memoria, la prospettiva della Bancarella diventa europea
 Ricordo e memoria, la prospettiva della Bancarella diventa europea
 Ilaria Rocchi
 Lo spirito di Zara sulla “Bancarella” 2014, con la ritrovata unità delle associazioni degli esuli e dei “rimasti” e la voglia di crescere – come già ribadito all’inaugurazione dell’asilo italiano – in uno spirito europeo. Il Salone del Libro dell’Adriatico orientale ha proposto insieme, per la prima volta le une accanto alle altre, nello stand centrale della fiera triestina, quanto da loro prodotto in termini di libri e periodici. Insieme ancora a celebrare importanti anniversari. “La manifestazione, rinnovata sia nella formula che nello spirito – hanno osservato a nome del comitato scientifico e di tutte le associazioni partecipanti i presidenti di CDM, Renzo Codarin e di UPT, Fabrizio Somma – si è conclusa con un bilancio più che lusinghiero non solo in termini numerici di presenze agli incontri e di pubblico interessato alle pubblicazioni. È stato possibile riunire non solo idealmente le produzioni letterarie edite da associazioni che da tempo collaborano assieme, unendo sotto un unico tendone tutti i soggetti che hanno il merito di salvaguardare e diffondere la memoria e la cultura delle popolazioni di lingua italiana dell’Adriatico orientale, indicando una strada futura comune per nuove iniziative da organizzare in maniera condivisa. Non è un punto di arrivo, ma di partenza. Gli anniversari ricordati rappresentano un momento di riflessione per allargare le prospettive e non limitarsi alla definizione di confini orientali, ma parlare invece di un più ampio contesto Adriatico, europeizzando la vicenda dell’esodo. Il ricavato delle donazioni effettuate dai frequentatori del Salone, complessivamente circa 1.500 euro, verrà devoluto all’Istituzione prescolare italiana “Pinocchio” di Zara ed è stato consegnato al neodirettore della rivista “Il Dalmata”, Dario Fertilio, origini di Brazza, che proprio alla “Bancarella” ha avuto il suo esordio nella funzione che ha assunto al recente raduno dei Dalmati a Iesolo. Gran finale sulle ali del “Va pensiero” – che è l’inno degli Istriani, Fiumani e Dalmati –, eseguito dal soprano Francesca Lunghi, e quindi brindisi con vino istriano, offerto da produttori della nostra penisola.
EDIT, Radio Capodistria e UPT
Oltre alla casa giornalistico-editoriale EDIT di Fiume, a Radio Capodistria, all’Università Popolare di Trieste, sul palco de “La bancarella – Salone del Libro dell’Adriatico orientale”, che si è svolto dal 16 ottobre e fino a ieri sera in piazza Sant’Antonio Nuovo, nel capoluogo giuliano, ideato dal Centro di Documentazione Multimediale della Cultura giuliana, istriana, fiumana e dalmata e co-organizzato dall’UPT, sono saliti nei giorni scorsi altri istituti e associazioni. Così il Centro di Ricerche Storiche di Rovigno è stato protagonista sabato con l’intervento del suo direttore e fondatore, Giovanni Radossi, che ha raccontato retroscena e aneddoti legati alla nascita dell’istituto, ha spiegato la sua funzione e la sua produzione. A parlare di Coordinamento Adriatico, invece, sono stati il suo presidente Giuseppe de Vergottini e Guglielmo Cevolin, docente di Legislazione dei beni culturali, mentre a illustrare ciò che fa la Società Dalmata di Storia Patria, che non è un’associazione di esuli, “ma un’associazione esule”, in quanto nata a Zara nel 1926 e trasferita a Roma, è stato il consigliere Bruno Crevato Selvaggi. L’Associazione delle Comunità Istriane, che festeggia i venti anni della sua sede in via Belpoggio, è stata invece rappresentata da Licia Giadrossi-Gloria Tamaro e Paolo Sardos Albertini, a capo della Lega Nazionale, si è soffermato sul ruolo di questa società e sul cinquantenario del ritorno di Trieste all’Italia, dopo il Memorandum d’Intesa di Londra.
Completare il quadro delle conoscenze
Ciascuna di queste realtà, come emerso nel dialogo con il pubblico del Salone – forse non numerosissimo in tutte le fasce orarie, ma attento – si è staccata uno spazio tutto suo e un ambito non ricoperto da altre realtà, in modo da completare e integrare il quadro delle conoscenze, quasi a formare e/o ricomporre i tanti tasselli di quel composito mosaico che è la civiltà istriana, fiumana e dalmata. Così Coordinamento Adriatico ha messo in atto un prezioso intervento di censimento, inventarizzazione e consolidamento delle “carte” negli archivi in Dalmazia e Istria, in sinergia con le istituzioni croate (fatto quantomai significativo), oltre che di recupero della toponomastica. Pure la Società Dalmata di Storia Patria agisce a livello di fonti, valorizzando ad esempio le relazioni dei vari governatori – leggi rettori – della Dalmazia, dell’Istria e del Levante Veneto che inviavano regolarmente alla Serenissima Repubblica di San Marco, oltre ovviamente a sostenere e pubblicare ricerche monografiche in vari campi (ad esempio, sulla storia dell’’imprenditoria in Dalmazia e sulla comunità ebraica in regione); il campo dell’Associazione delle Comunità Istriane, invece, è più propriamente quello della memorialistica.
Il CRS
Pubblicazione di saggi – spalmati nelle sue varie riviste, come gli “Atti”, i “Quaderni”, le “Ricerche sociali” e altre –, di un bollettino (“La Ricerca”), raccolta di fonti bibliografiche e archivistiche, cartine topografiche e tanto altro ancora: dal 1968 ad oggi il Centro di Ricerche Storiche di Rovigno è diventato per eccellenza il custode del retaggio culturale e storico della Comunità nazionale italiana in Croazia e Slovenia, il luogo che ambisce a conservare un po’ tutto ciò che di cartaceo è stato fatto in riferimento al territorio dell’Adriatico orientale (e non solo). La mole e lo spessore delle attività del Centro sono davvero impressionanti. E si continua, come ribadito da Radossi, che ha annunciato la prossima uscita di nuove ambiziose opere, tra cui quella omnia di Giuseppe Praga e un saggio sulle famiglie nobiliari buiesi.
Visibilità alle realtà associative
È stato giusto dare visibilità a Trieste a queste realtà associative e istituzioni, anche per fare un bilancio di tutto ciò che hanno fatto finora e stanno ancora facendo, anche per far capire, al pubblico più vasto, che ora gli strumenti per conoscere e approfondire la nostra storia ci sono tutti, e non sono pochi. Buona parte di questi sono stati esposti alla “Bancarella”. Quelli invece su cui si è focalizzata maggiormente l’attenzione – anche a discapito della quantità e di testimonial di richiamo, forse – sono stati i titoli più freschi sull’argomento, ciò che è stato prodotto dall’ultimo appuntamento a oggi. Dunque, panoramica generale e aggiornamento in diretta. Utilissima, a proposito, la rassegna dell’edito, offerta da Adriana Ivanov Danieli (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Comitato di Padova) e Giorgio Federico Siboni (Università degli Studi di Milano), che sapientemente hanno tratteggiato con spirito analitico e critico i volumi usciti quest’anno e che non hanno trovato posto sul grande palcoscenico
Qualità e novità
Qualità e novità, questo, dunque, il filo rosso della “Bancarella” 2014, la nona edizione. Molto apprezzato dagli addetti al mestiere lo sforzo di mettere a disposizione degli studiosi lavori di fonti che, come ha fatto notare Davide Rossi, uno dei coordinatori dell’evento, nascono proprio per essere utilizzati da altri e che sono fondamentali per l’innalzamento della qualità scientifica. Appartengono a questo “filone” due lavori in particolare: uno che porta il timbro della Società di Studi Fiumani a Roma, cioè “I verbali del Consiglio Nazionale Italiano di Fiume (1918 – 1920)”, a cura di Danilo Luigi Massagrande; l’altro è targato CRS di Rovigno, ossia il “Carteggio Pietro Kandler – Tomaso Luciani (1843 – 1871)”, a cura di Giovanni Radossi. Il primo è il risultato di un delicato lavoro filologico di copiatura e conservazione dei protocolli che si sono mantenuti in un’unica copia, tramandati da Arturo Chiopris, segretario del Consiglio Nazionale Italiano, che si trasmettono la quotidianità fiumana di un’epoca difficile, ma nella quale i fiumani hanno saputo dimostrare, con orgoglio, di essere capaci di autodeterminarsi e – fatto nagato dalla storiografia croata e, in parte anche italiana – decidere del loro destino, come ha concluso Marino Micich, che ha esposto il libro. Insomma, attraverso gli atti del suo governo, guidato da Antonio Grossich, emerge un popolo fiumano che esce allo scoperto e difende la propria identità (italiana) e i propri diritti fino alla morte.
Periodo problematico, si diceva, in cui la città passa dall’Austria-Ungheria all’Italia (nel 1924, in seguito al Trattato di Roma), ribellandosi alle mire del neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, passando per l’esperienza della Reggenza (d’annunziana) del Carnaro e dello Stato Libero (zanelliano). Vari momenti, anche concitati e confusi, che si possono seguire in modo originale attraverso i francobolli e le monete, come attesta “Fiume 1918 – 1924. I servizi postali e la filatelia tra vicende storiche e vita di tutti i giorni”, di Oliviero Emoroso (autore ed editore), corposo ed esaustivo studio sull’argomento, che indubbiamente susciterà l’attenzione degli appassionati del genere e dei collezionisti.
I francobolli, per Fiume una parte di storia
“Di solito la filatelia viene considerata un semplice hobby – ha rilevato Emeroso – ma per Fiume i francobolli furono una parte di storia. Nel libro ho cercato di mettere in rilievo il parallelismo tra storia e filatelia e mi sono reso conto che le vicende di Fiume sono note solo per alcuni aspetti come l’impresa di D’Annunzio. Se non si conosce la storia di Fiume in modo approfondito non è possibile comprendere il significato di alcune sovrastampe. È nata curiosità su alcuni periodi semisconosciuti, come quello interalleato, quello successivo alla parentesi dannunziana e soprattutto la storia della moneta, con il passaggio dalla corona alla lira, su cui ho svolto una ricerca giuridica su testi dell’epoca. La mia soddisfazione risiede nel far capire che filatelia e storia sono la stessa cosa: chi è interessato alla storia di Fiume è interessato anche alla filatelia e viceversa”.
Due grandi personalità istriane
Tornando al discorso di prima, l’altro contributo nel segmento delle fonti, quello del CRS sul carteggio Kandler – Luciani, esso ci restituisce la figura di due grandi personalità istriane, il “tuttologo” triestino, molto attento alle cose della nostra penisola, e l’albonese coinvolto in un progetto di Italia unita. Insomma, due menti italiane di spicco, che con il tempo hanno sviluppato anche un rapporto di amicizia, per cui cambia progressivamente anche il tono – diventa più intimo, diretto, quasi familiare – della loro comunicazione. Dal carteggio traspare, quindi, anche il loro carattere. “Il Carteggio Pietro Kandler – Tomaso Luciani (1843-1871) – ha rilevato Radossi – è certamente il più importante dei carteggi dello studioso triestino: si tratta di 160 lettere che abbracciano non solo un importante periodo storico per i due personaggi, per Trieste e per l’Istria, ma affrontano anche argomenti tra i più svariati che però risultano particolarmente importanti per la storia dell’archeologia, del territorio, dell’idrologia antica. Tutti argomenti che al tempo del Kandler nascevano come interesse degli studiosi. Molte delle ipotesi avanzate dal Kandler risultano oggi superate, ma ha avuto il merito di averle iniziate. Pubblicare questo carteggio costituisce un apporto fondamentale per ulteriori studi sulla storia dell’archeo-ricerca a Trieste e in Istria. Riveste anche una fondamentale importanza nel nuovo contesto politico che si trovano a vivere questi territori quando le loro identità possono perdere quei colori che un tempo avevano”.
Brutta e dolorosa pagina del nostro ‘900
Ieri il microfono della “Bancarella” è passato, a turno, agli autori di altri interessanti apporti storiografici, i più riguardanti quella brutta e dolorosa pagina del nostro ‘900 che sono stati gli infoibamenti e l’abbandono delle loro terre da parte della stragrande maggioranza degli istriani-fiumani-dalmati, ma in un’ottica un po’ diversa, cioè guardando a quegli eventi dalla distanza del decennale del Giorno del Ricordo, elaborando una sorta di bilancio su quanto fatto per la conoscenza e l’apprendimento della vicenda. La giornalista e storica dell’arte Carla Isabella Elena Cace ha così dato una sua visione dello “stato delle cose” attuale (“Foibe ed esodo. L’Italia negata”, Editore Pagine, Roma), sottolinenando l’importanza degli studi “perché c’è ancora tanto da scopire”, visto che i dieci anni della Legge sono in effetti poco in confronto a 70 anni di silenzio, ma anche della necessità di non fossilizzarsi e di andare oltre. Giuseppina Mellace ha riassunto il suo “Una grande tragedia dimenticata. La vera storia delle foibe” (Newton Compton, Roma), ricerca che dà voce, tra l’altro, anche alle tante donne vittime delle foibe e delle persecuzioni, al peso forte sostenuto dalla popolazione femminile durante la guerra, come pure ad altri segmenti specifici che raramente vengono affrontati pubblicamente in Italia, come l’accogliento degli esuli in patria e il contro-esodo. Mellace inoltre ha narrato la sua esperienza di docente, rilevando che molte scuole oggi ne parlano, ma al contempo resta ancora forte il pregiudizio, per cui per altre è tutt’oggi un tabù. Maria Ballarin è scesa nel campo didattico, esaminando l’atteggiamento della politica scolastica italiana in riferimento al dramma giuliano-dalmata (“Il Trattato di Pace del 10 febbraio 1947 nei programmi e nei testi scolastici di storia”, Leone editore, Milano). Una delle critiche più frequenti che si è sentita ha riguardato infatti la mancanza di un adeguato insegnamento sul tema, la trasmissione ai giovani di queste pagine ancora troppo spesso sorvolate, se non addirittura fuoriviate, della nostra vicenda. Ballarin ha messo a disposizione una traccia sicura su cui muoversi, uno strumento per la didattica e lettura donamentali.
Appuntamenti saltati
Saltato l’appuntamento con Libero Benussi e il suo “Vocabolario Italiano – Rovignese” (Comunità degli Italiani di Rovigno), come pure è mancato, per un improvviso malore del presidente Massimiliano Lacota, quello con l’Unione degli Istriani, che compie 60 anni. Allargamento degli orizzonti nel pomeriggio con Egidio Ivetić, che ha ripercorso l’ambito Mediterraneo, la “frontiera”, il confine nell’Adriatico tra Italia e Slavia – come recita il titolo del suo nuovo libro, edito da Viella (Roma) –, dal XIV al XX secolo. In chiusura, una riflessione sulla Dalmazia, con la
lectio magistralis del giornalista del “Corriere della sera”, Dario Fertilio, in uno scambio di opinioni e considerazioni con Davide Rossi.
Sfaccettature del passato
Che dire? Una “Bancarella” che ha richiamato diversi lettori, che è scesa nelle più varie sfaccettature del passato, che ha messo in mostra le associazioni e le istituzioni, alle quali spetta il merito di aver saputo sempre conservare e lasciare una traccia indelebile – al di là delle celebrazioni del 10 febbraio – di ciò che è avvenuto nel corso dei secoli, delle caratteristiche della nostra civiltà. Ritrovandosi insieme sotto lo stesso tendone, hanno forse anche ritrovato un’unità di intenti, mirando al ricongiungimento delle genti istriano-fiumano-dalmate, anche per capire su quali basi impostare le comuni strategie future. È emerso dai dibattiti che la storia dell’Adriatico orientale ha ormai travalicato il localismo, ha assunto una dimensione nazionale e universale, in quanto coinvolge la società civile.
E se la valorizzazione della cultura – in tutte le sue espressioni e manifestazioni – resta un punto fermo nel processo di identificazione e formazione identitaria, contro oblii, negazionismi, riduzionismi e assimilazioni, si sta ragionando su altri percorsi, che consentiranno agli italiani di oggi di restare nella loro patria e a quelli che se ne sono andati forse anche di ritornarci, in un certo senso. Va vista in quest’ottica l’iniziativa “Renovatio Histriae”, una società che vuole mettere in rete gli imprenditori connazionali nei campi dell’enogastronimia e del turismo e collegarli con il mercato italiano. Al momento il progetto, appena iniziato, comprende una decina di associati, come ci ha detto Alessandro Altin, promotore e responsabile, che ha fatto esordire questo “rinnovamento istriano” (insieme con Antonio Ballarin, presidente della FederEsuli) proprio alla “Bancarella”.
La manifestazione è resa possibile grazie all’autorevole contributo del MiBAC e all’adesione di numerosi, prestigiosi enti e associazioni; Associazione delle Comunità Istriane; Associazione Dalmati Italiani nel Mondo-Libero Comune di Zara in Esilio; Associazione Libero Comune di Pola in Esilio; ANVGD – Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia; CDM – Centro di Documentazione Multimediale della Cultura giuliana, istriana, fiumana e dalmata di Trieste; Centro di Ricerche Storiche di Rovigno; Associazione Coordinamento Adriatico; Casa editrice EDIT di Fiume; Radio Capodistria; Federazione delle Associazioni degli Esuli; Istituto regionale per la Cultura Istriano-fiumani-dalmata di Trieste; Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione del Friuli Venezia Giulia; Lega Nazionale; Società Dalmata di Storia Patria, Roma, Venezia; Società di Studi Fiumani – Archivio Museo di Fiume a Roma; Unione degli Istriani – Libera Provincia dell’Istria in Esilio; Unione italiana; Università Popolare di Trieste; “La Nuova Voce Giuliana”.
 
 
 
 
289 – La Stampa 16/10/14 Intervista a Slavenka Drakulic
 
Serve un`operazione verità per superare gli odi storici”
 
La scrittrice Drakulic: già a scuola il veleno nazionalista
 
Slavenka Drakulic – Intervista
 
GIORDANO STABILE
 
- Non siamo ne1 1990. Questo episodio finisce qui. Sarebbe pazzesco il contrario.
Né l`Albania né la Serbia hanno interesse a estendere il conflitto sul Kosovo.
Ma il problema dei Balcani esiste. Non abbiamo fatto i conti con la nostra
storia. Non è stata fatta chiarezza sul passato».
Slavenka Drakulic, croata di Rijeka, ha vissuto e raccontato (per esempio in
«Balcan Express») la guerra nei Balcani e ha subito gli attacchi sia dei comunisti che dei nazionalisti negli anni bui
he cominciarono con un`altra partita. Quella fra Dinamo Zagabria e Stella
Rossa di Belgrado del 13 maggio 1990, una delle scintille che innescarono la
guerra civile iugoslava, 200 mila morti. Ancora l`odio che esplode in uno stadio.
 
È la maledizione dei Balcani?
«Questa volta è diverso. Credo che quella dell`altra sera sia soltanto una provocazione. Sia l`Albania che la Serbia hanno troppo da perdere in un altro conflitto. E
fra Tirana e Belgrado non c`è mai stato un confronto diretto. Pesa il Kosovo, certo. C`è il mito della Grande Albania, che però i dirigenti albanesi non hanno mai cavalcato apertamente, in nessun documento ufficiale».
 
 
Che cosa le ricorda invece il clima di quella partita a Zagabria?
 
«Allora la guerra era già bell`e pronta. Avevano preparato tutto. Gli incidenti allo  stadio erano una scusa. Il conflitto sarebbe scoppiato comunque».
E vent`anni dopo non si può ancora parlare di pace?
«La pace ora l`abbiamo! Ed è la cosa più preziosa. Quello che manca è una vera riconciliazione». Si parlava di una commissione per la verità e la riconciliazione sul modello del Sudafrica.
«Non credo che funzionerebbe. I tedeschi stanno provando a lanciare qualcosa
di simile, il 6 e 7 dicembre a Belgrado, con una grande Conferenza. Ma bisogna raggiungere il cuore della gente».
 
Che cosa si dovrebbe fare?
 
«Il nostro problema è che non parliamo del passato. Fra croati e serbi, albanesi. Non abbiano mai chiarito di chi erano le responsabilità nella Seconda
guerra mondiale, nella guerra civile. Preferiamo nascondere le cose sotto il tappeto. E invece finché non si fanno i conti col passato non si può
guardare al futuro».
 
C`è un problema culturale quindi?
 
«Finché avremo dei libri di storia, a scuola, impregnati di nazionalismo, non se ne esce. Tutto il sistema educativo è da cambiare. In Serbia come in Croazia
l`ideologia nazionalista ha sostituito quella comunista. E il principio autoritario non è cambiato. La gente teme ancora il potere, tende a pensare come dicono dall`alto. Ed è facilmente manipolabile da chi usa la propaganda nazionalista».
 
Come se ne esce?
«Serve una rivoluzione culturale che vada dall`alto in basso. Cambiare libri di
scuola, cambiare il linguaggio dei media. E quello della politica».
 
 
 
 
 
 
290 – Panorama 26/10/14 Cultura -  Trieste torna italiana
 
Trieste torna italiana
 
Edoardo Frittoli
 
Occupata e divisa in due zone di influenza nel 1945, la Venezia Giulia fu al centro della prima fase della guerra fredda. L’area fu divisa in due macro zone di influenza: la zona A controllata dagli anglo-americani e la zona B dagli jugoslavi. Dal 1947 Gorizia e Monfalcone tornarono all’Italia, mentre l’Istria divenne definitivamente parte del territorio della Federazione Jugoslava.
 
Anche la città di Trieste fu separata in due zone e posta sotto l’amministrazione anglo-americana (AMG-FTT) o Territorio libero di Trieste, e sotto l’amministrazione di Belgrado (zona B-TLT).
 
Dalla zona d’influenza jugoslava era partito l’esodo drammatico degli abitanti di etnia italiana (Istria, Dalmazia). Solo nel 1953, dopo anni di tensione e scontri per il ritorno all’Italia del capoluogo giuliano, gli Alleati diramarono un comunicato unilaterale (in copia solo all’Italia) in cui assicuravano il ritorno della zona A all’Italia, senza accettare ulteriori rivendicazioni jugoslave. Il fatto creò forti tensioni fra i blocchi, tanto che nei giorni successivi ci fu un concentramento di truppe ai rispettivi confini.
 
Il 4 novembre 1953, festa della Vittoria, i triestini valicarono il confine della TLT e manifestarono presso l’ossario di Redipuglia. Poco dopo fu issato il tricolore sul municipio, prontamente ammainato dagli inglesi. Ne seguirono gravi scontri che provocarono un morto tra i manifestanti. Il giorno dopo fu indetto lo sciopero generale e la polizia militare alleata sparò uccidendo cinque cittadini.
 
Il sangue di Piazza Unità d’Italia porterà, qualche giorno dopo, ai protocolli di Londra. La Jugoslavia accettava lo “statu quo” in cambio del finanziamento angloamericano nella zona portuale slovena (Fiume).
 
Dopo 10 mesi circa di trattativa e un aggiustamento territoriale leggermente favorevole a Tito, il 26 ottobre 1954 la città di Trieste ritornava ufficialmente parte del territorio italiano.
 
 
 
 
 
291 – Avvenire 23/10/14 1954: il tricolore toma su Trieste
 
 
 
Anniversari
 
Sessant’anni fa i militari italiani sfilavano per le vie della città: si concludeva così oltre un decennio di occupazioni che ci avevano contrapposto alla Jugoslavia
 
Parla lo storico Raoul Pupo
 
1954: il tricolore toma su Trieste
 
FRANCESCO DAL MAS
TRIESTE
 
Migliaia di triestini in piazza Unità d’Italia, lungo le Rive, sul molo Audace. Tutti a festeggiare la colonna dei camion dei militari italiani che facevano ingresso nella città. È il 26 ottobre 1954. Trieste toma italiana, dopo 11 anni di occupazioni contrapposte. Ripercorriamo quel dramma e quella festa con Raoul Pupo, che insegna storia contemporanea al Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Trieste. Alla questione di Trieste ha dedicato opere come II lungo esodo (Rizzoli, 2005) e Trieste ’45 (Laterza, 2010). Nel 2014, sempre per Laterza, ha curato il volume La vittoria senza pace. Le occupazioni militari italiane alla fine della Grande Guerra, che verrà presentato il 28 novembre alla camera dei deputati, a Roma.
 
Iztok Furlanic, presidente del Consiglio comunale di Trieste, ha sostenuto in questi giorni che l’esercito jugoslavo ha liberato Trieste dai nazisti; altro che occupazione. Lei, da storico, è trasecolato?
«No, per niente, perché so bene che a Trieste convivono due memorie diverse. Per una componente della popolazione – che nel 1945 era piuttosto numerosa, perché comprendeva gli sloveni e buona parte dei comunisti italiani – la liberazione è arrivata sulle baionette dell’armata popolare jugoslava, perché era liberazione non solo dai nazisti ma anche dall’Italia. Per l’altra componente, che in seguito si sarebbe rivelata maggioritaria, la liberazione è invece quella portata dagli anglo- americani, che il 12 giugno costrinsero a sgombrare le truppe jugoslave. Per questo in riferimento a Trieste gli storici parlano in genere di “liberazioni” al plurale, o di “doppia liberazione”».
 
Il 7 giugno 1953 non passa il progetto De Gasperi di modificare la legge elettorale e l’allora presidente deve cedere il passo a Giuseppe Pella che deve vedersela con l’inaspettata crisi internazionale. Se De Gasperi fosse rimasto a capo del Governo, la prospettiva per Trieste come sarebbe cambiata? De Gasperi, infatti, non era favorevole alla divisione del territorio così come poi avvenne.
 
«Era abbastanza chiaro che dopo le elezioni del 7 giugno si sarebbe arrivati alla trattativa finale sulla sorte del TLT. Se De Gasperi avesse vinto, la posizione negoziale dell’Italia si sarebbe rafforzata, ma non sappiamo se ciò sarebbe stato sufficiente per salvare all’Italia almeno alcune delle cittadine della zona B. Invece la sconfitta di De Gasperi e la sua sostituzione con un governo debole come quello di Pella rischiarono di far franare la capacità negoziale italiana. Per questo Pella, da un lato mise in piedi una dimostrazione militare, dall’altro si affrettò ad informare gli anglo-americani che si sarebbe accontentato di Trieste, purché subito e con una formula tale da “salvare la faccia” al governo italiano».
 
Gli anglo- americani proposero all’Italia un accordo con la Jugoslavia in termini di “prendere o lasciare”. L’Italia perché fu costretta a fare quel sacrificio? Non aveva proprio nessuna alternativa?
«No, perché la sua posizione si stava indebolendo sempre di più, visto che il suoi alleati si erano già messi d’accordo con la controparte… Inoltre, la situazione a Trieste era gravissima, perché la popolazione italiana era esasperata contro il governo militare alleato, nel novembre 1953 c’erano stati i morti per le strade e la crisi poteva riesplodere in ogni momento». Le truppe italiane furono accolte a Trieste con una festa per aspetti sorprendente. La città usciva da 11 anni di successive occupazioni – nazista, slava e alleata – ancorché diversamente caratterizzate. Così si spiega anche quell’accoglienza così festosa. Ma la responsabilità storica di chi è stata? Lei ha ripetutamente spiegato che, alla fin fine, le popolazioni di frontiera si sono trovare a pagare più di tutte le altre il peso della «follia della politica estera fascista». Perché parla di follia? «La Grande Guerra aveva portato all’Italia tutte le “terre irredente” e anche qualcosa di più. Inoltre, aveva allontanato a nord e ad est le grandi potenze dal confine italiano. La politica fascista, prima accettò l’Anschluss, con il quale si trovò il Terzo Reich al Brennero, e poi fece saltare il confine orientale concordato con la Jugoslavia nel 1920 a Rapallo.
Per un paio d’anni l’Italia si gonfiò ad oriente annettendo parte della Slovenia, la Dalmazia e il Montenegro e poi collasso clamorosamente, trascinando nell’abisso anche i territori guadagnati con la prima guerra mondiale. Alcuni di questi erano abitati da sloveni e croati, ma altri erano città italiane, come Zara, Fiume, Pola, Capodistria… Trieste si salvò solo perché porto dell’Austria».
 
Trieste, anche all’epoca, era molto laicista. Eppure alla sua guida si pose una classe dirigente cattolico-democratica. Come la preparò lo storico vescovo Santin?
«Il fatto è, che la classe dirigente, la quale era non solo laicista ma anche nazionalista, aveva fatto fallimento, sostenendo compatta il fascismo e collaborando apertamente con i nazisti. Nel dopoguerra quindi non aveva più la legittimità politica per guidare una nuova stagione irredentista di concerto con il governo dell’Italia democratica e con il sostegno degli anglo-americani, che avevano combattuto contro fascisti e nazisti. Il vuoto venne riempito dai cattolici agendo sia dall’alto che dal basso. Dall’alto, con l’opera del vescovo Santin, che era un patriota ed un uomo di forte personalità. Come altri vescovi italiani, Santin aveva assunto il ruolo di “defensor civitatis” dopo la fine della guerra, perché altri punti di riferimento autorevoli per gli italiani non c’erano. Anche la vecchia dirigenza liberal-nazionale finì rapidamente per guardare a lui. Contemporaneamente, dal basso, un sacerdote d’eccezione, don Edoardo Marzari, durante la resistenza guidò il CLN e nel dopoguerra diede impulso alle organizzazioni sociali e politiche dei cattolici. Questi quindi si erano legittimati anche sul piano antifascista e potevano offrire alla città una nuova classe dirigente credibile e ben collegata con il governo di Roma. Gli anglo-americani nicchiarono un po’ prima di accettarla, perché avrebbero preferito degli interlocutori laici e massoni, ma questi ormai politicamente non contavano più nulla».
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
292 – La Voce di Romagna 28/10/14 Gianni Ruzzier: Il giorno che Trieste tornò italiana
 
 
GIANNI RUZZIER, ESULE DA PIRANO, TESTIMONE DI QUELL’INDIMENTICABILE CERIMONIA
 
Il giorno che Trieste tornò italiana
 
Il grande maestro riminese Carlo Alberto Rossi ha composto “Trieste mia” portata al successo da Teddy Reno
 
 
Così Ruzzier ricorda i momenti precedenti dell’ingresso in città delle truppe italiane: “La vigilia nessuno riuscì a dormire. Al Silos dove vivevo abitava anche un certo Casalanguida che possedeva una balilla. Su quella macchina, tutta avvolta dalle bandiere tricolore salirono suo figlio e un altro ragazzo, mentre io ero aggrappato al predellino. Sul cofano c’era la bandiera dell’Istria abbrunata. In quella giornata di festa i profughi istriani, fiumani e dalmati non poterono fare a meno di esporre sui davanzali il loro simbolo listato a lutto. Era ormai certo che la zona B del Tlt, Territorio libero di Trieste, non sarebbe più tornata all’Italia”. E’ il caso di ricordare che il Trattato di pace del 1947 aveva previsto la creazione del Tlt di Trieste; nell’impossibilità di nominare un governatore condiviso, si era proceduto alla divisione in due zone, la A sotto amministrazione alleata, la B, che arrivava fino al fiume Quieto sotto amministrazione jugoslava. Sarà il Trattato di Osimo del 1975 a ratificare definitivamente quella divisione. “La balilla – continua il racconto di Ruzzier – faceva la spola da Miramare verso il centro di Trieste per avvisare la cittadinanza sui movimenti delle truppe italiane in marcia verso la città. Il generale inglese John Winterton, quello che aveva ordinato alla polizia civile di sparare durante le manifestazioni del novembre 1953, aveva già passato le consegne al generale De Renzi e si era allontanato dalla città praticamente di nascosto”. Ruzzier racconta con commozione le manifestazioni di entusiasmo tributate dai triestini ai militari. Dovunque sventolavano le bandiere tricolore distribuite dalla Lega Nazionale, associazione irredentistica che risale all’Impero Austro Ungarico. Ai bersaglieri vennero strappate le piume del cappello, gli altri militari vennero letteralmente spogliati di gradi, stellette e mostrine. Quei trofei finirono nelle case dei triestini che li hanno conservati gelosamente. Viste le circostanze, il Comando truppe ovviamente non punì chi aveva la divisa in disordine. Il giovane Ruzzier era stato protagonista delle tragiche giornate del 5 e 6 novembre 1953, quando negli scontri tra la popolazione e la polizia civile avevano perso la vita sei persone di età compresa tra i 15 e i 65 anni. A dare origine alla protesta popolare era stato il divieto del generale Winterton all’esposizione del tricolore sugli edifici pubblici in occasione del 4 novembre, Festa della Vittoria. Gli scontri erano iniziati proprio il 4 novembre, un corteo di ritorno dal Sacrario di Redipuglia stava per avvicinarsi a piazza dell’Unità quando la polizia civile strappò senza tanti convenevoli il tricolore a un ragazzo, si trattava di Ruz-zier. Quella scena è stata immortalata da un fotografo ed è stata pubblicata su diversi giornali. Sulla destra si scorge un agente in borghese che sta per sferrare un pugno a Ruzzier, mentre sulla sinistra un agente in divisa si accinge a colpirlo con il moschetto, mentre alle spalle un ufficiale inglese lo afferra per il collo. Esiste anche una foto che riprende l’agente che gli aveva strappato la bandiera mentre si allontana di corsa. “Ero riuscito – continua il racconto di Ruzzier – a recuperare l’asta con l’albarda; gli esuli residenti al silos avevano fatto una colletta perché su quella bandiera fosse ricamata la data del 4 novembre”. Tornando alle drammatiche giornate del 5 e 6 novembre, Ruzzier ricorda che davanti alla chiesa di Sant’Antonio, dove erano cadute sotto il fuoco della polizia civile due persone, un anonimo aveva lasciato una grande scritta: “Con la schiuma limacciosa dei tuoi mercenari, con la maledizione degli italiani, caporale Winterton vattene in Kenia!”. Quel cartello verrà rimosso solo dopo oltre una settimana. “Ero amico – continua il ricordo di Ruzzier – di due delle vittime. Leonardo Manzi veniva da Fiume, e aveva 16 anni. Durante gli scontri era riuscito a strappare la carabina dalle mani di un agente, venne però colpito da un proiettile e morì poco dopo il ricovero all’ospedale. Pietro Addobbati era figlio di un noto medico di origini dalmate, arrestato dai tedeschi e deportato a Dachau, che passava spesso al silos per assistere gratuitamente gli esuli”. Ruzzier durante gli scontri era a pochi passi da Addobbati e da Antonio Zavadil, il più anziano dei sei caduti, dipendente del Lloyd Triestino ed esule istriano. Il dottor Addobbati, venuto a conoscenza che all’obitorio avevano portato un ragazzo ucciso durante gli scontri era andato a vederlo, trovandosi così di fronte ad una tragica realtà. La sua casa era diventata meta del pellegrinaggio dei triestini, che firmavano il registro delle condoglianze. Il dottor Addobbati, per ricordare il figlio si impegnò con grande dedizione all’assistenza degli esuli istriani. Veniva spesso a Pesaro per visitare l’istituto creato da padre Pietro Damiani per dare ospitalità e formare professionalmente i giovanissimi esuli istriani, per lo più orfani di almeno un genitore. Nel 2004, l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha conferito alla memoria dei sei caduti la medaglia d’Oro al merito civile. E per concludere da ricordare l’attenzione del mondo dello spettacolo verso Triste staccata dal resto dell’Italia e l’Istria assegnata alla Jugoslavia. Dopo il ritorno di Trieste all’Italia l’impegno di Ruzzier sarà verso la zona B del Tlt, formalmente ancora territorio italiano sotto amministrazione jugoslava, fino al 1975, quando per effetto del Trattato di Osimo l’Italia rinuncerà ufficialmente alla sovranità. All’inizio degli anni ’50 vennero realizzati diversi film sulle gesta di eroi della Prima guerra mondiale come “Fratelli d’Italia” dedicato a Na-zario Sauro da Capodistria, regia di Fausto Saraceni e interpretato da Ettore Manni. Sempre di quegli anni è una nota canzone del grande maestro riminese Carlo Alberto Rossi, “Trieste mia” portata al successo da Teddy Reno, triestino, che aveva esordito a Rimini al teatro Novelli, nel 1943, in uno spettacolo organizzato dallo stesso Rossi. Teddy Reno, all’anagrafe Ferruccio Merk Ricordi, ha uno stretto legame con la Romagna. Ha infatti vissuto a Cesena, dove il padre era dirigente delle industrie Arrigoni, mentre la prima moglie Vania Protti aveva gestito per anni una boutique in viale Ceccarini. “Era un periodo turbolento – aveva raccontato diversi anni fa alla Voce il maestro Rossi – scrissi Trieste mia come contributo per far tornare la città all’Italia. Assieme a Teddy Reno veniva cantata da Italia Vaniglio. Per me Trieste era un faro, ne avevo letto la storia, avevo degli amici. E’ una città bellissima, solare, i triestini hanno una parlata musicale”. Anche la celebre canzone di Nilla Pizzi “Vola colomba” ha come contesto quel tormentato periodo di storia nazionale.
 Aldo Viroli
 
Quando si svolge la vicenda
Dopo la firma del memorandum di Londra
 
Il 26 ottobre di 60 anni fa Trieste festeggiava la sua completa liberazione dopo quasi due anni di occupazione tedesca, nove di amministrazione angloamericana intervallati dai 40 terribili giorni di occupazione jugoslava. Quel giorno, per effetto del Memorandum di Londra, firmato il 5 ottobre, le truppe italiane entravano in città tra l’entusiasmo della popolazione. A testimoniare i momenti più drammatici della storia del capoluogo giuliano restano la Risiera di San Sabba, l’unico lager nazista in Italia con il forno crematorio e la Foiba di Basovizza dove durante la quarantena jugoslava ha trovato la morte un numero imprecisato di triestini, e di militari italiani e tedeschi. Giovanni Ruzzier, esule da Pirano e maresciallo in congedo della Guardia di Finanza, oggi riminese d’adozione, è testimone di quel lontano 26 ottobre. Allora aveva 20 anni e viveva al Silos, a pochi passi dalla stazione centrale, in quegli anni adibito a campo profughi. L’edificio è tuttora esistente e adibito a terminal delle autolinee internazionali e parcheggio. Ruzzier ricorda con grande commozione gli amici Leonardo Manzi e Pietro Abbobbati, caduti nelle tragiche giornate del 5 e 6 novembre 1953, quando i triestini erano scesi in piazza per chiedere il ritorno della città all’Italia.
 
293 – Il Giornale 23/10/14 La stanza di Mario Cervi,  L`angoscia di Trieste fra liberazione e sovietizzazione
 L`angoscia di Trieste fra liberazione e sovietizzazione
È aberrante sentir affermare, da esponenti del Pd di origine slovena come Furlanic e Baudin, che la liberazione di Trieste è avvenuta grazie a Tito. Dimenticano che con il trattato di Parigi del 1947 Trieste venne dichiarata Territorio Libero e divisa a metà tra Italia e Jugoslavia e poi, dopo scontri sanguinosi, con il patto di Londra venne destinata all`Italia e liberata nel 1954.L`Italia dovette però rinunciare all`Istria.  I due esponenti di origine slovena, avendo un profondo spirito antiitaliano, dovrebbero andarsene nel loro Paese di origine.
Armando Vidor
Loano (Savona)
Caro Vidor, i due esponenti di origine slovena del Pd hanno formalmente ragione quando affermano che Trieste fu «liberata» dalle milizie titine. Queste s`impadronirono infatti della città prima che, dopo lungo negoziato, gli anglo americani potessero mettervi piede. Ma qui bisogna intendersi sul termine «liberata». Con l`occupazione titina Trieste precipitò in un inferno, gli italiani ne furono angosciati. Solo l`Unità, di tutta la nostra stampa, esultò con un grande e menzognero titolo: «Trieste è libera». Trieste era invece sotto la schiavitù dì un dispotismo crudele. Fu quella la stagione delle orribili foibe – a Basovizza gli alleati trovarono 450 metri cubi di resti umani – delle fughe, delle requisizioni, della sovietizzazione d` ogni realtà economica. Molti milioni di lire in banconote, custoditi nella sede locale della Banca d`Italia, vennero prontamente trasferiti in forzieri jugoslavi. A quei giorni di dolore e di passione seguì una sofferta normalità, Trieste fu dichiarata territorio libero, prima della ricongiunzione con una Madrepatria piuttosto distratta. Sì, le avanguardie titine entrarono per prime in Trieste. Una tragedia della quale tanti portano ancora i segni nel corpo e nell`animo.


 Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia – ANVGD di Gorizia

Mailing List Histria
Rassegna stampa

a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri

N. 923 – 22 Novembre 2014
    

Sommario


294 - Il Piccolo 16/11/14 Roma: "Magazzino 18" di Cristicchi in corsa per il Premio Ubu (Roberto Canziani)
295 - La Voce del Popolo 08/11/14 -  E&R :  Ferruccio Derenzini un esule antifascista
296 - La Voce del Popolo 10/11/14 Pisino: Una città scolpita nelle pietre del suo duomo (Ilaria Rocchi)
297 - Corriere della Sera Sette 07/11/14 Ottavio Missoni concorrente di Joyce (Antonio d’Orrico)
298 - Il Piccolo 02/11/14 «Un generale russo fu il sosia di Tito» (Mauro Manzin)
299 - Corriere della Sera Sette 07/11/14 Il mistero della bara di Tito (Antonio Ferrari)
300 - La Voce del Popolo 08/11 /14 Valle d’Istria: Castel Bembo da due anni prestigiosa sede della CI (Sandro Pestruz)

301 - L’Osservatore Romano 11/11/14 Il Perlasca col saio (Ugo Sartorio)

302 - La Voce del Popolo 22/11/14 Rovigno: Kandler e Luciani carteggio di una vita Cristina Golojka)

303 - La Voce di Romagna 18/11/14 Gli ebrei goriziani e la Romagna (Aldo Viroli)
304 - La Voce del Popolo 22/11/14 Marino Bonifacio e il destino dei nomi (Claudio Antonelli)


Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :
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294 - Il Piccolo 16/11/14 Roma: "Magazzino 18" di Cristicchi in corsa per il Premio Ubu
“Magazzino 18” di Cristicchi in corsa per il Premio Ubu
 ROMA Potrebbe conquistare il titolo di “miglior progetto sonoro” dell’anno. E tutto lascia intendere che sarà così. “Magazzino 18” (lo spettacolo prodotto dallo Stabile Fvg, appena reduce da una serie di affollate repliche al Rossetti e fra qualche giorno in scena a Milano) è una delle due “nomination” che concorrono all’edizione 2014 dei Premi Ubu, il maggior riconoscimento del teatro italiano. L’annuncio è stato dato a Roma, al Teatro Argentina, nel corso della presentazione del numero monografico della rivista Panta, dedicato a Franco Quadri, il critico teatrale di Repubblica, che dei Premi Ubu è stato fondatore e animatore, 37 edizioni fa, e che è scomparso nel 2011.
 
Tra gli oltre 700 spettacoli che hanno debuttato la scorsa stagione in Italia, la giuria dei Premi Ubu (formata da 53 votanti che si esprimono attraverso un referendum articolato in due fasi) ha individuato in “Magazzino 18” (e nella colonna sonora di “Quartett”, composta da G.u.p. Alcaro, per la regia di Walter Malosti) i progetti musicali più interessanti. Come si ricorderà, musiche e canzoni inedite dello spettacolo sono firmate da Simone Cristicchi, mentre le musiche di scena e gli arrangiamenti sono del maestro Valter Sivilotti. Lunedì 15 dicembre, al Piccolo Teatro di Milano, la cerimonia finale deciderà l’attribuzione del Premio. Tra le altre nomination, anche titoli che toccheranno presto i palcoscenici del Fvg. Candidati a “spettacolo dell’anno” sono “Le sorelle Macaluso”, regia di Emma Dante (sarà ospite di Teatro Contatto a Udine, a marzo) e “Frost/Nixon”, regia di De Capitani e Bruni (in cartellone il 5 dicembre, a Monfalcone). “Furia Avicola” di Rafael Spregelburd, prodotto da CSS – Udine, concorre al titolo di “miglior novità straniera”.
Roberto Canziani


295 - La Voce del Popolo 08/11/14 -  E&R :  Ferruccio Derenzini un esule antifascista
Ferruccio Derenzini un esule antifascista
 Dalla poetessa Lilia Derenzin, esule fiumana a Travacò Siccomario in provincia di Pavia, insegnante in pensione,  assiduamente presente alle giornate dei Fiumani nella città natale, abbiamo ricevuto una biografia del suo defunto papà che volentieri pubblichiamo. Essa dimostra  che ad andarsene da Fiume nell’immediato dopoguerra furono anche combattenti  antifascisti.
 
Il documento porta il timbro dell’ANPPIA, l’Associazione degli ex deportati politici italiani antifascisti nei campi nazisti, sezione di Pavia. Ferruccio Derenzini, padre di Lilia, nato a Fiume il 12 agosto 1909, fu associato all’ANPPIA dal gennaio 1948. Capitano di complemento del disciolto esercito italiano, il 10 settembre del 1943 si sottrae alla cattura fuggendo in abiti borghesi dall’ospedale militare di Salsomaggiore (dove, giunto dal Sud, era ricoverato)  già circondato dalle truppe tedesche. Viaggia in treni controllati dalla Wehrmacht  esibendo come documento di legittimazione la tessera di libera circolazione della tranvia di Fiume (!) e per breve tempo trova rifugio nella campagna padovana.
Nell’ottobre del 1943 rientra a Fiume e riprende la sua normale attività di lavoro presso l’Azienda Servizi Pubblici Municipalizzati  (ASPM) di quella città  Assieme ad amici di comuni  ideali e compagni di lavoro entra subito nel “Comitato Cittadino Popolare di Liberazione” e fa parte della prima “cellula” costituitasi in seno all’Azienda suddetta; “cellula” che si occupa della raccolta di armi e munizioni, viveri e vestiario per i partigiani della zona e collabora inoltre alla redazione della stampa clandestina.
Nello stesso tempo, con i compagni, istituisce il “Sindacato Libero Aziendale”, in odio a quello fascista, nel quale gli vengono affidate le funzioni di segretario;  sindacato, questo, che dopo pochi mesi di vita viene soppresso dai tedeschi con l’incorporazione di Fiume nello “Adriatischeskuesterland”  (sedicente nuova provincia  tedesca) e il conseguente assoggettamento della città alle leggi del Reich. L’attività sindacale serve anche e soprattutto a mascherare il febbrile movimento clandestino delle cellule aziendali e fornisce inoltre degli alibi di una certa  credibilità agli “organizzati” che malauguratamente cadono  nelle grinfie dei nazifascisti.
Per queste sue duplici attività il 19 marzo 1944 il Derenzini  viene arrestato nel suo ufficio dalle S.S., su delazione di impiegati repubblichini dell’Azienda, mentre sta ultimando un articolo per la stampa clandestina. Riesce tuttavia a nascondere il  dattiloscritto perché messo in allarme da un tempestivo squillo telefonico fattogli dal portiere dell’azienda.
Tradotto nelle carceri della città vi rimane per una ventina di giorni e dopo gli inutili interrogatori delle S.S. viene trasferito alle carceri del Coroneo, a Trieste. È rinchiuso assieme ad ostaggi   italiani e sloveni nella “cella  della morte”, uno stanzone  sotterraneo della prigione in cui  sono accatastati un centinaio  di “morituri”.
Infatti da quella cella nella seconda decade dell’aprile 1944 vengono prelevati, fucilati ed impiccati con il filo di ferro, in Via Ghega, a Trieste, 55 ostaggi per rappresaglia all’uccisione da parte di un gruppo d’azione partigiana di 5 soldati tedeschi.
Dopo due penose settimane trascorse nella “cella della morte” viene deportato a Dachau il 27 aprile 1944,  da dove, dopo il periodo di “quarantena”, è inviato al  “Kommando” di Kotterm bei Kempten, campo di lavoro in cui due fabbriche della  Messerschmitt costruiscono parti della V2.
Riacquista la libertà il 28 aprile 1945 nei pressi di Pfronten  assieme agli altri sopravvissuti del “Kommando” mentre carri armati ed aerei americani incalzano le colonne tedesche in rotta e mentre le S.S. con  i cani - a cui è affidato il compito di scortare i deportati  verso Innsbruck per la loro  eliminazione - si dileguano terrorizzate nei boschi delle  alture circostanti.
Con un carro militare tedesco  a tiro di quattro cavalli (offerto dagli americani), assieme a 16  compagni di deportazione, tra i quali Belli e Magenes di Pavia,  intraprende la via del ritorno in Italia. Entra in Svizzera, per intercessione del Partito  Socialista del Canton Ticino e  dopo una lunga, inconcepibile permanenza in vari “campi di rifugiati” rientra a Fiume il  3 agosto 1945 passando per  Domodossola, Novara, Milano,  Trieste e S. Pietro del Carso,  unitamente al suo concittadino  e compagno di deportazione  Mario Bontempo. 
Nel 1947 abbandona la città natale, passata alla Jugoslavia  e si trasferisce a Pavia, dove per 20 anni svolge le mansioni di direttore amministrativo dell’Azienda Servizi Municipalizzati.
Il Maresciallo Tito gli ha  conferito “quale compagno di lotta”, in occasione del XX anniversario della vittoria  della coalizione antifascista, la  medaglia commemorativa con diploma “per la partecipazione  alla guerra di liberazione  dei popoli jugoslavi e per il contributo alla comune vittoria sul fascismo e all’amicizia dei popoli”.
Il Comune di Pavia lo ha insignito di diploma di medaglia d’oro per pubblica benemerenza.




296 - La Voce del Popolo 10/11/14 Pisino: Una città scolpita nelle pietre del suo duomo
Una città scolpita nelle pietre del suo duomo
Scritto da Ilaria Rocchi
“Fare la storia del Duomo, significa rievocare le vicende ora prospere ed ora avverse della città. È stato costruito forse tre secoli dopo il castello e l’insediamento della prima popolazione e porta incise nelle sue pietre e nella sua tormentata architettura le date fondamentali della sua esistenza e delle continue trasformazioni subite. Pisino non è antica come le altre consorelle istriane. È nata per un bisogno di difesa dalle incursioni di altri popoli, che premevano dai monti verso l’Adriatico ed è rimasta sempre fedele a questa sua vocazione”, scriveva quasi quarant’anni fa Nerina Feresini (1912-2007), pisinese doc, una professoressa che insegnò in diverse scuole a Pisino, Zamasco, Sarezzo, Parenzo e Rovigno, prima di lasciare l’Istria, come esule a Trieste, nel 1947. Nerina Feresini ci ha lasciato numerosi saggi sulla sua terra d’origine, tra cui “Scuole e scolari di Pisino sotto l’Austria” (1970), “La Foiba di Pisino” (1972), “La Società filarmonica di Pisino dalla fondazione all’inizio della Prima guerra mondiale” (1974), “La Società Alpina dell’Istria 1876-1885” (1976), “Il Duomo di Pisino (con Gabriella Gabrielli Pross e Fabrizio Pietropoli, 1978) e “Quel terribile settembre 1943: un capitolo tragico della storia di Pisino” (1993), tutti editi dalla Famiglia Pisinota di Trieste, nonché “Pisino. Una città un millennio. 893-1983” (1983) e “Il Teatro di Pisino” (1986), con la Manfrini di Calliano (Trento) e “Il Comune istro-romeno di Valdarsa”, per le Edizioni Italo Svevo (Trieste, 1996).


Collaborazioni importanti

Due anni fa, dalla collaborazione tra la Famiglia Pisinota, la Comunità degli Italiani di Pisino, la nostra casa editrice EDIT di Fiume e l’Università Popolare Aperta di Pisino, era nata la versione bilingue italo-croata del suo saggio “La Foiba di Pisino”. Ora è uscito dalle stampe, sempre in edizione bilingue italo-croata, con testo a fronte e corredo iconografico originario, il volume “Il Duomo di Pisino”, di Nerina Feresini, Gabriella Gabrielli Pross e Fabrizio Pietropoli; circa 160 pagine (tradotte in croato da Morana Čale), a cura della CI di Pisino, della Famiglia Pisinota, dell’EDIT (per la parte grafica) e con il contributo finanziario del ministero degli Affari Esteri italiano (attingendo ai fondi cosiddetti perenti, legge 19/91). Il libro, che riporta in copertina l’immagine del patrono, San Nicolò (particolare sull’altare maggiore), è stato presentato sabato sera nella sede della CI istriana, introdotto dalla “padrona di casa”, la presidente Graziella Paulović, da Maria Gliselli, a nome della Famiglia Pisinota, e da Tullio Vorano, critico d’arte e direttore del Museo Civico di Albona, che ha ripercorso i contenuti dell’opera, soffermandosi sugli aspetti più interessanti di questa chiesa i cui affreschi e oli hanno colori davvero brillanti, di intensa luminosità.


Sala gremita in ogni ordine di posti

L’atmosfera era quella delle grandi occasioni, con una sala gremitissima di connazionali, di pisinesi italiani e croati, di esponenti di associazioni giunte da Trieste e da tutta la penisola, di ospiti. Tra questi, il console generale d’Italia a Fiume, Renato Cianfarani, le vicepresidenti della Regione Istriana, Viviana Benussi e Giuseppina Rajko, l’assessore regionale alla Cultura, Vladimir Torbica, il vicepresidente dell’Università Popolare di Trieste, Manuele Braico, la responsabile del Settore Coordinamento e attività delle CI della Giunta esecutiva dell’Unione Italiana, Rosanna Bernè, il parroco Mladen Matika, Paolo Penso, in rappresentanza della Famiglia Pisinota e Nicolò Sponza del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, nonché Teobaldo Giovanni Rossi, presidente della Camera di Commercio Istro-Veneta. Apprezzatissimi gli interventi del Coro misto della città, “Roženice”, diretto dal Mo. Ines Kovačić Drndić, che ha esordito con il verdiano “Va, pensiero” (dal “Nabucco”), per poi proporre diversi canti sacri e popolari, concludendo con la celebre “Con te partirò”, interpretata da Andrea Bocelli al Festival di Sanremo 1995.
“Il volume

Il Duomo di Pisino – Župna crkva u Pazinu

è la prima edizione bilingue italiano-croata che arricchisce quella del 1978 pubblicata solo in italiano dalla Famiglia Pisinota. Con questo libro vogliamo rendere un ulteriore omaggio ai suoi autori, allargando la fascia di lettori a quelli di lingua croata”, spiega Graziella Paulović. E si tratta di un libro, come rileva Maria Gliselli, che nasce soprattutto dall’amore di una ricercatrice e studiosa, infaticabile “topo di archivi pubblici e privati”, che ha coinvolto nell’operazione diversi esperti per affrontare la materia sotto tutti gli aspetti rilevanti, per decifrare e far parlare gli antichi segni “e così un’onorata storia non sia più coperta dall’oblio”, come ebbe modo di annotare l’arcivescovo Antonio Santin il 1.mo novembre 1978. Così Gabriella Gabrieli Pross si è occupata dell’architettura e dei mutamenti strutturali (leggi spesso deturpazioni) dei quali questa è stata oggetto nel corso dei secoli, Fabrizio Pietropoli degli affreschi e delle tele, mentre Nerina Feresini ha recuperato le vicende della cimiteriale del borgo, con le tombe delle famiglie e le varie epigrafi, e ha ricostruito la vicenda della Prepositura di Pisino, riportando i nomi dei vari prepositi.


Coloro che ci hanno preceduto

Particolarmente significativa, alla luce della scomparsa dei vecchi pisinesi e delle lapidi cimiteriali con i loro nomi, sostituiti da quelli dei nuovi venuti, l’elencazione di coloro “che ci hanno preceduto”, cognomi familiari, italiani. Il tutto in sintonia con il credo di Feresini, ossia non dimenticare per non perdere il patrimonio degli avi, ma anche per mantenere in vita, ora che non è più così, l’immagine di com’era una volta Pisino. Le immagini sono quelle scattate 36 anni fa da Renato Penso. Sotto questa dimensione, il libro potrà risultare utile strumento per chi un giorno si deciderà di restaurare il Duomo (e sappiamo che la Regione Istriana ha intrapreso diversi interventi in varie chiese del territorio).


La strada da seguire in futuro

Esaurita la prima edizione, “Il Duomo di Pisino” non ha perso attualità con il tempo, anzi, eventualmente ne ha acquisita una nuova, grazie alla sua ineccepibile impostazione scientifica. Il suo valore è perlomeno triplice, storico, artistico e religioso. E non solo. È stato promosso e scritto da un’esule (con altri autori), pubblicato da un’associazione di esuli aderente all’Unione degli Istriani – Libera provincia dell’Istria in esilio, con fondi della Farnesina, in un’edizione anche in croato, da un’associazione di “rimasti” e dalla casa editrice di questi ultimi a Fiume, salutato con entusiasmo dal pubblico e dalle autorità locali (lo testimonia la partecipazione alla serata di sabato). “Da parte nostra confermo la disponibilità a realizzare altri volumi, con l’auspicio che si possa continuare a fornire anche ai cittadini croati un modo per avvicinarsi a una storia che è ricchezza di tutti noi”, ha commentato al termine della serata Paolo Penso, della Famiglia Pisinota. È forse proprio questa la strada da seguire anche in futuro?

297 - Corriere della Sera Sette 07/11/14 Ottavio Missoni concorrente di Joyce
Antonio d'Orrico - Consegna pacchi

Ottavio Missoni concorrente di Joyce

Un suo racconto su dodici ore trascorse in una osteria di Trieste apre uno strano libro che parla di vino, di birra e di varie umanità

Il volume, curato da Grigoletto, raccoglie manifesti, mappe e storie esilaranti. Come quella di Sergio Saviane sul proibizionismo all'italiana.

Sta lavorando da anni a una Breve e incompleta storia del Prosecco, un’opera che si annuncia fondamentale (e che è anche un tipico esempio di work in progress come avrebbe detto James Joyce), uno di quei libri destinati a non avere mai una fine. Intanto ha pubblicato Vite ambulante. Nuove cattedre di enologia e viticultura (edizioni Suv, ma le automobili omonime non c’entrano niente, sta per Spazio dell’Uva e del Vino). Si chiama Giovanni Gregoletto ed è, tra le altre cose, un birraio. Ma è, soprattutto, un cacciatore di storie legate al vino e ai suoi dintorni (cioè quasi tutto). Vite ambulante è un libro che contiene una varietà disparatissima di materiali, manifesti storici, lettere, mappe, foto, ecc. Quando ci si entra dentro sembra la stiva di un cargo, la memoria di un rigattiere. Le dodici BOTTI. Lo spunto del libro di Gregoletto è un racconto che scrisse Ottavio Missoni e che narrava dodici ore (da mezzogiorno a mezzanotte) trascorse in una osterìa di Trieste (e qui il riferimento a James Joyce diventa obbligatorio). È un racconto delizioso che comincia ai «dodici boti» (mezzogiorno detto alla triestina) del giorno dei morti (Joyce ancora!) con l’aperitivo (un bicchiere di Traminer e due dondoli, i tartufi dì mare). All’una (un boto) si pranza (yota, sottaceti, carne con le verze, rosso Termi, caffè e grappa).
Ai do boti (le due): «Alcuni si alzano, vanno al cimitero a trovare i morti, altri in arrivo ne prendono il posto». Poi si gioca a carte, scopa e briscola. E si va avanti fino a mezzanotte quando sì chiude cantando: «Dove te eri fino sta ora... iero in malora, iero a far l'amore».

La dodici ore (boti) di Missoni conferma una antica verità: la taverna (o l’osteria) è il luogo fondamentale della letteratura come sapevano bene gli scrittori inglesi tra Sette e Ottocento.

Vite ambulante, ripeto, è pieno di cose.

C’è il catalogo del “Laboratorio di ricerca di sapori perduti” di Giorgio Onesti (esempio la crema spalmabile di nocciole). Ci sono affermazioni da lavare, forse, con il sangue, come quando si insinua che Mario Soldati di vino non capiva niente (ma, al contempo, e meno male, si riconosce la sua grandezza in generale).

Il, SINDACO E L'EDITTO.  Ma a questo libro sono personalmente grato perché vi ho trovato un esilarante intervento di Sergio Saviane, grande firma dell’Espresso dei tempi d’oro. Saviane è famoso per le sue insuperabili critiche televisive. Ed è stato uno scrittore di tragedie (I misteri di Alleghe, il più bel noir italiano, tutto rigorosamente vero, l’unico A sangue freddo nazionale che regge il paragone con l’originale di Truman Capote). Ma è stato anche un umorista imprevedibile. In questo intervento racconta che, finita la guerra, il governo emise un editto contro l’alcolismo considerato un’emergenza sociale, una piaga nazionale. Subito il sindaco di Castello di Gòdego, un paesino del Trevigiano, radunò nella sala comunale i concittadini, che si erano molto allarmati, e spiegò con cura che cosa conteneva l’editto contro l’alcolismo. Giunto alla fine, guardò bene la platea e la rassicurò: «Cossa v’importa dell’alcool? Lasciatelo stare, avete il vino e la graspa, bevete quelli, ostia».


298 - Il Piccolo 02/11/14 «Un generale russo fu il sosia di Tito»
Il vero Maresciallo sarebbe sparito in terra sovietica nel 1937. I dubbi in un dossier desecretato dell’Fbi americano
«Un generale russo fu il sosia di Tito»
di Mauro Manzin
TRIESTE La figura di Josip Broz Tito continua, a 34 anni dalla sua morte, ad alimentare una sorta di leggenda attorno a sè. Prima i documenti della Nsa americana che gettavano un forte dubbio sul fatto che il Maresciallo sarebbe stato russo o polacco e avrebbe avuto un “sostituto” e il tutto in base a un’analisi dell’intelligence statunitense datata anni Settanta. Ora ad alimentare la “leggenda” ci pensano nuovi documenti declassificati ma stavolta dell’Fbi. La documentazione relativa all’identità di Tito è costituita da un dossier di un migliaio di pagine. In esso spicca la testimonianza di Marijan John Markul rilasciata ad alcuni agenti dell’Fbi in Argentina nell’aprile del 1955.
Ebbene Markul sostiene che la persona che oggi dice di essere Tito (siamo nel 1955) non è il vero Maresciallo bensì un agente russo che ha preso l’identità del padre-padrone della Jugoslavia. Il vero Tito sarebbe scomparso in Russia nel 1937. Il documento dell’Fbi contiene anche le informative attorno alla persona di Merkul. Questi è nato a Livno il 27 novembre del 1909 e naturalizzato cittadino americano il 14 marzo del 1944. Ha servito nell’Esercito degli Stati Uniti dal 9 ottbre del 1942 al 30 novembre 1944 quando è stato congedato con onore e con il grado di caporale. Emigrò negli Stati Uniti nel maggio del 1936 e sua moglie, cittadina americana, era impiegata come tecnico di laboratorio in un ospedale della contea di Los Angeles. Merkul gestiva un bar a Los Angeles.

«Non è possibile confermare - si legge nel dossier - quanto le sue affermazioni siano veritiere, ma egli sostiene di essere socialista e di voler dare informazioni importanti per la sicurezza degli Stati Uniti». Nel suo racconto Merkul spiega agli agenti americani di aver visitato la Jugoslavia nel 1953. Nell’occasione incontrò due volte Tito. La prima fu un’udienza pubblica quando notò che colui che si presentava come il Maresciallo aveva cinque dita per mano destra mentre il vero Tito era privo dell’indice e del medio della mano sinistra. Il Tito con cui si incontrò nel ’53 era, al contrario del vero Tito, molto ben istruito e sapeva suonare molto bene il pianoforte cosa assolutamente impensabile per il vero Maresciallo. L’uomo aveva un accento russo e parlava con voce dolce mentre il vero Tito aveva una parlata più profonda e rude. Inoltre il Tito che aveva di fronte era alto un metro e sessanta mentre il Tito che lui aveva conosciuto era alto un metro e ottanta centimetri.
Markul racconta ancora di aver parlato con Tito nel 1928 in Jugolsavia e poi lo incontrò a Parigi nel 1935 e 1936 e quello era il vero Tito. Le sue perplessità erano condivise anche dalla sorella Anna ma soprattutto dal padre John che aveva lavorato fianco a fianco di Tito in gioventù. La seconda volta che incontrò Tito fu a Zagabria. Era con la moglie Ingrid e il supposto Maresciallo li trattò con freddezza. Markul parlò dei suoi dubbi con Alexander Rankovi„, il capo della sicurezza jugoslava. Un colloquio durato tre ore alla fine del quale Rankovi„ lo invitò a lasciar perdere e di godersi la sua visita in Jugoslavia. Markul infine spiega che c’è un’altra autorevole fonte che sostiene la sua stessa versione. Si tratta di un certo Živko Topalvoch che vive in Francia.
Anche lui è convinto che il Tito di oggi (anni Cinquanta ndr.) non è quello vero ma si tratta invece del generale russo Nikolai Lebkdev. Tito sarebbe stato ammalato di tubercolosi quando andò in Russia nel 1937. Lo strappo del Cominform del 1948 sarebbe stato, per Merkul, un abile gioco delle parti orchestrato da Mosca. Da notare che nel dossier, in un documento datato 2 dicembre 1948 si parla anche del poglavnik Ante Pavelic leader del regime ustascia. In base a quanto scritto, Pavelic sarebbe giunto in Argentina a bordo della nave “Sestriere” proveniente da Genova. Avrebbe viaggiato sotto mentite spoglie con una folta barba e baffi prontamente tagliati all’arrivo in Argentina. Pavelic„ sarebbe prima stato ospite a Castel Gandolfo a Roma e poi, con l’aiuto di padre Krunoslav Draganovi„, avrebbe raggiunto Genova per imbarcarsi sul “Sestriere”.


299 - Corriere della Sera Sette 07/11/14 Il mistero della bara di Tito

Antonio Ferrari / Contromano

Il mistero della bara di Tito

All'interno del feretro ci sarebbe soltanto sabbia. Lo rileva oggi un agente di primo piano dei servizi di sicurezza jugoslavi.  Vero o falso?

All’inizio del 1980, il Corriere della Sera mi inviò a Belgrado con un
compito: raccontare per il nostro magazine l’agonia del presidente della repubblica jugoslava, il maresciallo Josip Broz Tito.

Il leader era gravemente malato e tutti si domandavano che cosa sarebbe successo dopo la sua scomparsa. C’era chi temeva che i sovietici, approfittando del vuoto di potere, avrebbero tentato un colpo di mano militare, per piegare i ribelli comunisti jugoslavi alle volontà di Mosca.
Ipotesi risibile, perché l’orgoglio nazionalista delle varie componenti del Paese balcanico mai avrebbe accettato supinamente il “fraterno abbraccio”
dell’Urss.

FIERO E RIBELLE. Raggiunsi il confine più sensibile, quello ungherese, ma tomai a Belgrado dopo una tranquilla gita senza notizie e senza particolari emozioni. Tito mori poche settimane dopo, e i funerali furono davvero un evento planetario: si trovarono accanto alla bara 3 re, 21 capi di Stato e
16 primi ministri. Dall’Italia partirono Peritai e Cossiga, da Mosca Breznev, da Bonn Schmid, da Londra la Thatcher. Il mondo si inchinava davanti alle spoglie di un condottiero fiero e ribelle, che prima aveva combattuto Hitler e poi aveva rifiutato Stalin. Noi avevamo ragioni di risentimento, perché gli italiani, in Friuli e nelFIstria, pagarono un prezzo altissimo alle ambizioni jugoslave. Tuttavia Roma, per ragioni di buon vicinato, perdonò rapidamente le colpe di Tito. Uomo grintoso e raffinato stratega politico, ma anche donnaiolo e amante del lusso. Forse, essendo anche dotato di senso dell’umorismo, non gli sarebbe dispiaciuta la scena del suo funerale. Almeno se verrà ritenuto credibile dò che ha raccontato al quotidiano Vecemje Novosti, Obren Djordjevic, per quarant’anni stella dei servizi di sicurezza jugoslavi. L’agente ha rivelato infatti un segreto di Stato-choc. I papaveri del regime volevano imbalsamare il corpo di Tito ed esporlo in un mausoleo, come Lenta. Ma vi fu un problema . La miscela di farmaci e unguenti con cui era stato trattato il cadavere, sostiene Djordjevic, emanava odori insopportabili. Ecco perché, secondo lo 007, si decise di riempire la bara di sabbia. Bara che molti dei leader presenti accarezzarono. Vero? Falso? Tutto è possibile ma nulla toglie alla solennità del funerale di Belgrado. Tito fu un grande e il suo nome, Broz, non è svanito con la morte del Maresciallo. Infatti sopravvive e viene onorato dalla nipote Svetlana, figlia del suo primogenito Zarko. La dorma, cardiologa, gira il mondo per promuovere la causa dei Giusti: cioè di coloro che si sono battuti contro le pulizie etniche nell’ex Jugoslavia. Svetlana Broz ha creato una nobile fondazione: “Uomini buoni al tempo del male”.

Scene da un funerale - I resti del Maresciallo arrivarono a Belgrado da Lubjana in stato di disfacimento


300 - La Voce del Popolo 08/11 /14 Valle d’Istria: Castel Bembo da due anni prestigiosa sede della CI

Nell' anniversario dell'inaugurazione di uno dei palazzi più imponenti della regione abbiamo incontrato la presidente del sodalizio, Rosanna Bernè

Castel Bembo da due anni prestigiosa sede della CI

Sandro Petruz

A due anni dall’apertura di Castel Bembo, sede della Comunità degli Italiani di Valle, uno dei palazzi più imponenti e prestigiosi dell’intera regione, abbiamo incontrato la presidente della Comunità, Rosanna Bernè, pure responsabile del Settore coordinamento e attività delle CI della Giunta esecutiva dell’Unione Italiana, per capire cosa implichi la disponibilità di una sede così autorevole e il suo molo per il futuro della CNI. Rosanna Bernè ha colto l’occasione per ringraziare nuovamente il governo italiano, l’UI-UPT e tutti i soggetti e gli enti che hanno permesso di ridare vita a questo gioiello, che è un simbolo assoluto della storia di queste terre. La presidente ha sottolineato che a causa della crisi finanziaria che ha colpito pure l’Italia e la Croazia, le Comunità degli Italiani devono puntare sempre di più sull’autofinanziamento e sui progetti socio-economici rilevanti, senza però perdere il molo di tutori della lingua italiana, delle parlate, delle tradizioni e degli usi e costumi locali. Castel Bembo, che si erge maestoso sulla piazza centrale del paese, con i suoi 800 metri quadrati di superficie suddivisa in 4 piani, necessita di ingenti fondi per la sua manutenzione e per questo motivo il sodalizio ha avviato diverse attività che hanno permesso di incamerare i fondi necessari a cofinanziare la gestione dell’immobile.

Autofinanziamento

Si è partiti dall’accordo stipulato l’anno scorso con la Regione Istriana per l’affìtto di uno dei vani d’affari all’ultimo piano, nel quale è stato insediato il Centro UE per la cooperazione internazionale, istituito dalla Regione in collaborazione con l’Università ‘fJuraj Dobrila” di Pola e l’Associazione delle Agenzie per la democrazia locale. Grazie alla collaborazione con la Comunità turistica è stato inoltre organizzato un giro di visite ai monumenti storico-culturali locali, che oltre alla chiesa di San, al lapidario e aha galleria “Ulika”, comprende ovviamente pure Castel Bembo.

Nel palazzo è possibile visitare la mostra dedicata alle foto storiche degli abitanti di Valle, accedere alla Sala dei signori, che vanta degli splendidi fregi e decorazioni sulle pareti e sul soffitto, attentamente restaurati durante l’intervento di recupero deh’imponente struttura. Qui si possono ammirare pure le riproduzioni degli abiti della famiglia dei podestà Soardo-Bembo, che nel medioevo avevano abitato il castello. In poco più di un mese sono stati venduti circa mille biglietti, a testimonianza deh’interesse dei visitatori per il casteho e la sua ricchissima storia. Grazie a un accordo con il Comune, inoltre, la Sala signorile al primo piano, dalla quale si accede alla balconata sul lato della piazza, da quest’anno accoglie le cerimonie nuziali. Finora vi sono stati celebrati 4 matrimoni, senza costi aggiuntivi per la celebrazione fuori sede comunale.
La Bemé ha inoltre ventilato la possibilità di organizzare un servizio completo per le feste di matrimonio, che potrebbero svolgersi nei suggestivi ambienti del palazzo medioevale, assicurando una nuova fonte d’introito per il sodalizio, sempre nel rispetto della nuova ottica di autofinanziamento. In corso, infine, le trattative per l’apertura di un ufficio di rappresentanza della Regione Veneto.

Vocabolario vallese    

Grazie inoltre ai fondi perenti, la Comunità è in procinto di pubblicare il vocabolario del dialetto istrioto vallese, uno dei sei dialetti istroromanzi con il maggior numero di parlanti attivi.
Il dizionario è opera del docente universitario Sandro Cergna, che da diversi anni collabora con il Centro di ricerche storiche di Rovigno per la pubblicazione dell’opera, la cui presentazione è prevista all’inizio del prossimo anno. In stampa anche la monografia dedicata al complesso lavoro di ristrutturazione di Castel Bembo, realizzato in due fasi, che si è protratto per ben anni a causa di numerose difficoltà di ordine burocratico.

Investire nei giovani     

La presidente del sodalizio ha posto in rilievo pure l’esito di una scelta che si può definire provvidenziale e che vede la Comunità finanziare, da tre anni a questa parte, la quota mensa per i bambini che frequentai la sezione dislocata vallese dell’asilo d’infanzia “Naridola" di Rovigno, nonché la merenda pranzo per i ragazzini delle prime quattro classi della sede perifica della Scuola elementare italiana la rovignese “Bernardo Benussi’ Una scelta dovuta al fatto che quegli anni non c’era alcun iscritto alla prima classe della scuola per cui si rischiava la chiusura dell’istituzione scolastica. A li andare ciò avrebbe decretato lento e inesorabile oblio della componente nazionale italiana autoctona locale. Oggi i risultati sono più che tangibili, visto che nelle prime quattro classi ci sono 12 alunni suddivisi in due sezioni: una per i primi due anni d’insegnamento, l’altra per le classi terza e quarta, sezioni che impegnano due giovani insegnanti anche nell’attività del doposcuola. Ottime inoltre le prospettive per il futuro, visto che per il prossimo anno pedagogico si prevedono 7 nuovi iscritti alla prima classe.

La Bernè ha voluto ringraziare le direttrice dell’asilo “Naridola”, Susanna Godena, e la preside della SEI “Bernardo Benussi”, Gianfranca Suran, per l’attenzione, la professionalità e la comprensione manifestate per mantenere viva la sede scolastica vailese, pilastro fondamentale di una delle comunità storiche del territorio, custode di un patrimonio culturale da valorizzare e tutelare in ogni modo.

La presidente del sodalizio ha concluso annunciando che nell’ambito del programma di scambio tra le Comunità, entro la fine dell’anno Castel Bembo ospiterà il coro del sodalizio di Lussinpiccolo e il gruppo vocale dei “Virtuosi fiumani”


301 - L’Osservatore Romano 11/11/14 Il Perlasca col saio

Il Perlasca col saio

di Ugo Sartorio

A volte il tempo stende sulle vicende della vita, piccole o grandi, un velo di polvere che le consegna per sempre all’oblio. Altre volte eventi traumatici del passato, rimasti a lungo sepolti, riprendono a vivere a partire dalla memoria di persone che hanno visto, agito, condiviso. E quanto è successo alla vicenda di Placido Cortese, il frate minore conventuale della comunità religiosa dei frati officiatori della Basilica del Santo di Padova che nella tarda mattinata dell’8 ottobre del 1944 scomparve, quasi risucchiato nel nulla.

Due persone si presentarono alla portineria del convento e chiesero a fra Stanislao di poter parlare con padre Placido, aggiungendo che avrebbero desiderato incontrarlo, per motivi di riservatezza, appena oltre il sagrato. Una di queste era un certo Mirko, di cui padre Placido si fidava, e così il piccolo frate istriano (era nato a Cherso nel 1907) andò incontro al suo destino. Si parla di una macchina nera sulla quale sarebbe stato spinto da due tipi poco raccomandabili, ripartita subito dopo a gran velocità.

Già dal giorno seguente ebbero inizio le ricerche, con una lettera del rettore della basilica — padre Lino Brentari — indirizzata alla Questura di Padova: «Dalle prime ore del pomeriggio di ieri, per cause del tutto ignote, risulta assente dal nostro convento del Santo il p. Placido Cortese, religioso sacerdote dell'Ordine». Parole angosciate che non ebbero mai risposta, anche perché, purtroppo, in quei tragici mesi erano molte le persone che sparivano.

Solo cinquant’anni dopo, il 19 aprile 1995, a motivo di una testimonianza raccolta quasi casualmente dalla voce di Adele Lapanje, la vicenda di padre Cortese riemerse dall’oblio. Fu allora che monsignor Vitale Bommarco, anch’egli chersino e vescovo di Gorizia, diede nuovo impeto alla ricerca perché si facesse luce sulla misteriosa fine del confratello. Venne così ricostruita l’attività svolta da padre Cortese negli anni della guerra: oltre a prodigarsi per portare soccorsi ai molti internati, per lo più sloveni, nel campo di prigionia di Chiesanuova, alla periferia di Padova, collaborava con una rete di resistenza — la cui sigla era Fra-Ma, dalle iniziali dei cognomi dei due fondatori: Ezio Franceschini e Concetto Marchesi — che aiutava ebrei, antifascisti e militari alleati a raggiungere in treno, via Milano, la neutrale Svizzera.

Tutto si svolgeva in un clima di clandestinità, con parole in codice pronunciate dietro la grata di uno dei confessionali della basilica, quello a fianco dell’altare maggiore: «Padre, c’è una scopa da mandare in Svizzera»; «Di che colore, chiara o scura? Attendi e prega mentre provvedo».

Serviva un salvacondotto per far espatriare un fuggiasco, un soldato americano o inglese, o anche un ebreo, e così padre Placido si avviava lentamente verso la tomba del santo che nel lato sinistro era ricoperta di ex voto con un gran numero di fotografie. Ne prendeva alcune, più plausibili, e senza dare nell’occhio le consegnava alla “penitente”. Successivamente queste foto servivano per completare carte d’identità stampate dalla tipografia del «Messaggero di sant’Anto-
nio», di cui padre Cortese era direttore. Tutto andò avanti fino a che il frate non venne catturato con l’inganno e internato nel bunker di piazza Oberdan di Trieste, luogo tristemente famoso per gli interrogatori sotto tortura svolti da membri delle SS.

La testimonianza decisiva in proposito venne da Janez Ivo Gregorc, che si trovò anch’egli recluso, per essere interrogato, nello stesso luogo. Aveva solo diciannove anni «Padre Placido — testimoniò — l’avevano bastonato, picchiato; il vestito lacerato e la faccia rigata di sangue. Ho ancora in mente le sue mani deformate e giunte in preghiera».

Il celebre pittore sloveno Anton Zoran Music, per un mese prigioniero nelle celle delle torture della Gestapo a Trieste, confidò al compagno Ivo Gregorc: «Mi ricordo che nel bunker di piazza Oberdan c’era un sacerdote, un certo padre Cortese. Erano visibili sul suo corpo i segni delle torture. L’avevano picchiato duramente. Gli avevano spezzato le dita. Mi colpiva la sua tenace volontà di resistere, la fermezza e la fede di quel piccolo e fragile frate, che non si arrese e non tradì mai».

Negli archivi militari londinesi è stata inoltre recuperata la deposizione del sergente Charles Roland Barker, che vide di persona padre Placido nel bunker di piazza Oberdan: «Venne torturato con percosse e flagellazioni, gli furono rotte le gambe, strappate le unghie, bruciati i capelli».

Le ultime parole del frate martire — detto anche “il Perlasca col saio” e il “Kolbe italiano” — rivolte a Ivo, sono: «Taci e prega». Un silenzio che Cortese pagò con la vita, salvando molti dall’arresto e da sicura deportazione.

A livello diocesano, l’avvio della causa di beatificazione di padre Cortese come martire della carità avvenne il 29 gennaio 2002, a Trieste, con una chiusura simbolica presso la Risiera di San Sabba (luogo più probabile della cremazione del corpo) il 15 ottobre dell’anno successivo. La città di Padova, che gli ha dedicato una via, lo ha inserito nel Giardino dei Giusti inaugurato sei anni fa.

Settantanni fa

Sabato 15 novembre presso la Basilica del Santo a Padova si tiene una commemorazione di padre Placido Cortese nel settantesimo anniversario della morte. Sono, tra l’altro, previste le testimonianze di Teresa Martini e Majda Mozovec, collaboratrici del padre in quella “catena di salvezza” grazie alla quale furono messi in salvo numerosi perseguitati.



302 - La Voce del Popolo 22/11/14 Rovigno: Kandler e Luciani carteggio di una vita

Presentato ieri al Centro di Ricerche Storiche di Rovigno il volume numero 39 della Collana degli Atti, scritto dal fondatore e direttore dell’istituto, Giovanni Radossi

Kandler e Luciani carteggio di una vita

testo di Cristina Golojka

ROVIGNO

E stato presentato ieri al Centro di Ricerche Storiche di Rovigno il volume intitolato “Il carteggio Pietro Kandler -Tomaso Luciani (1843-1871)”, di Giovanni Radossi, fondatore e direttore dell’istituzione. L'operà fa parte della Collana degli Atti del CRS ed è fondamentale per la storia dei nostri territori. E autore, che da lungo tempo si occupa di corrispondenze epistolari tra personalità illustri della nostra regione, di cui diverse sono state pubblicate proprio sulle riviste degli Atti, ha illustrato nell’occasione i contenuti del volume, stavolta dedicato a un solo carteggio. Il relatore ha presentato i protagonisti e il contesto storico, affiancato dal redattore Marino Budicin e dal membro del comitato redazionale Rino Cigui.

L'opera, che ha avuto una notevole risonanza pubblica già nell’ottobre scorso a Trieste, in occasione de “La bancarella - Salone del Libro Adriatico orientale”, contiene la trascrizione di 160 lettere che Kandler e Luciani si scambiarono all’epoca. Come ha sottolineato Budicin, si tratta di due studiosi poliedrici che hanno fatto la storia della cultura istriana del periodo. Budicin ha illustrato inoltre il contesto storico-culturale-politico degli anni che abbracciano la piena età risorgimentale, con da una parte la guerra per l’indipendenza, l’Unità d’Italia e la liberazione del Veneto, e dall’altra la radicalizzazione della scena politica in Istria a partire dalla prima metà del XIX secolo e che visse un’ulteriore svolta nel 1871 con l’istituzione della Dieta Istriana. Kandler, che si occupò soprattutto di archeologia, studiò epigrafi e antichità romane nell’area nord-adriatica e avviò una delle prime riviste in Istria. Una delle sue imprese più importanti fu la pubblicazione della raccolta delle fonti diplomatiche nel Codice Diplomatico Istriano in sei volumi. Tomaso Luciani, nativo di Albona, figura di spicco della politica e degli studi storici ed etnografici deMstria, passò parte della sua vita in Italia dove visitò archivi e biblioteche alla
ricerca di opere e testimonianze sulla penisola istriana.

Il carteggio tra queste due figure di spicco durante il quale instaurano un rapporto di profonda amicizia, ebbe inizio il 21 marzo 1843, quando Kandler venne chiamato a dirigere il Museo tergestino di antichità e lo fece per 29 anni, fino alla morte.

L'autore del volume ha posto l’accento sull’assidua attività di trascrizione delle lettere pubblicate nel volume, un’attività che lo ha impegnato in maniera molto profonda e intrigante sin dai primissimi anni di vita del Centro, dunque all’inizio degli anni 70 quando visitò l’allora Biblioteca scientifica di Pola, dove erano e sono ancora custoditi i carteggi di una serie di personaggi della seconda metà dell’Ottocento, un fondo che non era segnalato come fonte primaria di studio.

“Ebbi fortuna, perché il direttore dell’istituzione, il prof. Mihovil Debeljuh, mi segnalò queste carte. Chiedemmo il permesso di fotocopiarle. Erano una decina di carteggi e per noi fu un grande privilegio poterli trascrivere e pubblicare nelle pagine degli Atti”, ha raccontato Radossi, aggiungendo che si tratta di una testimonianza d’importanza fondamentale.
“Il ponderoso carteggio che Kandler intrattenne con Luciani è molto rilevante, non solo perché rappresenta un documento del risveglio degli studi di storia patria istriana nella seconda metà del XK secolo, ma per il fatto che ci permette di seguire in contemporanea i due studiosi nelle loro più minuziose manifestazioni di operosità. Kandler volle Luciani collaboratore nel Museo di Antichità (1843) e nella redazione della rivista “Dlstria” (1846). Da questo connubio nacque una ricca raccolta di scritti che consentirono studi più approfonditi e contribuirono all’arricchimento culturale e personale dell’albonese, il cui impegno ebbe inizio proprio da quel momento. Kandler lo spronava a cercare e scoprire i monumenti della provincia istriana - in particolare dell’Albonese -, gli faceva svolgere sopralluoghi e verifiche archeologiche, lo informava dei propri studi e progetti e del loro sviluppo. Nel desiderio di vedere compilata la storia dell’Istria, dal canto suo, Luciani non si stancò mai di assecondare Kandler nell’impresa”, sta scritto nell’introduzione del volume.

“Le lettere sono piene di informazioni e richiami storici, per cui bisogna essere molto ben informati per evitare interpretazioni errate. Mi sono avvalso pertanto dell’aiuto di egregi collaboratori quali Antonio Miculian, Marino Budicin e altri, e interpellato l’oggi defunto professor Giulio Cervani, studioso per eccellenza di Kandler oltre che cofondatore del Centro e docente dell’Università di Trieste”, ha spiegato Radossi.

L'opera conta 450 pagine contenenti un saggio introduttivo, la trascrizione delle 160 lettere del carteggio e di un importante apparato scientifico costituito dalle note esaustive che accompagnano i testi informando chi legge sulle peculiarità geologiche, geotopografiche, toponomastiche e storiografiche delle innumerevoli località richiamate, come anche di notizie biografiche di casati e singoli personaggi. La trascrizione rispetta integralmente il testo originale, con rari interventi volti a facilitare la comprensione dei contenuti.

Le pagine del volume sono arricchite da circa una quarantina di illustrazioni d’epoca riportanti vedute del territorio istriano e dalmato ricavate da pubblicazioni di rilievo della seconda metà dell’Ottocento.

“Ho fatto questa scelta perché ho voluto riprodurre i paesaggi visti dagli occhi di Kandler. Lo stesso vale per le notizie, ricavate da pubblicazioni dell’epoca, le medesime a cui egli si richiamava. Un punto da segnalare è che Kandler in tutto il carteggio ha sempre parlato di fortilizi, di insediamenti romani e non di castellieri, di cui invece parlò in seguito Luciani il quale, assieme ad altri studiosi, individuò la vera natura di quei conglomerati”, ha aggiunto l’autore.
Il direttore del CRS ha colto l’occasione per ringraziare il Ministero degli Affari Esteri Italiano per il sostegno dato tramite l’Università Popolare di Trieste e l’Unione Italiana, nonché i tipografi che hanno lavorato sotto l’attenta guida del presidente dellTJPT, Fabrizio Somma.
Ha annunciato poi che nei primi mesi del 2015 il volume verrà presentato alla Comunità degli Italiani di Albona, occasione in cui verrà visitata la tomba di Luciani.

Il prossimo 5 dicembre alla CI Buie verrà presentato il volume numero 40 della Collana degli Atti, intitolato “Buie, famiglie, abitanti e territorio” di Lucia Moratto Ugussi, unico nel suo genere realizzato in collaborazione con il sodalizio buiese e che si trova attualmente in fase di stampa assieme ad altre tre opere, rispettivamente “Opera omnia“ dello studioso zaratino Giuseppe Praga, divisa in due tomi con oltre duemila pagine e importantissima per il Medioevo della Dalmazia, realizzata con il sostegno della Società Dalmata di Storia, il volume “Memorie di una vita” di Luciano Giuricin, cofondatore dell’istituzione e DAtlante storico dell’Adriatico orientale” curato da Egidio Ivetic in 500 pagine, che comprende una parte narrativa arricchita da 80 riproduzioni di vedute e di edifici e da 150 cartine storiche realizzate al computer e un’altra dedicata alla riproduzione di 120 cartine tratte dalla collezione più importante della nostra produzione storica.




303 - La Voce di Romagna 18/11/14 Gli ebrei goriziani e la Romagna
PER UN BREVE PERIODO SI INTRECCIANO LE VICENDE DEI MORPURGO E DEGLI EINHORN

Gli ebrei goriziani e la Romagna

IL LIBRO di Adonella Cedarmas “La Comunità israelitica di Gorizia 1940-1945” permette di ottenere ulteriori notizie su persone legate al nostro territorio

Tra il 18 settembre 1943 e il 29 maggio 1944, a Gorizia vengono arrestate complessivamente 32 persone. Solo una farà ritorno. Altre 16 verranno arrestate nei luoghi dove avevano trovato rifugio. Solo una si salverà, mentre Gaddo Morpurgo verrà fucilato a Forlì. Storie e personaggi ha trattato a più riprese la vicenda di Gaddo e degli altri ebrei trucidati all’aeroporto di Forlì. Attilio Morpurgo, come la maggior parte degli ebrei goriziani, nel periodo della Grande guerra si era distinto come attivo irredentista. Attilio, racconta il pronipote Andrea, era un agiato e intraprendente commerciante, nonché presidente dell’antica Comunità Israelitica goriziana dal 1933 al 1943. Nel 1938, alla promulgazione delle leggi razziali, gli ebrei goriziani erano 155, nel 1943 erano scesi a un’ottantina. A partire dalla promulgazione delle leggi razziali, Attilio si era impegnato a organizzare e a tenere unita l’ormai sconvolta e impaurita Comunità. Le condizioni di vita per gli ebrei di Gorizia si erano fatte subito molto dure. In un’informativa della Questura datata 3 marzo 1939, relativa all’applicazione delle nuove leggi antiebraiche, sulla proprietà della ditta commerciale di Attilio veniva osservato come “Nel consiglio di amministrazione continua a mantenere posizione prevalente lo stesso israelita, che tutti sanno essere comproprietario e dirigente l’azienda e che, pur essendo noto per la capacità e la tenacia nel lavoro, non gode però alcuna considerazione per i modi e perché presenta, con troppa evidenza, tutti i caratteri somatici e spirituali della razza a cui appartiene”. Dopo l’8 settembre, con l’annessione dell’intera Venezia Giulia al Litorale Adriatico e l’inasprimento delle leggi razziali, Attilio decide assieme alla moglie Maria Treves, al figlio Gaddo e alla fedele governante Gina Viterbo, di cercare rifugio nelle Marche, confidando nell’imminente arrivo degli alleati. L’altro figlio, Giulio, era riuscito a raggiungere Roma. Attilio Morpurgo, continua il racconto del pronipote Andrea, all’indomani dell’8 settembre 1943 aveva deciso di scrivere un diario del calvario che stava per iniziare a vivere. I Morpurgo avevano lasciato Gorizia il 9 settembre, in treno, con destinazione Udine, dove avrebbero poi trovato la coincidenza per Venezia. L’obiettivo era quello di raggiungere Ostra Vetere, dove Attilio aveva preso in affitto un appartamento. Attilio non saprà mai che Gaddo era stato fucilato all’aeroporto di Forlì il 5 settembre 1944. Non otterrà mai la restituzione del suo corpo e nessuno lo metterà sulle tracce di quei loculi del cimitero di Forlì, segnati dalla P e dalla X, che ne custodivano le spoglie. La perdita del figlio non sarà l’unico lutto a colpire Attilio. Tornato a Gorizia, apprenderà che le due sorelle erano state deportate e uccise ad Auschwitz, e che anche la Comunità ebraica di Gorizia, di cui aveva a lungo sofferto la lontananza, era stata annientata. Giulio, fratello maggiore di Gaddo, aveva sposato a Fiume il 1° novembre 1938 Renata Einhorn; sarà un matrimonio di breve durata, solo pochi mesi. Renata nel 1943 aveva trovato rifugio assieme ai genitori a Bagnacavallo; verranno deportati tutti e tre  e solo lei riuscirà a sopravvivere agli orrori di Auschwitz. Su Bianca Pincherle è di grande interesse la testimonianza della sorella Nora, nel libro “Ma come amare le viole del pensiero? Dio non c’era a Ravensbruck, a cura di Marco Coslovich. Il capo famiglia Vittorio Pincherle, venuto a mancare prematuramente nel 1931 e sepolto nel cimitero ebraico di Cosala a Fiume, era di origini goriziane. Anche la moglie Sara Paola Bolaffio era di Gorizia; aveva uno zio rabbino, Gerolamo Bolaffio, che diventerà poi rabbino maggiore di Torino. Nora si era trasferita in Francia, dove poi verrà arrestata e deportata. E’ stata liberata a Ravensbruck. Bianca si era brillantemente laureata in chimica a Bologna, ma la mancanza di sbocchi professionali l’aveva spinta a prolungare gli studi in farmacia. Era stata Nora ad aiutare la famiglia composta dalla madre, da Bianca e dal figlio Vittorio fornendo il denaro necessario ad affittare un carro con carrettiere per raggiungere Gorizia, dove si sono sistemati nella casa abbandonata dal fratello di Sara Paola, Giorgio Bolaffio, in corso Vittorio Emanuele III, oggi Italia. Giorgio con la moglie Nella Valobra e i figli Livia e Guido aveva trovato rifugio altrove. Una sera Bianca, tornando a casa aveva scorto sull’ingresso principale le sagome delle SS. Dopo aver rinchiuso la porta, Bianca, la madre e Vittorio avevano raggiunto un bar e solo molto più tardi avevano fatto ritorno a casa. Dopo alcuni giorni i nazisti si erano presentati in casa chiedendo degli effettivi occupanti, la famiglia Bolaffio, Fortunatamente non si erano chiesti chi fossero i nuovi residenti, così si erano ritirati in buon ordine. Resisi conto che Gorizia non era più una città sicura, Sara Paola, Bianca e Vittorio decidono di andarsene, così si stabiliscono in una villetta nei pressi di Udine; l’edificio non è nelle migliori condizioni e viene preso di mira dall’aviazione alleata quasi ogni giorno. Ciò nonostante i tre riescono a superare la guerra indenni e successivamente a ricongiungersi a Nora. Nel 1945 la piccola e decimata Comunità riprenderà l’attività grazie all’88ª Divisione di fanteria degli Usa, che contava tra le sue fila numerosi ebrei, e al suo cappellano militare, il rabbino Nathan A. Barak. Nel 1959, visto l’esiguo numero dei membri, verrà decisa l’aggregazione della Comunità ebraica di Gorizia a quella di Trieste, che già forniva i necessari servizi. Dal 1970 la Comunità di Gorizia, ridotta a poche persone, è una sezione di quella di Trieste. Nel suo libro Adonella Cedarmas cita la relazione di un anonimo che riferisce di aver incontrato la maestra Sara Luzzatto, meglio conosciuto come Rina, che verrà poi arrestata e deportata senza ritorno, che dichiara l’interessamento dell’Arcivescovo Carlo Margotti a favore degli ebrei. Storie e personaggi a più riprese ha parlato delle vicende del prelato, romagnolo di Alfonsine. Cedarmas per quanto riguarda l’Arcivescovo riporta i contenuti di due lettere. La prima è dell’Ordinariato arcivescovile al prefetto di Gorizia Pace perché vengano salvaguardati dall’internamento almeno gli ebrei più anziani o ammalati gravi. La seconda, inviata verso la fine di novembre 1943, viene dal Vaticano, porta la firma del Vescovo titolare di Pionia Alessandro Evreino, ed è indirizzata a monsignor Margotti per le ricerche dei deportati. Cedarmas ritiene che l’Arcivescovo non fosse al corrente che i deportati erano già stati trasferiti nei lager nazisti e soprattutto dell’assoluta impotenza delle autorità italiane verso l’occupante tedesco.     

Aldo Viroli

Quando si svolgono i fatti
Dall'emanazione delle leggi razziali al 1945
Il libro “La Comunità israelitica di Gorizia. 1940-1945” di Adonella Cedarmas, pubblicato nel 1999 dall’Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, offre l’opportunità per ricordare le vicende di due famiglie che si intrecciano nel periodo delle persecuzione razziali. Renata Einhorn, fiumana e rifugiata a Bagnacavallo, deportata assieme ai genitori che purtroppo non hanno fatto ritorno, aveva sposato nel novembre 1938 il goriziano Giulio Morpurgo, fratello di Gaddo, una delle vittime della strage dell’aeroporto di Forlì del settembre 1944. Sarà un matrimonio di breve durata. A Gorizia nel 1938 viveva Bianca Pincherle, di famiglia fiumana, laureata a Bologna, che nel 1935 a Riccione aveva dato alla luce un figlio, Vittorio. La donna, che nel dopoguerra si era stabilita in provincia di Gorizia, era laureata all’Università di Bologna. Il libro di Adonella Cedarmas permette di incontrare anche Adriana Dell’Amore di Cesena, nata a Cesena il 16 ottobre 1910, figlia di Urbano e di Emma Iacchia. La donna, sposata con “un ariano” nel 1940 si era trasferita da Gorizia a Cormons. La piccola Comunità di Gorizia, in quel drammatico periodo presieduta da Donato Moisè Attilio Morpurgo, padre di Gaddo e Giulio, ha pagato un tributo pesantissimo.  


304 - La Voce del Popolo 22/11/14 Marino Bonifacio e il destino dei nomi

CONTRIBUTI DAL CANADA
 
Marino Bonifacio e il destino dei nomi
 
di Claudio Antonelli
 
Vi è uno studioso che svolge da anni un lavoro prezioso^ per noi giuliano-dalmati. È l’esule piranese Marino Bonifacio, studioso di onomastica ossia dei nostri cognomi, ma anche dei nostri dialetti, che vive e opera a Trieste. Le sue qualità professionali sono considerevoli: serietà e dedizione, varietà ed importanza delle fonti da lui consultate e ricchezza di opere prodotte. Ritengo che, verso di lui, noi istriani, fiumani e dalmati abbiamo un grande debito di riconoscenza. Anche se non glielo esprimiamo spesso... Scrivendo di Bonifacio è doveroso poi menzionare la studiosa Ondina Lusa (Benedetti), con cui egli lavora in tandem assai spesso (ad esempio: “Le perle del nostro dialetto”). Sono stato due volte a Trieste nel suo incredibile appartamento-laboratorio disseminato di alte pile di “documenti- riviste-libri”, e ho potuto parlare con lui a lungo. Ho ricevuto un’impressione indimenticabile da questi incontri, per le grandi qualità umane di questo studioso: autenticità, mitezza, sensibilità, congiunte a un sorprendente spirito gioioso quasi fanciullesco, il “morbin” come diciamo noi.
 
Non penso sia inutile mettere in evidenza un’altra qualità presente in Bonifacio che normalmente andrebbe sottaciuta, parlando noi di uno studioso e non di un militante o di un propagandista: Bonifacio è senza odi per l’Altro, di cui conosce però lo spirito guerriero e l’implacabilità. Questa sua qualità merita nondimeno che la si rilevi, dato che i suoi studi - i cognomi, la lingua, la storia - sono collegati alle identità complesse e tormentate, perché nei secoli conflittuali, di quelle terre oggi slave.
 
Ma Marino Bonifacio è estraneo al sentimento tribale, guerriero, da regolamento di conti: il sentimento “balcanico” in cui i nostri vicini dell’Est eccellono. Infatti, in relazione al passato italiano di quelle terre a noi così care, i maestri di etnocentrismo slavo si rivelano inesauribili nelle fabulazioni storico-geografiche, dando versioni taroccate del nostro comune passato sfioranti spesso l’assurdo e il grottesco.
 
Dagli articoli e libri di Bonifacio traluce - e come potrebbe non essere? - il desiderio del ritorno ideale in un terra dalla quale la sua famiglia fu costretta ad andarsene - “a causa delle continue persecuzioni del regime jugoslavo sugli italiani della Zona B” (Bonifacio intervistato da Carmen Palazzolo Debianchi). E come lui e la sua famiglia tantissimi di noi fummo costretti all’esodo...
 
Nelle sue opere, frutto di una ricerca scientifica condotta da studioso disincantato, palpita silenziosa un’ansia di ricongiungimento a quel mondo perduto. Ad esso inesorabilmente ci riportano i nostri cognomi, la nostra lingua, il ricordo dei nostri cari, la nostra storia...
 
E grazie a Marino Bonifacio -questo ex navigante divenuto da studioso autodidatta una vera autorità nel complesso campo di studi dell’onomastica e della dialettologia - nomi, parole, accenti, suoni tornano a farci udire la loro antica voce.
 
“Io penso che ogni popolo cacciato dalla propria terra e disperso per il mondo ha il dovere di reagire onde spiegare a sé stesso e al popolo che l’ha cacciato e sostituito in un dato territorio qual è la propria storia e la propria identità storica. ” (Bonifacio intervistato da Carmen Palazzolo Debianchi).
È stato proprio grazie a una sua documentata analisi, che io -permettetemi questa digressione personale - nato a Pisino da Gioconda Bresciani, figlia di Giusto Bresciani e Rosa Berton, e da Mario Antonelli, figlio di Matteo Antonaz e Vittoria Zanello, ho potuto sapere sul nome “Zanello” qualcosa che ignoravo e di cui oggi sono intimamente molto fiero. La storia dei cognomi dellTstria ci dice che gli Zanello, italiani di nome e di fatto, risultano essere stati residenti di Pisino per centinaia d’anni.
 
Anche da questo minuscolo particolare, che per me è grande, appare smentita la vulgata slava antitaliana, accreditata da tanti nello Stivale, secondo la quale l’Istria è terra da sempre slava.
Ma cosa volete, coloro che hanno slavizzato persino Marco Polo e un’infinità di altri personaggi vogliono tenere infoibata la nostra storia, aiutati dall’ignoranza, dall’indifferenza e dalla beata esterofilia degli “italioti”.
“Nomina sunt omina”: non solo i nomi dei luoghi, ossia delle nostre località di nascita, ma i nostri stessi cognomi. Sì, anche i nostri cognomi, carta d’identità del nostro passato, recano un destino tormentato, e mutevole perché hanno conosciuto, talvolta, variazioni.
Marino Bonifacio ci conduce lungo i sentieri dolci e insieme dolorosi delle certezze perdute. Con le sue ricerche su nomi, parole, suoni, e momenti della storia della dura terra dei Balcani, egli conforta la nostra tenace fedeltà alle memorie che pur si assottigliano, e anche spariscono con la scomparsa di tanti di noi. Ma il contributo che questo studioso dà alla nostra storia - “Scripta manent” -fortunatamente rimarrà.
 
“I cognomi e i dialetti sono strettamente intercollegati, gli uni dipendenti dagli altri, complementari, essendo il cognome e il dialetto le parti più intime di ogni essere umano, i due elementi-base che determinano l’identità storica di ogni individuo”. (Bonifacio intervistato da Carmen Palazzolo Debianchi). Una cosa è da mettere in chiaro: Bonifacio non è un sostenitore del criterio “biologico” quale identificatore del legame che collega un individuo al gruppo e alla Nazione. Anch’io considero che a stabilire la nostra più profonda appartenenza sono la cultura, l’amore, e la solidarietà che dà il senso del destino collettivo all’interno di un ampio gruppo al quale ci lega un insieme di fattori culturali tra cui primeggia la lingua. Mentre invece sono svaniti nei secoli gli antichi legami di sangue con il ceppo originario, che del resto è difficile da determinare in maniera univoca a causa dei vari apporti interetnici avvenuti nel corso dei secoli.
 
Sì, i nomi mostrano che noi di cultura e accesa passione italiana originari di quelle terre, anche se non desideriamo essere considerati “slavi” semplicemente perché non siamo slavi, non siamo poi “semplicisticamente” italiani perché, in diversi casi, nel nostro ceppo sono confluiti, nel passato, svariati contributi etnici. Ma quest’ultimo è del resto un fenomeno diffuso in tutta Italia.
Il culto della mitica purezza del proprio sangue noi lo lasciamo tranquillamente agli adepti di un vergognoso tribalismo razziale.
 
I nostri cognomi sono da taluni forzosamente innalzati a rivelatore d’identità. Ma il cognome non è una bandiera. Nella penisola, vedi ad esempio il Veneto e il Friuli, i nomi terminanti in consonante non mancano di certo. La lingua, la cultura, l’anima, l’amore, la storia, il passato sono invece una bandiera.
 
E negli anni i nomi subiscono cambiamenti, soprattutto nelle aree di frontiera. Mi viene in mente il cognome di un mio amico istriano di Montréal, restato inalterato per lui ma che è stato “slavizzato” per il fratello e i figli di quest’ultimo rimasti dopo la guerra in Istria, dove anche la loro località di nascita è ormai designata sulle carte geografiche solo col nome slavo. E, beninteso, il contrario si verificò per tanti di noi che avevamo il cognome terminante in consonante; cognome che in certi casi durante il fascismo fu “italianizzato”, anche forzosamente ossia senza l’accordo degli interessati. Decisione stupida ed ingiusta. Molto lontana però, per efficacia, dalle azioni dei comunisti-nazionalisti jugoslavi che anni dopo riusciranno a far andare via da quelle terre gli italiani, senza inutili distinzioni, ossia senza distinguere tra coloro che avevano un nome terminante in vocale e quelli il cui nome finiva invece in consonante.
 
Io conservo ancora, a dispetto di un trapianto oltreoceano e di tanti inutili traslochi, un dizionarietto di tedesco su cui mio padre da bambino scrisse il suo nome così come era allora: “Mario Antonaz”. Un “Antonaz” che non molti anni dopo venne cambiato in Antonelli. A mio nonno - “Matteo Antonaz” -fu imposta una semplice scelta: Antonacci o Antonelli. E lui e la sua famiglia scelsero Antonelli. Gherbetz divenne Gherbetti. Dorcich fu cambiato in Donni. E così fu per tanti altri nomi.
 
Marino Bonifacio mi ha ragguagliato anche sulla probabile provenienza, e gli erramenti geografici, di questo mio cognome - Antonaz - che non porto più, ma al quale mi è impossibile, nell’intimo, rinunciare. Vi sono momenti che resteranno per sempre in noi. Ecco, rivedo mio padre che a Napoli, accingendomi io ad andare per la prima volta a Pisino - anzi a ritornarvi, perché di lì ero venuto via appena infante tanti ma tanti anni prima -tracciò a capo chino, sprofondato nel passato, uno schizzo dei luoghi con la casa “dove tu sei nato, Claudio”. E il muro dell’”Orto dei frati”, e il campanile, e il castello e la Foiba... E altre cose che assolutamente avrei dovuto vedere, inclusa beninteso, al cimitero, “la tomba di tuo nonno”. Mio nonno, Matteo Antonaz, divenuto Antonelli, ma ritornato ‘Antonaz” sulla stele funeraria in cimitero. Tomba che oggi non esiste più. Non esistono più, da tempo ormai, gli Antonaz della mia famiglia. Oggi esistono solo gli Antonelli, anzi quasi non sono più neppure loro, perché in avanti con gli anni e senza veri eredi... Ma che cercano e trovano, grazie a Marino Bonifacio, gli sbiaditi, dolorosi percorsi di una famiglia, di un ceppo, di una cultura... Di un mondo che fino alla fine li possederà.


Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia




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