Nascita di una minoranza
Il Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, l’Unione Italiana di Fiume, l’Università Popolare di Trieste e l’Università degli Studi di Trieste - Dipartimento Studi Umanistici hanno presentato venerdì 19 aprile presso la sede “Androna Baciocchi” dell’ateneo il libro della docente triestina Gloria Nemec sul periodo 1947-1965 in Istria e nel Quarnero secondo la testimonianza degli italiani rimasti. Quest’ampia ricerca di storia orale è stata effettuata intervistando un’ottantina di testimoni. Il volume, già presentato a Rovigno il 1° marzo, può essere scaricato in pdf dal sito www.crsrv.org.
Riproduciamo di seguito nella sua interezza, salvo i ringraziamenti finali, la significativa allocuzione pronunciata a Trieste dal prof. Giovanni Radossi, presidente del CRSR.
A rigore di termini è possibile parlare di minoranza italiana dell’Istria, Quarnero e Dalmazia soltanto dal momento della data ufficiale della sua nascita che si colloca nell’anno 1947, all’entrata in vigore del Trattato di pace tra Italia e Jugoslavia, quando, dopo una gestazione travagliata e l’inizio dell’esodo, si compose la sua immagine in fatto di consistenza numerica e di orientamenti ideali. Il suo affacciarsi alla ribalta della storia contemporanea avvenne attraverso un processo contraddistinto da inquietudini, da perplessità, da polemiche, da incomprensioni, da lacerazioni, da conflitti di vario genere; questo sofferto cammino ha condizionato la sua esistenza sino ai giorni nostri, nonostante i numerosi tentativi di vincere le avversità, di cementare la sua coesione, di rafforzare la sua coscienza, di definire in maniera inequivocabile la sua identità non solo etnica ma soprattutto nazionale. Per siffatte ragioni la “storia” e l’insieme delle questioni esistenziali di questa minoranza nazionale – senza dubbio una delle più giovani se non la più giovane d’Europa – numericamente esigua, ma dotata di vitalità e di capacità di ripresa impensate, vanno affrontate tenendo conto dei presupposti storici ed ideali che hanno prodotto direttamente o indirettamente la sua comparsa in una fase particolare della storia europea, lumeggiando l’arduo percorso della ricerca della propria autonomia, della propria unità e della propria individualità nei mutati e mutanti contesti statuali.
E’ notorio che le minoranze nazionali sono di regola il risultato di un’imposizione della maggioranza o di un compromesso tra stati, a cui pervengono per comporre le proprie controversie in merito alla definizione dei confini. E’ facile capire come questa separazione coatta possa provocare uno stato – diciamo – di disagio tra coloro che ne sono vittime, colpiti nelle proprie aspettative nazionali, nei propri interessi economici, nei propri ideali politici, e suscitare di conseguenza nel popolo di maggioranza – ma non solo – un senso di sfiducia come logica reazione, nei confronti degli appartenenti al gruppo minoritario, ravvisando in essi i segni di un pericolo latente e nella loro presenza elementi di una costante insicurezza.
Tuttavia, contrariamente a questa esperienza pressoché generale, la comunità nazionale italiana è nata in parte motu proprio, poiché ai suoi componenti furono date più possibilità e prospettate ampie garanzie nel caso in cui avessero deciso di sottrarsi a tale destino; mi riferisco, in primo luogo, alle opzioni contemplate dalle clausole del Trattato di pace e dai successivi accordi italo-jugoslavi che “permettevano” di “trasferirsi” nella Nazione Madre. E’ chiaro che, se per ipotesi, tutti gli Italiani avessero esercitato questo diritto, in Istria, a Fiume e dintorni non sarebbe nata alcuna minoranza nazionale italiana; pertanto essa giustamente rivendica il riconoscimento delle sue specifiche origini autonome ed autoctone, come titolo legittimo di rispetto e di completa tutela.
Nel 1945 la dirigenza jugoslava era ben consapevole, e per nulla preoccupata dal fatto che il nuovo ordinamento politico avrebbe determinato la partenza dei tradizionali gruppi dirigenti italiani, della upper class della società locale, dei ceti medi urbani e degli intellettuali, depositari dei valori nazionali italiani, mentre avrebbe potuto contare sul segmento della “classe operaia” quale unica e sicura fonte di sostegno alla nuova legittimità politica e statuale. In realtà tutte le componenti abbandonarono il territorio, dopo la “disillusione storica” dovuta al prevalere dei valori nazionalisti all’interno delle organizzazioni politiche e della società, e quindi rispetto ai precedenti esodi istriani l’esodo degli italiani nel secondo dopoguerra segnò una novità sostanziale: vicina a scomparire questa volta fu un’intera componente nazionale. Sotto questo aspetto, oggi può sembrare indifferente sapere se allora, numericamente parlando, gli italiani fossero in maggioranza rispetto alla somma dei croati e degli sloveni residenti nel territorio, poiché quello che più conta è che se ne andò abbondantemente più della metà della popolazione residente, quella che aveva storicamente esercitato il dominio politico sulla maggior parte della regione e che risultava nettamente egemone sotto il profilo economico, sociale e culturale. L’esodo degli italiani avrebbe in tal maniera costituito l’autentica strozzatura della storia della Venezia Giulia.
In effetti, il drastico ridimensionamento numerico della popolazione italiana, accuratamente preparato dalle autorità jugoslave, si sarebbe dovuto realizzare attraverso un doppio binario: con l’espulsione, in particolare, degli italiani insediatisi nella regione dopo la prima guerra mondiale e, soprattutto, con la “restituzione” forzosa alle loro autentiche origini nazionali delle persone di origine slovena e croata “italianizzate” nei secoli precedenti; la fuga in massa, poi, della popolazione autoctona avrebbe integrato ben presto l’effetto devastante di queste direttrici. Il carattere propagandistico della prima “rilevazione demografica” (ottobre 1945) apparve subito del tutto trasparente e fu il primo indubbio segnale rivelatore del quadro degli equilibri nazionali che la Jugoslavia intendeva adottare nella Venezia Giulia. Seppure il nuovo Stato emergente dal secondo conflitto mondiale fosse di per sé plurietnico, tuttavia verso i vicini esso si comportava come un tipico stato nazionale che deviava verso l’esterno le pulsioni nazionaliste presenti inevitabilmente nelle diverse componenti storiche: siffatti comportamenti erano in effetti riconducibili all’esplicito intento dello stato jugoslavo di conquistarsi il supposto “confine etnico” già ipotizzato dopo la prima guerra mondiale, e di realizzare l’omogeneità etnica dei territori di nuova acquisizione.
Forse mai, come oggi, la riflessione che la Nazione Madre ci deve non può più prescindere dall’esprimere un giudizio, magari a titolo conoscitivo e valutativo, almeno sulla politica culturale e su quella di tutela concepita e condotta nei nostri riguardi in questo significativo sessantennio di dopoguerra e di avanzato inizio di millennio. Tale giudizio non può prescindere, infatti, da una puntualizzazione preliminare del nostro particolare iniziale contesto sociopolitico, che non solo ha sollecitato o frenato la promozione di presenze ed interventi a sostegno di strutture – quelle minoritarie –pericolanti, ma che ha anche condizionato tutta la loro articolazione e la specifica destinazione dei loro contenuti. Certo, noi dobbiamo rivendicare ora in modo alto e forte gli ideali di libertà, di tolleranza e di rispetto di tutte le componenti umane e civili che caratterizzano il territorio del nostro insediamento storico. Né si può credere che questo mito, quello della convivenza e della parità di condizioni di vita, sia un prodotto “inferiore”, o almeno “deformante” di un superato contesto politico. Quel mito ha svolto qui, e tuttora continua a svolgere, una funzione positiva, sul piano culturale e – più in generale – sul piano della crescita civile e sociale, che esclude qualsiasi primato di razza o nazione e che non concepisce una cultura che sia antitetica alla civiltà.
Comunque, è certamente maturato il momento di precisare a quali terribili insidie fummo esposti – in nome di quel mito – nel contesto del nuovo tessuto sociale e statale che, caratterizzato da una forte identificazione nazionale, misconosceva le diversità, puntando tatticamente sull’esaltazione dei valori classisti, ciò che produsse l’appiattimento delle aspirazioni genuine delle genti vissute fino a poco tempo prima sotto le ali della grande civiltà occidentale. Il noto risultato, frutto di un piano preordinato, fu il declassamento della componente romanza da maggioritaria a minoritaria, in seguito all’applicazione del Trattato di pace e del drammatico esodo che esso produsse; per i rimasti fu applicata la delegittimazione stanziale con vessazioni e compressioni politiche d’ogni genere, senza che nessuna voce di condanna, all’interno o all’estero, si levasse. A questo buio degrado si rispose dopo una “decantazione” durata un lungo, interminabile arco di vent’anni: “purificati” noi da possibili eccessi, ma rarefatti nel numero e nelle energie, ci siamo allora difesi e abbiamo rimediato da soli. Arrivò poi – nel 1964 – l’ancora di salvataggio dell’Università Popolare di Trieste e, successivamente, delle componenti più dirette dello Stato italiano, a materializzare quegli interventi che prima ci erano stati pervicacemente e sistematicamente negati e che, assieme alla nostra energia maieutica, ci avrebbero fatto uscire nei successivi decenni dalla ghettizzazione culturale ed umana in cui ci avevano voluti collocati, poiché violentemente sottratti alla nostra civiltà.
La comparsa della nuova Unione Italiana nel 1991 fece emergere la parte sommersa e “dimenticata” della popolazione italiana del nostro insediamento, quei connazionali che avevano riscoperto se stessi e il bisogno di dichiararsi. L’essere ed il palesarsi italiani fu associato ad un senso di libertà: allora si scoprì esistere un gruppo nazionale “diffuso”, radicato nella società, presente capillarmente sul territorio, desideroso di “contare”; e non composto solamente da pochi, raccolti intorno alle sue istituzioni specifiche, da uno “zoccolo duro” che ancora si accaniva a voler sopravvivere.
E’ bene ricordare che sia sulla storiografia italiana che su quella ex-jugoslava (oggi croata e slovena) grava il peso di colpe non indifferenti, anche se di natura diversa, per quanto concerne la problematica generale della popolazione italiana dell’area giuliano-dalmata; non ha senso individuarne in questa inadeguata sede le possibili motivazioni. Tuttavia, l’aver intuito – cosa che è stata fatta dal Centro di ricerche storiche rovignese – la gravità di queste lacune e l’aver cercato di contribuire a colmarle con serietà di applicazione attraverso un lavoro di équipe, in particolare nello svolgersi degli ultimi vent’anni, rappresentano un merito indiscutibile dell’Istituto e dei numerosi autori – segnatamente del volume di questa sera – prescindendo dalle inevitabili imprecisioni, poiché abbiamo avuto il coraggio di affrontare senza equivoci una problematica delicata e talvolta scottante che è servita nel più recente passato a falsare avvenimenti e realtà, falsificando sin il documento.
Ecco perché, allora, i preoccupanti risultati della recente rilevazione demografica in Istria debbono costituire per tutti noi una nuova sfida nell’impegno che ci siamo assunti nei confronti della popolazione italiana dei “rimasti”, ma anche degli “esodati”: crediamo di poterla affrontare onde adeguatamente gestirla, sorretti da strumenti come questo di oggi, con piena convinzione e dedizione, augurandoci un POST NUBILA PHOEBUS - DOPO LA TEMPESTA, IL SERENO!
Giovanni Radossi
Gloria Nemec, Nascita di una minoranza. Istria 1947-1965: storia e memoria degli italiani rimasti nell’area istro-quarnerina, Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, Rovigno 2012.