LA VOCE DELLA FAMIA RUVIGNISA n.178 settembre-ottobre 2013

Le nostre letture:
Recensione del libro di Vivoda "In Istria prima dell'esodo"
di Gabriele Bosazzi
 
Lino Vivoda è un esule da Pola noto a tanti istriani per il suo impegno di lunga data nella divulgazione della nostra storia e nel riallacciamento dei rapporti con la terra natìa e con gli italiani rimasti; si tratta anche di un amico della Famìa Ruvignisa, che ha partecipato al nostro ultimo raduno. Il buon Lino è stato per molti anni membro del comitato nazionale dell’ANVGD, fino a divenirne vice presidente, nonché co-fondatore e per alcuni anni sindaco del Libero Comune di Pola in Esilio; durante la sua lunga attività nelle associazioni degli esuli ha scritto sei libri e moltissimi articoli su riviste, narrando il dramma dell’esodo da Pola, la successiva vita dei campi profughi e l’inserimento nella vita italiana del dopoguerra.

 

 Recentemente, il nostro ha dato alle stampe e presentato il suo settimo libro, intitolato “In Istria prima dell’esodo. Autobiografia di un esule da Pola“, un’opera piacevole da leggere, per il suo stile semplice e genuino, nel raccontare le esperienze vissute in prima persona, ma anche nelle parti in cui vengono narrati alcuni fatti storici frutto di ricerche dell’autore.

Il libro si apre proprio in maniera molto intima, con la descrizione dei genitori e dei famigliari più stretti ed affezionati dell’autore con le relative esperienze di vita. Un racconto personale, che però assume molta importanza anche per il lettore estraneo, in quanto tratta esperienze di vita comuni a tanti istriani e che sono estremamente rappresentative della storia contemporanea delle nostre terre.
 A partire dai nonni Giovanni Vivoda e Maria Clarich, arrivati a Pola rispettivamente da Sergobani e da Jursania, due paesini dell’Istria interna siti nella zona di Pinguente, per aprirvi delle attività commerciali, quando la città viveva un periodo di prosperità per la presenza dei cantieri navali e della base navale della Marina austro ungarica. Il padre di Lino, Riccardo, era come molti suoi concittadini un operaio dei cantieri di Scoglio Olivi, convinto sostenitore delle idee socialiste, ma buon patriota; le sue idee infatti lo portarono ad esporsi nelle violente dispute tra italiani e filo-slavi nel 1946, a rimuovere la bandiera rossa da una torretta dei cantieri per ripristinarvi il tricolore, cose che gli costarono un’aggressione ed un agguato sventato per poco. Anche la vicenda della zia Fanny (Francesca) testimonia un pezzo di storia interessante: sposatasi con un austriaco residente a Pola, alla fine della Prima Guerra Mondiale lo seguì nel suo rientro in Carinzia, dove entrambi combatterono da volontari nella difesa dei carinziani dalle truppe del nascente stato SHS (futura Jugoslavia) che intendevano occupare ed annettere la regione, resistendo fino all'arrivo delle truppe italiane che ristabilirono l'ordine e permisero lo svolgimento del plebiscito del 1920 che assegnò la Carinzia alla nuova Austria. Dopo i piacevoli capitoli che raccontano di un Vivoda ragazzino vivace, ma soprattutto tracciano un bell'affresco di Pola italiana, inizia una significativa  parte dedicata alla descrizione dei tragici fatti che accompagnarono la seconda guerra mondiale.

 Questa fase si apre con il ricordo del porto di Pola completamente gremito di unità da guerra illuminate, il 10 giugno 1940 giorno dell’entrata in guerra dell’Italia, con il papà Riccardo che disse a Lino “Osserva bene, perchè uno spettacolo così non lo rivedrai mi più”; in effetti, nessuno avrebbe più visto il porto di Pola italiana affollato ed illuminato in quel modo. Una delle parti più concitate del racconto è quella che narra i bombardamenti alleati sul capoluogo dell’Istria, particolarmente intensi e ripetuti a partire dal primo del 9 gennaio del '44, fino alla tremenda e distruttiva serie del gennaio-febbraio del '45; ovviamente la causa di tanto accanimento era la presenza della base della Marina Militare, ma come in tutta Italia, tali bombardamenti a tappeto andarono ben oltre il colpire gli obiettivi militari o strategici, finendo per distruggere interi rioni, provocando innumerevoli lutti e lasciando senza casa centinaia di persone. Il racconto di Vivoda rende bene l'idea del clima di paura e di lutto che si respirava in città; dal febbraio del '44 anche i Vivoda si aggiunsero alla lunga lista dei “sinistrati”, in quanto la loro casa, posta all'inizio della via Sergia accanto a Piazza Foro, fu seriamente danneggiata dalle bombe, costringendoli a trasferirsi in altra sistemazione. Nel dopoguerra, la rimozione delle macerie fece emergere dei resti di un'abitazione romana oggi visitata da molti turisti e conosciuta come la “casa di Agrippina”.

 Nel luglio del 1944 le autorità decisero lo sfollamento della città, proprio per porre la popolazione al riparo da questi massacri venuti dal cielo; la famiglia Vivoda fu tra le più fortunate, potendosi trasferire a Gallignana presso la casa degli zii di parte materna, evitando così i disagi dei campi di sfollamento, allestiti generalmente in Friuli. Proprio in questo bel paesino istriano si colloca il racconto dei tragici fatti dell’8 settempre del ’43, capitolo che si può aggiungere alle tante preziose testimonianze di quel tragico momento della storia d'Italia; dopo aver visto transitare centinaia di soldati italiani sbandati, malconci ed esausti in ritiro dai Balcani, Lino assistette all'arrivo dei primi partigiani, su una ventina di “minadore”, le corriere usate per il trasposto dei minatori dell'albonese. Un giorno, i partigiani radunarono tutti gli uomini del paese con il pretesto di scavare trincee per difendersi dai tedeschi; in realtà, si trattava di scavare una fossa, sull'orlo della quale furono uccisi e poi sepolti un gruppo di prigionieri, in parte militari tedeschi, in parte civili; la loro sorte fu nascosta per tanto tempo, finché la fossa venne scoperta con il ritrovamento di resti umani appena negli anni novanta. Furono invece riesumate dalla squadra di pompieri del maresciallo Harzarich le salme ritrovate in due cave di Bauxite della zona di Gallignana, poi sepolte in una fossa tra il duomo ed il cimitero di Pisino, cui recentemente ha reso omaggio la Famìa Ruvignisa.

 Lino Vivoda racconta il movimentato episodio che lo vide protagonista all'arrivo dei tedeschi a Gallignana: dopo tutto ciò che era successo, con la presa di potere dei partigiani e le vittime che fecero questi ultimi, tutti erano impauriti dalla probabile reazione delle truppe germaniche ed al loro arrivo tanta gente si rifugiò di corsa nella vallata sotto al paese, compreso Vivoda con la mamma e la sorellina neonata. I tedeschi intimarono però di far rientro in paese, dove stava già bruciando una casa in cui era stata trovata una bustina con la stella rossa. Il dodicenne Lino fu separato dalla famiglia e messo con il gruppo di uomini; a quel punto il nostro usò tutta la sua astuzia ed il poco tedesco che conosceva: con una frase azzeccata ad un giovanissimo ufficiale riuscì a farsi rilasciare; gli altri una trentina circa, furono invece portati a Dachau e solo 4 di essi fecero ritorno.

 Alla fine della guerra, i partigiani di Tito entrarono a Pola senza trovare resistenza, visto che l’ultima guarnigione della Marina tedesca si trincerò nell'area tra Stoja, Forte Musil e la Fabbrica Cementi, nella speranza di riuscire a resistere all’esercito jugoslavo fino all’eventuale arrivo delle truppe alleate, lasciando ad una sessantina di militi della X Mas il compito di mantenere l'ordine pubblico e presidiare le strutture strategiche, in accordo, sembra, anche con emissari del movimento partigiano; il 29 aprile, prima di questo passaggio di consegne, l'ammiraglio tedesco Georg Waue fece affiggere un manifesto, il cui testo integrale è riportato in questo libro, in cui ringraziava la popolazione e ne lodava il senso civico dimostrato durante l'occupazione e persino scusandosi per le occasioni in cui i tedeschi avevano agito con spietatezza, un caso forse unico in Italia e in Europa. I partigiani disarmarono subito gli uomini della Decima che non opposero resistenza e furono rinchiusi nel campo dell'aeroporto di Altura; servirono invece vari giorni per ottenere la resa dei tedeschi ben fortificati nella zona di Forte Musil; essi deposero le armi appena l'8 maggio, in quanto il Feldmaresciallo Jodl aveva firmato la resa della Germania e continuare a combattere avrebbe significato essere giudicati al di fuori delle leggi di guerra. Come in altri casi, la resa fu seguita da una sanguinosa vendetta: i primi militari tedeschi che capitarono a tiro furono ammazzati sul momento, l’ammiraglio Waue ed i suoi ufficiali vennero fucilati e la maggior parte dei militi italiani fu trucidata in maniera brutale, altri vennero imbarcati sulla nave Lina Campanella, saltata sulle mine al largo di Fasana.

 Nel maggio del '45 anche Pola entrò per più di un mese in un tunnel di terrore con innumerevoli arresti prevalentemente notturni dei cosiddetti “nemici del popolo”, che Vivoda quantifica in oltre un migliaio. Il racconto dell'autore riporta un personaggio noto ai rovignesi: il “gobo Trani”, un fascista di Pola che fu accusato di essere stato il responsabile dell'uccisione di Pietro Ive, durante gli scontri tra fascisti polesani e socialisti rovignesi nel febbraio del 1921. Il Trani venne rintracciato a Pola dai partigiani e portato a Rovigno, dove venne sottoposto a vari maltrattamenti e poi ucciso; Vivoda racconta di averlo visto rinchiuso in una gabbia di legno trascinata dai carcerieri, con lo sguardo terrorizzato e con i segni delle percosse subite.

 Molto interessante il capitolo dedicato alla prima occupazione titina, durante la quale si inaugurò la sistematica abitudine di far arrivare a Pola abitanti slavi del contado inneggianti alla Jugoslavia ed al comunismo, simulando così una città a maggioranza croata, entusiasta verso il nuovo regime e desiderosa di unirsi alla Jugoslavia.

L’accordo Tito-Alexander stabilì il momentaneo ritiro delle truppe jugoslave da Gorizia, Trieste e Pola in attesa del trattato di pace, ritiro che in quest’ultima città fu però tutt’altro che indolore. Infatti le truppe inglesi arrivarono appena il 16 giugno, ma le prime manifestazioni di esultanza della popolazione italiana furono violentemente contrastate dai filo-titini che si trovavano ancora preponderanti in città, i quali aggredirono e malmenarono i piccoli gruppi spontanei di italiani e strapparono le prime bandiere tricolori. Il periodo di occupazione alleata che accompagnò la città sino all’entrata in vigore del Trattato di Pace fu decisamente acceso e turbolento, forse ancor più che a Trieste, viste le innumerevoli manifestazioni e scontri di piazza tra la maggioranza della popolazione che esternava la sua italianità e la componente filo-slava, le cui file erano ingrossate da gente venuta da fuori città e che invece reclamava l’annessione alla Jugoslavia di Tito. L’autore fornisce un’interessante descrizione delle principali manifestazioni, ma anche degli scontri di piazza, che si verificavano molto spesso anche tra piccoli gruppi; non fu sempre facile neanche il rapporto con le autorità inglesi, che anche qui istituirono la Polizia Civile della Venezia Giulia, cui la gente affibbiò il nomignolo di “bacoli neri”, non solo per il colore della divisa.

 Si trova anche una dettagliata descrizione di tutte le associazioni, partiti e gruppi italiani che si organizzarono in quel periodo, ispirati a diverse ideologie e provenienze politiche. Fu intensa anche l'attività giornalistica, che doveva contrastare quella del “Nostro giornale”, foglio filo-titoista che si dedicava ad un'intensa propaganda per l'annessione alla Jugoslavia e che proprio per questo la gente soprannominò il “Mostro giornale”; nacquero così “El Spin”, “Democrazia”, “La posta del lunedì” e soprattutto “L'Arena di Pola”, il vero giornale polesano, passato alla storia per aver testimoniato ed accompagnato l'esodo dei suoi cittadini, che ancora oggi esce “in esilio” per tenere uniti gli esuli ed i loro discendenti.

Il punto forte di questo libro è indubbiamente il capitolo che tratta la strage di Vergarolla, che Vivoda ha considerato una specie di “rivelazione” tenuta in serbo per tanto tempo, in quanto porta all’opinione pubblica gli ultimi importanti dettagli frutto di tanti anni di ricerche personali e giunge a rivelare il nome di un altro degli esecutori materiali dell’eccidio. Come noto, il 18 agosto del '46, 28 mine di profondità precedentemente disinnescate esplosero nella spiaggia di Vergarolla affollata di famiglie accorse per le gare di nuoto della società Pietas Julia, uccidendo almeno 64 persone, contando solo quelle che furono riconosciute. Le autorità militari alleate avviarono un’inchiesta, le cui precise conclusioni rimasero nascoste fino a pochi anni fa quando dei documenti riguardanti Vergarolla sono stati trovati presso gli archivi dei servizi segreti inglesi di Kew Garden, a Londra, da due giornalisti triestini che pubblicarono quanto scoperto in un dossier. Tali rapporti del servizio segreto inglese, di cui uno intitolato significativamente “sabotage in Pola”, citano come fonte definita attendibile il controspionaggio italiano che agiva in stretta collaborazione coi servizi inglesi, e danno per certa la matrice terroristica dell’esplosione, come opera dell’OZNA.
 Il documento cita il nome di uno dei “sabotatori” che avrebbero innescato le mine e che sarebbe scomparso successivamente al fatto, il fiumano Giuseppe Kovacich, già indicato da un altro documento precedente alla strage come un agente dell’OZNA “molto attivo nel perseguire gli italiani”. Un’ulteriore informativa fornita dall’intelligence italiana a quella inglese aveva segnalato inoltre, sempre nel mese di luglio, dei movimenti sospetti alla periferia di Pola, con protagonista un esponente comunista italiano, che avrebbe distribuito delle armi ad altre persone e che in seguito, ricercato della polizia, sarebbe fuggito a Fasana, occupata dagli jugoslavi. Un tanto combacerebbe con alcune testimonianze del giorno della strage.

Queste notizie comparvero sulla stampa appena dopo 62 anni dalla strage, ma diversi anni prima alcune verità erano comunque emerse grazie alle silenziose ricerche di alcuni volenterosi, tra cui proprio Lino Vivoda, che nella strage perse il fratello Sergio di soli 8 anni. In questo lavoro, l’autore riporta che poco dopo la strage un ufficiale inglese ed il rovignese Bepi Nider, che allora si trovava a Pola, trovarono in una cava prossima alla spiaggia di Vergarolla tracce di un innesco, identico a quelli usati allora nelle miniere dell'Arsa (a pochi chilometri da Pola); proprio nella vicina cittadina di Albona, aveva un delle sue più importanti sedi istriane l'OZNA. Dopo aver scritto in merito vari articoli sulla stampa degli esuli ed aver rilasciato interviste a giornali istriani, Vivoda entrò in contatto con un giornalista del quotidiano croato Glas Istre, che si era appassionato della vicenda e nel 1999 aveva scritto vari articoli su Vergarolla, rivelando un fatto inedito: un ex partigiano jugoslavo, suicidatosi anni prima, avrebbe lasciato una lettera in cui si diceva schiacciato dal rimorso, per aver fatto parte del gruppo che organizzò la strage, su incarico dell'OZNA; il giornalista riuscì persino a combinare a Vivoda un appuntamento con i familiari del suicida, con l’accordo di “acquistare” il biglietto; a questo punto, però, consapevole della delicatezza della questione ed allarmato dalle condizioni poste, cioè di doversi presentare da solo in luogo isolato, Vivoda non si fidò a recarsi all’appuntamento; il biglietto manoscritto, che il giornalista croato dice di aver visto personalmente, non è stato quindi mai recuperato. In questo libro, tuttavia, si riporta il nome dell’ex partigiano suicida: Ivan (Nini) Brljafa, che da ulteriori ricerche è risultato essere uno dei primi membri del partito comunista croato clandestino di Pola, nonché, durante la guerra, un “gappista” responsabile di un attentato contro una mensa di ufficiali tedeschi ed in seguito membro dell'OZNA, attivo tra Fasana e Peroi, nell'agro polesano. Circostanze che sembrano accreditare l’ipotesi di un suo coinvolgimento nella strage della spiaggia polesana.

 Questa ulteriore fatica dell’amico Lino Vivoda è quindi particolarmente importante, sia nel dare un contributo concreto al chiarimento degli aspetti più spinosi ed ancora irrisolti della storia istriana, sia perché, sullo sfondo dei ricordi di gioventù dell’autore, riaffiorano immagini e storie di una Pola che non c’è più, riemerge un prezioso affresco di Pola italiana.  
Gabriele Bosazzi
 
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