RECENSIONI


La Comunità degli Italiani di Fiume ha ospitato il 15 novembre la presentazione di Storie di gente nostra, dello scrittore connazionale Mario Schiavato. Il volume è il 24° della serie “Altre lettere italiane - Collana degli autori italiani dell’Istria e del Quarnero” della casa editrice fiumana EDIT.

Comprende sei racconti: Le voci dentro, L’amore di Vito, Piera di Visignano, Due a Sumber, La morte del padre e Ritorno a Midian. Ognuno di questi evidenzia nell’ottica dai rispettivi protagonisti la sconfitta dell’antica civiltà rurale istriana ad opera dell’industrializzazione globalizzatrice, con la conseguente emigrazione verso le città, lo sradicamento degli inurbati, il degrado del mondo contadino soggiogato da dinamiche economico-culturali a lui estranee, nonché la perdita dei preziosi valori umani su cui si fondava da millenni il rapporto degli abitanti con la Terra-madre. Tali fenomeni sociali, comuni al mondo intero, si sono combinati nell’area istro-quarnerina con l’esodo, lasciando vuoti permanenti nelle campagne e nei paesi dell’entroterra dopo che le città si sono velocemente riempite di nuovi abitanti (in primo luogo proprio dai villaggi limitrofi).

A causa di tale miscela, qui gli effetti della capitolazione della civiltà contadina sono stati ancora più eclatanti.


Nato nel 1931 a Quinto di Treviso a trasferitosi con i genitori a Dignano nel 1942, Schiavato è rimasto nella terra d’adozione e dopo il liceo ha trovato lavoro a Fiume. Ha pubblicato un migliaio tra racconti, fiabe e poesie. Con Le voci dentro aveva vinto il primo premio al concorso Istria Nobilissima 2006 ed era giunto finalista al Premio Gervais 2007.


È stato presentato l’8 novembre col patrocinio di Roma Capitale nella Sala “Pietro da Cortona” del Palazzo Senatorio la nuova edizione rivista e ampliata del libro di Vincenzo Maria de Luca Foibe: una tragedia annunciata. Il lungo addio italiano alla Venezia Giulia (Edizioni Settimo Sigillo, 2012, pp. 250, € 20,00).

Secondo l’autore, gli eccidi del 1943-45 e l’esodo sono la riproposizione di quanto accaduto nell’Adriatico orientale nel VII secolo con le prime invasioni avaro-slave, che causarono (si stima) 200.000 vittime tra le popolazioni autoctone latinizzate e indussero i sopravvissuti a cercare scampo dalla terraferma verso le città fortificate della costa e delle isole. Foriere di future tragedie sarebbero state nel 1918 sia la nascita del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni quale baluardo anti-italiano sia l’inclusione nel Regno d’Italia di almeno 400.000 slavi recalcitranti. Le prime amare conseguenze le pagarono i dalmati italiani, costretti a esodare o restare privi dei loro diritti nazionali e soggetti a vessazioni. Temeraria fu nel 1941 l’invasione del Regno di Jugoslavia: «Andavamo a metterci nei guai nei Balcani, in modo irreparabile, convinti di estendere la nostra influenza in quelle terre come contraltare all’egemonia tedesca. Non raccoglieremo altro che odio e maggior rancore nella popolazione slava che ora, in realtà, aggredivamo in maniera esplicita e plateale».

 


Che nel pordenonese ci fosse una comunità di esuli istriani lo sapevo; ne aveva parlato in qualche articolo, pubblicato sulla nostra “Arena”, Gianni Strasiotto. Sapevo anche che l’Ente Nazionale per le Tre Venezie negli anni ’50 aveva messo a disposizione degli esuli in Friuli-Venezia Giulia diversi appezzamenti di terreno suddivisi in poderi; tra questi: le Villotte (nel Comune di San Quirino), Dandolo (nel Comune di Maniago) e Fossalon (nel Comune di Grado). Ricordo di aver visitato quest’ultimo da bambino, assieme a mio padre allora presidente della Famiglia polesana di Trieste; la bonifica era appena partita e tutta l’area era un’ampia distesa di terreno sabbioso impregnato di sale marino.

Delle altre due zone, che non conosco direttamente, ho saputo solo di recente che si trattava di due brughiere, lande desolate ricche solo di pietre, sterpaglia e rovi. Insomma, terreni tutt’altro che facili da coltivare che, nel giro di pochi anni, gli esuli istriani, con le proprie lacrime ed il proprio sudore ancor prima della messa in sito dei sistemi d’irrigazione, seppero trasformare in fertili terreni agricoli e giardini rigogliosi. Un miracolo della tenacia e della laboriosità della nostra gente. Questo l’ho appreso solo mettendo a punto l’articolo di Rosanna Milano Migliorini, pubblicato a pag. 6 di questo stesso giornale. (Arena di Pola febbraio 2013)



È recentemente uscita l’ultima fatica del veneziano Alberto Rizzi, storico dell’arte. Si tratta di un prezioso cofanetto di tre volumi, I leoni di San Marco, una coedizione fra il Consiglio e la Giunta del Veneto e l’editrice Cierre, dove troviamo catalogati oltre 7.000 leoni marciani; un’opera enciclopedica dalla quale emerge quanto attuale sia l’identificazione con il Leone nelle Terre di San Marco.

L’espressione “San Marco in forma de Lion” definisce molto bene il leone marciano, che è qualcosa di più dello stemma della Capitale veneziana e della sua millenaria Repubblica. Che tale lo sia, o meglio lo sia divenuto attraverso i secoli, lo testimonia indiscutibilmente l’affezione verso di esso, dimostrata non solo dagli abitanti di Venezia e del Dogado, ma anche nello Stato da Mar e nello Stato da Tera, i quali avevano finito per identificarsi con l’entità politico-culturale in esso figurativamente espressa con tanta efficacia.

Differenziato in Leon in “moleca” (il granchio quando ha il guscio molle) e “andante”, il Leone di San Marco divenne l’emblema politico oltre che religioso di Venezia già nel XIII secolo, per affermarsi pienamente in età gotica, la quale, assieme a quella rinascimentale, costituì anche la fase di maggior fortuna del simbolo, di pari passo con la potenza politico-militare ed economica che esso rappresentava.
Le numerosissime presenze, e soprattutto la sua popolarità attirarono fatalmente su di esso al tramonto della Serenissima Repubblica, il tragico 12 maggio 1797, un’ondata di distruzioni che non è esagerato definire “leontoclastia”; i giacobini napoleonici distrussero e scalpellarono nella sola città di Venezia oltre 1.000 leoni marciani; bastava gridare «Viva San Marco» per essere condannati a morte! Ma nonostante tanto odioso accanimento, il simbolo marciano continua ad essere più vivo che mai; dal 1970 è il simbolo ufficiale della Regione del Veneto e la Sua presenza nel Veneto e nelle comunità venete nei cinque continenti è una moderna dimostrazione identitaria e di consapevolezza di appartenenza a una storia comune.

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