RECENSIONI

“Atti e Memorie” della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria

Sabato 19 gennaio, durante l’Assemblea annuale della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria svoltasi in via Crispi 5 a Trieste, è stato distribuito ai soci il volume 112° della Raccolta (60° della Nuova Serie - 2012) degli “Atti e Memorie”. Il testo, di 272 pagine, contiene cinque “memorie”.

La prima, di Dimitri Cascianelli, illustra in modo dettagliato il frammento di sarcofago paleocristiano del convento francescano “in ripa maris” di Spalato, risalente alla fine del IV secolo e raffigurante da una parte la lotta tra Davide e Golia e dall’altra i discepoli di Emmaus. Tale doppia iconografia era per quei tempi di grande modernità.

La seconda memoria, di Luisa Crusvar, parla del sigillo personale di Pasquale Revoltella, che in realtà ritrae non il banchiere triestino come si era finora creduto, ma il ministro austriaco Karl Ludwig von Bruck, di cui egli era stato amico prima del deterioramento dei loro rapporti negli ultimi anni.

La terza memoria, di Gian Luigi Bruzzone, presenta e trascrive la corrispondenza del linguista, letterato e irredentista triestino Albino Zenatti con il filologo romano Ernesto Monaci intercorsa fra il 1879 e il 1913.

La quarta memoria, di Mariacarla Triadan, tratta delle caratteristiche del catasto austriaco “franceschino” (introdotto nel 1817) e di quello italiano nella Venezia Giulia. Un ampio prospetto alfabetico riporta inoltre tutti i singoli comuni catastali rispettivamente secondo la denominazione italiana del 1923, quella del periodo asburgico e quella attuale, nonché il comune, la regione e lo stato di odierna appartenenza.

La quinta memoria, di Paolo Radivo, conclude la sua ampia ricerca iniziata nel volume 110° sul plebiscito negato agli istriani dopo la Seconda guerra mondiale. In questa seconda parte l’autore esamina, sulla scorta di numerosi documenti d’epoca, il periodo tra l’agosto e il dicembre 1946, mettendo in luce le divisioni interne alla delegazione giuliana a Parigi, l’impegno per il plebiscito dei soli CLN di Pola e dell’Istria (infine anche di quelli di Trieste, Lussino-Cherso, Fiume e Zara) a fronte dell’ostilità del CLN di Gorizia, l’ossessione degasperiana di perdere l’Alto Adige, le tardive e deboli richieste avanzate dal delegato italiano Bonomi alla Conferenza della pace di Parigi nel settembre e dal ministro Nenni alla Conferenza dei ministri degli Esteri statunitense, sovietico, britannico e francese a New York nel novembre, nonché gli infruttuosi abboccamenti tra i delegati italiani e jugoslavi sul tema a fine novembre. La ritrosia del Governo De Gasperi nel perorare la causa (salvo l’attivismo di Nenni, entrato però in carica appena il 19 ottobre) si abbinò alle forti pressioni dissuasive dei Quattro Grandi, che non intendevano ridiscutere il loro accordo del 3 luglio sul nuovo confine italo-jugoslavo, parte integrante della risistemazione dell’Europa faticosamente raggiunta. E ciò, malgrado fosse stato il segretario di Stato USA Byrnes a proporre per primo il 4 maggio ’46 il plebiscito nella Venezia Giulia: ma allora i negoziati tra i Grandi erano in corso... La Jugoslavia comunista poi non intendeva rinunciare a quanto aveva conquistato sul campo e brutalmente irreggimentato. Così il principio di autodeterminazione dei popoli, proclamato dalla Carta Atlantica, più volte ribadito e infine recepito dalla Carta delle Nazioni Unite, fu ignorato. Gli istriani e i giuliani tutti non poterono decidere se appartenere all’Italia o alla Jugoslavia; altri lo fecero per loro. La logica che prevalse fu ancora una volta quella del vincitore, con il suo “diritto” di preda bellica ai danni del vinto. Perciò la democrazia venne sacrificata, e con essa un intero popolo che dovette esodare perché oppresso dal regime di Tito.

Radio Venezia Giulia

L’IRCI ha presentato lunedì 25 febbraio nel Museo della Civiltà Istriana, Fiumana e Dalmata di Trieste il denso libro di Roberto Spazzali su Radio Venezia Giulia. Approfondendo tramite fonti d’archivio la vicenda dell’emittente, lo storico triestino delinea in realtà anche il rapporto tra politica, media e propaganda nella contesa postbellica italo-jugoslava.


Radio Venezia Giulia trasmise ininterrottamente dal 3 novembre 1945 all’estate 1949 sotto la direzione dell’intellettuale istriano Pier Antonio Quarantotti Gambini. Fu l’unica emittente clandestina italiana; la Commissione alleata di controllo chiese invano al Governo De Gasperi di disattivarla. Promossa dal CLN dell’Istria e dal Comitato Giuliano di Roma, poté essere avviata grazie al finanziamento del Ministero degli Esteri e dei servizi segreti militari. Ebbe sede a Venezia: lo studio di trasmissione nel palazzo Tiepolo-Passi, il trasmettitore prima sul campanile della chiesa di San Nicolò al Lido, poi nel vicino forte Alberoni, quindi nella batteria Rocchetta (sempre di proprietà della Marina militare). Nei primi due anni il controllo dell’indirizzo politico e delle spese di gestione spettò al diplomatico Justo Giusti del Giardino, il settore tecnico al futuro sindaco di Trieste Marcello Spaccini (DC). Redattore, annunciatore e curatore della rassegna stampa fu il giornalista Ugo Milelli, collaboratori Alvise Quarantotti Gambini, il docente socialista triestino Carlo Schiffrer, lo stesso Justo Giusti del Giardino e il polese Antonio De Berti, che fece il corrispondente da Roma e, durante la Conferenza della pace, anche da Parigi. Numerosi furono poi i corrispondenti segreti da Trieste, Gorizia, Pola e dall’Istria, che comunicavano tramite una radio Morse con la centrale; fra questi i cattolico-democratici Oscar Millo, monsignor Alfredo Bottizer, Redento Romano, Stelio Rosolini e Bruno Zoppolato.

 

Nascita di una minoranza

Il Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, l’Unione Italiana di Fiume, l’Università Popolare di Trieste e l’Università degli Studi di Trieste - Dipartimento Studi Umanistici hanno presentato venerdì 19 aprile presso la sede “Androna Baciocchi” dell’ateneo il libro della docente triestina Gloria Nemec sul periodo 1947-1965 in Istria e nel Quarnero secondo la testimonianza degli italiani rimasti. Quest’ampia ricerca di storia orale è stata effettuata intervistando un’ottantina di testimoni. Il volume, già presentato a Rovigno il 1° marzo, può essere scaricato in pdf dal sito www.crsrv.org.

Riproduciamo di seguito nella sua interezza, salvo i ringraziamenti finali, la significativa allocuzione pronunciata a Trieste dal prof. Giovanni Radossi, presidente del CRSR.

Foibe: una tragedia annunciata


È stato presentato l’8 novembre col patrocinio di Roma Capitale nella Sala “Pietro da Cortona” del Palazzo Senatorio la nuova edizione rivista e ampliata del libro di Vincenzo Maria de Luca Foibe: una tragedia annunciata. Il lungo addio italiano alla Venezia Giulia (Edizioni Settimo Sigillo, 2012, pp. 250, € 20,00). Secondo l’autore, gli eccidi del 1943-45 e l’esodo sono la riproposizione di quanto accaduto nell’Adriatico orientale nel VII secolo con le prime invasioni avaro-slave, che causarono (si stima) 200.000 vittime tra le popolazioni autoctone latinizzate e indussero i sopravvissuti a cercare scampo dalla terraferma verso le città fortificate della costa e delle isole. Foriere di future tragedie sarebbero state nel 1918 sia la nascita del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni quale baluardo anti-italiano sia l’inclusione nel Regno d’Italia di almeno 400.000 slavi recalcitranti. Le prime amare conseguenze le pagarono i dalmati italiani, costretti a esodare o restare privi dei loro diritti nazionali e soggetti a vessazioni. Temeraria fu nel 1941 l’invasione del Regno di Jugoslavia: «Andavamo a metterci nei guai nei Balcani, in modo irreparabile, convinti di estendere la nostra influenza in quelle terre come contraltare all’egemonia tedesca. Non raccoglieremo altro che odio e maggior rancore nella popolazione slava che ora, in realtà, aggredivamo in maniera esplicita e plateale».

La catastrofe dell’8 settembre 1943 compromise «in modo irreparabile l’identità nazionale della Venezia Giulia»: «era quanto si aspettavano i nostri amici e nemici per contendersi quelle terre irredente per le quali tanto sangue era stato versato». «I nostri soldati abbandonarono nelle mani di Tito ingenti quantità di materiale vario ed equipaggiamenti completi, nell’illusoria, ingenua prospettiva di tornare in fretta e salvi a casa. Avessero tenuto ben strette quelle armi ancora per qualche ora, forse i lupi rossi non sarebbero scesi a branchi sulle greggi indifese dell’Istria e della Dalmazia». «A metà settembre 1943 – aggiunge de Luca – l’Istria era irrimediabilmente persa; l’avevamo persa malamente, senza onore»: «né alla monarchia sabauda, né a Badoglio e al suo governo importò di salvare l’Istria e la sua gente dallo straniero». Così, «traditi dai loro stessi connazionali, gli italiani d’Istria dovettero confidare unicamente negli odiati tedeschi e nei pochi reparti fascisti d’élite in armi, per la loro sopravvivenza».

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