E LA SPIAGGIA SI TRASFORMO' IN UN CARNAIO - VERGAROLLA di Nelida Milani


18 agosto 1946. Una ricorrenza che incrocia passato e presente, una data che fa tornare tutto, come un film a ritroso che non abbiamo mai voluto guardar bene giocando a nascondino con la rimozione.

«Muoviti, Gina! Per causa tua faremo tardi!».

La sollecitava zio Riccardo, sì, bisognava affrettarsi, avremmo fatto tardi, avremmo mancato l’inizio della gara, uno spettacolo grandioso, visto dalla riva e dall’alto, tutto un fervore e un brulicare di gente ad incitare i campioni. Un’incredibile festa di nuoto, una competizione aperta a tutti, ai giovani e ai meno giovani, ai nuotatori di lungo corso e ai neofiti. E poi, dall’eliminatoria locale si sarebbe passati a quella provinciale, dalla provinciale all’interregionale e, quindi, alla nazionale, ospitata di anno in anno in una città diversa. Così raccontava zio Riccardo, entusiasta della kermesse ideata da Franco Scarioni, giornalista de “La Gazzetta dello Sport” che aveva lanciato le mitiche Popolari di Nuoto nel lontano 1913.



 Zio Riccardo sapeva tutto della “Coppa Scarioni”, vi aveva partecipato anni prima, aveva fatto i 200 farfalla, una buona prestazione per il 22° piazzamento, amava anche lo sforzo della voga, era un frequentatore assiduo della Società “Pietas Julia” che organizzava le gare di nuoto e le regate. Il Club nautico era un un vivaio di nuotatori, velisti e canottieri. Non vedeva l’ora che Gianni crescesse, intorno ai dieci anni si può già iniziare, si impara la tecnica, l’uso dei remi, dopo un anno circa si possono disputare le prime gare. Suo nipote deve maturare in un ambiente che insegni valori come l’impegno, il senso di responsabilità e la passione.

Con quel severo tono moraleggiante, zio Riccardo cercava di nascondere il nervosismo, la zia aveva tirato per le lunghe nell’osteria di nonna Gigia, aveva riempito la borsa di panini con il formaggio e di pomodori del nostro orto, aveva vestito Gianni, a me aveva fatto le trecce, fatto la predica alla piccola Alma che non stava mai ferma, sgridato sua figlia Ines, e infine aveva voluto bere e non la finiva mai di bere perché la bevanda era gelata. Allora aveva dato da bere a tutti per giustificare la sua lentezza. Alma era la mia amichetta, una sirenetta bionda e aggraziata. Sua madre, la signora Francesca, era di turno con nostra madre alla Fabbrica Cementi dove i forni non si spegnevano mai e aveva affidato la piccola a zia Gina che, dopo il bagno, avrebbe dovuto lasciarla da nonna Maria, a Stoia. Mancavano dieci minuti alle due quando ci siamo staccati dall’osteria di nonna Gigia, zio Riccardo già fremeva d’impazienza. La giornata cristallina era piena di promesse. Che bella giornata! Sembravano due. Sembrava doppia.

Per ingannare il tempo lo zio parla e parla, lui davanti, la zia di dietro a chiudere la fila indiana, e noi bambini si arranca in mezzo su per il monte percorrendo il sentiero di salvia e rosmarino, trafitti ogni tanto dagli odori salmastri e iodati di qualche pino solitario fino a raggiungere il punto da cui si spalanca la vista mozzafiato: l’ampia insenatura, il mare con le sue tinte blu e verde smeraldo, la Fabbrica Cementi a destra e alle sue spalle, ancor più a destra, Scoglio Olivi, sulla sinistra gli strapiombi della cava dove gli inglesi che presidiano la città scaricano i camion della spazzatura nella quale andiamo a rovistare per trovare qualche pezzo di pollo o di cioccolata,  e più giù i pini che un po’ nascondono e un po’ lasciano intravedere i tetti delle attrezzature della “Pietas Julia”, i suoi corpi distinti, ciascuno con funzioni differenti, il principale e più imponente è il parco imbarcazioni che comprende ampi spazi protettivi per le barche a vela e i canotti, alcune casine isolate per le reti dei pescatori. Laggiù, in fondo, dall’altra parte della valle marina, Vergarolla o, alla polesana, Vargarola. E’ là che dobbiamo arrivare.

«Avanti, ragazzi, dài!, ora si comincia a scendere, sarà più facile, dài che i posti saranno già tutti occupati, spicciamoci!». Ma Gianni, soli quattro anni, si è seduto a terra e ha appoggiato la testa sulle ginocchia, piagnucola «mi voio andar de mama, dove xe papà, mi voio andar de papà». Quel 18 agosto la mamma era di turno alla Fabbrica Cementi e papà era andato a pescare. Quella sera ci saremmo pigiati tutti intorno alla frittura calda di pesce fresco, avremmo tuffato il pane nel sugo di pedoci e cape, mussoli e pantalene con la sensazione di sorbire il mare.

Mio fratello si alzò controvoglia e zia Gina gli diede la mano per rassicurarlo e allungare il passo. Ora Ines, Alma ed io trottavamo dietro a loro. Era colpa sua, di zia Gina, se eravamo in ritardo, se avremmo avuto difficoltà a sistemarci al nostro solito posto, fra le mine antisbarco. Erano residuati di guerra inerti, né recintati né sorvegliati, che i genieri inglesi avevano neutralizzato, tanto che quelle bombole gonfie avevano su di noi un impatto positivo, ci servivano da confine tra una famiglia e l’altra, ci giocavamo intorno, aprivamo su di loro cappe e mitilli battendoli con grossi sassi.

«Eh, se non ti fossi fermata da tua madre, ora saremmo già a Vargarola...». Era il terzo rimprovero rivolto a zia Gina. Le era venuta una gran sete, proprio quando si stava per andar via, e aveva chiesto a nonna Gigia di farle una bevanda lunga con un po’ di ghiaccio dentro. Nonna ci metteva del tempo, il ghiaccio era una stanga di un metro sistemata nel caratello della birra, bisognava maneggiare con un martello per staccarne un pezzetto. E ci mettemmo del nostro pure noi bambini. Anche noi, d’un tratto, avevamo una sete da morire e ognuno reclamava la propria passareta.

Intanto cominciava la discesa. Prima veniva l’ultima Baracca dei Marescialli e poi, in uno scorcio, prima di toccar strada, da quella parte della baia vedevamo Vargarola, la spiaggia già gremita, la gente brulicante fra le bombe morte, ci giungeva il brusio delle loro voci. Superammo un breve tratto di strada ed eccoci già al portone d’ingresso della “Pietas Julia”. Entriamo, passiamo davanti alla casa sociale, superiamo la cabina dove papà tiene le reti, ancora un poco e saremo arrivati, Vargarola è davanti al naso.

Là avvenne tutto. Tutto d’un colpo. Ci fu l’esplosione e cadde per terra la borsa dei pomodori. Un forte boato, una fiammata enorme, un urto nelle orecchie e in gola. Mi sono sentita sciogliere le gambe. Un fumo nero salì verso il cielo. Ci fu un silenzio irreale, di un minuto, di un’eternità, tremendo, e poi un agitarsi di gambe e di braccia, di corpi, e poi la polvere scese e ci coprì il viso, le mani, tutto. Passato il primo momento di puro terrore, zio Riccardo fece mille raccomandazioni alla zia, «sta’ qua ferma con i bambini, non ti muovere!», e corse via. Intanto il mare sputava sangue e fuoco. Altre persone si erano unite a noi, in lontananza si sentivano urla e lamenti. Zia Gina se ne stava inerte come una bambola di pezza. Non so né come né da dove spuntò fuori un cannocchiale, la zia lo ebbe da una donna con un bimbetto che le si stringeva contro sotto il pancione sporgente. Lo diedero per un attimo anche a me perché urlavo, mio fratello Gianni protestava eccitatissimo perché a lui non volevano passarglielo. Era troppo piccolo.

Ecco, là, nell’oculare di luce che dilata e fruga, vedo i bagnanti che si urtano a vicenda, sbattendo e cadendo, vedo lo zio Riccardo che corre avanti e indietro, il ghiaccio delle sue pupille risalta sulla fuliggine del viso, trascina qualcosa, trascina un uomo che perde sangue come ho visto perder sangue un bue al macello, le carni squarciate. Alcuni corpi sono distesi a riva, altri galleggiano in acqua, i feriti si lamentano, i bambini urlano, invocano. Tanti bagnanti, tanti soccorritori hanno il viso coperto di sudore e di sporco, sono imbrattati di sangue, sono come invasi da un furore e da un terrore antichi. La zia mi strappa di mano il cannocchiale. «Cosa è successo? Silvano! Mino!». I due gemelli che abitano al numero 10 della via Cappellini non possono rispondere. La morte li ha colti che stavano contando le mine.  Dieci undici dodici tredici quattordici quindici sedici... La loro conta si era fermata là. Smisero di contarle quando sentirono un urlo disumano e si misero a correre verso il punto da cui proveniva. La deflagrazione li colse nella corsa con lingue di fuoco infernali. Poi, esplosioni a catena, i cavalli dell’Apocalisse cavalcano i cavalloni e la spiaggia si trasforma in carnaio. Si salva forse chi è in mare? chi è in barca? Sì, ma non tutti. Un gozzo da pesca galleggia goffamente da solo, battane vuote scarrocciano sulle onde in fiamme, molte barche a vela si capovolgono mostrando le chiglie incrostate di alghe, le passere scompaiono nel gorgo di acque sporche insieme a moncherini dispersi, i frammenti carbonizzati galleggiano in una disordinata vertigine che si va allargando come ultimo segno di sventura e di disfacimento, in un rumore desolato, un sospiro senza fine.

La piccola Alma accanto a me piange come una fontana. «Andiamo dalla mia nonna! Voglio andare dalla nonna!». Nonna Maria abita là vicino, nel cortile sottostante l’osteria di Massimino. Zio Riccardo non si vede, chissà fin quando sarà impegnato, chissà quando potrà tornare a casa. Tanto vale, dice zia Gina, accompagnare Alma da sua nonna. Linee di fuga trascinano via le famiglie in tutte le direzioni. Noi passiamo davanti all’osteria di Calcich, la zia allunga sempre il passo quando passa lì davanti per paura che l’oste esca e la informi a quanto ammonta il debito di zio Riccardo, ma in quel momento il padrone ha ben altro per la testa che i debiti di un cliente fisso, c’è una folla di avventori, di donne e bambini che hanno trovato là un primo riparo, una signora anziana, il viso tatuato di sfregi ed escoriazioni, piange invocando la Madonna perché le faccia la grazia di salvare sua figlia, altre si concedono un pianto senza singhiozzi, silenzioso, interno, altre singhiozzano  e invocano Dio e la Vergine Santa. La voce si spezza, rompe gli argini, dilaga e si spegne nella saliva e nella schiuma di mare, e se non piangi, di che pianger suoli?

Passiamo oltre, eccoci a Masbarak, giriamo a sinistra e siamo davanti al portoncino, basta aprirlo e scendere giù in cortile, dove c’è la casetta di nonna Maria con l’orto davanti che scende fino al mare. Alma corre impaziente, noi le veniamo dietro. E cosa troviamo? Troviamo la nonna di Alma che dorme ubriaca sulla sedia sdraio davanti la porta d’entrata e, accanto a lei, per terra, c’è una mano che stringe un cucchiaio fra le dita. Una mano mozza che avvinghia il cucchiaio. I vetri delle finestre sono rotti, gli scuri divelti. Ogni città deve vivere il proprio destino. E la nostra – non si può negarlo – aveva ricevuto l’avvertimento fatale. Solo nonna Maria non l’aveva sentito. Dormiva pacifica e sorridente, forse sognava un bel sogno, la faccia rivolta al cielo sopra di noi, vicino e lontano, sospeso, in attesa.

Campane a morto e, in centro, le vie gonfie di gente e di ambulanze, ci raccontò quella sera zio Riccardo. Al “Santorio Santorio” il dottor Geppino Micheletti, che nell’esplosione ha perso due figli, per più di 24 ore consecutive non lascerà la sala operatoria. Una vita non si consuma nell’arco di due date, ma lascia tracce meravigliose dietro di sé.

Zio Riccardo benediva, e non finiva di benedire, «bambini, benedite anche voi!» la lentezza esasperante di zia Gina nel bere la bevanda lunga con il ghiaccio che le impediva di essere veloce e che ci aveva impedito di arrivare puntuali all’appuntamento con la morte.

Mai più nessun polesano ha fatto il bagno a Vargarola. Il mare dell’insenatura, dopo la prima bora, tornò immobile, liscio, bianco come una distesa di latte, con gli argini che si stagliavano, qua e là, nelle trasparenze della malinconia.

Nelida Milani (Pola)

 

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