A Trieste dialoghi un po’ difficoltosi tra esuli e rimasti
(Arena di Pola gennaio 2016)
Si è svolto nel pomeriggio di martedì 1° dicembre 2015 nella Sala Tergeste del Savoia Excelsior Palace a Trieste un lungo dibattito pubblico dal titolo Dialoghi tra esuli e rimasti. L’intento dell’organizzatore, l’Università Popolare di Trieste, era quello di riflettere sul valore delle relazioni tra gli esuli istriano-fiumano-dalmati e gli italiani residenti in Slovenia, Croazia e negli altri Paesi dell’ex Jugoslavia, nonché sull’importanza della condivisione degli obiettivi per mantenere viva l’identità, la lingua e la cultura italiana in quei territori.
«Trieste capitale morale dell’Istria»
Nel suo saluto il sindaco di Trieste Roberto Cosolini ha ringraziato i promotori, gli ospiti e in particolare le associazioni degli esuli «per la collaborazione di questi anni, che ci ha consentito di fare cose importanti, come l’apertura di un museo dedicato alla civiltà degli italiani dell’Adriatico orientale, e di proseguire assieme sulla strada del riconoscimento delle sofferenze subite». Cosolini ha definito l’incontro «una tappa importante anche per questa città, che ha saputo costruire relazioni e ponti tra territori, si è trovata poi privata di questa opportunità e oggi riscopre anche la sua funzione di riferimento per tanta parte dell’Istria slovena e croata: una capitale morale con cui sviluppare rapporti e costruire percorsi culturali, di amicizia, di collaborazione e di sviluppo economico e sociale». «Questo – ha aggiunto – è anche il senso della nascita del Gruppo Europeo di Cooperazione Territoriale, che unisce Comuni che vanno da Monfalcone a Pola. E’ l’unico GECT in Europa costituito da Comuni che abbracciano enti locali di tre Stati diversi. Credo che questo percorso di forte volontà istituzionale abbia bisogno di una forte motivazione positiva, di una forte spinta che venga dalle comunità».
«Nuove opportunità per fare ulteriori passi»
«Per fortuna – ha dichiarato l’assessore alla Cultura e alla Cooperazione della Regione Friuli Venezia Giulia Gianni Torrenti – il tempo non è passato inutilmente. Le cose non si superano lasciandosele dietro le spalle, ma affrontandole con serietà, cercando di trovare le verità. Passi in avanti sono stati fatti da tutte le parti per superare le diffidenze. Ora si aprono nuove opportunità per fare ulteriori passi avanti nella consapevolezza nazionale di un dramma che non era sufficientemente noto. Le istituzioni vi sono vicine, in quest’area complessa dove i confini sono stati in parte cancellati e speriamo siano presto abbattuti, per un futuro più felice».
«Ricomporre il quadro storico-culturale»
Il ministro plenipotenziario del Ministero degli Esteri Francesco Saverio De Luigi ha portato il saluto suo personale e quello del sottosegretario Benedetto Della Vedova. «La vicinanza tra esuli e rimasti – ha detto – è un tema di grande attualità nella nuova Europa allargata alla Croazia, dove Trieste non può non sviluppare, con il sostegno del Governo, un’azione per ricomporre sotto vari aspetti il quadro culturale e storico che caratterizzava l’Adriatico orientale da Capodistria alla Dalmazia. Vi sono oggi delle potenzialità straordinarie per creare anche una prospettiva di lavoro, di occupazione, di crescita in questa che è stata un’area di integrazione».
«Fondamentale resta conoscere»
La giornalista e scrittrice triestina Viviana Facchinetti ha presentato il suo libro Protagonisti senza Protagonismo, compiacendosi del fatto che esso abbia potuto ispirare tale incontro. «Dialogare – ha affermato – è importante, ma fondamentale resta conoscere. E immodestamente penso che il mio progetto, nato tanti decenni fa e tendente a conservare e salvaguardare i valori e i contenuti dell’emigrazione giuliano-dalmata nel mondo, fatto di libri, programmi radio-televisivi e audiovisivi, contribuisca anche a far conoscere. E adesso la controprova ce l’ho col programma di “Telequattro” Trieste in diretta con i giuliani nel mondo. Lo dico per i protagonisti senza protagonismo del mio libro, per la loro storia a lungo nascosta ed ignorata, spesso dimenticata e comunque non così diffusamente conosciuta come dovrebbe essere. Nel libro ci sono oltre 400 storie di vita vissuta che ho raccolto dalla viva voce di quanti ora vivono in Australia, Canada o Sudafrica. Una signora mi ha chiesto: “Perché non quelli di New York o del resto d’Italia?”. Io sono disponibile, ma bisogna che ci sia un po’ di supporto. Già così ho fatto tanto volontariato». L’autrice ha infine letto alcune testimonianze contenute nel libro.
Il direttore de “Il Piccolo” Paolo Possamai, moderatore del dibattito, ha chiesto al presidente dell’UPT Fabrizio Somma se prima di oggi non c’era stato dialogo tra esuli e rimasti.
«Il dialogo c’è sempre stato»
«Sul “Piccolo” di ieri – ha risposto Somma – avete pubblicato il titolo: L’UPT riapre il dialogo. In realtà non era necessario riaprire nessun dialogo. Il percorso degli ultimi 3-4 anni, ma che parte da più lontano, è una cosa tangibile, documentabile, sottintesa, sempre praticata. Dal 1964 sono 51 anni di collaborazione tra noi e l’Unione Italiana. Però il dialogo c’è sempre stato. Mi rifaccio a personaggi illustri, illuminati: Luciano Rossit, Franco Luxardo, Giovanni Radossi, Arturo Vigini. Non si riapre, si continua. Non è un caso che il vicepresidente dell’UPT Manuele Braico sia anche presidente dell’Associazione delle Comunità Istriane. Fino a tanto tempo fa quelli che dialogavano erano le istituzioni, i presidenti, i direttori generali. Le collaborazioni erano riferite a convenzioni, atti o contratti tra esuli e rimasti. Poi in realtà c’erano le persone. Emilio Felluga è stato un uomo che attraverso lo sport ha unito gli esuli e i rimasti, o meglio la popolazione giuliana, fiumana e dalmata, non ultimo con la fondazione del Fiduciariato CONI che tuttora esiste a Dignano».
Il grande lavoro dell’LCPE con la CI di Pola
«Il concerto del 3 settembre 2011 all’Arena di Pola e l’incontro di pace tra i presidenti Napolitano e Josipović – ha proseguito Somma – hanno dato un avvio a qualcosa che era già partito, ma per cui serviva un la. Quel la. Da lì c’è stata una serie di manifestazioni anche molto importanti. Penso all’attività dei Comuni in Esilio con le Comunità in Istria, a Fiume e in Dalmazia. Parlo delle Famiglie e Comunità Istriane che hanno rapporti con le Comunità degli Italiani in Slovenia e Croazia. Dunque il dialogo esiste, non lo si vuol far partire adesso. Questi tre anni hanno portato cose importanti: il grande lavoro per esempio del Libero Comune di Pola in Esilio assieme alla CI di Pola e anche il Circolo Istria per la tutela della memoria di una cosa importantissima come la strage in tempo di pace di italiani a Vergarolla. Ci è stato chiesto di portare il 13 giugno 2014 per la prima volta questo dramma in una delle massime sedi istituzionali: la Camera dei Deputati. In quell’occasione siamo stati il tramite, il collante delle rappresentanze dei rimasti e degli esuli».
Esuli emigrati e terra d’origine
Possamai ha chiesto a Dario Locchi, presidente dell’Associazione Giuliani nel Mondo, che rapporto hanno mantenuto gli esuli emigrati all’estero con i rimasti.
«Circa un terzo dei 300.000 esuli istriano-fiumano-dalmati – ha rilevato Locchi – è emigrato all’estero. Dunque è emigrato due volte e per molti anni non ha più avuto un punto di riferimento. E’ stato completamente estirpato dalla propria terra d’origine. Fino alla dissoluzione dell’ex Jugoslavia il rapporto con questa è stato pressoché inesistente o molto raro. Da allora, ma soprattutto con l’ingresso della Slovenia e della Croazia nell’Unione Europea, le cose hanno cominciato a facilitarsi. Dobbiamo sicuramente non dimenticare, ma al tempo stesso guardare avanti, ai nostri figli. Quando l’on. Furio Radin un giorno ci ha telefonato dicendo che voleva andare a visitare i nostri circoli all’estero, da una parte eravamo contenti e ci siamo messi a sua disposizione per far sì che ciò potesse avvenire, dall’altro eravamo un po’ preoccupati perché non sapevamo come avrebbero reagito i nostri emigrati e soprattutto i nostri esuli. Hanno reagito benissimo».
«Mai interrotto il flusso di relazioni»
Possamai ha chiesto al presidente Unione Italiana Furio Radin qual è il ruolo dell’UI nella costruzione del dialogo.
«Ci sono – ha risposto Radin – dei precedenti, anche di prima della caduta del Muro di Berlino. Ricordo un incontro a Venezia tra associazioni degli esuli e dei rimasti e credo ce ne sia stato uno anche qui in questo albergo alla fine degli anni ’80. Poi ci sono stati sempre incontri personali, familiari o amicali. Non si è mai interrotto il flusso di relazioni tra esuli e rimasti. Si trattava delle stesse famiglie frantumate. Ricordo un precedente triestino. All’inizio erano delle conferenze stampa fatte da Stelio Spadaro, Fulvio Camerini e io al Caffè Tommaseo, ma subito si sono trasformate in tribune pubbliche con grandissimo afflusso di triestini, ma soprattutto istriani, fiumani, quarnerini, dalmati. Esuli o comunque persone di quella origine. Mentre precedentemente c’erano stati incontri di rappresentanti di associazioni in un’atmosfera ideologica e politica, questi incontri sono diventati di cultura e identità».
«Anche noi rimasti siamo esuli»
«Noi, finché andiamo a condividere la nostra storia, inevitabilmente – ha continuato Radin – ci occupiamo anche di ideologia e di politica. Quando dobbiamo condividere qualcosa che abbiamo già a priori, e che è la nostra identità, allora parliamo di cultura. Non siamo più esuli e rimasti. Se siete esuli voi italiani in Italia, immaginatevi quanto siamo esuli noi italiani in Croazia e Slovenia! La categoria degli esuli è prima di tutto psicologica, e poi anche naturalmente fisica. Anche noi siamo esuli, cioè estraniati, ed è questa la cosa che dobbiamo superare. Ed è questo che cerchiamo di fare come Unione Italiana con tante associazioni e persone, intellettuali, scrittori. Noi siamo apertissimi alla collaborazione, che inevitabilmente deve essere orientata al presente e al futuro, perché tutte le altre alternative sono peggiori. Ogni qualvolta andiamo a condividere le memorie, che possono essere anche le stesse, cadiamo nell’ideologia e nella politica. Abbiamo fatto un viaggio all’Isola Calva, dove morirono tanti italiani. Ieri in un sito di una parte dei volontari di guerra croati è stata pubblicata una mia fotografia con la stella rossa sulla fronte e un testo che mi definisce fascista».
Il compito delle associazioni degli esuli
Possamai ha chiesto a Rodolfo Ziberna, vice presidente dell’ANVGD, il senso delle associazioni degli esuli oggi.
«Tutto – ha risposto Ziberna – cambia. La mission cambia per tutti e anche per le nostre associazioni. Se potessimo dimenticare per un attimo il certificato di appartenenza ad uno Stato, e riconoscerci come italiani di qua e di là da un confine, potremmo rappresentare meglio quello che le nostre associazioni stanno facendo. Per me, della seconda generazione, è più facile. Ho vissuto di riflesso a Gorizia come fu vissuto in modo drammatico il rapporto esuli-rimasti da chi gestiva allora “L’Arena di Pola”. Chi era della prima generazione poteva fare riferimento esclusivamente al suo vissuto. Era difficile pensare al futuro. La seconda generazione si è talmente ben integrata in un contesto completamente diverso da quello dal quale i genitori e i nonni se n’erano andati, che non hanno più quella radice. La terza generazione ancora di più. Il compito delle nostre associazioni adesso dovrebbe essere quello di fare in modo che il contesto d’origine rimanga il più italiano possibile. Se fra 10, 20 o 30 anni non avesse più nulla a che fare con la cultura e la storia italiana, dire alle nuove generazioni che 100 anni prima era diverso sarebbe un dato storico. Non riusciranno più a provare quei sentimenti che hanno provato quanti sono stati costretti ad abbandonare l’Istria, Fiume e la Dalmazia.
«Favorire i rapporti tra giovani»
«Le nostre associazioni – ha proseguito Ziberna – dovrebbero, insieme alle istituzioni, favorire strette relazioni tra professionisti, tra giovani, tra scuole, nel commercio, nel turismo. Occorre trovare per il giovane che nasce oltre confine una “convenienza” che favorisca i suoi rapporti con le nostre comunità. Anche il turismo orientato attraverso associazioni, privati, figli e nipoti di italiani che hanno l’albergo, il ristorante, l’enoteca… Dunque un rapporto non soltanto con delle pagine di storia. Il compito delle associazioni fino ad oggi necessariamente era quello di assistenza alle persone. Progressivamente siamo riusciti a fare in modo che larga parte dell’attività fosse dedicata all’aspetto culturale. Il Giorno del Ricordo è stato di grandissima importanza. Con i nuovi strumenti di comunicazione dobbiamo essere in grado di intercettare persone nuove che non ne sanno nulla dell’esodo. Non solo i nostri, a circolo chiuso. Può essere lo spettacolo di Cristicchi, la canzone, il romanzo».
«Il punto saldante è l’amore per la propria terra»
Possamai ha chiesto al presidente di FederEsuli Antonio Ballarin se l’identità o italianità è il vero filo di cucitura tra esuli e rimasti.
«Noi – ha risposto Ballarin – il dialogo lo stiamo facendo da una vita. Quante volte “La Voce del Popolo” ha parlato dell’esule che ritorna? Nadia Giugno fa ogni settimana da 8 anni la trasmissione radiofonica Ponte Adriatico parlando di esuli e rimasti. Si fa questo convegno oggi perché le istituzioni oggi si accorgono di questo dialogo. Il dialogo è aumentato nel tempo dopo la caduta della cortina di ferro. Ora sarebbe il caso di fare insieme qualcosa, anche per darci una prospettiva. Sennò stiamo ancora a parlare dell’amarcord. Il punto saldante tra comunità autoctone ed esuli è l’amore per la propria terra. Quindi non è ideologico. E’ un concetto fisico. Le persone sono andate via sotto la spinta del nazionalismo slavo-comunista, perché non potevano parlare la propria lingua, confessare la propria religione ed esprimere le proprie idee. Le persone rimaste o hanno abbracciato l’ideologia comunista o non potevano andarsene perché stavano male o accudivano persone malate oppure veniva negata loro l’opzione. Per esempio parte della mia famiglia non se n’è andata perché non le davano l’opzione ed ha vissuto la persecuzione della propria identità nella propria terra. Io al Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma non potevo parlare dialetto perché venivo ghettizzato. Quando invece andavo a Lussino a trovare i miei parenti, mi dicevano di non parlare in dialetto perché non sta bene».
«Costruire qualcosa di comune»
«Noi – ha continuato Ballarin – tre anni fa abbiamo cominciato a dire: ma dopo la memoria cosa resta? Dobbiamo tirarci su le maniche e ricostruire. Quindi abbiamo lavorato sul concetto di identità, ovvero di appartenenza alla terra. Questo messaggio è stato vincente perché, oltre a coinvolgere le generazioni dell’esodo, ha coinvolto anche quelle successive. E ciò ha permesso un allargamento delle nostre associazioni. Ora il passo fondamentale lo deve fare la comunità delle persone che sono di là, che rappresentano un punto importante di cerniera, e non di cesura, con il mondo dell’est e che hanno la necessità di conoscere la storia dell’esodo (e secondo me non la conoscono), di valorizzare la loro identità perché altrimenti saranno assorbite progressivamente. Dalla promulgazione delle leggi 72 e 73 è mai possibile che non siamo riusciti a costruire qualcosa di comune? Un agriturismo, un ostello, un ufficio che possa dare risposte alla gente nostra che ha la barriera linguistica oggettiva. Le nostre associazioni, dopo che hanno testimoniato la memoria, devono trasferire questa memoria nella terra dove le persone parlanti italiano testimoniano la loro identità».
«Un dialogo non di circostanza»
Possamai ha chiesto al presidente dell’Unione degli Istriani Massimiliano Lacota se la sua è una voce dissonante.
«Mi piace – ha risposto Lacota – che il titolo di questo convegno sia dialoghi, non dialogo. Ce ne può essere più di uno. Magari diversi, paralleli. Dal precedente dibattito in questo hotel è cambiato l’aspetto politico e socio-geografico, ma dal punto di vista pratico per gli esuli non è cambiato molto nel rapporto con l’oltre confine. Pochissimi sono stati i vantaggi. Sulla necessità del dialogo siamo tutti d’accordo. Però costruttivo, non di circostanza, che finisce con un raduno a Pola o a Fiume oppure con un convegno dove si dicono delle belle cose. Parliamo di un dialogo tra perseguitati e persecutori, ovvero l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, creata nel 1944 dal Partito comunista jugoslavo per giustificare tutta una serie di azioni volte al recupero (nell’ottica jugoslavista) dei territori assegnati all’Italia dopo la Prima guerra mondiale. Un po’ l’operazione fatta tra i veterani di Porzûs, dove una e l’altra parte dei partigiani qualche anno fa hanno cercato di ricostruire un dialogo. Non è cosa facile un dialogo in un recupero di reciproca fiducia tra chi è stato cacciato via e chi ha contribuito a cacciare. Bisogna partire dall’obiettivo che si vuole raggiungere».
«L’Unione Italiana riconosca le responsabilità storiche»
«Condivido – ha aggiunto Lacota – quanto ha detto Ballarin. Sarà stata colpa delle associazioni, ma sicuramente anche dell’Unione Italiana: fatto sta che non c’è mai stato un progetto che abbia tentato di coinvolgere le associazioni come protagonisti con un ruolo di corresponsabilità, non solo come ospiti. Un progetto di largo respiro che non sia il piccolo raduno o il restauro di un edificio o monumento. Qualcosa di duraturo che va completato non in due o tre anni, ma in un periodo di tempo più lungo. Ciò che manca è un riconoscimento da parte dell’Unione Italiana delle sue responsabilità politiche storiche. Non l’Unione Italiana nata dopo la dissoluzione della Jugoslavia, che si è completamente diversificata nella terminologia e nello statuto dalla vecchia UIIF. Ma se vuole veramente iniziare un dialogo foriero di successi, deve fare un passo come i greci di Cipro Nord e di Cipro Sud, con un atto di uno degli organi sociali. Questo aiuterebbe».
«Nella vecchia UIIF c’erano tantissime persone oneste»
«L’Unione Italiana – ha replicato Furio Radin a Massimiliano Lacota – in 70 anni ha avuto la responsabilità di tutto quello che è successo. Anch’io porto la responsabilità dei miei connazionali italiani che hanno condiviso il fascismo, che sono stati partigiani, che sono stati comunisti, che hanno fondato l’Unione Italiana. Ho conosciuto tante persone della vecchia UIIF. Tra loro c’erano delle persone disoneste e tantissime persone onestissime. La maggior parte erano persone fondamentalmente oneste che cercavano di mantenere in un ambiente ostile la lingua, la cultura e la tradizione italiana e oggi ci permettono di vedere in Istria (e non è ancora un grandissimo risultato, ma stiamo lavorando) le bandiere italiane su tutti i Comuni dove gli italiani hanno non presenza statistica (venuta a decadere con l’esodo), ma presenza storica. Non esiste una responsabilità dell’Unione Italiana, se non quella di aver mantenuto la lingua e la cultura italiana in questi territori. I media croati sono molto attenti a quanto dice Lacota. Quando lo ha detto l’ultima volta, hanno titolato in prima pagina: “Sono stati gli italiani a infoibare gli altri italiani”. Domani diranno che è stata l’Unione Italiana a farlo. Io dissento profondamente, perché noi siamo persone, non siamo ideologia. I nostri padri, i nostri nonni non sono rimasti soltanto perché ammalati o perché comunisti o perché non hanno avuto l’opzione. Molti sono rimasti perché non ce la facevano ad andare via. E’ andato via o è stato cacciato chi non ha avuto la forza di rimanere ed è rimasto chi non ha avuto la forza di andare via. Pochi della mia famiglia sono rimasti, mentre i tre quarti sono andati via. Noi tutti abbiamo storie diverse e anche fra gli esuli ci sono storie diverse».
«L’UIIF ha avuto un ruolo fondamentale»
«Ci sono – ha risposto Lacota – responsabilità oggettive, documentate, centinaia e centinaia di testimonianze. Ma non è necessariamente vero che ci siano state persone disoneste nell’UIIF. Semplicemente avevano un obiettivo politico. Ho ricevuto l’invito di una Comunità degli Italiani nata come Circolo prima delle associazioni degli esuli! Non sono assolutamente d’accordo con Radin, perché l’UIIF ha avuto un ruolo fondamentale».
«Un progetto di ritorno concreto»
Possamai ha chiesto ai suoi interlocutori di dire una cosa concreta su cui vogliono impegnarsi tutti assieme: un cantiere comune.
«Serve – ha risposto Lacota – un progetto a largo respiro che non sia una casa di riposo o un albergo o la restituzione di Piemonte, che col senno di poi poteva essere una cosa vantaggiosa. Un progetto che preveda la possibilità di un ritorno concreto, di una presenza consolidata in Istria, a Fiume e poi, se vogliamo, anche in Dalmazia, attraverso le nostre associazioni (ma non solo), degli italiani autoctoni e oramai dei loro discendenti, che possa portare a un risultato e che preveda la corresponsabilità di questo progetto, non una sudditanza. Penso che un progetto ben fatto troverebbe la condivisione di tutte le associazioni».
«Slovenia e Croazia ammettano le loro colpe»
«Non sarebbe male – ha sostenuto Locchi – che anche la Slovenia e la Croazia, che non dovrebbero avere sulle spalle l’eredità politica e storica della Jugoslavia, facessero più chiaramente (l’Italia credo l’abbia fatto ampiamente) un’ammissione delle responsabilità di allora. Questo, al di là dell’Unione Italiana, sarebbe un grosso passo avanti che andrebbe nella direzione indicata dai concerti dei tre Presidenti e quant’altro. Nel nostro piccolo siamo disposti a partecipare ad incontri con l’Unione Italiana e a progetti sia di piccole che di grandi dimensioni».
«Piemonte centro culturale degli esuli»
«Il progetto di Piemonte – ha rammentato Radin – è stata un’idea mia, quando gli Stati, che si mettono sempre d’accordo sulle spalle delle persone, avevano cominciato a parlare di una cifra che Croazia e Slovenia devono all’Italia come finale della storia dei beni abbandonati. Io dissento perché penso che i beni “abbandonati” non esistano: esistono soltanto beni “privati” ai legittimi proprietari. Gli Stati non dovrebbero mai pagare i danni di guerra con i beni privati alle persone. Ma questo è un discorso di giustizia e diritti umani. Dato che questi 110 milioni di dollari c’erano e venivano anche dati dai due Governi, ho detto: “Compriamo con questi soldi un paese gestito dagli esuli”. Non esuli e rimasti. Era Piemonte d’Istria. Qui gli esuli mi hanno detto: “Furio, ti diamo ragione, ma non vorremmo che il problema si chiudesse così”. I soldi sono ancora là e a Piemonte non so neanche se ci sia più un bene libero. Però, se lo fosse, potrebbe diventare un centro culturale proprietà delle associazioni degli esuli».
«Siamo anime diverse di un unico popolo»
«La Federazione – ha dichiarato Ballarin – ha un percorso di metabolizzazione del lutto rappresentato dall’esodo. Ma l’elemento unificante è la terra. Noi siamo anime diverse all’interno di un unico popolo. Gli esuli devono rappresentare la storia e la coscienza delle persone rimaste nelle nostre terre. Viceversa quelli che sono di là devono rappresentare l’elemento identitario forte per le persone che sono andate via. Se un nipote di una persona infoibata incontra il nipote di una persona che infoibava, si devono pestare tra di loro? La prospettiva nostra qual è? Quella dell’odio o quella della costruzione di un ambito dove è possibile testimoniare la propria identità? La prima generazione di armeni ha patito, la seconda si è organizzata, la terza è tornata. Questo è il nostro obiettivo. Noi ci stiamo riorganizzando».
«Rendere Piemonte il luogo del ritorno»
«Il progetto comune per me da fare – ha precisato Ballarin – è far conoscere Piemonte d’Istria, renderlo il luogo del nostro ritorno e della nostra identità forte. Non è che non vogliamo i soldi, se ce li danno per ricostruire Piemonte. Però dobbiamo tirarci su le maniche noi, dobbiamo essere autonomi, dobbiamo trovare noi gli ambiti con cui finanziarci. Perché, se ci sta a cuore la nostra identità, questa cosa la facciamo. Non abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica di farlo. Nei nostri Comitati sul territorio abbiamo un mucchio di ragazzi che dicono: “Portaci di là, che facciamo qualcosa”. Però non siamo ancora riusciti a partire, perché manca sempre una pratica burocratico-amministrativa e non sappiamo dove mettere a dormire i ragazzi. Lavorare su questa prospettiva, secondo me, può creare effettivamente un volano di interazione tra realtà che imparano a conoscersi».
«Un tavolo per le imprese d’ambo le parti»
«La storia – ha osservato Ziberna – è essenziale, ma non deve essere vissuta come un fardello per proseguire nelle relazioni. Se io dovessi scegliere un unico progetto da realizzare, senza dubbio ne sceglierei uno in grado di essere realizzato da noi, con le nostre forze, senza delegare altre istituzioni, che hanno necessità e tempi più lunghi: realizzare non un nuovo soggetto, ma una sorta di Camera di Commercio, cioè un tavolo dove poter mettere imprese del Friuli Venezia Giulia, che hanno una sensibilità diversa rispetto al contesto nazionale, e imprese d’Istria, Fiume e Dalmazia, utilizzando anche incentivi che la nostra Regione già possiede. Sto pensando a Finest, ma ci possono essere anche altri strumenti che hanno come scopo istituzionale quello di agevolare le nostre imprese ad investire altrove. Non dunque un contributo a fondo perduto, ma per creare le condizioni affinché ci sia la convenienza per le imprese da una parte e dall’altra a creare occupazione e lavoro».
«Un grande raduno in Istria»
«Lacota – ha proseguito Ziberna – diceva che i raduni hanno soltanto valore simbolico. A me però piacerebbe un grande raduno senza sigle di una settimana in Istria per tutti i nostri vecchi che possono venire anche dall’Australia, dagli Stati Uniti, dal Canada, trovando un momento di fratellanza, di solidarietà, di pace e di cultura». «Un grande raduno – ha aggiunto Ballarin – nel 2017 a 70 anni dal Trattato di pace». «E’ la proposta – ha commentato Radin – che ho fatto al presidente Mattarella».
«Un organismo unico per gli esuli»
Un esule ha chiesto: «Sta bene il dialogo, ma la premessa non dovrebbe essere il dialogo tra le nostre associazioni e la costituzione di un organismo unico di rappresentanza?».
«Le divisioni – ha risposto Ballarin – sono molto sentite a Trieste, ma pochissimo fuori, dove non si percepisce questa differenza. Qua ci sono 3 associazioni. Ognuna con la sua storia. La legge 72 finanzia 18 sigle associative distinte. Ce n’è ancora qualcuna che è fuori. La Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati era stata formata da 6 associazioni, quelle numericamente più rilevanti. Ora ne tiene 5, e anche per quelle che non vi appartengono la Federazione si fa carico di dare tutta l’assistenza amministrativa. L’identità, se uno la vuol perdere, la perde. Per esempio io in casa a Pomezia con i miei figli parlo in dialetto. Bisognerebbe togliere di mezzo tutte le differenze e iper-sensibilità e guardare a un progetto comune di lunga durata, di prospettiva, a 50-100 anni. Probabilmente in quest’ambito si riuscirà a costruire qualcosa».
«Una Città metropolitana giuliana»
Un altro signore ha proposto di istituire una Città metropolitana non limitata a Trieste, ma fino a Umago da un lato e a Nova Gorica dall’altro, dove Trieste diventi il faro e il punto di riferimento per tutti i paesi dell’Istria e della Dalmazia.
«Qualcosa di concreto per promuovere l’economia»
«Esprimo profonda soddisfazione e gioia – ha affermato Luciano Santin, del Circolo di cultura istroveneta “Istria” – per il fatto che, malgrado qualche difficoltà emersa, si stia instaurando un dialogo e un confronto che dovrebbe portarci a situazioni migliori. Nel 1988, dunque a Jugoslavia e Muro di Berlino ancora in piedi, il Circolo “Istria” aveva stilato un manifesto-appello per la collaborazione e il dialogo, raccogliendo le firme di personalità notevoli non solo locali: da Leo Valiani a Claudio Magris, da Margherita Hack a Guido Miglia, da Fulvio Tomizza a tanti altri. Ovviamente i tempi non erano ancora maturi. Allora il dialogo era molto difficile e faticoso. Le lacerazioni dolorose della guerra erano troppo vive. Il Circolo “Istria” comunque qualcosa ha fatto, mettendo insieme le competenze scientifiche delle Università di Trieste, Udine, Lubiana e Zagabria e creando piccole attività agroalimentari ed economiche, che oggi possono sembrare cose normali, ma allora non lo erano. Forse le grandi dichiarazioni d’intenti e ideologiche sono meno importanti di trovare qualcosa di concreto, di vitale, che promuova l’economia del territorio».
«Avviare attività imprenditoriali è difficile»
«Per quanto riguarda – ha risposto Ballarin – realizzare piccole iniziative economiche che partano dal basso per la costruzione di un rapporto stabile tra persone dell’esodo e delle comunità autoctone, stiamo lavorando da tre anni su due grandi filoni: turistico-alberghiero e agro-alimentare. E siamo alla costante ricerca di soggetti che vogliano intraprendere iniziative partendo dal basso per la valorizzazione del territorio. E’ tutto lavoro volontario. Il nostro valore aggiunto è avere un retroterra di persone diffuse sul territorio che non aspettano altro che poter fare iniziative del genere. Solo che avviare attività imprenditoriali in una terra dove non abbiamo il supporto delle comunità autoctone è molto difficile, perché le leggi sono diverse».
«Indennizzi anche per i perseguitati in Croazia»
Un esule lussignano di 88 anni ha chiesto all’on. Radin e al rappresentante del Ministero degli Esteri di convincere il Governo croato ad estendere, come ha fatto quello sloveno, anche ai cittadini italiani la legge che riconosce un indennizzo ai propri cittadini che hanno subito persecuzioni da parte del regime comunista jugoslavo. «Da giovane – ha spiegato – mi feci 5 anni di carcere duro senza aver commesso alcun crimine, ma solo per non aver aderito alle richieste delle autorità “popolari”. Zagabria mi ha risposto che, per beneficiare della legge, devo esibire la cittadinanza croata».
«Io – ha risposto Radin – sono più che convinto che lei abbia diritto subito al risarcimento, ora che la Croazia è entrata in Europa. La cittadinanza non è più importante. Ma già prima questo problema era stato risolto, secondo me. Penso che le sue informazioni siano un po’ datate».
«Un’associazione trans-frontaliera fra istriani»
Un esule da Capodistria ha confessato di fare difficoltà ad orientarsi fra le tante associazioni ed ha proposto di creare un’associazione trans-frontaliera fra istriani esuli e rimasti con uno scopo semplicissimo: valorizzazione del territorio dell’Istria e della sua storia e cultura.
Gli ha risposto Ballarin: «Questa associazione l’abbiamo fatta. Si chiamava Renovatio Histriae. Non siamo riusciti a registrarla perché sono cambiate le regole per registrare le associazioni senza fini di lucro in Croazia. Da due anni stiamo sbattendo da un ufficio all’altro per cercare di risolvere questo problema burocratico. E chi ci sta aiutando? Nessuno! Cioè la rete di relazioni che abbiamo sul territorio. Io dico sempre: meno parlare e più fare».
«Anch’io – ha commentato Radin – ho sentito per la prima volta di questa associazione. Mi piacerebbe capire un po’».
«I nostri figli vanno al mare a “Umag”»
«Il problema – ha asserito Walter Macovaz – è che qui in sala non ci sono i nostri figli, i nostri nipoti, che dell’Istria, della nostra storia e della nostra cultura se ne fregano. Noi li abbiamo portati a disinteressarsene, e loro vanno al mare a Umag! Perché, invece di fare conferenze su Dante, nelle costosissime Comunità degli Italiani non ricominciamo a fare la storia della cultura italiana in Istria (la storia non comincia l’8 settembre 1943!) e a fare un libro condiviso da questa miriade di associazioni che non si mettono d’accordo su niente?».
«Se ha occasione – ha risposto Radin – di parlare con questi giovani, prima di tutto dica loro che noi italiani d’Istria la chiamiamo “Umago”, e poi che si chiama “Umag-Umago”. Ho cambiato io la legge con un emendamento per tutte le Città storiche che hanno la denominazione bilingue. Quando lei vede i risultati delle elezioni alla televisione nazionale croata, non scrive “Umag” ma “Umag-Umago”. Dunque dica loro di chiamarla “Umag-Umago”. Ci mettono un po’ più di tempo, ma parlano meno stupidaggini. Pola si chiama ufficialmente “Pula-Pola”, Rovigno “Rovinj-Rovigno”. Purtroppo invece Fiume è solo “Rijeka”. Non sono riuscito a far passare questo emendamento».
Quale progetto per Piemonte?
Franco Biloslavo, segretario della Comunità di Piemonte d’Istria, ha chiesto quale progetto esiste per Piemonte e quante speranze ci sono di realizzarlo.
«Per quanto riguarda Piemonte, io – ha aggiunto Radin – ho lasciato questo progetto 15 anni fa, quando non era stato accettato dalle associazioni degli esuli, e da allora non ho avuto più alcun contatto con questo progetto e neanche con Piemonte. Non so nemmeno se ci siano ancora beni liberi o se siano già stati venduti».
Biloslavo ha chiesto a Radin se è conoscenza di un altro progetto su Piemonte, constatando che probabilmente non c’è troppo dialogo. «Di un altro progetto – gli ha risposto Radin – nessuno mi ha parlato».
«I giovani porteranno avanti il dialogo»
«Siamo – ha concluso Somma – in una fase di non ritorno. Ormai non servono più gli impegni dei grandi nomi e di tutti noi presidenti di associazioni, perché c’è un fatto straordinario che sta avvenendo nel mondo dei giovani in Italia e nelle scuole. Porto un esempio: l’11 febbraio a Martina Franca io ho spiegato la realtà dei giovani, delle scuole e della struttura della Comunità Nazionale Italiana in Slovenia e Croazia, e Antonio Ballarin ha spiegato la realtà della Federazione degli Esuli in Italia a una scuola che con l’esodo non aveva nulla a che fare, se non una grande ricerca, una grande volontà di capire ciò che era successo sul nostro territorio. Questo ha portato al fatto che il 12 febbraio del 2016 la Scuola media superiore italiana di Fiume si gemellerà con l’Istituto “Carducci” di Martina Franca e poi ospiterà quegli studenti a Fiume. Ciò che non siamo riusciti a fare noi finora, forse anche per merito dei network (di Facebook usato in maniera positiva) riusciranno a farlo loro. Lo fanno già. Nei libri di scuola in Italia si comincia a scrivere, ma si è cominciato anni fa a scrivere su Istria nel tempo un capitolo che tutela la memoria delle foibe e dell’esodo, ed è stato tradotto in lingua croata e slovena senza censura. Queste son cose che non hanno ritorno. Noi non ci saremo, ma sicuramente i giovani andranno avanti su questa linea e con questo modo di vedere e di pensare ad un futuro assolutamente condiviso. Avranno bisogno però di persone sia di qua che di là. Non si dovrà più pensare a cosa dialogare, ma semplicemente portare avanti questo dialogo, con la consapevolezza che comunque indietro non si torna».
Il castelletto di Punta Salvore
Un esule ha infine chiesto all’on. Radin cosa può fare per rientrare in possesso del castelletto di Punta Salvore, di cui lui è l’erede e dove ora sta scritto: «Monumento culturale – pericolo di crollo». Radin lo ha invitato a rivolgersi all’avvocato che ha difeso i frati dell’ex monastero di Daila, «perché questa è una cosa complicata». «Lei – ha aggiunto – ha la mia empatia personale assoluta. Io glielo darei subito, se fosse mio. Ma purtroppo appartiene a non so chi».
Paolo Radivo