Rassegna Stampa

MAILING LIST HISTRIA

RASSEGNA STAMPA

a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri

N. 927 – 14 Febbraio 2015
    

Sommario



08 – Corriere della Sera 11/02/15 Commemorazione Giorno del Ricordo: Mattarella: «Pagina strappata della nostra storia» (Marzio Breda)
09 - Il Giornale 11/02/15 Presidente Mattarella, subito la medaglia a Zara (Fausto Biloslavo)
10 – La Voce del Popolo 11/10/15 - Esuli e rimasti: c’è tanta voglia di cambiare (Franco Sodomaco)
11 - Avvenire 10/02/15 11 - Avvenire 10/02/15 Il Giorno del ricordo - Lucia Bellaspiga: Accanto agli esuli istriani, per difendere la verità
12 – La Repubblica Milano 12/02/15 Milano:  Rosati (Pd) diserta il ricordo delle foibe Destra all`attacco (Andrea Montanari)
13 - Corriere della Sera 11/02/15 Il profugo dalmata diventato sindaco e il ricordo di Zara (Giusy Fasano)
14 -  Il Tempo 12/02/15 Roma: «Viva i partigiani jugoslavi» Foibe, oltraggio alle vittime (Fra.Mar.)
15 - Il Giornale 10/02/15 Stefano Zecchi: Vite negate, massacri, falsità. Anche la verità fu infoibata (Stefano Zecchi)
16 - Corriere della Sera 10/02/15 Tragedia delle Foibe il Ricordo dopo l’oblio (Dino Messina)
17 - Osservatorio Balcani 10/02/15 Le foibe nella rappresentazione pubblica (Gorazd Bajc)
18 - La Voce di Romagna 10/02/15 Giorno del Ricordo: Tanti gli emiliano-romagnoli scomparsi sul confine orientale (Aldo Viroli)


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08 – Corriere della Sera 11/02/15 Commemorazione - Mattarella: «Pagina strappata della nostra storia»

Commemorazione
Mattarella: «Pagina strappata della nostra storia»

di Marzio Breda

La «guerra della memoria» che si è combattuta in Italia dal 1945 ha tenuto per mezzo secolo ai margini delle narrazioni ufficiali il dramma di chi era nato e vissuto sull’altra sponda dell’Adriatico. Un’amnesia scandalosa, che il presidente della Repubblica ha rievocato ieri, mentre celebrava alla Camera dei deputati il «Giorno del ricordo». Parole pesate e pesanti, le sue: «Per troppo tempo le sofferenze patite dagli italiani giuliano-dalmati con la tragedia delle foibe e dell’esodo hanno costituito una pagina strappata nel libro della nostra storia». Poi, undici anni fa, abbiamo cominciato a lasciarci die spalle quel passato che non passava mai. E quei dolorosi eventi, fino ad allora percepiti dalla politica come troppo problematici da onorare visto che eravamo tutti prigionieri di ricordi selettivi (e ognuno restava sempre ostaggio dei propri paradigmi ideologici), ha cominciato ad essere metabolizzato davvero, facendo ritrovare imito il Paese, infatti, certifica ancora il capo dello Stato, «il Parlamento, con decisione largamente condivisa, ha contribuito a sanare una ferita profonda nella memoria e nella coscienza nazionale». Oggi, oltre a riconoscerci finalmente legati e solidali dentro le stesse basi fondative, c’è per fortuna l’Europa, a sgombrare il timore che simili tragedie si ripetano. Ecco, per Sergio Mattarella, l’antidoto di cui disponiamo. E, anche se l’ultimo conflitto nell’ex Iugoslavia è un’esperienza ancora vicinissima e carica di lutti, nessuna malintesa
smania patriottica e nessuna degenerazione sciovinista potranno mai più materializzare certi vecchi incubi, n presidente se ne sente sicuro. Tanto più se riflette sui nuovi rapporti costruiti a Est daìntalia, in particolare sull’ormai definitiva riconciliazione con Slovenia e Croazia. Tanto sicuro da dire appunto che «la comune casa europea permette a popoli diversi di sentirsi parte di un unico destino di fratellanza e di pace... Un orizzonte di speranza nel quale non c’è posto per l’estremismo nazionalista, gli odi razziali e le pulizie etniche».










09 - Il Giornale 11/02/15 Presidente Mattarella, subito la medaglia a Zara


Presidente Mattarella, subito la medaglia d'oro a Zara

Il capo dello Stato riscatta le Foibe, ma manca ancora una medaglia

Fausto Biloslavo

Signor presidente, appena eletto capo dello Stato ha reso omaggio alle Fosse Ardeatine e ricordato la Resistenza. Se vuole rappresentare tutti gli italiani siamo certi che in egual maniera onorerà, nel suo settennato al Quirinale, le vittime delle foibe e dell'esodo.

Il 10 febbraio, giornata che ricorda il dramma degli esuli istriani, fiumani e dalmati, per rimanere viva, ha bisogno di simboli, che servono a perpetuare la memoria di una tragedia nazionale sepolta per oltre mezzo secolo.
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Nel 2001 l'allora presidente, Carlo Azeglio Ciampi, firmò il decreto per l'assegnazione della medaglia d'oro al valor militare al gonfalone di Zara, la città dalmata, martire due volte. Prima distrutta da 54 bombardamenti degli alleati e poi «ripulita» dalla popolazione italiana, che ha scelto la via dell'esodo di fronte alle violenze di Tito.
La Croazia sorta sulle ceneri insanguinate dell'ex Jugoslavia protestò con veemenza considerando il riconoscimento del Quirinale una specie di ingerenza. Senza capire che la medaglia sarebbe stata appuntata sull'antico e glorioso gonfalone della città «fortunosamente riportato in Patria» come recita la motivazione, testimone di «un glorioso passato» e delle sue «vestigia veneto-romane». Adesso che la Croazia ha fatto il suo ingresso in Europa si spera che superi i retaggi ultranazionalisti, come abbiamo fatto noi. Se vuole dimostrare, nei fatti, di essere il presidente di tutti gli italiani dovrebbe non solo consegnare la medaglia attesa da 14 anni, ma mettere mano al secondo comma della motivazione. Un falso storico dettato da solerti funzionari del politicamente corretto, a scapito della verità, che fece infuriare Ciampi, suo predecessore. «Dal settembre 1943 in avanti la città ha continuato a battersi per mantenere la sua identità. I fanti, bersaglieri, alpini, marinai e avieri, tra cui molti zaratini del neocostituito battaglione partigiano italiano Mameli furono i primi ad affrontare l'invasore tedesco - si legge nella motivazione -. Le molte decine di caduti in combattimento e le centinaia di italiani vittime di esecuzioni sommarie o morti nei lager, annegati, sono stati il prezzo della resistenza».
La verità è un'altra, come si ricorda in altri passi della motivazione: Zara fu «sottoposta a violenti bombardamenti aerei a tappeto, distrutta più di ogni altro capoluogo di provincia del nostro Paese». Le bombe alleate volute da Tito uccisero 4000 persone e fecero a pezzi l'85% della città. Almeno 900 italiani furono annegati, infoibati o sommariamente giustiziati, dalla polizia segreta titina, che entrò a Zara nell'ottobre 1944. In seguito all'esodo rimasero solo 12 famiglie italiane, su oltre 21mila abitanti. Per questo signor presidente è doveroso appuntare sul gonfalone la medaglia d'oro ricordando tutti con le prime righe della motivazione: «Zara, città italiana per lingua, cultura e storia, ha dato alla patria nell'ultimo conflitto, tra morti e dispersi militari e civili, un decimo della sua popolazione».
P.s: Un'altra vergogna è il rango di cavaliere di Gran Croce concesso dal Quirinale a Tito, molti anni fa, che non si può levare essendo il maresciallo jugoslavo defunto da tempo. Al presidente siriano, Bashar al Assad, abbiamo tolto la stessa onorificenza per il carnaio in Siria. Forse con Tito si potrebbe almeno ammettere l'errore.





10 – La Voce del Popolo 11/10/15 - Esuli e rimasti: c’è tanta voglia di cambiare

Esuli e rimasti: c’è tanta voglia di cambiare

Franco Sodomaco

UMAGO | L’autostrada dell’esodo è stata piena di dolore, risentimento, nostalgia. Per tutti, per chi è partito e per chi è rimasto. La famiglie smembrate hanno prodotto poi un’altra divisione, aggravata dai confini. Ma questo era ieri. Oggi, esuli e rimasti vogliono cambiare e l’hanno detto chiaramente a Umago, prima con gli omaggi floreali ai piedi della Targa che al cimitero San Damiano ricorda gli umaghesi sparsi per il mondo, poi al municipio dove si sono incontrati i vicesindaci Mauro Jurman e Floriana Bassanese-Radin con il direttivo della Famiglia Umaghese di Trieste.

Ora siamo in Europa, ma ciò non vuol dire dimenticare, perché è impossibile. Cambiare si può, però. L’Europa delle nazioni è anche questo. Con la caduta dei confini sono scomparse le barriere fisiche, ora bisogna lavorare a quelle mentali.
Il vicesindaco Mauro Jurman ha detto chiaramente al cimitero che si può andare avanti: “Umago deve essere la casa di tutti gli umaghesi sparsi per il mondo, perché è la loro città... Ma la storia ci ha insegnato anche ad andare piano. Siamo l’unica città che ricorda questa giornata e l’unica che farà un monumento agli esuli in piazza Brolo o 1º Maggio”.
“Abbiamo già fatto dei piccoli passi avanti – ha proseguito –, con la targa sulla scuola, oggi croata, di Giurizzani, per ricordare gli insegnanti italiani di un tempo. Abbiamo affiancato alla toponomastica attuale anche i vecchi nomi delle vie di Umago. Siamo ben disposti, ma le cose non sono certo facili. Oggi il 15 p.c. della popolazione si dichiara italiana, anche se possiamo liberamente dire che gli italofoni sono almeno un quarto della popolazione”.
Floriana Bassanese Radin, vice sindaco della minoranza e presidente della CI “Fulvio Tomizza” di Umago, ha fatto gli onori di casa al municipio, dove ha parlato degli sforzi delle istituzioni, Comunità degli Italiani, asili e scuola italiana per mantenere vive le tradizioni e la storia. Saluti sono arrivati pure dal presidente della CI di Salvore Silvano Pelizzon e dal preside della scuola italiana Arden Sirotić.
Giuseppe Pippo Rota ha ricordato invece il secondo dopoguerra, difficile per gli italiani rimasti, e l’ha fatto dall’ottica di direttore della scuola italiana di allora, quando era stato richiamato a rapporto dal “Komitet”. Mille e mille problemi, cose da storici, mille amari ricordi, che però non devono frenare chi vuole andare avanti. Anche perché non tutti erano cattivi e mal disposti. Per esempio, ha ricordato Giuseppe Rota, c’è stato un certo Josip Mihovilović che aveva aperto il ginnasio e la scuola media superiore italiane di Buie. C’è gente che, pur non essendo stata italiana, si è meritata tutto il nostro rispetto.

Silvio Delbello, del Giorno del Ricordo, cioè del 10 febbraio ha detto che per gli esuli si è trattato di uno ‘tsunami’, di una cosa sconvolgente. ‘Il dolore che è stato fatto ha interessato tutti, esuli e rimasti, ma è nostro dovere andare avanti con determinazione e coraggio’”.





11 - Avvenire 10/02/15 Il Giorno del ricordo - Lucia Bellaspiga: Accanto agli esuli istriani, per difendere la verità


Il Giorno del ricordo
Accanto agli esuli istriani, per difendere la verità

Pubblichiamo il testo dell'orazione pronunciata dall'inviata di Avvenire Lucia Bellaspiga martedì 10 a Montecitorio, che ha introdotto il "Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata", presente il  capo dello Stato, Sergio Mattarella, la presidente della Camera, Laura Boldrini e il presidente del Senato, Pietro Grasso.
La mia prima volta a Pola, da bambina, è il ricordo di mia madre che piange aggrappata a un cancello. Un’immagine traumatica, che allora non sapevo spiegarmi. Eravamo là in vacanza, il mare era il più bello che avessi mai visto, le pinete profumate: perché quel pianto? Al di là di quel cancello una grande casa che doveva essere stata molto bella, ma che il tempo aveva diroccato. Alle finestre i vetri blu, “erano quelli dell’oscuramento” mi disse mia madre, eppure la seconda guerra mondiale era finita da trent’anni. Tutto era rimasto come allora. La finestra si aprì e una donna gentile, con accento straniero, capì immediatamente: “Vuole entrare?”, chiese a mia madre.

Solo adesso comprendo la tempesta di sentimenti che doveva agitare il suo cuore mentre varcava quella soglia e rivedeva la sua casa, la cucina dove era risuonata la voce di mia nonna, le camere in cui aveva giocato con i fratelli. Sono passati molti anni prima che io capissi davvero: la scuola certo non ci aiutava, censurando completamente la tragedia collettiva occorsa nelle terre d’Istria, Fiume e Dalmazia, e d’altra parte molti dei testimoni diretti, gli esuli fuggiti in massa dalla dittatura del maresciallo Tito e dal genocidio delle foibe, rinunciavano a raccontare, rassegnati a non essere creduti.

Ciò che durante e dopo la II guerra mondiale era accaduto in decine di migliaia di nostre famiglie restava un incubo privato da tenere solo per noi perché al resto degli italiani non interessava. Eppure era storia: storia nazionale…
Anche i miei cari sparsi per l’Australia mi sembravano quasi irreali, figure fantastiche che immaginavo mentre, imbarcati sulla nave “Toscana”, lasciavano Pola per sempre, via verso l’ignoto. Ogni ritorno porta con sé un dolore, così per molti anni a Pola non tornammo più. Ma dentro di me intanto lavorava il richiamo delle origini, cresceva il desiderio che ogni donna, ogni uomo ha di sapere da dove è venuto, così, come tanti miei coetanei, ho iniziato a ripercorrere l’esodo dei nostri padri in senso inverso.
Intanto il Novecento è diventato Duemila, l’Europa una casa comune sotto il cui tetto abitano popoli un tempo nemici, e i giovani oggi, da una parte e dall’altra, sognano un mondo nuovo, segnato dalla pace e dal progresso condiviso. E noi? I figli e nipoti dell’esodo, noi nati “al di qua”, che ruolo abbiamo in questo mondo che cambia ma che non deve dimenticare?
Tocca a noi, dopo il secolo della barbarie, tenere alta la memoria non per recriminazioni o vendette, ma perché ciò che è stato non avvenga mai più. Se il perdono, infatti, è sempre un auspicio, la memoria è un dovere, è la via imprescindibile per la riconciliazione: non è vero che rimuovere aiuti a superare, anzi, la storia dimostra che il passato si supera solo facendo i conti con esso e da esso imparando.

Sono trascorsi settant’anni da quando 350mila giuliano-dalmati sopravvissuti agli eccidi comunisti abbandonarono con ogni mezzo la loro amata terra, sperimentando la tragedia dello sradicamento totale e collettivo. La maggior parte di loro è morta senza avere non dico giustizia, ma almeno il sacrosanto diritto di veder riconosciuto il proprio immane sacrificio.
Chiedo in prestito le parole al presidente emerito Giorgio Napolitano: “La tragedia di migliaia di italiani imprigionati, uccisi, gettati nelle foibe assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica”, ha detto nel 2007, rompendo dopo 60 anni la cortina del silenzio. “Il moto di odio e di furia sanguinaria” aveva come obiettivo lo “sradicamento della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia”. Ma soprattutto gli siamo grati per il mea culpa pronunciato a nome dell’Italia: “Dobbiamo assumerci la responsabilità dell’aver negato la verità per pregiudizi ideologici”.

Un altro grande passo sulla via della verità è stato compiuto proprio qui alla Camera il 13 giugno scorso, quando per la prima volta dopo 68 anni si è commemorata (e riconosciuta) la strage di Vergarolla, 28 ordigni fatti esplodere sulla spiaggia di Pola, oltre cento vittime tra adulti e bambini. Era l’agosto del 1946, già in tempo di pace, si tratta quindi della prima strage della nostra Repubblica, più sanguinosa di piazza Fontana, più della stazione di Bologna, eppure da sempre nascosta. Con Vergarolla fu chiaro che la sola salvezza era l’esilio.
L’esilio… Proviamo a immaginare il momento del distacco definitivo: uscire dalla casa dove sei sempre stato e non per tornarci la sera, no: mai più. Tiri la porta e delle chiavi non sai che fare: chiudere? A che serve? Domani stesso nelle tue stanze entrerà gente nuova, che non sa nulla della vita vissuta là dentro. Ti porti dietro quello che puoi, poche cose, ma ciò che non potrai portare con te, che mai più riavrai, è la scuola che frequentavi, le voci degli amici, un amore che magari sbocciava, il negozio all’angolo, l’orto di casa, i volti noti, il tuo mare, il campanile… persino i tuoi morti al cimitero.
 Addio Pola, addio Fiume, addio Zara. I racconti sono spesso uguali: in una gelida giornata di bora, in un silenzio irreale rotto solo dai singhiozzi, la nave si staccava dalla riva che era sempre più lontana. Da laggiù la tua casa, la tua stessa finestra diventavano già quel dolore-del-ritorno che mai sarebbe guarito. Da che cosa si scappava? Dai rastrellamenti notturni, dalle foibe, dai processi sommari. Dai massacri perpetrati in quelle regioni d’Italia dai partigiani jugoslavi nell’autunno del 1943 e di nuovo dal maggio del 1945, cioè quando il mondo già festeggiava la pace.

Se nel resto d’Italia il 25 aprile a portare la Liberazione erano gli angloamericani, nelle terre adriatiche facevano irruzione ben altri “liberatori”. E iniziava il terrore. Da Gorizia e Trieste fino giù a Zara dei colpi alla porta con il calcio del fucile preannunciavano l’ingresso dei titini e il rapimento dei capifamiglia, centinaia ogni notte. Poi sparirono anche le donne, persino i ragazzini: “Condannato”, si legge sulle carte dei processi farsa, in realtà fucilati a due passi da casa o gettati vivi nelle foibe, tanti nel mare con una pietra al collo.
Da questo si fuggiva. Ma dove? In un’Italia povera e da ricostruire, anche solo un parente in una città lontana era l’ancora di salvezza, a Milano, La Spezia, Ancona, Venezia, Roma, Taranto… Sorsero villaggi giuliano-dalmati, quartieri di esuli, ma anche campi profughi, più di 100 in tutta Italia, ex manicomi, ex carceri, caserme dismesse, dove le famiglie si trovarono scaraventate in un nuovo incubo. Pensate, pensiamo cosa significhi: comunità spezzate, tessuti sociali frantumati, improvvisamente non più i colori della propria terra ma miseri accampamenti dove restarono per anni, le coperte appese a fare da parete tra una famiglia e l’altra.
Qualcuno impazzì, qualcuno, svuotato della propria identità, si tolse la vita, molti morirono di crepacuore (così morì mia nonna). Al loro arrivo, presero loro le impronte digitali, come fossero delinquenti. Fascisti! Così erano chiamati, solo poiché fuggivano da un regime comunista, e il grave equivoco resta ancora oggi incancrenito in residue forme di ignoranza, che il Giorno del Ricordo vuole dissipare: gli italiani della Venezia Giulia uscivano da un’Italia che era stata fascista, esattamente come gli italiani di Roma, Trento, Napoli…
 I nostri nonni e genitori erano stati antifascisti o fascisti esattamente come tutti gli altri italiani. Si usciva tutti, indistintamente, dalla stessa guerra persa. Nelle foibe furono gettati maestri di scuola, impiegati, carabinieri, medici, artigiani, operai, imprenditori… tutti, purché italiani o avversi alla nuova dittatura. E quanti tra questi erano stati antifascisti!
Ma c’è poi un secondo enorme equivoco in cui ancora oggi incorre chi non conosce la storia: “Di che vi lamentate? – dicono – L’Italia ha perso la guerra, era giusto che pagasse”. Vero, ma tutta l’Italia era stata sconfitta, eppure per saldare i 125 milioni di dollari, debito di guerra dell’intera nazione, il governo utilizzò le case, i negozi, i risparmi di una vita, soltanto dei giuliano-dalmati. Promettendo indennizzi poi mai erogati. Se dunque noi oggi qui abbiamo le nostre case, se Milano, Palermo, Torino, Bari sono ancora Italia, è perché i giuliano-dalmati hanno pagato per tutti. Le loro vite hanno riscattato le nostre.
Vogliamo almeno dire grazie? Vogliamo che almeno si sappia e che si studi a scuola? E intanto che cosa succedeva al di là dell’Adriatico, dove poche migliaia di italiani erano rimasti per vari motivi, per non lasciare la propria casa, per non separarsi dai loro vecchi, perché fiduciosi nel nuovo regime comunista, o invece perché dallo stesso regime non ottenevano il permesso di partire? Accusati dagli esuli di essere comunisti e dagli jugoslavi di essere italiani quindi fascisti, a loro volta patirono una sorta di esilio in casa loro.
E con questo torno alla domanda iniziale: che ruolo abbiamo oggi tutti noi, i nati dopo l’esodo sulle due sponde dell’Adriatico? Due ruoli principalmente. Il primo: difendere una verità ancora non del tutto condivisa. Ma in questa opera di civiltà riusciremo solo con il sostegno forte e incondizionato delle Istituzioni. Se infatti l’essere qui, oggi, alla presenza delle massime cariche dello Stato legittima senza se e senza ma la nostra Storia, atti di vandalismo morale contro la nostra memoria sono sempre in agguato (basti accennare all’amministratore locale che pochi mesi fa, proprio in un anniversario storico per gli esuli e per l’Italia intera, ha ufficialmente esaltato Tito come liberatore delle nostre genti). Secondo nostro ruolo è vegliare perché il Giorno del Ricordo non diventi col tempo un retorico appuntamento celebrato per dovere o una sorta di lamentoso amarcord, ma sia testimonianza sempre viva.
Cito al riguardo due storie esemplari, tra le tante che ho incontrato nel mio lavoro di giornalista. Giorgia Rossaro Luzzatto, goriziana, nella cui famiglia si intrecciano i drammi del Novecento: il padre ucciso dai partigiani di Tito, la nonna deportata ad Auschwitz dai tedeschi, uno zio assassinato alle Fosse di Katyn, due cugini morti nei gulag sovietici. A 92 anni va per le scuole, voce irrinunciabile, perché i ragazzi sappiano. E Sergio Uljanic, che ha vissuto tutta l’infanzia, sette anni, nei campi profughi di Gorizia, Bari, Bagnoli e Torino. Nato il 16 settembre del 1947, è l’ultimo esule di Pola: il giorno prima gli inglesi avevano consegnato le chiavi della città agli jugoslavi. A Trieste nel Magazzino 18 restano le masserizie degli esuli. Ma nelle case di ognuno di noi c’è un Magazzino 18 personale, e anche io ho il mio. È un grande specchio dalla casa di Pola, partito anche lui con l’esodo, e mi piace pensare che su quella superficie si riflettevano i volti dei miei nonni, di mia madre bambina, delle persone di cui mi parla sempre. In un certo senso nessuno li potrà cancellare, sono rimasti là dentro, invisibili, ma come dice Saint-Exupéry nel Piccolo Principe “l’essenziale è invisibile agli occhi”. Loro sono il nostro essenziale, non dimentichiamo di onorarli.





12 – La Repubblica Milano 12/02/15 Milano: Rosati (Pd) diserta il ricordo delle foibe Destra all`attacco

Rosati (Pd) diserta il ricordo delle foibe Destra all`attacco

ANDREA MONTANARI

È POLEMICA, come ogni anno, sulle foibe. Il consigliere regionale del Pd Onorio Rosati diserta la cerimonia sulle foibe al Pirellone. Si giustifica su Facebook: «Non mi presto a questa operazione di revisionismo storico-militante». Il centrodestra chiede al Pd di prendere le distanze e il segretario regionale Alessandro Alfieri lo bacchetta: «Evitiamo strumentalizzazioni da ogni parte». L`Fdi Riccardo De Corato, però, attacca Giuliano Pisapia. «Ancora una volta assente» alla commemorazione dei martiri istriani e dalmati. Pronta la replica del sindaco: «Fratelli d`Italia purtroppo non sa quello che dice. Non studia, non guarda. Come tutti gli anni abbiamo commemorato le foibe, sono state una grande tragedia».

Foibe, il Pd Rosati non va alla cerimonia è polemica in Regione che commemora le vittime delle foibe e dell`esodo giulianodalmata-istriano. Al Pirellone, il Pd Onorio Rosati annuncia su Face book: «Ho deciso di non partecipare alla cerimonia del "Giorno del Ricordo". L`ex sindacalista, ora consigliere regionale del Pd, spiega sul suo profilo che «le tante vittime innocenti di quei terribili fatti hanno diritto di essere ricordate alla umana pietà, ma non posso dimenticare che la triste e crudele vicenda delle foibe in Istria e Dalmazia sia stata e continui ad essere strumentalizzata dalla destra neofascista italiana, nel tentativo di mettere in atto un`operazione di revisionismo storico-militante. Io a questa operazione non mi presto». Immediata la reazione dell`assessore regionale Viviana Beccalossi di Fratelli d`Italia che si dice «basita» e intima a Rosati di «chiedere scusa». Il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo definisce le affermazioni di Rosati «dichiarazioni gravi e intollerabili». Mentre Forza Italia con Gianluca Comazzi chiede al Pd di «dissociarsi dalle sue parole». L`Fdi Carlo Fidanza le paragona «ai sassi lanciati da alcuni sindacalisti rossi il 18 febbraio 1947 contro un treno di profughi istriani alla stazione di Bologna». Il leader nazionale del partito Giorgia Meloni alza il tiro: «Mi aspetto che Renzi, come segretario del Pd, prenda le distanze dalle affermazioni di tal Onorio Rosati». Invito che viene raccolto sia dal segretario regionale del Pd Alessandro Alfieri che da quello provinciale Pietro Bussolati. «Almeno per oggi sarebbe opportuno evitare strumentalizzazioni. Da ogni parte politica-precisa il primo su Facebook. Una frase che suona come una esplicita critica anche alla scelta di Rosati di non partecipare alla cerimonia per il Giorno del ricordo nell`aula del Consiglio regionale. Tocca a Bussolati sottolineare che «tutto il Pd partecipa al ricordo e alle commemorazioni delle vittime delle foibe». Oltre a ricordare «la congiura del silenzio, la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell`oblio. Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell`aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologie e cecità politica e di averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali». Nelle stesse ore, però, sempre Fratelli d`Italia attacca il sindaco Giuliano Pisapia «ancora una volta assente», secondo Riccardo De Corato, alla commemorazione dei martiri. «Una umiliazione che i nostri morti e i nostri esuli non meritano». Pronta la reazione del sindaco che replica: «Fratelli d`Italia purtroppo non sa quello che dice e non studia, non guarda. Oggi come tutti gli anni abbiamo ricordato le foibe, che è stata una grande tragedia». Inoltre, Pisapia ricorda di «essere andato personalmente negli anni scorsi a visitare quei luoghi. Come troppo spesso avviene in Italia il clamore delle polemiche, delle speculazioni elette a contenuto della politica, sovrastano quel composto silenzio che dovrebbe accompagnare una giornata di commemorazione». Durante la cerimonia ieri nell`aula del Pirellone, davanti non solo ai consiglieri regionali di tutti i gruppi, ma anche ad alcune scolaresche e ai rappresentanti dell`associazione nazionale Venezia Giulia Dalmazia, il presidente del Consiglio regionale Raffaele Cattaneo ha specificato che il ricordo delle vittime delle foibe «è un atto di riparazione e giustizia nei confronti di ognuna di queste e al dolore che hanno dovuto subire per i decenni









13 - Corriere della Sera 11/02/15 Il profugo dalmata diventato sindaco e il ricordo di Zara

Il profugo dalmata diventato sindaco e il ricordo di Zara
«Le foibe, un monito per i più giovani» Memoria Toni Concina: «Niente in quella terra ha lo stesso sapore che aveva in origine»
La voce di Toni Concina arriva da qualche angolo di Orvieto, «il mio porto sicuro», per dirla con le sue parole. Classe 1938, nato a Zara, in Dalmazia, quest?uomo un tempo è stato esule per forza, oggi è in esilio volontario. «Ho un amico che ha una bella barca e adora il Mar Adriatico ? racconta lui stesso ?. Mi invita ogni anno e io ci vado volentieri ma resto sempre a bordo anche quando siamo ormeggiati lì, davanti a Zara. Guardo la costa da lontano, mando sempre gli altri a fare la spesa. Non ci voglio tornare, mi sembra che più niente in quella terra abbia lo stesso sapore che aveva in origine. Noi dalmati siamo sempre stati coesi, non abbiamo mai rotto le scatole a nessuno, avevamo una tradizione veneziana di secoli, massacrata anche fisicamente...e poi non sento di avere niente a che vedere con la popolazione e la situazione di oggi».Non è rinnegare, semmai «è dispiacere perché è andata com?è andata», precisa Concina. Sono i danni collaterali di una vita vissuta lontana dalle proprie radici ma che,a guardarla oggi, non è mai stata la storia di non-luogo. Anzi «di luoghi a cui legarmi ne ho avuti molti» dice lui stesso, «perché come tutti gli esuli ho girato il mondo». Giurisprudenza a Roma, diploma ad Harvard, il primo lavoro di pubbliche relazioni fra New York e Londra, poi mille incarichi importanti in Italia, da consigliere del ministero degli Interni nell?87 a uomo delle relazioni esterne di Telecom e Rcs Mediagroup. Perfino assessore del «Libero comune di Zara in esilio» e, dal 2009 fino all?anno scorso, sindaco di Orvieto. Quella parola, esilio, per lui cammina a braccetto con un?altra, ricordo. «Ricordare significa non negare ciò che è successo, e questo 10 febbraio del ricordo è necessario per le generazioni che verranno. Perché possano capire, e far tesoro della memoria di quel che accadde, e parlo sia della popolazione costretta a fuggire (350 mila dalmati-istriani, ndr ) sia della pagina vergognosa delle foibe, che per anni rimasero un fatto messo da parte». Torniamo indietro, al 1945. Concina ripesca un?immagine: «Me la ricordo bene, la mia Zara. Ricordo i cantieri di mio nonno che era un costruttore, e ricordo il mare bello delle Dalmazie. E sì che io e la mia famiglia fummo fortunati...».Fortunati vuol dire che li aiutò una coincidenza: «Successe che mia madre nel ?43 rimase incinta di mia sorella e allora mio padre, che era un ufficiale di complemento, ci mandò nelle Marche, a Sassoferrato, dove saremmo stati più tranquilli. Poi la situazione precipitò e la fine della guerra ci ha colto che eravamo già via dalla nostra terra. Ma gli zii, i miei nonni...quelle loro facce stravolte quando arrivavano, quelle fughe per le vie più impensate...Non siamo più potuti tornare». Concina ha rimesso piede a Zara una volta soltanto, e l?ha fatto per suo padre che stava morendo. «Me lo chiese lui. Mi disse: ?Va? a vedere la terra, ti prego? e non ho potuto dire di no. È una cosa un po? patetica, lo so, ma quando arrivai feci quel che fanno i papi, baciai il suolo. Ricordo che non c?erano ancora i telefonini, così cercai un telefono pubblico e chiamai mio padre per dirgli che ero lì, nella nostra città. Si commosse molto». Ogni anno, i ricordi portano polemiche: «C?è chi nega che siano avvenuti i fatti, chi è sicuro che i suoi morti siano più morti degli altri...lasciamo stare. È stata pura ferocia, come quella dell?Isis oggi».
Fasano Giusi



14 -  Il Tempo 12/02/15 Roma: «Viva i partigiani jugoslavi» Foibe, oltraggio alle vittime

Casa del Ricordo -  La scritta sul muro dell'edificio. Danni al citofono

«Viva i partigiani jugoslavi» Foibe, oltraggio alle vittime

Il sindaco Marino: «Atto vile che la città condanna Frase subito cancellata»


3 metri la lunghezza della scritta condannata dal mondo politico

■ Una scritta «Viva i partigiani jugoslavi», accompagnata da falce e martello, è stata trovata sul muro vicino alla Casa del Ricordo di Roma, in via San Teodoro, inaugurata pochi giorni fa ricordare le vittime delle Foibe e dell’esodo giuliano dalmata. La scritta, in vernice nera, era lunga circa 3 metri. Danni anche al citofono, mentre risulta imbrattato il muro d’ingresso. Indaga la polizia.
   «Esprimiamo ferma condanna per questo gesto. Roma è città della Memoria, e forte resta il nostro impegno per una maggiore presa di coscienza e diffusione di conoscenza su questi temi. Il nucleo Pics della Polizia di Roma Capitale ha già provveduto a ripulire il muro. Il Dipartimento Cultura è al lavoro per il ripristino della targa e del citofono», hanno detto l’assessore alla Cultura e alTurismo, Giovanna Marinelli, e l’assessore alla Scuola con delega alla Memoria Paolo Masini.
   «Abbiamo dato immediatamente mandato anche a una squadra di Ama Linea Decoro di rimuovere la scritta, atto vile che Roma condanna fermamente. Le Foibe rappresentano un capitolo drammatico della nostra storia da ricordare e trasmettere ai nostri ragazzi, ai nostri figli e ai nostri nipoti perché non accada mai più», ha inoltre affermato il sindaco Ignazio Marino.
   Indignazione è arrivata da tutto il mondo politico, dal centrosinistra al centrodestra. «Imbrattata la Casa del Ricordo. Diciamo no a chi prova a cancellare la nostra memoria condivisa», ha scritto su twit- ter il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingarettì. Ancora più duro il segretario nazionale de La Destra e vicepresidente del Consiglio regionale, Francesco Storace. «Imbrattare la Casa del Ricordo dei Martiri delle Foibe e dell’Esodo Giuliano-Dalmata è la solita azione da vigliacchi. Non è con questi gestì che si cancella la Memoria di questa tragedia del ’900. Sono felice di vedere, in questa occasione, tutte le Istituzioni compatte nel condannare una nuova prova di demenza mentale».
   «Vergognoso l’oltraggio alla Casa del ricordo delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Basta omertà e silenzi: i responsabili vanno puniti», ha tuonato su twitter anche Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale.

Fra. Mar.






15 - Il Giornale 10/02/15 Stefano Zecchi: Vite negate, massacri, falsità. Anche la verità fu infoibata
Vite negate, massacri, falsità. Anche la verità fu infoibata
Oggi la "Giornata del ricordo" per celebrare gli italiani cacciati e uccisi da Tito dopo la guerra. Una tragedia che nella gerarchia del dolore sta sempre dietro le vittime delle dittature fasciste
Stefano Zecchi - 10/02/2015
Cos'era accaduto sulle coste orientali italiane dell'Adriatico dopo la guerra? Niente di rilevante, avrebbero voluto rispondere chi governava l'Italia e chi da sinistra faceva l'opposizione.
Soltanto un nuovo confine segnato con un tratto di penna sulla carta geografica dell'Europa. Vite negate. Amori, amicizie, speranze sconvolte, sentimenti calpestati, che per pudore, in silenzio, lontano da occhi inquisitori, l'esule arrivato dall'Istria, dalla Dalmazia, da Fiume chiudeva nel dolore, forse sperando che questo dignitoso comportamento lo aiutasse ad essere accolto da chi non ne gradiva la presenza. Si chiudeva così il cerchio dell'oblio, e una pesante coltre di omertà si distendeva sopra le sconvenienti ragioni degli sconfitti.
La Storia non apre le porte agli ospiti che non ha invitato. Sceglie i protagonisti e i comprimari, anche se gli esclusi si sono dati tanto da fare. Esuli, allora, con la nostalgia del ritorno, con il dolore dell'assenza. L'esule dei Paesi comunisti non è mai stato troppo gradito; le sue scelte giudicate con sospetto. Nella gerarchia morale della sofferenza, egli rientra stentatamente, sì e no, agli ultimi posti, molto indietro rispetto agli esiliati delle dittature fasciste e dei sanguinari regimi latino-americani.
In una intervista a Panorama del 21 luglio 1991, Milovan Gilas dichiarava tra l'altro: «Nel 1946, io e Edward Kardelij andammo in Istria a organizzare la propaganda anti italiana ... bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto». Gilas era il braccio destro di Tito, l'intellettuale del partito comunista jugoslavo; Kardelij era il teorico della «via jugoslava al comunismo», punto di riferimento dell'organizzazione della propaganda anti italiana.
Dunque, due protagonisti di primissimo piano del partito comunista jugoslavo impegnati a cacciare con «pressioni di ogni tipo» gli italiani dalle loro case, dal loro lavoro, dalle loro terre. Tra le pressioni di ogni tipo ci furono il terrore e il massacro: una pulizia etnica. A migliaia gli italiani, senza nessun processo, senza nessuna accusa, se non quella di essere italiani, venivano prelevati di notte, fatti salire sui camion e infoibati o annegati. Non si saprà mai quanti furono ammazzati. A decine di migliaia: una stima approssimativa è stata fatta sulla base del peso dei cadaveri che venivano recuperati dalle foibe; nulla si sa degli annegati.
E poi gli esuli: oltre 350mila, che lasciarono tutto, pur di rimanere italiani e vivi. Accolti in Italia con disprezzo, perché solo dei ladri, assassini, malfattori fascisti potevano decidere di abbandonare il paradiso comunista jugoslavo. Ricordo bene quando a Venezia arrivavano le motonavi con i profughi: appena scesi sulla riva, erano accolti con insulti, sputi, minacce dai nostri comunisti, radunati per l'accoglienza. Il treno che doveva trasportare gli esuli giù verso le Marche e le Puglie, dai ferrovieri comunisti non fu lasciato sostare alla stazione di Bologna per fare rifornimento d'acqua e di latte da dare ai bambini.
Alla gente che abitava l'oriente Adriatico, fu negato dal nostro governo il plebiscito che avrebbe dimostrato come in quelle terre la stragrande maggioranza della popolazione fosse italiana. Prudente, De Gasperi pensava che l'esito del plebiscito avrebbe turbato gli equilibri internazionali e interni col PCI. A quel tempo, Togliatti aveva fatto affiggere questo manifesto a sua firma: «Lavoratori di Trieste, il vostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici e collaborare con esse nel modo più stretto». Per esempio, sostenendo, come voleva “il Migliore”, che il confine italiano fosse sull'Isonzo, lasciando a Tito Trieste e la Venezia Giulia.
I liberatori comunisti non potevano essere degli assassini: e così, sotto lo sguardo ipocrita dell'Italia repubblicana, con la vergognosa collaborazione degli storici comunisti, disposti a scrivere nei loro libri il falso, quella tragedia sparisce, non è mai accaduta. Ma il cammino trionfale della Storia dei vincitori si distrae e la verità incomincia ad affiorare. Non si dice con ottimismo che il tempo è galantuomo? Stavolta sembra di sì. Il 10 febbraio (giorno della firma a Parigi nel 1947 del trattato di pace) viene istituita nel marzo 2004 la «Giornata del ricordo», per celebrare la memoria dei trucidati nelle foibe e di coloro che patirono l'esilio dalle terre istriane, dalmate, giuliane. Ci sono voluti sessant'anni per incominciare a restituire un po' di verità alla Storia: adesso sarebbe un bel gesto che il nuovo Presidente della Repubblica onorasse questa verità ritrovata, recandosi al mausoleo sulla foiba di Basovizza per chiedere scusa alle migliaia di italiani dimenticati, offesi, umiliati, massacrati soltanto perché volevano rimanere italiani.




16 - Corriere della Sera 10/02/15 Tragedia delle Foibe il Ricordo dopo l’oblio
La cerimonia Le foibe, 70 anni fa È il Giorno del Ricordo

di Dino Messina

TRAGEDIA DELLE FOIBE IL RICORDO DOPO L'OBLIO

La cerimonia che si svolge oggi a Montecitorio con il capo dello Stato Sergio Mattarella e la presidente della Camera Laura Boldrini per celebrare il «Giórno del Ricordo delle Foibe e dell’Esodo giuliano-dalmata» non è un rito stanco. Istituito con una legge nel 2004, il Giorno del Ricordo suona come risarcimento alla memoria di quelle oltre diecimila vittime gettate vive nelle foibe, le cavità carsiche ai confini orientali, o uccise dopo processi sommari dai comunisti titilli. Due le ondate di violenza omicida: la prima nel settembre-ottobre 1943, la seconda, più forte, nell’aprile maggio 1945. Settant’anni fa, quando in molte parti d’Italia si festeggiava la Liberazione, a Trieste, Gorizia, Monfalcone, nei territori dell’Istria si viveva nella paura.

Le esecuzioni non riguardavano soltanto gli ex fascisti, ma anche i partigiani non comunisti o quanti erano visti come ostacolo al disegno egemonico di Tito, appoggiato dal capo del Pci Palmiro Togliatti che il 19 ottobre 1944 dopo un incontro con Edvard Kardelj e Milovan Gilas, scrisse che «l’occupazione jugoslava è un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e in tutti i modi favorire».

Degli eccidi del’43-’45 e dell’esodo dei trecentomila italiani che abbandonarono i territori diventati jugoslavi per mezzo secolo non si è potuto parlare. Una pagina lacerante della nostra storia tenuta nascosta per tre motivi.

Il primo è che la rottura fra Stalin e Tito ci spingeva a dar credito alla falsa vulgata di una «spontanea lotta di popolo» mentre si trattò di un piano preordinato che prevedeva l’annessione di Trieste alla Jugoslavia e la slavizzazione di un ampio territorio. Il secondo è l’imbarazzo dei governi italiani che volevano coprire i militari ancora in carriera responsabili di misfatti dinante l’occupazione fascista. H terzo sono le ambiguità politiche e culturali del nostro Partito comunista che crearono un clima di ostilità in tutta Italia attorno ai profughi giuliano-dalmati, spesso tacciati di fascismo.

Dino Messina





17 - Osservatorio Balcani 10/02/15 Le foibe nella rappresentazione pubblica
Le foibe nella rappresentazione pubblica
Gorazd Bajc*     
10 febbraio 2015

"Una ricerca basata su fonti in diverse lingue e una buona dose di coraggio intellettuale". Pubblichiamo la recensione di Gorazd Bajc al libro di Federico Tenca Montini: "Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi"
Negli ultimi anni si sente spesso parlare delle violenze subite dagli italiani lungo il confine italo-jugoslavo: per mano dei partigiani jugoslavi dopo l’8 settembre 1943 in Istria e per responsabilità delle autorità jugoslave dopo il primo maggio 1945 nella Venezia Giulia – “foibe” e ”esodo”.
Si dice che la gente in Italia non ne abbia saputo nulla e che solamente nell’ultimo periodo, dopo l’approvazione nel 2004 del cosiddetto Giorno del ricordo, vi sia stata finalmente a livello nazionale quella presa di coscienza necessaria e doverosa su questi temi; la grande congiura del silenzio sarebbe finalmente finita. Tale assunto risulta non del tutto esatto. Se a Trieste, Gorizia e lungo il confine, in particolare dalla parte italiana e molto meno da quella slovena (e/o croata), questi temi erano stati sempre molto presenti – e questo è indiscutibile –, dobbiamo rilevare che anche a livello nazionale non ci fosse poi quel totale oblio.
«Quello che avete davanti non è l’ennesimo libro sulla questione delle cosiddette “foibe”, ma un libro che ci voleva. Per il semplice motivo che è il primo testo che si occupa di analizzare approfonditamente, anche attraverso confronti e paragoni, quello che è stato l’aspetto principale dell’assunzione della questione delle “foibe” tra i temi fondanti di un nuovo mito nazionale italiano, di un nuovo senso comune storico degli italiani, in sostanza di una storia “nazionale” italiana: come tale questione è stata raccontata al grande pubblico e celebrata da “artisti”, media, istituzioni. L’autore lo fa con uno sguardo molto più aperto ed ampio di quello usuale tra gli autori degli ormai innumerevoli testi sull’argomento, che non riescono ad uscire da orizzonti limitatamente regionali e/o nazionali.» Dalla Postfazione di Sandi Volk
Lo testimonia per esempio il copioso volume curato nel 2008 da Antonio Maria Orecchia per i tipi della Insubria University Press (La Stampa e la Memoria. Le foibe, l’esodo e il confine orientale nelle pagine dei giornali lombardi agli albori della Repubblica, Varese, 439pp.) che raccoglie una gran mole di articoli su “foibe”, “esodo” e questione triestina apparsi sulla stampa lombarda nell’immediato dopoguerra.
Nel volume possiamo trovare le trascrizioni di una selezione di numerosi articoli apparsi sulle pagine dei giornali della regione più importante dell’Italia settentrionale sul problema del confine tra l’Italia e la Jugoslavia, negli anni cruciali 1945-1954. Nei 266 articoli (39 nel 1945, di cui tre apparsi prima della Liberazione; 58 nel 1946; 58 nel 1947; 25 nel 1948; 11 nel 1949; 17 nel 1950; 10 nel 1951; 12 nel 1952; 12 nel 1953; 24 nel 1954) i temi delle “foibe” e dell’ ”esodo” sono molto frequenti, anzi prevalgono su altre  questioni. Altri giornali nazionali scrissero spesso delle “foibe” (per esempio La Stampa, dalla fine del gennaio 1944 in poi; facilmente verificabile grazie all’aiuto dell’archivio storico on-line del giornale). Né si può affermare che il tema si sia del tutto eclissato a seguito della restituzione di Trieste all’Italia, perché a livello nazionale si continuava a parlarne.
Per esempio alla fine del 1959 ci furono in merito due interrogazioni parlamentari da parte di esponenti del Movimento Sociale Italiano, e sul tema delle “foibe” scrissero poi alcuni giornali e settimanali nazionali (per esempio Il Borghese), nel 1983 il tema venne trattato in due numeri della rivista di divulgazione storica Storia illustrata, e negli anni successivi pure in trasmissioni dal grande impatto mediatico, come nel febbraio del 1987, quando la RAI dedicò all’argomento un lungo approfondimento radiofonico, e nel 1991, nella celebre puntata televisiva sulle “foibe” del formatMixer.
È vero invece che negli ultimi anni, a seguito della legge del 2004 che istituisce il “Giorno del ricordo”, si sia verificato un autenticomemory boom, un’ondata di notorietà che però ha portato, assieme ad una grande attenzione mediatica ed istituzionale agli episodi di violenza al confine orientale dell’Italia, una escalation di errori e semplificazioni. Inoltre, a livello nazionale, si è incominciato a parlare molto di “foibe” ed “esodo” a costo di tralasciare altre questioni altrettanto spinose (e forse per qualcuno anche oggettivamente più importanti) per la storia del paese.
Non c’è insomma in Italia quasi altro tema della storia recente frequentato quanto quello delle “foibe”. Si ha l’impressione che alcuni storici o non-storici (da qualcuno chiamati pseudostorici), che non si sono mai occupati in maniera approfondita della storia molto complessa e intricata del confine orientale, si siano sentiti quasi in dovere di dire la propria sull’argomento, aggiungendo però spesso quelle semplificazioni o esagerazioni che solitamente non possono contribuire a far chiarezza, anzi. Infine, molti, o forse troppi, mass media hanno fatto quasi a gara tra loro nel presentare la questione al grande pubblico, senza contestualizzare quelli eventi tragici, presentando spesso immagini e/o filmati d’epoca senza una necessaria spiegazione.
Osservatorio sui Balcani nel progetto AestOvest percorre quel ''confine orientale'' che molto ha diviso, ma che ora è divenuto più che mai un'opportunità di relazioni. Una sezione dedicata e un DVD multimediale per le scuole.
Dopo dieci anni di “Giornate di ricordo” non è facile stabilire un vero e proprio bilancio, tranne, ovviamente, nella constatazione generale che si è fatta veramente molta confusione. Se da una parte abbiamo avuto il volume (di Jože Pirjevec e alcuni coautori, tra cui anche l’autore di questa recensione), pubblicato dalla Einaudi nel 2009 e tre anni dopo in forma ampliata in lingua slovena dalla Cankarjeva založba, dall’altra ci si può ora avvalere, in particolare per quello che riguarda come la storia intorno alle “foibe” venne presentata attraverso i media e gli spettacoli negli ultimi 25 anni, del libro Fenomenologia di un martirologio mediatico. L’autore, il giovane studioso Federico Tenca Montini, affronta questi temi con un’apertura singolare. L’opera ha il pregio di mostrare in maniera molto chiara le esagerazioni e le manipolazioni nel discorso pubblico sulle “foibe”, unendo alla chiarezza delle interpretazioni una forma agile e leggibile (anche se, in verità, il volume potrebbe essere molto più copioso).
Il libro comincia con un’analisi degli antecedenti storici delle “foibe”. Vi si riassumono (pp. 19–72) gli esiti più convincenti delle storiografie italiana, slovena e croata, riferimenti che spesso in Italia vengono trascurati per la scarsa dimestichezza linguistica. Da rilevare purtroppo in questa parte storico-introduttiva alcune imprecisioni non tali da intaccare l’interesse dell’opera.
Nella seconda parte (pp. 73–180) si passa alla politica della memoria. Quella “riscoperta” delle foibe negli anni ’90, identificata come l’esito della fine del socialismo in Jugoslavia, delle guerre jugoslave e della profonda crisi del sistema politico italiano, trova uno dei suoi presupposti nel progressivo addolcimento del giudizio sul fascismo (p. 83).
Si passa poi agli antecedenti della legge che istituisce il “Giorno del ricordo”, risalenti al 2001 con la presentazione di un primo Disegno di Legge (p. 90), alle interessanti circostanze dell’approvazione nel 2004 del provvedimento e infine si dedica ampio spazio all’accostamento, in larga parte voluto, tra foibe e Shoah, di cui si analizzano anche certi effetti di distorsione percettiva altrimenti raramente indagati in letteratura.
Con la descrizione della simbologia che inevitabilmente circonda l’immaginario collettivo delle “foibe” incomincia la parte più originale del libro. L’autore la analizza minuziosamente (p. 95), mette in risalto l’importanza di quel “locus horridus” della voragine nella sua abbondanza di elementi archetipici e topoi leggendari (p. 96), come pure la persistenza della cultura del martirio (p. 97). Vengono inoltre indagati i motivi reconditi di alcune scelte lessicali alla base della narrativa delle “foibe”, tra cui il termine “genocidio”– cioè l’uso indiscriminato della terminologia (p. 97).
L’ormai celebre fiction Il cuore nel pozzo è poi presentata in modo molto originale in comparazione con altri sceneggiati simili, il tedesco Die Flucht e il polacco Katyn. L’autore mette anche in risalto alcuni errori grossolani nella menzionata fiction (pp. 109, 118). Si dedica inoltre spazio allo spettacolo teatrale Magazzino 18 e al celebre discorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano del 2007, da cui emerge, nella reazione del Presidente croato Stjepan Mesić, la contraddizione tra la celebrazione di una visione nazionalista della storia e l’integrazione europea.
L’ultima parte è dedicata al travagliato iter di intitolazione di un riferimento toponomastico “alle vittime delle foibe” nella città di Udine, infine ci sono alcuni esempi di sfruttamento della figura femminile martirizzata nella propaganda nazionalista e di utilizzo di immagini artefatte come materiali d’epoca nei media.
La ricerca di tutte le pagine della storia, dolorose o meno, non è solo un fatto di civiltà. Per fare un’operazione degna, che non falsifichi il passato ferendo con ciò in primis coloro che subirono violenze, ci si deve avvalere tra l’altro dell’interpretazione delle fonti in diverse lingue – queste non mancano – e di una buona dose di coraggio intellettuale.
Si tratta indubbiamente di caratteristiche che l’autore del libro, Federico Tenca Montini, possiede.
Il libro è dunque un testo importante e ci dà l’opportunità di fare alcune riflessioni serie sui problemi di storia che hanno caratterizzato le memorie in un territorio mistilingue e multiculturale. Appare oggi evidente che ci sia bisogno di promuovere ricerche simili.
 
* Gorazd Bajic è ricercatore e docente presso l'Università del Litorale a Koper/Capodistria
Fenomenologia di un martirologio mediatico



18 - La Voce di Romagna 10/02/15 Giorno del Ricordo: Tanti gli emiliano-romagnoli scomparsi sul confine orientale
GIORNO DEL RICORDO: TANTI GLI EMILIANO - ROMAGNOLI SCOMPARSI SUL CONFINE ORIENTALE

Si faccia piena luce sui deportati

GLI ARCHIVI ministeriali custodiscono documenti ancora secretati che servirebbero a ricostruire in parte le presenze italiane nei lager di Tito

Sfogliando l’Albo d’Oro si incontrano diversi nominativi di caduti nati in Romagna. E’ il caso dell’insegnante elementare Galdo Pinzi, nato a San Pietro in Vincoli di Ravenna il 31 gennaio 1901. Il padre si chiamava Aristodemo. Pinzi risulta scomparso per mano partigiana a Doberdò del Lago, oggi in provincia di Gorizia ma allora di Trieste, dove insegnava, il 30 settembre 1943. Ferruccio Cimatti, nato a Faenza il 10 marzo 1903, risulta deceduto nell’eccidio di Rifembergo, allora provincia di Gorizia, il 2 febbraio 1944. Faceva parte della Milizia difesa territoriale 1° Reggimento di Trieste. Quel giorno una colonna che portava rifornimenti ai presidi di Comeno e Rifembergo (oggi in Slovenia) venne attaccata da partigiani titini. Guerrino Antimi, nato a Savignano sul Rubicone il 19 maggio 1916, faceva parte della Milizia portuale terza legione di Trieste. Aveva lasciato Savignano con la famiglia da bambino. E’ morto il 18 dicembre 1944 nell’attentato alla trattoria alla pace di Servola, a pochi chilometri da Trieste, oggi non più esistente. Lavorava probabilmente nelle Ferrovie dello Stato Giovanni Paoletti, di Carlo Michele e Lucia Dolci, nato a Rimini il 10 giugno 1908, geometra. Risulta deceduto il 26 maggio 1944 per fatto di guerra lungo il tratto di linea ferroviaria, allora in provincia di Trieste, tra Sesana e Divaccia (oggi Sezana e Divaca in Slovenia). Esaminando i nominativi dei caduti dell’Albo d’Oro, si evince che tra Sesana e Divaccia si verificarono altri attentati partigiani. Sempre il 26 maggio 1944 risulta infatti deceduto il milite della 5a Legione della milizia ferroviaria Francesco Dragotta. E’ rimasto vittima di un attentato partigiano il 15 aprile 1945 tra le stazioni di Smogliani e Canfanaro (oggi Smoljanci e Kanfanar in Croazia) della linea Trieste – Pola il ferroviere Teresio Dapporto, figlio di Francesco e Rosa Kerpan, nato a Faenza il 12 novembre 1915 e residente a Trieste. Veniva da Faenza, dove era nato il 3 gennaio 1905, anche Rinaldo Ossani. Risulta sindacalista ai Cantieri navali di Monfalcone, dove era residente. E’ stato assassinato in un agguato di partigiani italo-sloveni. Tra gli arrestati a Gorizia nel maggio 1945 e deportati verso ignota destinazione, compare anche il nome del brigadiere dei carabinieri Carlo Gattiglia, in servizio presso il Comando gruppo (oggi provinciale) che allora aveva sede in via Nazario Sauro, davanti al Tribunale. Era nato a Rimini il 27 febbraio 1894, da Luigi e Antonietta Marsiani. Da ricerche eseguite presso l’anagrafe, il padre risulta un militare di passaggio che non ha mai avuto la residenza a Rimini. Il sottufficiale potrebbe essere stato trucidato a Tarnova, località oggi in Slovenia, nella foiba di Nemci, dove secondo alcune testimonianze raccolte da Giovanni Guarini, presidente della sezione di Gorizia dell’Associazione nazionale carabinieri e figlio di un altro appartenente all'Arma infoibato, l’appuntato Pasquale Guarini, vennero gettati i militari prelevati nel capoluogo isontino ed anche gli agenti della Questura. Negli elenchi degli scomparsi appare Alfredo Casadio, nato a Faenza, brigadiere della Guardia confinaria del 1° Reggimento, arrestato il 3 maggio 1945 nella caserma di via Cologna a Trieste e deportato a Lubiana; di lui non si sono avute più notizie. Il figlio dello scomparso, Paolo Casadio, ha ricevuto al Quirinale dalle mani dell’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, la medaglia ricordo per il 10 febbraio, Giorno del Ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo delle popolazioni istriane. Sono scomparsi nel nulla nella notte tra il 12 e il 13 gennaio 1944, i militari del distaccamento della Guardia di Finanza di Matteria, località a pochi chilometri da Trieste, allora in provincia di Fiume, oggi Materija in Slovenia. Consultando la relazione del capitano Gerardo Severino, direttore del Museo Storico della Guardia di Finanza per la proposta di conferimento della Medaglia d’Oro al Merito civile alla bandiera del Corpo per il comportamento tenuto sul Confine orientale, è possibile ricostruire i vari attacchi subiti dalle Fiamme Gialle da parte di formazioni partigiane sulla strada statale 14 Trieste-Fiume. Il primo è proprio quello della notte tra il 12 e il 13 gennaio 1944 a Matteria. Dalla relazione del capitano Severino, si apprende che la squadra di finanzieri, appartenente alla Compagnia autonoma di Sicurezza di Basovizza, era stata trasferita a Matteria, proprio il 12 gennaio, dove aveva occupato la casa cantoniera. La notte tra il 12 e il 13 gennaio, la guarnigione della Finanza, avrebbe subito un attacco dei partigiani e secondo una testimonianza tratta da un libro sloveno, i militari, una trentina, sarebbero stati condotti a Vatovlje, una località di un centinaio di abitanti distante una decina di chilometri, e uccisi nei pressi del cimitero. Secondo un’altra versione, i finanzieri sarebbero stati invitati con l’inganno a una festa presso una vicina casa colonica e catturati. A comandare il distaccamento era il brigadiere Serafino Ricci Lucchi, nato a Lugo nel 1915. Anche il figlio Franco ha ricevuto dalle mani dell’allora presidente Ciampi la medaglia per il 10 febbraio. Tra i civili di cui non si hanno più notizie, l’ingegner Felice Gallavotti, di famiglia santarcangiolese, fermato dai partigiani slavi nei pressi di Villanova del Judrio il 2 dicembre 1944 mentre tornava a Udine, dove risiedeva, da Gorizia. Con lui vennero presi il cugino Arrigo Gallavotti, geometra, e l’autista Vincenzo Chiappetta, di Partitico (Palermo). Secondo la testimonianza di un partigiano, l’ingegnere nel novembre 1945 era ancora in vita e si trovava in un campo di concentramento nei pressi di Lubiana. Tra i deportati goriziani figura anche Ermanno Vites, la cui famiglia si è poi trasferita a Rimini; uno dei figli, Ermanno junior, è un noto artista. Negli elenchi spiccano poi i nomi di Licurgo Olivi, nato a Bagnolo di Piano (Reggio Emilia) nel 1897, e di Augusto Sverzutti, esponenti di punta del Comitato di Liberazione nazionale di Gorizia, entrambi fermamente contrari ai progetti annessionistici jugoslavi. Olivi era in vita nell’estate del 1948, quando era stato condotto assieme ad altri deportati nei pressi del valico italo-jugoslavo della Casa Rossa di Gorizia per uno scambio di prigionieri, poi non avvenuto. Lo attesta la dichiarazione scritta di un altro deportato reggiano, Francesco Freddi di Luzzara, rimpatriato nel 1950, in possesso della famiglia di Gino Morassi, noto commerciante di Gorizia che nel 1948 era assieme a Olivi in occasione del mancato scambio di prigionieri. Anche di Morassi si sono perse le tracce.

Aldo Viroli

Quando si svolgono i fatti Il dramma si accentua a guerra finita

L’Unione degli Istriani sta riproponendo, in versione aggiornata a cura di Giorgio Rustia, l’Albo d’Oro di Luigi Papo. Si tratta di una imponente pubblicazione con i nominativi di caduti e scomparsi sul Confine orientale. E’ uscita la parte relativa alla provincia di Trieste, che prima del Trattato di pace comprendeva anche comuni assegnati in gran parte alla Jugoslavia e altri inseriti nella provincia di Gorizia per effetto della creazione del Tlt, il Territorio libero di Trieste. Da tempo Storie e personaggi si occupa delle tormentate vicende accadute in quei territori anche perché tra le vittime accertate e i deportati a guerra finita nell’ex Jugoslavia, ci sono numerosi emiliano – romagnoli. Si tratta sia di civili che di appartenenti alle forze armate o dell’ordine. Di gran parte degli scomparsi non si conosce la sorte: alcuni hanno terminato la loro esistenza terrena nelle foibe, altri nei campi di concentramento. Da più parti viene chiesta la desecretazione degli atti relativi al Confine orientale, un provvedimento che darebbe qualche risposta su quelle tormentate vicende. Dalla consultazione degli interrogatori cui vennero sottoposti i deportati in Jugoslavia al momento del rimpatrio, si potrebbero ricavare notizie utili su chi purtroppo non ha fatto più ritorno.


Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia



MAILING LIST HISTRIA
rassegna stampa

a cura di Maria Rita Cosliani – Eufemia G.Budicin – Stefano Bombardieri

N. 926 – 01 Gennaio 2015
    

Sommario




01 - L'Arena di Pola 17/12/14 -  2014: un altro anno passato insieme (Tullio Canevari)
02 - L’Arena di Pola 17/12/14  - 60° anniversario dell’Unione degli Istriani (Silvio Mazzaroli)
03 - Messaggero Veneto 14/12/14 È morto Aldo Clemente, aiutò migliaia di istriani cacciati dalle loro terre (Mario Blasoni)
04 - Messaggero Veneto 13/12/14 Spilimbergo: Cippo per i martiri delle foibe, il Comune concede lo spazio (g.z.)
05 – Corriere della Sera 24/12/14 Il Trenino di legno: Dall'Istria a Craxi il Novecento di Romano Dapas (Paolo Valentino)
06 – La Voce del Popolo 27/12/14 Franca Damiani de Vergada : Sette figli e un sogno: «Ampliare la mia attività» (Rosanna Turcinovich Giuricin)
07 - La Stampa  20/12/14  Valentina e Toto e la sfida per la ricchezza di Venezia (Chiara Beria di Argentine)






Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti  :
http://www.arenadipola.it/
http://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.adriaticounisce.it/




01 - L'Arena di Pola 17/12/14 -  2014: un altro anno passato insieme

2014: un altro anno passato insieme

 Buon Natale!

 E’ un augurio che faccio, sapendo quanto ne abbiamo bisogno. E’ trascorso, veloce, un anno denso di avvenimenti; si sono succedute tante occasioni, tutte importanti, anche per me, e per diversi motivi.
A Roma, alle celebrazioni del Giorno del Ricordo, il 10 febbraio, mi ha accompagnato il mio nipotino Giulio, seduto emozionato ed orgoglioso nell’emiciclo del Senato, nel posto che gli era stato riservato.
A Pola, il nostro raduno è stato, come sempre, pieno di momenti importanti, tra questi soprattutto la rievocazione della strage di Vergarola; ma per me, in particolare, l’esser stato con voi a Brioni e aver rivissuto e, forse, aver fatto immaginare l’atmosfera di tempi senza dubbio più felici.
A Zagabria e ad Abbazia, il Libero Comune di Pola in Esilio è stato ospite dell’Ambasciatrice d’Italia, Emanuela D’Alessandro e del Console, Renato Cianfarani per celebrare, il 2 giugno, l’anniversario della nascita della Repubblica, sorta dalle ceneri fumanti della guerra.
Quest’anno, il 18 agosto, davanti al cippo che ricorda, purtroppo in modo ancora ipocritamente incompleto, l’eccidio di Vergarolla e non i martiri di quella strage, c’era, per la prima volta dopo tanti anni, il Sindaco di Pola. E’ un risultato, per quanto ancora parziale, ma tuttavia significativo, frutto del lavoro discreto e costruttivo di coloro che in Istria sono al nostro fianco, per il conseguimento di un clima di collaborazione e di amicizia che ci faccia sentire, come è stato affermato, a casa nostra.
Il 3 novembre, per ricordare i nostri morti e quelli che sono morti per noi, a cominciare da Nazario Sauro, abbiamo deposto corone nei Cimiteri di Monte Ghiro e della Marina, al cippo di Vergarolla e alla targa che ricorda il dottor Geppino Micheletti, danneggiata nuovamente da stupidi idioti, ma ripristinata, con segno ancora una volta positivo, dalla Comunità degli Italiani di Pola.
A Milano, il 26 novembre, ho consegnato a Simone Cristicchi la targa “Istria terra amata” e la pergamena in riconoscimento della sua opera di diffusione, con lo spettacolo Magazzino 18, della conoscenza della nostra tragedia, in Italia e nel mondo. Nelle brevi parole con cui l’ho ringraziato per tutto questo, ho ricordato il suo coraggio per aver gridato, a Pola, la sua accusa contro il comunismo, Tito, i partigiani: gli dobbiamo, tutti, riconoscenza.

  Le note tristi vengono dal tempo, che passa inesorabile, portando via man mano i più anziani, i più attivi, i più saggi. E’ inevitabile, ma ci consola sapere che siamo uniti, senza le lacerazioni interne che toccano associazioni a noi così vicine. Ci consola sapere che tanti lavorano perché non vada cancellato il segno della nostra identità, della nostra presenza nelle nostre terre, del ricordo della nostra civiltà.
 Con il ringraziamento a tutti i componenti del Consiglio Direttivo, che dà corpo a tutte le aspettative che, eleggendoli, la popolazione di Pola ha loro affidato; con il plauso al Direttore de “L’Arena di Pola”, che porta nelle nostre case la vita del mondo degli esuli e del mondo di chi vive “de là da mar”, e con l’augurio di un Anno Nuovo sereno, la promessa di ritrovarci tutti, l’anno prossimo, nella nostra Gerusalemme, a Pola Pollentia Herculanea.

 

Tullio Canevari








02 - L’Arena di Pola 17/12/14  - 60° anniversario dell’Unione degli Istriani

60° anniversario dell’Unione degli Istriani
V
Il mese scorso ho assistito, con vivo interesse, alla “Confe­renza di carattere nazionale”, organizzata dall'Unione degli Istriani in occasione del 60° Anniversario della sua Fondazio­ne, avvenuta il 28 novembre 1954. Ho ritenuto di doverci es­sere avendo condiviso parte del suo cammino in anni ancora vicini e, soprattutto, perché il dott. Lu­ciano Mazzaroli, mio padre, fu allora uno dei 40 membri del neoeletto Consi­glio Generale nonché Vicepresidente, unitamente al prof. Elio Predonzani, della prima Giunta esecutiva guidata dell'avv. Lino Sardos Albertini, eletta il successivo 10 gennaio 1955. Il ricordar­lo vuole essere, da parte mia, un atto di omaggio alla memoria sua e di quanti con lui condivisero anni di fervido pa­triottismo, di indefessa difesa dei diritti degli esuli e di apartitico ed entusiastico impegno civile.

Non ho la vocazione del cronista per cui mi asterrò dall'illustrare i contenuti di un'intensa giornata di ascolto anche perché, o prima o poi (facile immagina­re che molto dipenderà dai tempi di ac­creditamento dei contributi statali), ne saranno pubblicati integralmente gli atti.
Mi limiterò, pertanto, a formulare delle considerazioni a margine. Allestire una Mostra documentaria (Sala Torrebianca 3-30 novembre) e compendiarla in un volume che copre l'intero percorso dell'Associazione, orga­nizzare una Conferenza (sabato 22) nel prestigioso salone di Rappresentanza della Regione FVG mobilitando oratori, poli­tici e laici di “spessore” ed una Cerimonia commemorativa (sabato 29) nella Sala del Consiglio Comunale di Trieste non è stato certo lavoro da poco. Vuol dire avere idee, saperle mettere in pratica e godere, in loco, di stima e considerazio­ne; il tutto, reso più agevole dal fatto di disporre di un'ade­guata sede, dall'avere sul po­sto un congruo numero di as­sociati e dall'essere, quindi, ben radicata sul territorio.
Una situazione ottimale ed in­vidiabile che trova analogia solo in quella delle concittadi­ne Comunità Istriane.
Ciò premesso, molto di quanto detto di rievocativo il 22 novembre era ovviamente riferito al passato (Trattato di Pace, Note Tri e Bipartite, Me­morandum, Osimo e genesi del nostro associazionismo) di cui ha ribadito cose perlopiù note e fatto, per quanto possibile, un po' di chiarezza su altre su cui ancora si disquisisce. Ha, altresì, fornito qualche indi­cazione su quale dovrebbe essere l'impegno associativo di noi esuli per il futuro. E' proprio su questo che più vale la pe­na soffermarsi.
Sin dall'apertura dei lavori un picco d'attenzione è stato sollevato dalla presidente regionale Debora Serracchiani che, nel corso del suo indirizzo di saluto, ha comunicato di voler chiedere al Governo la riapertura del Tavolo di coordi­namento governativo con le associazioni degli esuli, sospeso sin dai tempi del secondo governo Prodi, per affrontare i non pochi irrisolti problemi che ci affliggono. In tale contesto, ar­gomento di grande attualità e sul quale si è spesso ritornati, anche in relazione a talune polemiche interne al mondo della diaspora che, in particolare, il triestino “Il Piccolo” non si peri­ta dal cavalcare, è risultato essere il ritiro ed il riutilizzo degli oltre 90 milioni complessivi di dollari che Slovenia (avendo già resa disponibile la sua quota parte) e Croazia (non aven­dolo ancora fatto) dovrebbero all'Italia a titolo di indennizzo per i beni della Zona B ceduti all'ex Jugoslavia a seguito del Trattato di Osimo. Ebbene, quantunque la “riapertura” non sia al momento nulla più che un'ipotesi di lavoro, sono già emerse posizioni nettamente divergenti: ritiro sì (per alcuni equivarrebbe a chiudere definitivamente il contenzioso ri­guardante Osimo), ritiro no (significherebbe, per altri, mante­nere aperto uno spiraglio per la restitu­zione dei beni della Zona B); utilizzo dei fondi a beneficio esclusivo degli esuli a titolo risarcitorio e/o finanziamento di una ipotetica “Fondazione” a sostegno delle attività delle nostre associazioni finalizzate al mantenimento/rafforzamento della nostra memoria e della no­stra cultura; il tutto per evitare che gli stessi vengano incamerati dallo Stato ed utilizzati per tutt'altre esigenze. Al ri­guardo è opportuno accennare a quan­to detto da altri intervenuti.

In particolare, l'ex sottosegretario agli esteri (con delega per i Balcani) del pri­mo governo Berlusconi, Livio Caputo, ha affermato che a suo avviso, con l'in­gresso prima della Slovenia e poi della Croazia nell'Unione Europea, il conten­zioso tra gli stati eredi della ex Jugosla­via e l'Italia, per il non interesse ovvero la non volontà di quest'ultima di riaffron­tarlo, è da ritenersi definitivamente chiuso e che le associazioni degli esuli possono al riguardo fare ben poco ed ancor meno sperare e le ha di fatto invitate a focalizzare il proprio impegno sulla promozione della penetrazione cultu­rale ed economica italiana in quelle che furono le nostre terre a salvaguardia di ciò che vi rimane della trascorsa italica pre­senza. Una visione, la sua, pessimistica da un lato e possibi­lista dall’altro ma, per quanto già sperimentato e dato a sape­re, non avulsa dalla realtà. Per altro, pur non condividen­do la prima affermazione, lo stesso Roberto Menia, princi­pale artefice dell'approvazio­ne della Legge istitutiva del “Giorno del Ricordo”, si è di­chiarato assolutamente d'ac­cordo sulla seconda. «Io - ha detto - a chi di là parla italiano non faccio il processo su chi era ed ha fatto suo nonno; mi interessa che parli e si senta italiano» con ciò ravvisando l'opportunità di una effettiva ricucitura tra chi è andato e chi è rimasto. Ha, inoltre, indi­cato le associazioni degli esuli come possibile «piattaforma logistica» per un progetto volto alla riappropriazione storico-culturale di ciò che Istria, Fiume e Dalmazia sono state. «Un progetto - ha aggiunto - che og­gi può ancora apparire come un sogno, ma che merita di es­sere coltivato anche da svegli» dandosi - aggiungo io - da fare per renderlo realizzabile. Sono state parole, pronunciate da chi certo sprovveduto non è, in sintonia con quelle che da anni circolano nell'ambito della nostra Associazione e che costituiscono “il binario” su cui la stessa da tempo si muove, avendo viepiù la convinzione di aver intrapreso, pur tra mille incomprensioni ed intoppi, la giusta strada.

Degno di attenzione è altresì quanto affermato, con riferi­mento al passato ma che deve suonare anche come campa­nello d'allarme per il presente, dall'avvocato Augusto Sinagra, noto patrocinatore della causa indetta dall'esule Nidia Cernecca contro Oskar Piskulic, in merito al fatto che «i ne­mici degli esuli sono soprattutto all'interno dei confini della Patria». Che ce l'abbia ricordato, consapevoli come siamo di avere tra intellettuali, storici e politici una folta schiera di più o meno squallidi, perché preconcetti, nemici può apparire su­perfluo. Forte, però, è il dubbio che il suo volesse essere un richiamo a guardare criticamente anche all'interno del nostro stesso associazionismo. E', infatti, drammaticamente vero che anche in tale ambito si palesano con una certa frequenza dei “seminatori di zizzanie” che con il loro operato, talvolta non privo di ragioni ma quasi sempre ingiustificabile per il “modus operandi” allorché vi si coinvolgono fori mediatici esterni al nostro mondo, finiscono con l'indebolire il nostro già esangue corpo associativo, le nostre posizioni e, ancor più grave, con il dare spunto ai “nemici veri” per denigrarci e per opporsi a tutto quanto è nei diritti e nelle aspettative di noi esuli. Un “peccato” che poco si presta al perdono.

In definitiva, la conclusione che si può trarre da quanto po­tuto ascoltare e dai commenti che vi hanno fatto immediato seguito è che i pressanti problemi a cui si è fatto cenno siano da affrontare: senza posizione preconcette e concentrando gli sforzi su ciò che più si presta ad essere realizzato; evitan­do che da parte di qualcuno ci sia il tentativo di imporre con prassi scorrette quando non anche “carbonare”, come pur­troppo più di una volta occorso in passato, il proprio persona­le punto di vista e, soprattutto, proiettandosi nel futuro. Per­tanto, da parte di chi è o di chi sarà un domani ai vertici del nostro associazionismo - con un ruolo che in un contesto “federativo” non può che essere di coordinamento - rimane un'unica via da percorrere: placare gli animi, far sedere attor­no ad un tavolo le diverse anime della nostra galassia, ascol­tare tutte le voci e mediare sino al raggiungimento di posizio­ni unitarie condivise con convinzione da tutti. Solo a conclu­sione di questo che si preannuncia come un faticoso e lungo lavoro di preparazione sarà il caso di sedersi al Tavolo di co­ordinamento con il Governo, sempreché si giunga davvero alla sua riapertura. Tutti devono però essere consapevoli che senza un'unitarietà d'intenti, a prescindere dalla non sconta­ta serietà della convocazione, la cosa si tradurrà in un'enne­sima e per noi umiliante perdita di tempo. Se ciò dovesse ac­cadere - e con ogni probabilità lo sarebbe senza ulteriore possibilità d'appello - la colpa sarà stata principalmente no­stra.


Silvio Mazzaroli






03 - Messaggero Veneto 14/12/14 È morto Aldo Clemente, aiutò migliaia di istriani cacciati dalle loro terre

È morto Aldo Clemente, aiutò migliaia di istriani cacciati dalle loro terre

Addio al benefattore dei profughi

di MARIO BLASONI

Lutto nel mondo dei profughi giuliano dalmati: è morto a Roma, dove risiedeva sin dal primo dopoguerra, il cavaliere di Gran Croce Aldo Clemente, 94 anni, triestino, segretario generale dell'Opera per l'Assistenza ai profughi giuliani e dalmati). Sotto la sua guida, per quasi quarant'anni, dal 1947 al 1985, questo attivissimo ente statale ha operato a Roma e in tante altre città, da Trieste alla Sicilia, in vari settori dell'assistenza. Ha dato ai profughi (350 mila furono gli interessati all'esodo) case, scuole e lavoro. Clemente ha personalmente promosso e seguito il collocamento al lavoro di circa 60 mila esuli, il reimpianto di oltre 1.160 aziende e attività commerciali, la costruzione di più di 7.700 alloggi realizzando Villaggi e Quartieri per gli esuli (così a Udine nelle zone di via Cormor Basso, di via Fruch, del Villaggio del sole). Fondamentale il suo ruolo anche nella creazione di istituzioni per l'assistenza ai giovani e per gli anziani. Il mese scorso, pochi giorni prima di morire, Clemente ha diffuso una piccola pubblicazione-rendiconto dell'attività dell'Opera, una specie di "testamento spirituale" per i nobili propositi che l'hanno ispirata: rendere omaggio non già a se stesso, ma a tutti i suoi collaboratori, cioè «ai tanti italiani non profughi che, tuttavia, hanno compreso e aiutato generosamente gli esuli». A Udine, che ebbe in funzione un attrezzato campo profughi in via Pradamano (dove sono passati, prima di prendere un via definitiva, circa diecimila profughi), l'Opera di Roma si è prodigata con diversi interventi nella realizzazione di quartieri o villaggi: l'agglomerato più consistente (una quindicina di alloggi bifamiliari) è nella zona di via Cormor Basso, dietro la caserma dei carabinieri di viale Venezia ("Cè un'immagine della Madonnapeccato non ci sia una targa distintiva, una tabella", commenta il professor Elio Varutti, autore di una vasta ricerca sul campo profughi di via Pradamano). Al Villaggio del sole troviamo case sparse degli anni '50 e altri gruppetti di edifici in via Fruch, laterale di via Cividale, e via delle Fornaci. Altri alloggi per gli istriano-dalmati sono stati costruiti in provincia (è il caso di San Giorgio di Nogaro con una trentina di casette bifamiliari). Nel darne l'annuncio della scomparsa, un fedelissimo collaboratore, l'ex allievo del collegio Filzi di Gorizia, Furio Dorini, ha detto che «con Clemente se ne va il ricordo fondamentale della nostra storia di uomini, quella della preparazione alla vita, trascorsa in quegli istituti che ha contribuito a creare e a dirigere". La scomparsa di Aldo Clemente ha avuto un'eco anche a Udine, dove l'ingegner Silvio Cattalini regge da oltre trent'anni il Comitato provinciale dell' Anvgd. «Quando sono fuggito da Zara, appena diciottenne - dice Cattalini - in Italia ho potuto studiare, laurearmi in ingegneria e trovare un buon lavoro. Grazie all'Opera profughi. Clemente ci è sempre stato vicino. Qualche volta, d'estate, veniva alle nostre gite in Dalmazia».






04 - Messaggero Veneto 13/12/14 Spilimbergo: Cippo per i martiri delle foibe, il Comune concede lo spazio

il caso

Cippo per i martiri delle foibe
Il Comune concede lo spazio

SPILIMBERGO E’ destinata a rinfocolare discussioni, una delle ultime iniziative intraprese dell’amministrazione comunale di Spilimbergo. Nel corso dell’ultima giunta, l’esecutivo Francesconi ha infatti accordato all’associazione culturale Erasmo Da Rotterdam, su proposta del suo presidente Daniele Martina, la concessione di uno spazio nell’area verde di via Carnia, antistante la caserma che ospita la Compagnia dei carabinieri, dove collocare un cippo a ricordo dei martiri delle foibe. Troverà così concretezza l’iniziativa promossa già tre anni fa da due consiglieri comunali del Pdl, Bruno Cinque, già segretario del circolo di An, oggi passato nelle fila della Destra, e Benedetto Falcone, ex An, attuale coordinatore del Pdl e capogruppo di maggioranza. I due avevano a suo tempo inviato al sindaco la richiesta di indicare un’area di proprietà comunale per installarvi un cippo «in onore dei martiri dell’eccidio etnico operato dai partigiani di Tito – spiegavano in una nota i promotori –, uno dei più vergognosi eventi storici insabbiati per convenienze politiche e speculative. Ora la verità, seppur tardivamente, è arrivata». L’iniziativa si inserisce fra quelle previste in occasione del Giorno del ricordo, istituito per legge nel 2004 e celebrato il 10 febbraio, con cui si commemorano insieme le vittime delle foibe, l’esodo degli italiani da Istria e Dalmazia e le drammatiche vicende legate alla definizione del confine orientale. Nel caso degli infoibati, anche se non esistono dati certi, si ritiene che il numero delle vittime sia oltre 10 mila. Di qui, la richiesta al sindaco Francesconi «di installare un cippo dedicato ai martiri delle foibe, per poterli ricordare e onorare nel tempo». A suo tempo, la richiesta accese un dibattito a livello locale, con prese di posizione discordanti. Ora, l’ostacolo “politico” è stato aggirato, dando risposta, di fatto, alla richiesta della onlus. (g.z.)





05 – Corriere della Sera 24/12/14 Il Trenino di legno: Dall'Istria a Craxi il Novecento di Romano Dapas

«Il  trenino di legno» (Manni)

Dall`Istria a Craxi: il Novecento di Romano Dapas

di Paolo Valentino

C'è Adolf Hitler in maniche di camicia, che sul suo treno personale discetta di strategie e musica di Wagner con un amico di famiglia dell`autore. E c`è Enrico Berlinguer, che ringrazia quest`ultimo per avergli suggerito lo slogan di una campagna elettorale. C`è Bettino Craxi, che l`ha giurata al giornalista del «Messaggero» per un`intervista troppo impertinente, gliela fa anche pagare, ma involontariamente gli fa il favore della vita. E c`è Carlo De Benedetti, che approda a Bruxelles da grande condottiero, ma fallisce l`assalto alla Societé Genérale per un`ingenuità da principiante. Ma soprattutto ci sono la passione per la Storia, il gusto per il dettaglio della memoria, l`ansia di cercare nella biografia di famiglia le ragioni di scelte controverse  e non ultimo l`amore per il mestiere di giornalista, lavoro che Romano Dapas ha fatto per quasi mezzo secolo al quotidiano della capitale.
E un libro molto intimo e personale Il -frenino dì legno, pubblicato da Manni (pagine 184, €16), nel quale Dapas ripercorre il film della sua vita, dall`infanzia alla cassa integrazione, riuscendo però con eleganza e intelligenza a farne una microstoria d`Italia, dagli anni Quaranta al Dopoguerra della Prima Repubblica.
L`autore è uomo di confine, figlio di esuli dall`Istria, che nel vortice che porta all`annessione alla Jugoslavia, vivono le contraddizioni e le dolorose scelte di campo che spaccano il Paese, lacerando amicizie e famiglie. E forse è proprio l`aver vissuto in prima persona quelle che Paul Klee chiamava le harte Wendungen, le svolte brusche del secolo breve, che offre a Dapas non solo un tormento, ma anche il privilegio di un punto di vista originale.

L`ossessione di fondo, tanto più urticante per l`uomo di sinistra, simpatizzante del Pci che Dapas non ha mai nascosto di essere, è la  scelta del padre, Anco Marzio Dapas, ufficiale dell`esercito regio, comandante di uno squadrone del emonte Reale Cavalleria, che l`8 settembre 1943 sceglie di stare dalla parte di Salò. L`autore ricostruisce la decisione paterna senza indulgenze, ma anche senza pregiudizi ideologici o condanne sommarie.
Una delle pagine più belle del libro è l`appassionata discussione tra Anco Marzio e i due grandi amici della sua vita, Corrado Corradi e Roberto Risso, anche loro ufficiali di cavalleria. Il primo, inflessibile nel ripudiare il fascismo fin dall`entrata in guerra, sceglierà Badoglio, la Resistenza e i partigiani. Risso, intriso di cultura tedesca, fu lui a conversare a lungo con Hitler durante l`offensiva in Jugoslavia nel 1941, starà al fianco della Germania, in nome dell`onore, per evitare che l`Italia reciti ancora una volta, unica in Europa, il suo «tradizionale ruolo storico di voltagabbana». Con motivazioni meno nette e, come ammette il figlio, più pragmatiche, Anco Marzio lo imiterà.
Ma prima di lasciarsi, i «tre moschettieri» sottoscrivono l`impegno molto solenne, di aiutarsi reciprocamente se uno di loro si fosse trovato in difficoltà per motivi politici. Oltre la guerra civile, oltre l`odio ideologico, restava l`amicizia. Il patto funzionò e, come apprendiamo dal libro, forse salvò la vita all`autore e ai suoi familiari. La seconda parte de Il trenino di legno - il giocattolo d`infanzia che, come lo slittino Rosebud di Orson Welles in Citizen Kane, segna il ricordo del protagonista - è tutta dedicata alla vicenda professionale di Dapas al «Messaggero». Una folla di ritratti quasi impressionistici, da Moro a Berlinguer, che con bravura e forse con qualche comprensibile eccesso di nostalgia, ci fanno rivivere una stagione della politica decisiva per la Storia d`Italia




06 – La Voce del Popolo 27/12/14 Franca Damiani de Vergada : Sette figli e un sogno: «Ampliare la mia attività»

Sette figli e un sogno: «Ampliare la mia attività»
 
Scritto da Rosanna Turcinovich Giuricin

Ci sono storie che il pudore non vorrebbe raccontare se non fossero comunque una testimonianza che va a comporre il mosaico della nostra storia, quella delle genti dell’Adriatico Orientale. Nascere in Istria, Fiume o Dalmazia è stato un privilegio ed una tragedia allo stesso tempo per chi ha dovuto attraversare il Novecento. Quella di Franca Damiani de Vergada è una storia esemplare di una nobildonna, nata in una famiglia blasonata che in virtù del suo status, avrebbe sofferto moltissimo, per i soprusi, per le tragedie e per la vicenda di una bambina che continua a sembrare incredibile a chi la racconta e quasi a lei stessa.

La incontriamo nella citta di Vaughan, in quel Canada che l’ha accolta tanto tempo fa e che l’ha resa felice sposa di un politico in vista, Antonio Carella. Di origini italiane, pure lui, ma americano di terza generazione. Ci attende nel suo ufficio nel centro denominato Vita Nova, per il recupero dalle dipendenze. Gli ospiti sono soprattutto giovani.

Ma la sua storia parte da lontano. Da quella Dalmazia che porta nella bellezza del volto, nella statura oltre la media, nel portamento fiero e quasi regale delle donne di queste nostre terre. Ci racconta, con la voce rotta dalla commozione, due episodi di lei bambina, immersa nella stanza dalla grande scrivania piena di premi, riconoscimenti, nomi importanti che firmano il suo impegno e tante soddisfazioni ottenute con sacrificio ed abnegazione.

Nasce sull’isola di Vergada, nell’arcipelago di Zara e Zaravecchia, in quella castello che apparteneva alla sua famiglia da sempre. Ragazzina, viene portata con sua madre nelle segrete di una palazzo di Spalato con altra gente, accusati di essere, per la loro estrazione sociale, nemici del popolo. Ma lei si perde in quelle lunghe gallerie, un labirinto senza fine in fondo al quale trova una porta enorme ed inizia a battere e chiamare aiuto. Qualcuno la sente e quella diventerà la via di fuga per lei, la madre e gli altri malcapitati.

Ma le disavventure non finiscono qui. I partigiani cercano suo padre e lo zio, sua madre è decisa a tacere fino alle estreme conseguenze. Messe su una barca con altre persone, tra cui un pope serbo, vengono portate al largo e abbandonate al loro destino. Senza remi, senza una vela, senza né cibo né acqua, si ritrovano in mezzo al mare, in balìa delle onde. Durante il giorno, il caldo del sole cuoce le loro facce. Il pope bagna nel mare la lunga barba bianca e con quella protegge la testa della ragazzina. Quattro giorni di agonìa e poi l’avvistamento di una nave americana che li trarrà in salvo al largo della costa italiana, la corrente li aveva trascinati dall’altra parte dell’Adriatico. Degli uomini della famiglia non sapranno più nulla.

Sono traumi mai superati ai quali si aggiungono l’esperienza del campo profughi, in condizioni di indigenza, ma Franca è giovane e coraggiosa. Prima a Bari, poi le trasferiscono a Napoli.
“Lì ho conosciuto il fiumano Gianni Grohovaz, poeta e scrittore, poi giornalista. Mi diceva che da grande avrebbe voluto essere una quercia ed io rispondevo che sarei stata un cespuglio”. Nasce così una delle tante belle amicizie che Franca ha costruito lungo il suo cammino
“Lo ritrovai tanti anni dopo a Villa Colombo, struttura per anziani di cui ero direttrice, era in cerca di lavoro. Ridiventammo amici. Ancora oggi preparo polenta e spezzatino secondo la sua ricetta. Nei momenti di riflessione sulla nostra vita mi chiedeva di vegliare su suo figlio, se gli fosse successo qualcosa. Così, dopo che ebbe l’infarto, andai ad incontrarlo e gli promisi che sarei stata a fianco di quell’adorato figlio e m’impegnai perché frequentasse l’università di York”.

La chiamò una sera per invitarla a cena dopo averla avuta ospite alla radio di cui si occupava da tempo.

“Solo io e te ad aspettare che muoia Tito”. Era il 1980 e si attendeva la fine dello statista.
“No, non voglio sentire”, risposi.

“Dopo quello che ti hanno fatto”.
“Non mi interessa. C’era la guerra, tante cose sono successe, risponderà a qualcuno più grande di noi…” Non insistette, l’amicizia era profonda, non serviva discutere.
“Quando eravamo al campo profughi ero stata molto male – racconta -, mi era stata diagnosticata la malaria e invece era tubercolosi. Deliravo, credevo di volare e Gianni mi diceva: aggrappati all’albero, tienti stretta, mi riconduceva alla realtà. Ne ho passate tante, polmonite, pleurite, scabbia, pidocchi, tutto. Avevo solo quindici anni quando il senatore Monaldi, mi portò via dal campo per farmi studiare in un collegio, così divenni infermiera mentendo sulla mia età, avevo quindici anni dissi di averne diciotto: è stata la mia fortuna”.

Nel novembre del 1952 raggiunse la famiglia in un campo della Germania. Sua madre s’era risposata. Ora c’erano anche Livio Visano e sua sorella gemella Fulvia, poi ancora un fratello, Gianni. Una consolazione, allora ed ora. Livio è un professore universitario, Gianni è preside di una scuola, Fulvia lavora in una banca commerciale.

“In Germania un giornalista venne a intervistarmi, scrisse l’articolo che arrivò in Canada fino alla società cattolica. Seppero che avevo cercato di fuggire dal campo, ho ancora la cicatrice. Così mandarono una commissione per controllare il nostro stato di salute. Ci visitarono con un protocollo riservato ai cavalli, avevo tutti i denti sani così mi dissero che era mia la responsabilità della famiglia che altrimenti non sarebbe potuta partire. Ho sempre avuto molta fede. Ho sempre creduto che in qualche parte del mondo ci fossero dei prati verdi. Giunta a Toronto entrai subito in un ospedale, mi presero in prova e dopo tre mesi fui assunta. Conobbi così il dottor Carbone, italiano come me, calabrese, orfano, laureato in Italia, per me come un fratello. Nel 1976 divenni direttrice di Villa Colombo, il centro italiano per anziani, dove siamo riusciti a realizzare qualcosa di meraviglioso, un esperimento unico. Non è solo un ricovero ma un luogo dove far incontrare le famiglie. Spesso incoraggiamo i matrimoni tra anziani soli, perché è giusto vivere con dignità e pienezza finché non veniamo consegnati alla morte”.


E poi è nata Vita Nova, una sfida, un bisogno, una necessita?

“Tutte e tre le cose, tutta la sofferenza nella quale sono cresciuta doveva avere una risposta. È questa: cento ragazzi in riabilitazione dalla droga, trenta stanziali, gli altri usano il centro durante il giorno per il programma di disintossicazione ma anche per ritornare alla vita attraverso un’altra occasione. La domanda che rivolgo a questi giovani è: hai un sogno? Abbiamo fatto studiare alcuni di loro, oggi insegnano nelle scuole. Vita Nova nasce nel 1977, dopo una ricerca in vari Paesi per mettere a confronto l’esistente ma poi abbiamo deciso di seguire una strada tutta nostra. Noi siamo per questi ragazzi una coperta che li avvolge e li riscalda per aiutarli a ritornare alla normalità. Curiamo ciò che li ha portati alla droga, perché possano vivere con sani principi e fare onore a sé stessi. Collaboro con altri centri, anche in Italia. È così che ho stretto amicizia con Gianni Cordova del centro di Pescara, un grande uomo che ha accolto alcuni nostri ragazzi”.

Come inizia la guarigione, il reinserimento?

“Quando lavarsi i denti diventa un’abitudine, quando cominciano a tenersi puliti liberando la mente da tanti fardelli”.

Quanti riescono ad uscirne?

“Tanti, l’80 per cento, poi ci sono i sociopatici per i quali delinquere è un modus vivendi. Vengono individuati immediatamente e seguiti ma il recupero è molto difficile, a volte impossibile. Dopo la cura, i giovani continuano a frequentare il nostro centro il sabato mattina e il martedì sera per 18 mesi”.

I finanziamenti sono pubblici?

“Solo una minima parte ma il grosso lo facciamo noi, i privati”.


Come?

“Riunisco tutti i nostri benefattori una volta l’anno al centro per una grande festa, presentiamo loro i risultati del nostro lavoro. Visitano il centro che è accogliente, bello. I ragazzi si esibiscono con il coro e le altre attività sviluppate durante il soggiorno. La raccolta fondi è sempre stata un successo anche perché facciamo prevenzione lavorando con i bambini, i figli dei drogati, è una ruota senza fine”.

È tornata sull’isola di Vergada, nel suo castello?

“L’isola è bellissima, il castello è solo un rudere. Ho cercato di riaverlo dal governo croato per farne qualcosa per la comunità ma non è stato ancora possibile trovare un linguaggio comune. Sono tornata quasi in incognito ma un’anziana del posto mi ha riconosciuta e ci ha aperto le porte di casa mettendoci a disposizione ciò che aveva. Così da Zara le abbiamo portato elettrodomestici, coperte, ciò che serve per rendere più confortevole una casa. E’ stato bello ma anche doloroso. Ci ha consegnato una lettera indirizzata dal Re d’Italia alla mia famiglia, con le condoglianze per la morte di mio padre del quale custodiva anche una foto. Continuava a chiamarmi contessa Franca, per me era così strano e lontano”.

Che cosa voleva farne del castello?

“Un parco degli sport del mare per dare lavoro alla gente del posto ma ci vuole l’appoggio e la
collaborazione del Governo croato…chissà un giorno”.

Franca ma lei non ha avuto figli?
“Per tutto questo mio amore per il prossimo?”

Ride divertita… “Ne ho ben cinque miei e due adottati, una bellissima famiglia”.
Usciamo nei corridoi del centro, i ragazzi le vanno incontro e la abbracciano. Li chiama per nome, conosce le loro storie. Questa è Franca, donna dalmata con un sogno. “Vorrei ampliare il centro, costruire una foresteria, una serra e delle strutture d’appoggio. Intanto ho fatto realizzare un plastico, il resto verrà”.

Rosanna Turcinovich Giuricin






07 - La Stampa  20/12/14  Valentina e Toto e la sfida per la ricchezza di Venezia
Valentina, Toto e la sfida per la ricchezza di Venezia

di Chiara Beria di Argentine

All`ingresso del museo al posto delle vecchie cuffiette ogni visitatore riceverà un tablet. Potrà così, scaricando un`applicaziòne gratuita, costruirsi - a seconda dell`età, della preparazione e degli interessi - un percorso di visita personalizzato per conoscere al meglio la storia degli artisti, dei dipinti e i legami delle opere con il territorio. E ancora. Nelle sale ci saranno totem interattivi e un sistema d`emettitori bluetooh 4.0 che, localizzando i visitatori all`interno del museo, proporranno approfondimenti per ogni opera; grazie a un braccialetto digitale chi, per esempio, sarà interessato alla vita di un pittore digitando un codice potrà durante la visita ordinare libri e cataloghi ché troverà belli impacchettati al bookshop e potrà poi salvare su un`area cloud emozioni ed esperienze vissute al museo trasformato così da luogo finito a luogo infinito.
Quanto alla didattica ci sarà una «smart classroom» con lavagne digitali e dispositivi mobili per
le attività indirizzate agli studenti. Il megaprogetto dell`allestimento delle prime 5 sale delle Nuove Gallerie dell`Accademia a Venezia si presenta come una rivoluzione digitale al servizio del nostro immenso ma non sempre valorizzato patrimonio artistico e culturale.

Roma, 11 dicembre. «Sarà il museo d`arte antica più proiettato nel futuro d`Italia», copyright del
ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini, che ha presentato il progetto con tra gli altri Giovanna Damiani, soprintendente del polo museale di Venezia. Oltre ad ampliare la superficie espositiva da 5 a 10 mila mq facendo così uscire dai depositi tanti capolavori - dalle pale d`altare di Luca Giordano e Pietro da Cortona a opere di Tiepolo, Hayez, Pietro Longhi - e aumentare i visitatori da 300 mila a 900 mila l`anno, le Nuove Gallerie si apriranno grazie agli strumenti multimediali ai disabili - ciechi o non udenti - che sono troppo spesso impossibilitati a visitare una collezione museale.
Venezia, Italia. Interessante operazione e assai interessanti i protagonisti di questa bella notizia
che arriva dopo un anno tormentato da scandali e arresti in laguna. Tutto nasce infatti dall`accordo
tra il colosso sudeoreano Samsung che porterà a Venezia una tecnologia già sperimentata
al British Museum (si parla di 600 mila euro d`investimento) e alla Fondazione Venetian Heritage,
un`organizzazione americana non profit che fa parte del programma Unesco-Comitati Privati per la
Salvaguardia di Venezia. Fondata dal mecenate Lawrence D. Lovett, in 15 anni la onlus, che ha sedi a New York e Venezia, ha finanziato moltissimi restauri nei territori che furono della Serenissima.
Un solo esempio: in Croazia, a Curzola, cittadina per 7 secoli veneziana, il restauro della magnifica
Cattedrale di San Marco (400 mila euro, tra gli sponsor JTI, multinazionale giapponese, ma
anche una signora americana d`origine croata). Proprio a Curzola, un anno fa, per festeggiare la
riuscita del progetto c`è stata la prima uscita ufficiale della nuova presidente di Venetian Heritage,
Valentina Nasi Marini Clarelli, una bionda lady piemontese. «Tutto è nato per caso. Lovett mi
chiese di entrare nel consiglio e, dopo poco tempo, di sostituirlo. A 87 anni preferiva fare il presidente onorario. I miei figli gemelli ormai sono all`estero, all`università. Mi è sembrato giusto mettermi a disposizione di una città amata da tutto il mondo. Per Venezia nessuno si tira indietro», dice la neopresidente.
Ma gli scandali non fanno fuggire i capitali stranieri? «Per fortuna si fidano di noi. Sono stati
quelli di Samsung a contattarci», racconta Toto Bergamo Rossi, direttore-anima della onlus. «"Con
Venetian Heritage, mi hanno detto, sappiamo che non avremo brutte sorprese"».
Prossima sfida di Valentina e Toto? Per il 500° anniversario del ghetto di Venezia (1516) restaurare
ben 3 sinagoghe e il museo. Annunciata a New York a novembre, l`operazione è da 12 milioni di dollari.
Sorride la serenissima Valentina: «Abbiamo già il sostegno di mecenati come Diane v von
Ftirstenberg e Joseph Stili, E` davvero una fantastica occasione per salvare dal degrado il più antico
ghetto del mondo».

Si ringraziano per la collaborazione della Rassegna Stampa: L’Università Popolare di Trieste e l’Assoc. Nazion.Venezia Giulia e Dalmazia - ANVGD di Gorizia



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